ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 2
La recidiva - Radici, evoluzione storica, teorie

Guido Tozzi Pevere, 2007

2.1 La recidiva, una nota introduttiva

Quanto appena visto ci porta, naturaliter, a parlare dei 'precedenti penali e giudiziari' e, di conseguenza, di recidiva; l'etimo del quale termine deve essere individuato nel latino recidere, cioè 'ricadere'. Così, molto sinteticamente, è oggi recidivo chi, dopo essere stato condannato per un delitto non colposo ne commette un altro. L'istituto, già definito alla fine del 1800 come "la croce dei criminalisti" (1) è, da sempre, stato oggetto di accese dispute dottrinali, come ricorda il sommo Carrara che chiude la questione riconoscendo "che su tal punto la scienza non abbia ancor detto la sua ultima sillaba". (2)

La recidiva iniziò ad interessare, sistematicamente, giuristi e magistrati verso la fine del 1800, quando il numero dei delinquenti recidivi aumentò decisamente. Questo fenomeno ebbe, a parere di chi scrive, una duplice causa: l'aumento oggettivo della delinquenza (dovuta al consolidarsi delle città industriali ed alle migrazioni dalle campagne) accanto, però, alla circostanza che iniziò ad essere possibile tracciarne una 'mappa', grazie all'evoluzione dei primi Casellari giudiziali.

2.2 'Preistoria' e storia della recidiva

La recidiva, in ogni caso, fu fenomeno conosciuto sin dall'antichità, quale risposta ad istanze, giusnaturalistiche ed immanenti al concetto di etica ancor prima che a quello di giustizia, di graduazione della pena, di difesa sociale, di retribuzione penale.

Il diritto mosaico, delle Tavole della legge di cristiana memoria, vedeva la massima colpa in chi provocava l'ira divina contravvenendo ripetutamente ai precetti di Dio. L'indiano codice di Manou, il Manara Darma Sastra, prevedeva sanzioni giuridiche vere e proprie, oltre che precetti morali, a carico di chi violava ripetutamente le norme. La recidiva era considerata una vera e propria aggravante della pena, la quale doveva essere applicata in una sorta di 'crescendo', a mano a mano che il soggetto continuava ad infrangere le regole: così si ricorreva prima alla prigione, poi ai metodi di costrizione fisica, quindi alle pene corporali, non ultima delle quali la pena di morte. Se poco sappiamo dell'istituto presso gli antichi egizi (Diodoro Siculo, nelle Historiae, parla di una sorta di dichiarazione di abitualità), di sicuro i greci tenevano in grande considerazione il fenomeno: considerando, con un approccio più filosofico che giuridico, la colpa una malattia, il recidivo era considerato inguaribile, quindi meritevole di essere ucciso per non 'contagiare' gli altri consociati.

Per quanto riguarda il diritto romano, la dottrina non è concorde sulla valenza che questo avrebbe riconosciuto all'istituto. Il Carmignani (3) sostenne che la recidiva non era riconosciuta come regola generale, ma solo come pratica costante; mentre in senso esattamente opposto si espresse il Carelli, per il quale sarebbe stato previsto un caso di recidiva generica nel "negare ai recidivi l'indulto solito a concedersi" (4) in occasione di determinate solennità. Sarebbe, invece, generalmente accettata la previsione, nell'antenato per eccellenza del nostro diritto, della recidiva specifica in certuni casi, in cui era la ripetizione di atti ad elevarli a fattispecie delittuosa: ad esempio il disturbo della quiete pubblica.

Il diritto romano, che già abbiamo visto avere tenuto in considerazione le informazioni sulla condotta dei suoi cives, aveva altresì escogitato un mezzo, invero poco ortodosso se valutato con il metro dei giorni nostri, di 'individuazione' dei recidivi: il marchio. Questo veniva dapprima applicato sulla fronte del recidivo, poi, con l'avvento del Cristianesimo, su altre parti del corpo; il marchio era segno infamante e permetteva la subitanea individuazione per tali dei recidivi, al fine di applicare pene più severe. Si potrebbe definire, in senso volutamente provocatorio, come la prima forma di Casellario giudiziale, successivamente ripresa da altre legislazioni anche relativamente recenti (leggi francesi dei primi del 1800).

Il diritto longobardo, inizialmente, non sembrò conoscere affatto l'istituto della recidiva che, con le influenze del Corpus juris, venne ad affermarsi successivamente con la previsione di pene più severe per chi, ladro, avesse successivamente compiuto nuovi furti. Ciò accadde quando si iniziò a considerare l'infrazione "non più come violazione di un interesse privato ma d'un interesse pubblico" (5), motivo per cui non sarebbe più stato sufficiente reintegrare il danneggiato (non rilevando quante violazioni fossero state commesse ma l'ammontare del danno), ma sarebbe stato indispensabile aumentare la pena, quale sanzione ulteriore per chi dimostrava di disprezzare stato e civitas.

Il diritto franco, con i Capitolari di Carlo Magno, cercò di togliere valenza al sistema delle composizioni fra privati dei reati, per rimarcare, come già visto, l'essenza del delitto come offesa a Dio ed alla pace pubblica; conseguentemente previde (col Capitolare n. 779, successivo alla vittoria sui longobardi di Desiderio) pene particolarmente cruente per chi sottraeva beni altrui che, se recidivo, subiva l'amputazione del naso e poi la morte. (6) Giova sottolineare - in un mondo in cui la vita non valeva quanto i beni ed in cui, di conseguenza, erano spesso i reati contro il patrimonio ad assurgere a particolare disvalore - come tale supplizio avesse due diversi scopi: uno di natura retributiva e special-preventiva (minacciando una pena dolorosa e invalidante), l'altro di 'avvertimento' per la società che avrebbe saputo, vedendo la mutilazione, di dover stare in guardia da chi l'aveva subita. Quale terribile marchio di stigmatizzazione ante litteram, già preceduto e successivamente ripreso, con la marchiatura della fronte, anche in altre epoche.

Anche il diritto canonico puniva con maggior severità chi ricadeva nel delictum (ponendoci su un piano diverso dalla confessione, avente ad oggetto il peccatum): soprattutto gli uomini di Chiesa che, dopo un primo richiamo, avessero perseverato in comportamenti vietati di carattere 'morale', ma ciononostante non fece assurgere a sistema la recidiva.

Mentre i giureconsulti si occuparono di recidiva, definendola 'iteratio delinquendi' o 'perseverantia' e coniando il principio per cui "consuetudo delinquendi est circumstantia aggravandi delictum et delinquitur acrius puniendi" (7), in epoca medioevale, gli statuti previdero frequentemente le pene da applicarsi a chi ricadeva nel reato, soprattutto ladri e bestemmiatori; essendo il diritto di questa epoca un mix di elementi del diritto germanico, romanico, canonico temperato dall'ampia potestà regolamentare delle alte cariche municipali. Per fare qualche esempio: a Pavia chi aveva rubato per tre volte era impiccato; ad Ancona "nudi per civitatem fustigabantur" (8); mentre a Padova vigeva una regola generale, in base alla quale la pena veniva raddoppiata in caso di reiterazione del reato (in senso atecnico); così come accadeva a Firenze per chi avesse compiuto "lesioni a mano armata". La Venezia dei Dogi brillò, in questo, per l'efferatezza delle pene dato che:

Il ladro recidivo [uomo] perdeva un occhio (avulsio oculorum), o un occhio e una mano, o con ambidue gli occhi anche le mani a seconda del valore degli oggetti rubati, e finalmente era impiccato se avesse commesso altro furto dopo essere stato reso cieco e monco; la donna, il naso, il naso ed un labbro, e le due orecchie, e poi anche la lingua ed inoltre veniva frustata e bollata (9).

Ipotesi, quella dell'ennesimo furto commesso da chi fosse stato privato di mani e occhi, invero poco probabile sul piano meramente pratico, posta accanto alla 'bollatura', prevista quale marchio di infamia solo per la donna; probabilmente per la sua, presunta, maggiore sensibilità al periculum di essere sottoposta al 'pubblico ludibrio'.

Sempre a tale proposito, interessante citare lo statuto di Piombino del 19 Maggio 1706 che prevedeva, per il ladro al secondo furto, gli si apponesse "in faccia un sigillo di ferro caldo, perché da tutti fosse conosciuto". Idem per il bestemmiatore recidivo che, ai sensi di un decreto del 1559 dei duchi di Mantova e Monferrato, veniva prima legato davanti alla porta della chiesa con un morso di ferro in bocca, poi messo alla berlina, infine recluso in "galera ad arbitrio".

E' stato, poi, con il 1800 e le sue 'grandi codificazioni' che la recidiva, così come il parallelo istituto del Casellario giudiziale, ha iniziato ad avere una organica rilevanza nel panorama giuridico degli stati europei. Dal Codice spagnolo a quello belga, passando per il germanico, l'austriaco fino all'ungherese, la recidiva trovò piena cittadinanza quale strumento facoltativo (ad esempio: Belgio, Cantone di Zurigo) o obbligatorio (ad esempio: Spagna e Germania), qualificata come 'circostanza aggravante la pena'. Degna di menzione, per la sua chiarezza, la definizione data dal Codice penale zurighese dell'8 Gennaio 1871:

E' recidivo chiunque dopo essere stato condannato irrevocabilmente per un reato ne commette un altro della stessa specie. La recidiva non produce aumento se dal giorno in cui si è compiuta la espiazione dell'ultima pena sono trascorsi dieci anni [...]. Il giudice per tale circostanza ha facoltà di aumentare la pena di una metà oltre il massimo legale, ovvero di applicare un genere più grave di pena. Questa deve essere poi aumentata in ragione delle brevità dell'intervallo decorso fra l'ultima punizione e la esecuzione del nuovo reato.

Per l'attenzione che viene rivolta al delinquente recidivo, deve essere richiamato anche il Codice penale belga del 15 Ottobre 1867 che normò il fenomeno come presunzione di maggior colpa, senza però rendere obbligatorio l'aumento di pena. Una legge, poi, del 27 Novembre 1891 istituì gli "stabilimenti di correzione" e le "case rifugio" dove ricoverare i vagabondi ed i mendicanti recidivi. La particolarità di tali istituzioni deve essere ravvisata nella previsione del lavoro obbligatorio, il ricavato del quale era - tuttavia - impiegato per i ricoverati stessi, al fine di agevolarli in un prossimo re-inserimento sociale.

2.3 L'evoluzione francese

Come già accaduto per il Casellario, oggetto primario della nostra ricostruzione, di particolare rilievo appare essere stata l'evoluzione normativa francese, che risulta opportuno approfondire.

Già un'ordinanza di Filippo VI di Valois, del 12 Marzo 1329, stabiliva una escalation di pene corporali, cruente, per chi avesse continuato a bestemmiare nonostante le precedenti condanne. Successivamente, un'ordinanza di Luigi XI del 14 Marzo 1478 comminò la pena di morte per quei "dissoluti e vagabondi" (esempio sincretico di giudizio morale e giuridico!) che, già allontanati dalla città, vi avessero fatto ritorno. Francesco II, il 23 Luglio 1559, stabilì doversi uccidere per strangolamento il recidivo per porto di armi vietate e - particolare che potrebbe oggi far sorridere - previde la stessa pena per quei Giudici che non avessero applicato tale sanzione. Le norme si succedettero su questo tenore, con particolare riferimento alla récidive per furto, fino alla previsione generale del Codice penale del 25 Settembre 1791, dell'Assemblea costituente, di deportazione di chi "punito per crimine, fosse stato dichiarato convinto di nuovo attentato" (10). Tale sanzione della deportazione a vita fu sostituita, con legge del 12 Maggio 1806, con la marchiatura della fronte di tutti i recidivi, al fine di poterli individuare. Tale uso, feroce, dello stigma è, quindi, ciclicamente apparso nelle storia della recidiva a confermare, assieme alla deportazione, le istanze di tutela della collettività da chi si fosse dimostrato insensibile al sistema della pena. In Francia tale meccanismo rimase in vigore fino alla promulgazione del Codice penale del 12 Febbraio1810.

Questo previde la recidiva da crimine a crimine, da crimine a delitto, da delitto a delitto e da contravvenzione a contravvenzione; con la conseguente previsione di una serie di sanzioni che dovevano essere applicate gradualmente, a seconda di quale fosse stata la pena precedente. Così, a mero titolo di esempio, chi fosse già stato condannato al 'bando' e avesse commesso un nuovo reato per il quale fosse prevista la stessa pena, sarebbe stato incarcerato; chi, condannato ai lavori forzati a vita, avesse commesso un crimine passibile di analoga sanzione, sarebbe stato condannato a morte. Il codice penale fu successivamente modificato ad opera, soprattutto, della legge 27 Maggio 1885 e 14 Agosto dello stesso anno, che si pongono su filoni teorici e di intenti diametralmente opposti

La prima norma previde (tornando, mutatis mutandis, alla 'deportazione' precedente) che venissero 'relegati' nei territori delle colonie e dei possedimenti francesi "i recidivi che nell'intervallo di dieci anni, detratto il tempo della espiazione delle pene", avessero subito determinati tipi di condanne. Fra queste "due condanne [...] per i reati di [...] vagabondaggio e mendicità" e con la precisazione che, per tutte, sarebbero state calcolate anche le condanne per le quali fosse intervenuta grazia, riduzione o commutazione di pena. Interessante notare, nel periodo di uno dei 'grandi internamenti', come fosse considerato reato, degno di essere assoggettato alle regole restrittive della recidiva, sia il vagabondaggio che l'accattonaggio. 'Crimini' capaci di arrecare pregiudizio per la morale, l'immagine e la tranquillità delle operose città d'oltralpe; motivo per cui i loro autori, recidivi, dovevano essere allontanati, a vita, da quelle comunità che avrebbero potuto oltraggiare. La definitività di una simile scelta fu, poi, mitigata da una successiva riforma del 7 Luglio 1908, relatore Réville, che previde per gli stessi soggetti, dopo tre condanne, l'assegnazione ad una colonia di lavoro da due a cinque anni.

La legge 14 Agosto 1885, anticipando un nuovo intervento normativo del 1891, si interessò, invece, di come prevenire il fenomeno della recidiva, istituendo la liberazione condizionale ed il "patronato per liberati dal carcere", al fine di favorire la riabilitazione dei condannati. Si concesse la liberazione condizionale ai condannati recidivi: solo dopo che avessero scontato almeno sei mesi di carcere, se la pena era inferiore ai nove mesi, e comunque dopo scontati i due terzi della pena negli altri casi. Anche il patronato, seppure affidato ad istituzioni private, si pose su una nuova lunghezza d'onda, assieme alla riabilitazione: considerare il problema non più e soltanto nell'ottica di difesa della comunità da chi delinque, ma anche in quella dei condannati visti - come mai prima accaduto - come redimibili e degni di aiuto nella delicata fase post liberationem. Ciò risulta specchio dell'intento - finalmente - di cercare di evitare che chi usciva dal sistema reclusivo ricadesse nel reato, costituendo (sembra) un primo riconoscimento del nesso esistente fra il fenomeno della recidiva e quelle che ne possono essere le cause, prima fra le quali lo stigma che la stessa dichiarazione di recidiva (o una precedente condanna) comporta.

2.4 La recidiva prima dell'unità d'Italia

Antecedentemente all'unità d'Italia, il Codice penale del regno delle due sicilie, del 26 Marzo 1819, prevedeva la recidiva: fra misfatti e misfatti, fra delitti e delitti e fra contravvenzioni e contravvenzioni. Stabiliva, all'art. 78, che fosse considerato recidivo chiunque avesse commesso un nuovo reato, dopo essere stato precedentemente condannato per un altro. Erano, come abbiamo già avuto occasione di vedere altrove, comminati successivi aggravamenti di pena fino all'ergastolo o alla pena di morte. Era, altresì, previsto che neanche la grazia del principe potesse incidere sullo status di condannato, al fine del futuro riconoscimento della recidiva.

Previsioni sostanzialmente analoghe erano state normate dal Codice di Parma del 5 Novembre 1820, mentre le leggi del regno di Sardegna del 16 Gennaio 1827 trattavano della recidiva solo per l'usura ed i 'giuochi proibiti'; per i ladri si poteva aumentare la pena, solo che ci fosse stata reiterazione del reato, indipendentemente da una condanna. Il successivo Codice penale sardo del 1839, invece, previde in via generale la recidiva, ricalcando l'art 78 del Codice del regno delle due sicilie. Lo stesso si può dire, con le dovute differenze, per il Codice toscano del 20 Giugno 1853 a confermare - in estrema sintesi - come gli ordinamenti antecedenti il 1861 avessero previsto, tutti in modo pressoché analogo, il fenomeno della recidiva.

2.5.1 Verso una sola recidiva in un Codice penale unitario

All'alba dell'unità d'Italia furono molto forti le istanze di armonizzazione delle varie legislazioni penali in un unico Codice, valevole per l'intero territorio nazionale. I progetti furono invero svariati, fra i quali prevalse quello Zanardelli, destinato ad essere accolto negli articoli 80-84 c.p. Il progetto di tale giurista prevedeva solo la recidiva specifica: sulla base della considerazione che è il compiere nuovamente reati della stessa specie di quelli già commessi a mostrare il carattere del reo e a renderlo meritevole di un inasprimento della pena; al contrario di quanto accade per la recidiva generica, laddove è possibile che un individuo commetta, durante un determinato periodo di tempo, reati di tipo diverso senza per questo essere più turpe e degno di maggiore riprovazione sociale.

Le Commissioni di Camera e Senato apportarono alcuni correttivi al progetto, primo e più importante fra i quali quello di accogliere, nel futuro Codice penale, non solo la recidiva specifica ma anche quella generica; sulla base del rilievo che entrambe le fattispecie mostrerebbero un certo dispregio verso l'autorità della legge. Così si venne a delineare un sistema misto, basato su una recidiva specifica (reato della stessa indole del precedente) da intendersi quale aggravamento della generica. Le Commissioni, invece, accettarono le proposte Zanardelli sia in tema di mera condanna che di decorso del tempo. Cioè a dire: si fondò il requisito della recidiva non già sulla effettiva esecuzione della pena ('recidiva vera'), ma sulla semplice irrevocabilità della condanna precedente ('recidiva finta'). Sotto il secondo profilo, si circoscrisse ad un dato periodo di tempo l'efficacia della precedente condanna per aversi, col compimento di un nuovo reato, il fenomeno della recidiva. Il decorso del tempo fu stabilito in dieci anni per le pene restrittive della libertà personale, non inferiori ai cinque anni, e in cinque anni per le altre pene. Per quanto riguardava il quantum dell'aumento di pena, Zanardelli (in sostanza) aveva proposto la metà, se il reato era punito con la reclusione, ed un terzo negli altri casi. Il testo licenziato dalle Commissioni, invece, con il bene placet successivo dello stesso ministro proponente, venne modificato come segue: per la recidiva generica, con il divieto per il Giudice di scendere al minimo della pena prevista per il nuovo reato; per la recidiva specifica, con la possibilità sia di aumentare l'intensità che la durata della nuova pena prevista.

A commento di questa scelta, è possibile dare una rapida scorsa agli altri progetti presentati per vedere come la maggioranza di essi avesse sostenuto la stessa posizione di Zanardelli, in ordine alla recidiva speciale. Così, per tutti, è possibile citare la relazione Mancini del 1876:

Nel recidivo non è la pena che per sé medesima si riveli insufficiente: ma è la rinnovata azione delittuosa che manifesta in lui malvagia e perniciosa persistenza nello sfregio della legge. Or non si può disconoscere, che questo carattere di maggior gravità indubbiamente si presenta nel fatto di coloro che, ricadendo nel malefizio, dimostrano essere governati sempre dalla medesima rea passione, cui prima obbedirono: ed in ciò ancora consiste per la società il cresciuto pericolo, che vuolsi, col minacciato aumento di repressione, combattere. Quindi la recidiva, che davvero merita tal nome, quella per cui solo si giustifica in tutti i casi l'esasperazione della pena, è la recidiva specifica (11).

Mancini, tuttavia, lasciava uno spiraglio aperto anche per la recidiva generica: ritenendo che comunque - nel giudizio - dovessero rilevare tutte le aggravanti, nonché "la precedente vita del colpevole, immorale e diffamata" e, quindi, anche le precedenti condanne, fuori dalle ipotesi di recidiva specifica (reati della stessa specie). Ecco, quindi, che non riteneva tale altra condanna sufficiente a fare applicare un aumento di pena ma, pur tuttavia, suggeriva al Giudice di tenerne conto "nell'usare della latitudine del grado che gli è conceduta". Altri precedenti progetti (come De Falco del 1873 e Vigliani del 1874) avevano, invece, già sostenuto l'opportunità di normare sia la recidiva specifica che generale.

2.5.2 Il Codice penale Zanardelli

Grazie alla ricostruzione storico-eziologica che abbiamo fatto, possiamo affermare che i principi che sottostanno alla struttura della recidiva, per come prevista dal Codice penale Zanardelli, furono:

  • il suo inquadramento teorico (seppur non generalmente accettato) come circostanza aggravante;
  • la non necessarietà dell'avere scontato una condanna precedente, ma la sufficienza di una condanna irrevocabile ('recidiva finta');
  • la previsione delle due forme di recidiva, sia generica che specifica;
  • l'applicazione della recidiva entro un determinato arco temporale;
  • l'obbligatorietà della misura.

Art. 80. Colui che, dopo una sentenza di condanna e non oltre i dieci anni dal giorno in cui la pena fu scontata o la condanna estinta, se la pena era superiore ai cinque anni di durata, o non oltre i cinque anni negli altri casi, commette un altro reato non può essere punito col minimo della pena incorsa pel nuovo reato.

Se il nuovo reato sia della stessa indole di quello per il quale è stata pronunziata la precedente condanna, il colpevole soggiace ad un aggravamento della pena incorsa secondo le norme seguenti

  1. se la pena incorsa per il nuovo reato sia la reclusione, la durata ordinaria della segregazione cellulare continua è aumentata di un sesto della pena stabilita per il reato commesso [...];
  2. se la pena incorsa per il nuovo reato sia diversa dalla reclusione, essa è aumentata da un sesto ad un terzo.

In nessun caso l'aumento stabilito nelle disposizioni precedenti può applicarsi in misura superiore alla più grave delle pene anteriormente inflitte [...].

L'art. 81 prevedeva il caso di recidive successive: solo di tipo specifico; esclusivamente per condanne, sia precedenti che per il nuovo reato, a pena limitativa della libertà personale; entro i soliti termini temporali previsti per la prima recidiva. L'aumento della condanna era previsto nella metà della pena, se questa era inferiore ai trenta mesi, e in un terzo negli altri casi. La stessa norma prevedeva, infine, la cosiddetta 'recidiva specifica reiterata' per chi fosse già stato condannato per due volte.

Degno di attenzione anche l'art. 83 c.p. che elencava i tipi di condanne delle quali non si doveva tener conto ai fini della dichiarazione di recidiva:

  • per contravvenzioni rispetto a quelle per delitti e viceversa;
  • per delitti che oggi definiremmo, brevemente, colposi;
  • per reati esclusivamente militari:
  • pronunziate da Tribunali stranieri.

Infine, data la sua importanza in un ottica di 'recupero' del condannato, è opportuno precisare che l'intervenuta riabilitazione non toglieva efficacia alle condanne precedenti, in caso di nuovo reato, al fine dell'applicazione della recidiva.

2.5.3 A commento della recidiva del 1889

Da una scorsa ai lavori parlamentari si può notare come emerse un acceso dibattito fra chi (come il Nocito) optava per il requisito dell'avere già scontato una condanna, e chi invece sosteneva bastevole la previa irrogazione della stessa, con sentenza irrevocabile (anche se, nel testo definitivo, si dette per scontato tale aggettivo), indipendentemente dalla sua esecuzione. In ciò il legislatore mostrò di porre, quale presupposto logico-giuridico della recidiva, non tanto la non sufficienza della pena scontata, quanto la deplorevole colpevolezza di chi fosse tornato a delinquere, dopo essere stato condannato. In effetti, all'eccesso, il subordinare l'applicabilità della recidiva a chi avesse, concretamente, scontato una condanna avrebbe potuto significare 'premiare' chi si fosse sottratto alla sua esecuzione.

Altro punto controverso risultò essere quello della temporaneità del periodo da prendere in considerazione; osservò il Garofalo che "con questo sistema la società ringrazia il malfattore per la bontà ch'egli ha avuto di star cheto cinque o dieci anni, o per la sua accortezza nel mantenersi occulto" (12). Gli fecero eco il Porto ed il Florian, che ebbe a dire: "se la recidiva serve soprattutto a mostrare il vero carattere del delinquente, perché mai, in ragione del tempo trascorso, non dovrà tenersene conto?". (13) Contro tali assertori della 'perpetuità' della recidiva ebbe, fortunatamente, la meglio proprio lo Zanardelli:

Se si ammette che dopo un certo tempo si prescrive il diritto di fare eseguire le sentenze di condanna [fenomeno della prescrizione], a maggiore ragione si deve ammettere un termine, scorso il quale cessa o si prescrive il diritto a computare la condanna stessa per la recidività. Chi per lungo tempo ha serbato buona condotta, se pure in passato soggiacque ai rigori della legge, non deve essere trattato al pari di colui che in breve intervallo ricadde nel reato. (14)

Venendo all'aumento di pena da applicarsi al recidivo, merita accennare ad una critica - invero un po' speciosa, anche se fondata dal punto di vista teorico - mossa dal D'Antonio a quanto previsto per la recidiva semplice: secondo tale osservatore, infatti, non si sarebbe trattato di un aumento di pena in senso tecnico, ma del semplice obbligo per il Giudice di applicare una pena superiore al minimo edittale. La norma cioè, stante la tassatività dei casi di aumento di pena prevista dall'art. 29 c.p., avrebbe prescritto esattamente l'opposto, cioè vietare si implementasse la pena in caso di recidiva generica, ritenendo proporzionato il mero divieto di applicare il minimum. Per contro, nessun problema pose il caso della recidiva specifica, per il quale il Codice del 1889 venne a prevedere specifici aumenti di pena. A proposito di essa, l'Impallomeni ebbe a sottolineare la scelta di sanzionarla più pesantemente perché avrebbe mostrato, nel reo, un carattere spiccatamente criminoso e una "consuetudine al delitto". (15) Mentre, per quanto attiene alla sua esatta delimitazione, giova precisare come il criterio usato sia stato prettamente subiettivo, essendosi dovuto indagare, al fine di verificare l'affinità fra i reati, il movente psicologico di chi veniva a delinquere. Al suo animus avrebbe guardato il legislatore raggruppando - all'art. 82 c.p. - i vari tipi di reato: in violazione di una stessa disposizione di legge; previsti da uno stesso capo del Codice; o espressamente indicati dallo stesso articolo 82 c.p. (delitti contro la sicurezza dello stato, contro l'incolumità pubblica, le libertà politiche e via dicendo).

In ultimo, è doveroso fare un accenno al regime obbligatorio della recidiva - che abbiamo, in effetti, posto tra i principi dell'istituto senza averne trattato - che fu ampiamente contrastato da attenta dottrina (Hauss); si sosteneva, infatti, che nel caso concreto vi potessero essere particolari circostanze, conoscibili solo al Giudice, grazie alle quali sarebbe conseguito il venir meno della maggior riprovevolezza dell'atto compiuto, per cui sarebbe, altrimenti, scattata la misura dell'aumento della pena. Nonostante l'evidente giustizia dell'osservazione, si preferì un sistema più certo che facesse attivare, automaticamente, l'aggravante della recidiva, non appena avuta la prova della stessa.

Inutile precisare che tale prova non potesse essere data se non dalle risultanze del Casellario giudiziale, frattanto entrato nel panorama giuridico italiano - come abbiamo visto - con R.d. del 6 Dicembre 1865 n. 2644, così come modificato dal successivo R.d. del 10 Dicembre 1889 n. 6509. Pur essendo stato più opportuno acquisire agli atti del nuovo processo copia delle precedente condanna, ci si 'accontentò' del "semplice certificato penale desunto dal Casellario giudiziale, confermato dall'imputato", (16) come avremo occasione di vedere più oltre.

2.5.4 Gli effetti

La recidiva non rilevava - come del resto oggi - solo di per sé stessa, ma anche per una serie di conseguenze giuridiche che da essa derivavano e che erano destinate ad impattare con la vita del condannato, del recluso, dell'ex carcerato. Il Codice Zanardelli, infatti, prevedeva per i recidivi che:

  • non potesse essere loro concessa la liberazione condizionale, per alcuni determinati reati;
  • non potesse essere applicata la misura della riprensione giudiziale (17);
  • il termine per domandare la riabilitazione fosse raddoppiato;
  • non potessero beneficiare della riduzione di pena, per particolare lievità del fatto, in caso di recidiva in delitto della stessa indole;
  • non potesse godere della libertà provvisoria l'imputato di furto o truffa, se recidivo negli stessi identici reati.

Altri effetti maggiormente afflittivi per i recidivi erano previsti da altre norme, coma la Legge di pubblica sicurezza o il Regolamento generale delle carceri del 1 Febbraio 1891 n. 260. Gli artt. 123 e 124 della prima norma prevedevano, infatti, che potessero essere sottoposti al domicilio coatto "gli ammoniti ed i condannati alla vigilanza speciale della Pubblica sicurezza che [fossero incorsi], con distinte sentenze, in due condanne" per una serie di delitti e contravvenzioni che non merita, in questa sede, approfondire. Il Regolamento carcerario, modificato con R.d. del 14 Novembre 1903 n. 484, prevedeva - al suo art. 13 - che non fosse possibile sospendere al recidivo le punizioni disciplinari eventualmente inflittegli; mentre l'art. 11 impediva di comminare a questo tali sanzioni disciplinari nel loro minimo. L'art. 35, poi, prescriveva che la "segregazione cellulare notturna" fosse aumentata della metà per la popolazione carceraria appartenente alla categoria dei recidivi.

Le norme appena richiamate, a puro titolo di esempio, mostrano le ripercussioni che la dichiarazione di recidiva veniva ad avere sui suoi destinatari, sia sotto il profilo della maggiore difficoltà di accedere a misure alternative a quelle detentive (che avrebbero facilitato anche il reinserimento del condannato), che sotto quelle della maggior rigidità delle regole di vita carceraria.

2.6 La funzione della pena e le principali Scuole di pensiero

Così, la funzione e la ragion d'essere dell'istituto della recidiva vengono a correlarsi con l'essenza e lo scopo della sanzione penale, motivo per cui si rende opportuna una breve digressione sulle principali teorie che hanno avuto ad oggetto la pena.

Il Carrara ebbe ad insegnare che "il fine della pena è il bene sociale rappresentato nell'ordine, che si procaccia mercè la tutela della legge giuridica" (18). Su tale concetto di 'pena' si sono succedute, scontrate, integrate decine di speculazioni teoriche che non è possibile qui ripercorrere debitamente, ma che convergono tutte - potremmo osare di affermare - sul riconoscimento della sua ineluttabile necessarietà; affermata, per quanto riguarda epoche recenti ed il nostro stato, dalla vigente Costituzione che ne sancisce i principi fondanti: necessaria, legale, proporzionale e personale.

Le 'teorie dell'emenda' - che, da Platone al romanico brocardo poena constituitur in emendationem hominum (19), approdano a posizioni cattoliche dell'espiazione morale e alla Suhnetheorie tedesca - mostrano un'attenzione marcatamente individualistica e rivolta all'animo di chi ha delitto, mirando al raggiungimento del suo ravvedimento e della sua redenzione morale. Pena come cammino verso la redenzione.

La Scuola classica, nata e sviluppatasi nell'ambiente politico-culturale di matrice illuministica, postulava che l'uomo fosse del tutto libero nelle scelte del suo agire; poneva, conseguentemente, a fondamento del diritto penale la responsabilità 'morale' del soggetto, intesa come rimproverabilità per il male commesso, in un'ottica prettamente etico-retributiva della pena. Il diritto penale risultava, quindi, incardinato su tre principi fondanti:

  • della 'volontà colpevole': il reato visto come violazione cosciente e volontaria della norma penale;
  • dell'imputabilità: la volontà colpevole presuppone, a sua volta, che il soggetto agente sia, in concreto, capace di comprendere il valore etico-sociale delle sue azioni;
  • della pena intesa come necessaria retribuzione del male compiuto: il che porta a considerare la pena come afflittiva, personale, proporzionata, determinata e inderogabile.

E' il Mantovani ad evidenziare pregi e difetti di tale filone speculativo:

Se il merito di questa scuola è stata la razionalizzazione di principi quali quello della materialità e [della] offensività del fatto, della colpevolezza, dell'imputabilità, della retribuzione della pena, tre sarebbero invece i principali limiti: aver relegato il diritto penale nella sfera astratta di un diritto naturale razionalistico lontano dalla realtà naturalistica, aver limitato la difesa sociale dalla criminalità alla sola pena, non avere prestato attenzione alla 'esecuzione' della pena e quindi alle finalità di recupero del reo, in quanto per i classici il problema penale ha termine con il passaggio in giudicato della sentenza (20).

Dunque, le 'teorie retributive' vedono la pena come valore positivo che trova in sé stessa la sua ragion d'essere: è il malum passionis quod inflingitur ob malum actionis (21), applicato in quanto si è delitto. Come 'retribuzione morale', la pena è vista quale esigenza radicata ed insopprimibile della coscienza umana: il male che segue il male, quale kantiano imperativo categorico (22). Come 'retribuzione giuridica', trova il proprio fondamento all'interno dell'ordinamento, in quanto il delitto è atto di ribellione che deve essere punito, richiedendo la riaffermazione dell'autorità della legge. Queste teorie hanno codificato il principio della personalità della pena accanto a quello - che più ci interessa nel nostro ambito di indagine - della proporzionalità, nella quale risiede la giustizia e la forza morale della pena.

La Scuola positiva - coi suoi maggiori esponenti Lombroso, Ferri, Grispigni - affondava le proprie radici filosofiche nel positivismo metodologico della fine del XIX secolo. In contrapposizione al postulato del libero arbitrio, asseriva l'opposto principio del 'determinismo causale'; dal quale discendevano i seguenti corollari:

  • il reato non interessa più come entità giuridica distinta dall'agente, ma come fatto umano individuale, che trova giustificazione nella struttura bio-psicologica del delinquente, quale espressione della sua pericolosità;
  • alla 'volontà colpevole', alla 'responsabilità morale' ed all'imputabilità si sostituisce la 'pericolosità sociale', da intendersi come mera probabilità che il soggetto sia spinto a compiere reati;
  • la pena retributiva, di impronta classica, è soppiantata da una meccanismo di misure di sicurezza, quale risposta adeguata al concetto di pericolosità sociale.

Riportiamo, a commento di tale corrente di pensiero, quanto pubblicato sul sito de L'altro diritto:

La Scuola positiva ha così messo in luce il problema della personalità del delinquente e dei suoi condizionamenti bio-psico-sociologici, ha avuto il merito di avere tenuto conto della realtà sociale in cui il reato viene a compiersi e di aver introdotto accanto alla tradizionale prevenzione generale l'idea della prevenzione speciale e della risocializzazione del delinquente. Tra i suoi limiti: l'aver deresponsabilizzato l'individuo attraverso le schematizzazioni deterministiche, l'aver rimesso in discussione le garanzie di legalità e di certezza in nome della difesa sociale e della giustizia concreta, una volta [...] incentrato il diritto penale su tipologie criminologiche di autori. Lo stesso principio nulla poena sine delicto veniva messo in discussione, dal momento che era stata sostituita la colpevolezza per il fatto con la pericolosità: quindi anche i soggetti che risultavano pericolosi socialmente, pur non avendo ancora commesso il fatto, avrebbero dovuto essere sottoposti a misure di sicurezza.

Così le speculazioni raggruppabili sotto l'ampia 'teoria della prevenzione speciale' giustificano, vedendola anch'esse come necessaria, la pena come spinta a non ricadere in futuro nel reato. Qui la pena non è rapportata all'uomo uti singulus ed alla sua sfera intimamente etica, ma all'homo socialis, operando su un piano naturalistico, lungo un percorso di riavvicinamento del delinquente alla comunità che ha offeso. Punizione ne peccetur.

In conclusione, possiamo asserire come oggi ci si muova, sul piano teorico, su un terreno caratterizzato da una sorta di mixtum compositum; che si incentra sull'idea retributiva e rieducativa della pena, per sfumare, poi, in istanze preventive ed 'intimidatorie'. Il moderno concetto di pena, pertanto, ha una marcata pluridimensionalità, che trova la sua sintesi nella spiegazione del perché si applica una pena: quia peccatum est et ne peccetur (23). Sarebbe inimmaginabile una società che premia chi compie atti illeciti, mentre punisce chi rispetta le regole della comune convivenza. Così come non sarebbe accettabile, per le intime istanze comuni all'uomo di oggi come a quello di secoli fa', non perseguire chi ha commesso un delitto, ignorando le pressioni sia di ataviche pulsioni vendicative che di più ragionati e ragionevoli bisogni di 'giustizia'. Altrimenti, se così non fosse, sarebbe difficile rispettare quel pactum socialis alla stessa base dello stato moderno, che prevede la rinuncia alla autodifesa privata, alla 'vendetta' sia individuale che di gruppo, a favore di uno stato che difenda e, nella sostanza, 'vendichi' chi ha subito un sopruso, previsto dalla legge come reato. Da quanto abbiamo affermato, sembra emergere - sulle altre - soprattutto una funzione retributivo-preventiva della pena, che 'retribuisce' per quanto commesso, agendo - altresì - quale deterrente per crimini futuri e quale elemento pacificatore della compagine sociale.

2.7 La recidiva ed il Casellario giudiziale

E' palese che sarebbe stato del tutto vano e fine a sé stesso elaborare lo strumento della recidiva, al fine della commisurazione della pena al caso concreto, se non fosse stato possibile attribuire le condanne a soggetti, della identità personale dei quali poter avere certezza. Infatti, era cosa comune che gli imputati celassero la loro vera identità: sia attribuendosene un'altra fittizia o di altre persone, sia comunicando dati di nascita parziali. Per ovviare a tale inconveniente, si prese l'abitudine di scrivere, a margine delle sentenze, i connotati salienti del condannato; mentre facevano i primi passi gli studi di antropometria. Questa si rivelò, assieme alla dattiloscopia che la Polizia scientifica iniziava ad usare, uno strumento indispensabile al fine di poter verificare che il sedicente Caio, imputato di un certo reato, non fosse in realtà Tizio, già condannato per reati dello stesso tipo.

Questa difficoltà (che oggi ha trovato risposta inequivocabile grazie, quando rilevabile, all'acido deossiribonucleico), andò poi ad intrecciarsi con quella relativa al come provare la recidiva. Giurisprudenza costante, infatti, aveva escluso che la si potesse provare con la confessione dell'imputato (24) né con deposizioni testimoniali o altri mezzi di prova, diversi dalla precedente sentenza o dal certificato penale estratto dal Casellario giudiziale (25).

Emerge, quindi, ed in tutta la sua evidenza, come l'istituto primario del nostro studio sia stato lo strumento principe, se non esclusivo, per permettere di applicare al condannato - così come individuato secondo i nuovi sviluppi della scienza antropometrica - la recidiva e, a cascata, le conseguenze e gli effetti penali che da questa derivavano.

2.8.1 Verso il Codice penale Rocco

Il Codice penale del 1889, di indubbia matrice liberale e rifacentesi alla scuola classica (26), nacque tuttavia con il 'debito' iniziale di avere guardato al passato, (Vassalli) senza accogliere le istanze positivistiche, che ne accompagnarono la nascita. Così fu ostacolato, sia a livello dottrinale (27) che politico, per le carenze che indubbiamente aveva dimostrato di avere, ed andò incontro ad alcune critiche (soprattutto per la sua presunta eccessiva 'morbidezza' (28)) che sfociarono, nella seduta della Camera dei deputati del 29 Novembre 1910, nel progetto di legge Luzzatti-Fani. Questo, sotto il profilo che più ci interessa, mirò a modificare l'art. 80 c.p. nel quantum dell'aumento di pena: per i recidivi tout court la si sarebbe dovuta aumentare da un sesto ad un terzo e per quelli specifici da un terzo alla metà; modifiche erano state previste anche per la recidiva reiterata sempre in senso più afflittivo. Si noti come tale progetto legislativo fosse volto a prevedere un maggior aumento di pena, accanto alla eliminazione del semplice divieto di applicare il 'minimo' ai recidivi generici.

Successivi disegni di legge (come quello Ferri del 1921), portarono al progetto Rocco, nella Relazione al quale si legge di "profondi rivolgimenti prodottisi nella psicologia e nella morale degli individui e della collettività, e nelle condizioni della vita economica e sociale", che avevano portato ad un forte aumento della delinquenza. Mostrando come la legislazione penale si fosse rivelata densa di difetti e di lacune e mettendo in luce come fossero insufficienti nella lotta contro il delitto, "i mezzi puramente repressivi e penali [oltre alla] assoluta inidoneità delle pene a combattere i gravi e preoccupanti fenomeni della delinquenza abituale, della delinquenza minorile, degli infermi di mente pericolosi". La conseguenza logica era il riconoscimento che fosse necessario predisporre, accanto alle tradizionali misure di repressione, "nuovi e più adeguati mezzi di prevenzione della criminalità".

2.8.2 La recidiva nel Codice Rocco del 1930

Così il Codice Rocco del 1930 si pose su questa scia, dell'aumento delle misure lato sensu penali, che colpirono anche la disciplina della recidiva. In proposito, l'art. 99 dispose: "chi, dopo essere stato condannato per un reato, ne commette un altro, soggiace ad un aumento fino ad un sesto della pena da infliggere per il nuovo reato". Se confrontiamo questa disposizione con l'analoga del precedente Codice Zanardelli, emerge quale cambiamento più significativo - al di là della previsione di un aggravamento di pena, prima non previsto per la recidiva generica - il venir meno del principio della temporaneità a favore, invece, di quello della perpetuità. Ciò a dire che si sarebbe dovuta applicare la recidiva, col suo afflittivo aumento di pena, anche trascorsi sessanta anni dal compimento del primo reato! Una previsione del genere tramutava una prima condanna in una sorta di 'condanna perpetua', sospesa condizionalmente al non ripetersi di atti criminosi durante l'intera esistenza del soggetto. Essa trovò terreno fertile nel periodo storico in cui maturò il nuovo Codice (il ventennio fascista), e nella scuola di pensiero che ne costituì il substrato teorico e che risponde al nome di tecnicismo giuridico. (29)

Per gli altri aspetti più salienti, già analizzati in precedenza, l'assetto dato all'istituto dal Codice penale attualmente in vigore rimase quello previgente, a partire dal requisito della "condanna precedente" e non dell'espiazione della stessa.

2.8.3 La commisurazione della pena e l'art. 133 c.p

Chi applica le pene deve farlo in modo proporzionato ed equo. Solo rispettando questa semplice massima, di logica ancor prima che di diritto, si adempie alla funzione della pena; senza farla diventare mera e cieca vendetta o violenza di stato, retaggio di regimi totalitari o di oscurantistici passati. La pena, tuttavia, non può essere lasciata all'arbitrio di chi è chiamato ad applicarla, ma deve essere prevista dalla legge: nullun crimen et nulla poena sine lege (30).

Ad un'esigenza di questo tipo - sentita in tutti gli stati moderni ed alla quale si è risposto con ricostruzioni teoriche diverse, ampie ed articolate - ha replicato il nostro Codice penale con l'art. 132: "Nei limiti fissati dalla legge, il Giudice applica la pena discrezionalmente: esso deve indicare i motivi che giustificano l'uso di tale potere discrezionale". La prescrizione normativa corrisponde, sul piano dottrinale, a quello che possiamo definire 'principio della discrezionalità vincolata', che vede il Giudice libero di scegliere la pena tra un minimo ed un massimo edittali, previsti dalla legge, in una sorta di binario che lo accompagna nella sua scelta. Siamo, quindi, ben lontani dall'arbitrio e da una "sovranità giurisdizionale" del Giudice "sull'an, la species ed il quantum della pena" (31). Ciò è dimostrato dall'obbligo per l'organo giudicante di motivare la sua decisione, che implica la doverosità, per il Giudice, di questa attività di individuazione della pena più idonea al caso concreto.

Sullo sfondo del dettame costituzionale - che precisa, all'art. 27, che "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" - l'art 133 c.p. specifica: "Nell'esercizio del potere discrezionale indicato all'articolo precedente, il giudice deve tener conto della gravità del reato".

Il successivo comma 2 precisa che

Il Giudice deve tener conto altresì della capacità a delinquere del colpevole, desunta:

  1. dai motivi a delinquere e dal carattere del reo;
  2. dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo antecedenti al reato;
  3. [omissis];
  4. dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo

Mentre, quindi, il Codice penale Zanardelli era ancorato ad un approccio marcatamente classico-retribuzionista, per cui si limitava a rapportare la pena alla gravità del fatto compiuto, senza troppi spazi per un processo di individualizzazione della pena, oggi il Giudice è tenuto ad una duplice valutazione: non solo del reato commesso, ma anche della personalità del soggetto agente.

2.8.4 Una possibile critica all'art. 133 c.p

Seppure non oggetto diretto della nostra analisi, può risultare di un certo interesse accennare alla critica mossa da parte della dottrina (in primis Mantovani) all'art. 133 c.p. Questo, si sostiene, non avrebbe risolto il problema ed il rischio dell'arbitrium judicis, in quanto non indica i criteri di valutazione che dovrebbero essere seguiti dal Giudice nella sua attività discrezionale. Il significato, infatti, degli elementi indicati nella norma (dalla gravità del fatto alla capacità a delinquere) è destinato a variare, a seconda che ci si muova in un'ottica, teorica, retributiva o di prevenzione. In effetti, volgendo attenzione alla giurisprudenza di lungo periodo, si può notare come spesso lo stesso obbligo di motivazione sia stato aggirato, ricorrendo a patetiche 'formulette' che tutto hanno fatto tranne che motivare, come dovrebbero dovuto, la decisione del Giudice. Il nostro diritto penale si muoverebbe, pertanto, secondo questa critica, in un'ottica di discrezionalità non troppo vincolata, ma con forti derive verso un ambito di eccessiva libertà.

2.8.5 Dei diversi tipi di recidiva

Se l'art. 99 c.p. poneva, in via generale, l'obbligatorietà della recidiva, il successivo art. 100 ne ammetteva, ponendosi come eccezione alla regola generale, la facoltatività. Prevedeva, infatti, che il Giudice potesse escluderla fra delitti e contravvenzioni, o fra delitti dolosi o preterintenzionali e delitti colposi, o fra contravvenzioni, a patto che non si fosse trattato di reati della stessa indole; quindi, in altre parole, di recidiva specifica. La previsione fu accolta favorevolmente dai commentatori che, come il Florian, la videro "soffusa di squisito spirito umano". (32) Dottrina più convincente (Riccio (33)) volle che il Giudice dovesse motivare nella sentenza tale esclusione, anche se si è sostenuto (Manzini (34)) che sarebbe stato sufficiente dare atto di avere ritenuto 'opportuno' procedere a tale disapplicazione al caso concreto.

L'altro tipo di recidiva, alla quale abbiamo già fatto cenno, era quella specifica che si previde aversi se il nuovo reato era della stessa indole del primo; mentre si sarebbe avuta recidiva specifica aggravata: se si fosse commesso il nuovo reato entro 5 anni dalla precedente condanna, o durante o dopo l'esecuzione della pena o a seguito di volontaria sottrazione alla anzidetta esecuzione. In questi casi, già del resto previsti dal Codice precedente, l'aumento di pena sarebbe stato fino alla metà, invece che fino ad un sesto. Nel caso in cui avessero concorso più cause di recidiva specifica, l'aumento sarebbe stato ulteriormente implementato: da un terzo alla metà.

Se, per definire i "reati della stessa indole" il Codice Zanardelli aveva impiegato un articolo dedicato (art. 82), che li aveva espressamente indicati, il testo in esame impiegò un criterio diverso, con una norma valevole non già per la sola recidiva ma per la legge penale in generale. Infatti l'art. 101 previde che fossero considerati reati della stessa indole: "non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma anche quelli che [...] per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinarono, presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni".

Per quanto riguarda gli altri effetti della dichiarazione di recidiva, diversi dall'aumento della pena, si può rimandare in buona sostanza a quanto già visto in precedenza, con l'avvertimento che il Codice Rocco, fu prodigo di sanzioni accessorie e maggiori penalità nei confronti dei recidivi.

2.8.6 Abitualità presunta dalla Legge

Il precedente penale, desunto dagli archivi del Casellario giudiziale, riveste spesso nel nostro ordinamento giuridico un notevole rilievo. E', pertanto, opportuno fare un breve riferimento a due istituti, vicini alla recidiva: la dichiarazione di abitualità e quella di professionalità nel reato così come normati dal Codice Rocco:

Art. 102 c.p. E' dichiarato delinquente abituale chi, dopo essere stato condannato alla reclusione in misura superiore complessivamente a cinque anni per tre delitti non colposi, della stessa indole, commessi entro dieci anni, e non contestualmente, riporta un'altra condanna per un delitto, non colposo, della stessa indole, e commesso entro i dieci anni successivi all'ultimo dei delitti precedenti.

Nei dieci anni indicati nella disposizione precedente non si computa il tempo in cui il condannato ha scontato pene detentive o è stato sottoposto a misure di sicurezza detentive.

La norma è stato spesso oggetto di censure di incostituzionalità, sempre respinte dalla Consulta, e trova la sua giustificazione sia sotto un'ottica retributiva (la ripetizione degli atti criminosi è frutto di libera scelta del soggetto agente, al contempo indice della sua tendenza psichica a delinquere (35)), che sotto un inquadramento prognostico-preventivo della pena (la ripetizione di reati quale prognosi delle forti probabilità che il soggetto ne compia ancora (36)). Prescindendo da tale ambito dottrinale dal substrato 'etico', dottrina (37) più recente ha riscontrato nell'abitualità la caratteristica personale del soggetto che, con la sua attività criminosa, mostra e dimostra la sua predisposizione a delinquere. Così "la ripetizione di un determinato comportamento attenua sempre di più i freni inibitori e rende perciò più facile la commissione di reati" (38).

Per quanto attiene alla collocazione categoriale dell'istituto, così come per la dichiarazione di professionalità, le posizioni oscillano tra il considerarlo circostanza del reato (39) - né più né meno come abbiamo visto per la recidiva - o qualificazione soggettiva del reo (Riccio). Certa giurisprudenza (40) ha ritenuto l'abitualità una sorta di 'aggravante della recidiva', in quanto tale soggetta all'obbligo della contestazione; altra (41) ha sostenuto trattarsi di mero status soggettivo, che non incide sulla commisurazione della pena, ma atto a mostrare la pericolosità del soggetto, al fine di applicare misure di sicurezza. Stante la chiarezza della sua formulazione, l'art. 102 non necessita di essere commentato, per quanto attiene a casistica e requisiti.

Prima di licenziare questo istituto, si può riportare la definizione data dal Ferri (e accettata anche dal Lombroso (42)) a proposito del delinquente abituale, uno dei cinque tipi di delinquenti che esisterebbero, secondo l'autore della seconda metà del 1800:

Al principio della sua carriera egli presenta i caratteri di un delinquente d'occasione [delinque per determinate momentanee circostanze], ma con una degenerazione più profonda nel senso morale, o almeno con una disposizione ereditaria maggiore per l'annullamento completo del senso morale. A cominciare dalle prime ricadute nel delitto, egli acquista successivamente i caratteri psicologici del delinquente istintivo per l'influenza degenerativa dell'ambiente penitenziario sociale, e giunge al punto di non presentare alcuna differenza con lo stesso delinquente istintivo (43).

2.8.7 La professionalità nel reato

Art. 105. Chi, trovandosi nelle condizioni richieste per la dichiarazione di abitualità, riporta condanna per un altro reato, è dichiarato delinquente o contravventore professionale, qualora, avuto riguardo alla natura dei reati, alla condotta e al genere di vita del colpevole e alle altre circostanze indicate nel capoverso dell'art. 133, debba ritenersi che egli viva abitualmente, anche in parte soltanto, dei proventi del reato.

Trattasi di una sottospecie, aggravata, della abitualità (44) (anche se non è necessario prima dichiarare questa) destinata a creare forte allarme sociale, perché il soggetto non avrebbe fonti di sostentamento diverse dalla commissione di reati; tale 'stile di vita' finanziato dai proventi da attività criminose verrebbe a distinguere tale figura giuridica dalla dichiarazione di abitualità (45). Ex art. 217 c.p., la professionalità nel reato comporta l'applicazione di una misura di sicurezza di durata minima di tre anni, contro i due previsti per l'altro istituto.

A livello dottrinale può essere interessante riportare la posizione del Paoletti, che parlò di persone che "del delitto, qualunque ne siano le cause soggettive, si fanno una vera professione" (46); così ritenne 'irresponsabili' i delinquenti professionali, identificandoli con i pazzi e giustificando qualunque (re)azione della società, atta a prevenire e limitare i danni che da questi soggetti possano derivare.

Si noti, infine, che anche in questo caso, come per l'ipotesi della abitualità, non si ha nessun automatismo o meccanismo presuntivo, ma è necessario che il Giudice accerti in concreto, caso per caso, la pericolosità sociale del soggetto. Questo, in considerazione del fatto che a rilevare non sono tanto e solo i precedenti penali, ma la circostanza che si (soprav)viva grazie al crimine (47), allontana di misura l'istituto dalla nostra analisi; ciononostante non si deve pretermettere il rilievo che, sia in questo caso che in quello della dichiarazione di abitualità, è possibile applicare le norme solo in quanto si abbia memoria delle precedenti condanne; ergo, allo stato dei fatti, solo grazie al Casellario giudiziale.

2.9 Il 'valore' dei precedenti penali

Da quanto appena analizzato emerge un dato, tanto lapalissiano quanto fondante ai fini della nostra indagine: il riconoscimento che il nostro ordinamento giuridico tributa al 'precedente penale': sia per la valutazione della "capacità a delinquere del reo" (art. 133 c.p.), che per il riconoscimento della recidiva, che della professionalità o abitualità a delinquere.

Tale riconoscimento porta - conseguentemente - alla ribalta un istituto, il Casellario giudiziale, che risulta essere molto di più di un semplice archivio di notizie sui cittadini.

Esso appare, a seconda del punto di osservazione che si voglia assumere, come un'arma micidiale per la lotta alla delinquenza, indispensabile strumento informativo "per non dar tregua ai malfattori, ed ai malfattori della peggiore specie che è quella dei recidivi e dei vagabondi" (48).

Mentre può risultare, al contempo ma sotto un'ottica diversa, come un terribile, incombente, pericolo che sovrasta il percorso di redenzione e risocializzazione di chi abbia delitto; stigmatizzandolo senza rimedio.

2.10 La riforma del 1974

Tirando le fila, la recidiva del Codice penale del 1930 fu un istituto anomalo, a metà strada tra le due ricostruzioni dottrinali prioritarie: quella, di tipo garantista, che voleva la recidiva obbligatoria (eguale trattamento per tutti i recidivi), specifica (operante solo per la ripetizione di reati della stessa natura) e temporanea (il decorrere del tempo senza la commissione di nuovi reati depone a favore del reo); e quella, più prettamente criminologica, che prevede la facoltatività, la genericità e la perpetuità della recidiva, con concetti simmetricamente opposti a quelli sopra indagati.

Nacque - infatti, come visto - come obbligatoria (con eccezione ex art. 100), generica e perpetua. Come, cioè, un istituto marcatamente illiberale ed afflittivo, da utilizzare a seguito della commissione di reati di qualsiasi tipo (indagando se della stessa species per far derivare da ciò ulteriori aumenti di pena) e a qualsiasi distanza temporale fra di loro.

Così vennero mosse svariate critiche ed istanze di riforma dell'istituto, accolte solo negli settanta del secolo scorso, quando il D.l. 11 Aprile 1974 n. 99 - convertito in legge 7 Giugno 1964, n. 220 - modificò l'art. 99 c.p., presentandolo nella seguente veste: "Chi, dopo essere stato condannato per un reato, ne commette un altro, può essere sottoposto ad un aumento fino a un sesto della pena da infliggere per il nuovo reato".

La differenza basilare con la norma precedente consta nell'uso del verbo "può essere sottoposto", invece del, secco, "soggiace". In ciò la maggiore novella: la facoltatività della recidiva al posto della sua obbligatorietà. (49) Tale, penultima, modifica dell'istituto (che ha abrogato anche l'art. 100 c.p.) non ha soddisfatto - tuttavia - chi si aspettava un nuovo assetto omogeneo e ben congegnato, dato che sono rimaste le caratteristiche della perpetuità e della genericità, accanto - stavolta - alla facoltatività.

In effetti è difficile comprendere la ratio di tale norma, soprattutto in un ordinamento giuridico, come quello italiano, fortemente legato al principio di legalità, in base al quale si sarebbero dovute operare scelte volte ad evitare, quanto più possibile, perigliose aperture all'arbitrium judicis. Così parte della dottrina (Nuvolone (50), Palazzo (51), Mantovani (52), Romano (53)) si è espressa nei confronti della novella del 1974 in termini non esattamente favorevoli, sostenendo anche che avrebbe introdotto una marcata discrezionalità atta a portare ad un "caso di sovranità giurisdizionale" (54).

Altra critica fu mossa allo strumento usato, il Decreto legge, al quale si ricorse - si disse - in via di "urgenza emotiva" (55) a causa delle circostanze del momento, in cui stavano per scadere i termini di carcerazione preventiva di condannati a pene molto gravi. In realtà si può rispondere a tale ultimo rilievo riprendendo il disegno di legge Gonella (dibattuto addirittura durante due legislature e che risulta riprodotto, nella sostanza, nel Decreto legge), a dimostrare come le istanze di revisione dell'istituto avessero già avuto la stura, indipendentemente dalla presunta strumentalizzazione del momento storico (56).

2.11 Un breve accenno ad alcune teorie sulla recidiva

Oltre all'acceso dibattito tra abolizionisti (57) e sostenitori della recidiva quale circostanza aggravante la pena (in primis Carrara, ma anche Brusa, Nicolini, Crivellari ed Arabia), vi furono altre posizioni volte a giustificare gli aumenti di pena previsti per i recidivi. Rimandando ai singoli studi per ogni debito approfondimento, basti in questa sede richiamare chi ha considerato la recidiva una circostanza aggravante la colpevolezza (Rossi, Pessina, La Tagliata, Riccio e Dell'Andro) e chi, invece, una qualificazione giuridica soggettiva (Santoro, Ranieri, Messina, Antolisei, Pisapia, Carnelutti).

In ultimo, certa dottrina (Rossi, Impallomeni, Saltelli-Di Falco, Manzini, Florian) ha incasellato il fenomeno giuridico della recidiva fra le circostanze aggravanti l'imputabilità. Secondo tale teoria il recidivo avrebbe una personalità più criminosa, antisociale, non in grado di apprendere insegnamenti né dal precetto normativo, né dalla precedente condanna. Pertanto il reato commesso da questo individuo, che disprezza la legge e la stessa collettività ordinata secondo i suoi precetti, avrebbe una maggior gravità rispetto allo stesso reato commesso da un delinquente primario. La recidiva, così giustificata, verrebbe a concernere l'elemento soggettivo e la imputabilità psichica dell'autore del reato. Dice il Rossi, sostenendo l'aumento di pena in polemica col Carnot, che non si guarda al primo reato già scontato: ma al secondo "con le circostanze che aggravano la colpabilità giuridica dell'agente" (58), che si deduce anche dal reato precedente. Guardando ancor più da vicino alla personalità del reo, l'Impallomeni fa eco ritenendo più pericoloso il recidivo perché: "rivela una maggior potenza riproduttiva di delitto e perciò il suo nuovo reato determina una quantità di danno sociale relativamente maggiore di quello cagionato dal precedente reato" (59).

2.12 Le ragioni 'storiche' della recidiva

Partendo dagli albori della recidiva e dello stesso diritto penale italiano, già nel 1885 la Rivista di discipline carcerarie (60) riportava uno studio sulle cause del fenomeno, che vedeva fra le prime: "il vizio e la miseria, la cattiva costituzione della famiglia, l'abbandono dei fanciulli, l'emigrazione, l'alcolismo nell'uomo ed il lusso nella donna"; accanto a colpe del sistema, quali: "la soverchia indulgenza nella punizione, la promiscuità dei detenuti, [...] la breve durata delle pene, la difettosa organizzazione delle carceri" (61). La previsione di pene molto brevi fu vista, assieme alla grazia (allora) sovrana, alla amnistia (62) ed al fenomeno dell'impunità, come un fenomeno criminogeno: sia in prima istanza che in funzione di recidiva, in quanto facente venir meno la funzione general-preventiva della pena-deterrente e favorente una sorta di 'abitudine' alla frequentazione del carcere per poco tempo (Bentham (63) e Romagnosi (64)).

Addirittura il Giolitti, in un suo discorso pronunciato alla Camera dei deputati il 12 Luglio 1898, parlò di un alto numero di recidivi in dipendenza del "pessimo ordinamento delle nostre carceri, la maggior parte delle quali, per il modo come sono costruite e tenute, sono scuole di delitti, anziché luoghi di riabilitazione" (65).

Simili problemi, quanto mai attuali dopo oltre un secolo di storia e 'progresso', trovano un'esemplare descrizione nelle parole del Giordani che, per la loro attualità, da sole sono in grado di darci conto del perché si continua a recidere e di quanto, in ciò, si debba 'ringraziare' gli archivi sui precedenti penali dei cittadini:

Si sa che molti liberati dal carcere trovano con difficoltà il lavoro, per motivo dei loro precedenti: essi non hanno più buona accoglienza nella società, perché, se è vero che la legge li ha condannati per un tempo determinato, l'opinione pubblica, invece, con la sua diffidenza li condanna per sempre. E allora, comprendendo che non hanno più il posto che occupavano dapprima nella società onesta, circondati dalla diffidenza e dalla antipatia comune, cadono, per fatale necessità di cose, nella via obliqua della delinquenza e si associano con altri pervertiti, con i quali precipitano nell'infimo gradino della corruzione, facendo tacere una volta per sempre l'ultimo avanzo di senso morale loro rimasto (66).

Al di là dei mali del sistema carcerario e del difficile reinserimento di chi da esso fuoriesce, si individuò nella società il 'vero ammalato' (Tammeo), che andava a contagiare gli individui ad essa appartenenti. In ciò è impressionante leggere commenti dei primi del secolo XX, che parlano di metropoli come formicai di vagabondi e piccoli delinquenti, di miseria ed alcolismo che generano devianza e di immigrazione dove "col buono entra anche il cattivo, ossia vi entrano molti spostati e rifiuti di altre regioni" (67). Mentre Cesare Lombroso (68) narra di una famiglia di mendicanti (quando il vivere di espedienti chiedendo la carità era considerato non solo reato, ma uno dei mali peggiori per la collettività, foriero di dissolutezza e crimine) condannata per sedici volte per vagabondaggio; con la conferma del Florian (69) che porta l'esempio di un girovago con cinquantotto condanne sulle spalle...

Note

1. P. Tuozzi, Corso di diritto penale, 3º ed., vol. I, Napoli, 1889, p. 360.

2. F. Carrara, Stato della dottrina sulla recidiva, in Opuscoli di diritto criminale, 3º ed., vol. II, Prato, 1878, p. 127.

3. Carmignani, Teoria delle leggi della sicurezza sociale, tomo III, Pisa, 1832.

4. Enciclopedia Giuridica Italiana, Società Editrice libraria, Milano, 1900, p. 288.

5. F. Giordani, in Il Digesto italiano, volume XX, parte prima, Utet, Torino, 1911-1915, p. 380.

6. "Pro prima culpa non moriatur sed oculum perdat, de secunda nasus eorum scalpelletur, de tertia vero si non emendavarit, moriatur". Traduzione libera dal latino: era previsto che per il primo reato il colpevole non sarebbe stato ucciso ma gli sarebbe stato cavato un occhio; per il secondo avrebbe subito l'amputazione del naso; per il terzo, non essendosi ravveduto, sarebbe stato ucciso.

7. Enciclopedia Giuridica Italiana, cit., p. 289; traduzione libera dal latino: la recidiva è una circostanza aggravante del reato commesso e della pena per chi ha delitto.

8. Enciclopedia Giuridica Italiana, cit., p. 289; traduzione libera dal latino: venivano frustati, privi di vestiti, mentre erano condotti per la città.

9. Archivio Giuridico, Venezia, 1870, p. 484.

10. F. Giordano, op. cit., p. 384.

11. F. Giordano, op. cit., p. 398.

12. F. Giordano, op. cit., p. 400.

13. Ibid.

14. Enciclopedia Giuridica Italiana, cit., p. 299.

15. F. Giordano, op. cit., p. 402.

16. Enciclopedia Giuridica Italiana, cit., p. 300.

17. Vedi nota 41 cap. 1.

18. F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale, Parte generale, Tipografia Giusti, Lucca, 1867, p. 361.

19. Il fine della pena è costituito dall'emendazione degli uomini; traduzione libera.

20. F. Mantovani, Diritto penale, parte generale, Cedam, Padova, 1992, pp. 560-561.

21. E' il male che viene inflitto a causa di una cattiva azione.

22. B. Petrocelli, La funzione della pena, in "Riv. Dir. Penit.", 1935, p. 1315.

23. Poiché si è delitto ed affinché non si delinqua.

24. Cassazione, 29 Novembre 1905; in "Riv. Pen.", LXIV, p. 731.

25. Cassazione, 13 Luglio 1899; in Romano, Legge, 1899, p. 784.

26. In tal senso, G. Vassalli, Codice penale, in Enciclopedia del diritto, volume III, Giuffrè, Milano, 1960, p. 269; in senso contrario F. Grispigni (che ha messo in luce gli aspetti positivistici del codice) in Diritto penale italiano, Giuffrè, Milano, 1952, p. 100 e ss; e U. Spirito, Storia del diritto penale italiano, La nuova Italia, Firenze, 1974, p. 234 e ss.

27. Teorie positivistiche, del socialismo giuridico, del tecnicismo giuridico.

28. Prins, Setti, ancor prima Romagnosi e lo stesso Bentham contro le pene brevi.

29. Tale idea di diritto penale si rifaceva a una sorta di 'dottrina pura del diritto penale', per la quale la sovrapposizione del diritto con altre scienze più marcatamente sociali (a partire dalla sociologia e dalla filosofia del diritto) avrebbe portato alla crisi del diritto penale. Affermava Rocco nella prolusione: "È giunto il momento di tenersi fermi, religiosamente e scrupolosamente attaccati allo studio del diritto positivo vigente. [...] La scienza giuridica va circoscritta ad un sistema di principi di diritto, [...] ad una conoscenza scientifica della disciplina giuridica dei delitti e delle pene. È questo l'indirizzo tecnico-giuridico, il solo indirizzo possibile in una scienza appunto giuridica. Così A. Rocco, Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, riportato da G. Neppi Modona, Legislazione penale, in Il mondo contemporaneo, volume I, tomo II, La nuova Italia, Firenze, 1987, p. 584.

30. Non può esserci reato o pena non previsti dalla legge. Traduzione libera dal latino.

31. F. Mantovani, op. cit., p. 793.

32. E. Florian, Trattato di Diritto Penale, parte generale, Vallardi, Milano, 1934, p. 749.

33. G. Riccio, L'abitualità nel reato, vol. I, Napoli, 1938, p. 313 e ss.

34. V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano secondo il codice del 1930, vol. III, Torino, 1934, p. 425.

35. G. Allegra, Dell'abitualità criminosa, Giuffrè, Milano, 1933, p. 13.

36. F. Grespigni, Trattamento e liberazione dei delinquenti d'abitudine, in "Scuola positivista", 1950, p. 324.

37. F. Mantovani, op. cit., p. 704.

38. G. Fiandaca-E. Musco, Diritto, parte generale, 1988, p. 776.

39. A. Santoro, Sulla contestazione della pericolosità criminale, in "Scuola positivista", 1961, p. 351.

40. Si veda Sezioni Unite, Cassazione penale, 7 Dicembre 1963.

41. Cassazione penale 15 Giugno 1981.

42. C. Lombroso, L'uomo delinquente, vol. I, Torino, 1884, p. 411 ss.

43. E. Ferri, Relazione sulla classificazione dei delinquenti al I congresso internazione di antropologia criminale in Roma, in Atti, Roma, 1886-1887, p. 126.

44. L. de Matteis, in Codice penale, rassegna di giurisprudenza e dottrina, vol. III, Giuffrè, Milano, 2000, p. 125.

45. G. Riccio, voce Abitualità e professionalità, in Nuovissimo Digesto Italiano, volume I, p. 71.

46. P. Paoletti, L'azione normale come base della responsabilità dei criminali, Udine, 1889, p. 125.

47. Cassazione penale, 30 Maggio 1972.

48. G. De Nava, op. cit., p. 243.

49. Così C. Pedrazzi, La nuova facoltatività della recidiva, in Riv. ital. dir. e proc. pen., 1976, p. 305.

50. P. Nuvolone, Commento al D.l. n. 99/1974, in "Indice Penale", 1974, Padova.

51. F. Palazzo, Prevenzione generale ed allarme sociale nella questione dei limiti alle misure alternative, in "Giur. cost.", 1980, I, pp. 1728 ss.

52. F. Mantovani, Diritto penale, 4ª ed., Cedam, Padova, 2001, p. 298.

53. M. Romano- T. Padovani, Commentario sistematico del codice penale, vol. III, Milano, 1994, p. 96.

54. P. Nuvolone, Il sistema del diritto penale, 2º ed., Cedam, Padova, 1982, p. 332.

55. P. Nuvolone, ivi, p. 336.

56. E.M. Ambrosetti, Recidiva e recidivismo, Cedam, Padova, 1997, p. 4.

57. Vedi cap. 7 par. 7.1.1.

58. P. Rossi, Trattato di diritto penale, Regina, Napoli, 1884, p. 252.

59. G.B. Impallomeni, La recidiva secondo il codice penale italiano, in "Rivista penale", XXX, p. 222.

60. P. 619.

61. Vedi nota n. 17 cap. V.

62. A proposito di questa, ebbe a dire il Ferri, con una invidiabile suggestiva chiarezza: "Nel campo giudiziario l'amnistia non è la samaritana; è Penelope che disfa la notte la tela che ha fatto di giorno. Essa obbliga il Magistrato a distruggere con le proprie mani il lavoro quotidiano diretto a proporzionare la pena al melefizio". Mentre "i proclivi al delitto, coloro che anche in carcere tennero una condotta deplorevole, non sentono un freno né nella pietosa diminuzione di pena né nel pericolo futuro di sottostarvi di nuovo". Così riportato da F. Giordani, in op. cit., p. 434.

63. J. Bentham, Théorie des peines et des récompenses. Londra, 1811, p. 78 ss.

64. G.D. Romagnosi, Introduzione allo studio del diritto pubblico universale, Pavia, 1803.

65. Così riportato da F. Giordani, op. cit., p. 434.

66. F. Giordani, ivi, p. 435.

67. F. Giordani, ivi, p. 437.

68. C. Lombroso, L'uomo delinquente. In rapporto all'antropologia, alla giurisprudenza ed alla psichiatria, Torino, 1876 pp. 474-475.

69. E. Florian-G. Cavaglieri, I Vagabondi. Studio sociologico-giuridico, Bocca, 1897-1900, p. 8.