ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 7
Della legittimazione della recidiva e delle sue cause

Guido Tozzi Pevere, 2007

7.1.1 Le posizioni abolizioniste

La recidiva, in quanto comportante, in maniera automatica o facoltativa a seconda dei momenti storici, un inasprimento della sanzione penale a carico del reo, ha da sempre suscitato reazioni dottrinali divergenti, come abbiamo appena anticipato nelle frasi introduttive del secondo capitolo. Così, certa dottrina si è orientata nel riconoscere una forte iniquità all'istituto della recidiva. Se questa è oggi (pur con le oscillazioni che abbiamo visto) riconosciuta quale circostanza aggravante del reato, si pure è sostenuto che in realtà essa debba essere inquadrata quale circostanza attenuante. Ciò, con Tissot e Bourdon, perché il recidivo sarebbe da considerare meno colpevole del delinquente primario, a causa della maggiore 'disinvoltura' con la quale infrange la legge, dovuta ad una certa abitudine a delinquere.

Sulla loro scia l'Orano, secondo il quale l'aumento di pena a seguito di dichiarazione di recidiva sarebbe contrario a ragione, poiché causa di questa sarebbero "lo stato sociale, o le condizioni fisiche del delinquente, o le alienazioni mentali, o il cattivo stato delle carceri" (1).

Lo 'zoccolo duro', tuttavia, del pensiero abolizionista in senso proprio venne con Carnet, Alauzet, Gesterding, Merkel, Mittermajer e con, gli italiani, Carmignani, Orano, Giuliani, Pagano e Corvi. Questi, sintetizzando le varie posizioni, ritengono che la recidiva verrebbe a violare il brocardo penalistico del ne bis in idem, in quanto si terrebbe conto, per la determinazione della pena, di un precedente reato già giudicato. Così, la stessa fattispecie, per la quale è già intervenuta condanna, emergerebbe quale elemento di giudizio per il nuovo reato, comportando, in effetti, una doppia statuizione sul primo fatto di reato. Esplicativa è in proposito una frase del Pagano: "[...] per quel delitto, per cui siasi una volta sofferta la pena, molestar non si può di nuovo il cittadino" (2), anche se tale autore sembra, in successivi scritti (3), assumere posizioni più intransigenti verso chi delinque.

Il condannato, che ha già pagato il suo debito con la legge e con la società, verrebbe, quindi, nuovamente giudicato per la stessa violazione, creando - altresì - una cesura nel principio retributivo, che richiede una proporzione fra il singolo reato che si va a giudicare e la pena da infliggere. Così il Buccellati: "nella realtà il primo fatto punito non è più ed il secondo non può farlo rivivere come circostanza aggravante. Non trovo dunque ragione perché un codice abbia a tenere speciale calcolo della recidiva" (4). Il (ri)prendere in considerazione un reato precedente vorrebbe dire, anche, sconfinare dal piano giuridico a quello morale, valutando l'animus del delinquente e punendolo non per ciò che ha fatto (già oggetto di precedente sentenza) ma per ciò che potrebbe, nuovamente, fare. Di nuovo il Buccellati (5) vede nella recidiva un fenomeno da studiare in altra sede, morale o politica, soprattutto indagando nelle sue cause dirette.

Per citare un'altra posizione che si pone in questo ambito teorico, secondo il Carmignani ritenere il recidivo incorreggibile, portato a ripetere azioni delittuose seppure, magari, di scarso disvalore sociale, porterebbe l'ordinamento a reagire con punizioni sempre più gravi; tali che potessero essere 'sentite' anche da chi ritenuto particolarmente restio ad esser corretto. Una tale posizione non può che riportarci a quanto già visto con l'evoluzione storica dell'istituto, quando un furto era punito - ad esempio - prima con la fustigazione, poi con amputazioni man mano più gravi, quindi con la morte. Seguendo tale autore, il Giuliani ebbe a pronunciare una significativa parafrasi: "la massima di punir con maggior rigore il recidivo può paragonarsi ad una legge che, prescrivendo la fustigazione, ordinasse d'applicare un maggior numero di colpi quando il reo sia una persona robusta" (6).

Un'ultima criticità che può essere, effettivamente, riscontrata nell'impiego della recidiva è rapportabile all'errore giudiziario o, comunque, ad una prima pena iniqua. Il fare riferimento, in un successivo processo, a questa prima condanna porterebbe la nuova a basarsi (anche) su un errore, una stortura, una sentenza che già, una volta, non doveva essere emessa o non doveva esserlo in quei termini e quella misura. Ciò vorrebbe dire far rivivere nuovamente un qualcosa che, già una volta, si sarebbe dovuto evitare; costituendo una sorta di 'aggravante', a nostro avviso, della violazione del principio del ne bis in idem. A tale posizione, tuttavia, si potrebbe rispondere con l'inopportunità di basare una critica ad un istituto di diritto positivo, su un momento patologico di un altro (l'errore giudiziario), piuttosto che sul funzionamento normale del sistema (7).

7.1.2 Una 'critica alla critica' abolizionìista

L'approccio al quale abbiamo, senza alcuna pretesa di completezza, accennato mostra un limite di partenza: il considerare esclusivamente il nesso eziologico fra il fatto di reato e la commisurazione della pena, senza tenere in alcun conto l'elemento soggettivo relativo alla personalità del reo ed il link in essere fra questi ed il reato. Causa di tale limite è, secondo il Grispigni (8), il rifiuto di questi autori abolizionisti (per la maggior parte di scuola classica) di accettare l'esistenza di un rapporto fra delitto e personalità di chi lo compie. Per loro ogni uomo è libero di scegliere nella summa divisio tra il bene e il male e, una volta scelto per il male, ha gli stessi identici freni inibitori di ogni altro, così come avverte la stessa funzione deterrente della sanzione penale; ciò stante, sarebbe del tutto inutile indagare sulle motivazioni psicologiche o ambientali, per limitare la sfera di indagine al reato compiuto.

In effetti la posizione abolizionista (la quale, a nostro avviso, è ancora forte della sua suggestione e destinata a riemergere, anche ampliata, quale risposta alle problematiche di stigmatizzazione che gli istituti come la recidiva comportano), è stata superata in dottrina, proprio grazie all'importanza che si è riconosciuta all'elemento personalistico del soggetto agente. Il reato rimanda a chi lo ha compiuto, per cui si deve incentrare l'attenzione anche su questo; non solo, ché si cadrebbe nell'errore opposto, ma certamente anche sulla persona e sulle sua caratteristiche individuali, circostanziate rispetto al fatto di reato.

Così, pertinentemente, il Gallo:

Se il reato è un comportamento umano; se nel soggetto si compendiano le note personali rilevanti per l'ordinamento, è chiaro che fra l'uno e l'altro non può non intercorrere una relazione di interdipendenza che ne condiziona reciprocamente le caratteristiche strutturali (9).

Con l'eco del Coppi, per il quale, per avere una pena giusta, è necessaria una personalizzazione della responsabilità penale; intesa come "valutazione del fatto [...] perché riferibile ad un uomo, ma giudizio sull'uomo autore del fatto o, se vogliamo, sul fatto in quanto in esso si misura l'uomo che ne è responsabile" (10). In ordine alla pretesa violazione del principio retributivo, sostenuta dagli abolizionisti, è poi possibile rispondere con il Dell'Andro: per il quale è coerente con tale principio, se non vera ottimizzazione dello stesso, il guardare non al fatto in sé, avulso dal suo autore, ma al reato che si concretizza nella "spiritualità inconfondibile" (11) di quest'ultimo. Con queste posizioni la personalità del reo è entrata a far parte dell'ordinamento giuridico, resettando le concezioni proprie di un esasperato ed esasperante purismo retributivo che si frapporrebbe, quale granitico ostacolo, alle graduazione in concreto della pena.

Proprio per permettere tale commisurazione del quantum di pena al singolo soggetto, anche il Carrara contrastò le tesi abolizioniste, scagliandosi soprattutto contro la asserita violazione del ne bis in idem. Il dotto giurista ritenne, infatti, che la precedente condanna non emergesse per esplicare nuovi effetti sul reo, bensì quale indicatore della non sufficienza di quella determinata pena a costituire deterrente; così il recidivo sarebbe stato condannato ad un quid pluris, semplicemente per la sua osticità a subire condizionamenti dalla minaccia della sanzione ordinaria. Né più né meno come avrebbe fatto un medico coscienzioso aumentando la dose di un farmaco, risultato non sufficiente a debellare una malattia, così verrebbe a fare il Giudice, dato che "aumentare [...] la medesima pena diviene in tal caso futile; perché la presunzione di sufficienza relativa della forza oggettiva di quella penalità è contraddetta dal fatto" (12).

7.2 Una responsabilità collettiva

Come già, talvolta surrettiziamente, insinuato nelle pagine di questo lavoro, l'istituto della recidiva - ma, con una certa deriva redicale, la stessa cosa si potrebbe dire dell'intero sistema carcerario o, addirittura, di quello penale - porterebbe in sé recondita una ipocrisia di fondo. Quella di prevedere un acuirsi della pena per quei soggetti, a loro volta individuati grazie ai servigi del Casellario, che ricadono nel reato proprio col colpevole aiuto della società stessa. Si potrebbe pertanto, parlare di una sorta di 'responsabilità collettiva' di atti che, per loro stessa natura, implicano per antonomasia il concetto di 'responsabilità individuale'. Facendo attenzione di non cadere nello, spesso abusato, ambito del determinismo.

Il delinquente, ancor più spesso il recidivo, l'abituale, il professionale, è di norma - davvero, oggi come ieri - esponente di un sottobosco urbano e sociale di degrado ed emarginazione: il povero, inteso in senso reddituale ma anche, quando non soprattutto, sotto il profilo educativo o affettivo-relazionale; il tossicodipendente; l'esponente di sub-culture metropolitane (si pensi ai fenomeni delle gang giovanili statunitensi); l'extracomunitario immigrato irregolare; il nomade-ladro-per-cultura, se ci è concesso di cadere nello stereotipo; il membro, per retaggio o eredità familiare, di fenomeni associativi criminali; chi ha percorso tutte le tappe dell'abbandono e della emarginazione (istituti per minori, interruzione della scolarizzazione, I.p.m). Abbiamo riportato solo alcuni degli innumerevoli esempi che potremmo fare, per evidenziare uno stretto collegamento, ancor prima empirico che speculativo, fra condizioni personali (ma anche familiari e di prossima 'società') e compimento di azioni delittuose. Col corollario, immancabile in uno stato di diritto, del percorso punitivo e carcerario.

Abbiamo visto che spesso il carcere diventa 'università del crimine', con la, deplorevole, (dis)funzione non di emendare e correggere ma di instradare, definitivamente, su percorsi di devianza e criminalità. E' esperienza comune che solo alcune categorie di cittadini possano godere delle misure alternative alla detenzione: dagli arresti domiciliari all'affidamento al servizio sociale, passando per la messa alla prova dei minori. Ciò è possibile, dovendo nostro malgrado riconoscere allo stato dei fatti una certa inevitabilità di questa situazione, per chi ha un domicilio, una famiglia, un quid che lo possa sostenere e controllare in una fase di probation o di attesa di giudizio. Conseguentemente vi sono molti soggetti, si pensi a minori extracomunitari sine familia, per i quali non risulta percorribile la via della alternatività alle misure detentive e che si trovano in carcere per reati bagatellari o poco più, spesso anche in attesa di giudizio. Inoltre una certa legislazione penale, soprattutto in tema di sostanze stupefacenti, altro non fa che incarcerare quotidianamente soggetti per i quali si potrebbero (diremmo meglio: dovrebbero) individuare soluzioni ben diverse. A contatto con detenuti definitivi, vivendo nelle condizioni carcerarie che questa società riesce ad offrire, è più che verosimile questa popolazione di reclusi impari l'arte del delinquere ed amplifichi quel sentimento di odio ed avversione verso quella stessa società che li ha condannati e rinchiusi.

Tale effetto è, poi, potenziato in modo esponenziale dalla mancanza nelle nostre carceri di spazi vitali degni di questo nome; di ambienti in cui si possibile svolgere attività fisiche, lavorative, didattiche o solo ludiche; di condizioni di 'rispetto' per la persona che vi è ospitata.

Come se ciò non bastasse, quando il reo ha scontato la sua condanna e fuoriesce dal sistema carcerario, non ha molte probabilità di non farvi ritorno. Anche a causa di quei meccanismi legati al Casellario giudiziale, dei quali abbiamo dato conto, sarà difficile per l'ex recluso trovare un'occupazione o riconquistare quella reputazione che la società gli ha tolto assieme alla libertà, al momento della condanna. E', così, frequente che si torni a delinquere, ad essere processati e si torni di nuovo in carcere. Stavolta da recidivi, con le implicazioni che ciò comporta, sia in termini di aumento della pena che di inaccessibilità a misure premiali o alternative. L'esito di un percorso del genere non può che essere di tipo circolare, o a spirale, senza grandi possibilità di uscita.

Quanto mai attuale un testo degli anni '70 del secolo scorso, attribuito a Deleuze e Defert:

Le prigioni sono popolate in maggioranza da giovani, 'piccoli delinquenti', con o senza lavoro, disoccupati, emarginati di ogni sorta. [...] Attraverso un sistema molto preciso di polizia, di Casellario, di controllo, che sottrae loro ogni possibilità di sfuggire alle conseguenze di una prima condanna, questi giovani sono spinti a ritornare in prigione molto velocemente dopo esserne usciti. Le loro condanne si susseguono, applicandogli l'etichetta di 'irrecuperabili' (13).

Si può ribattere individuando la sede politica quale quella deputata a trovare correttivi, così come osservando che vi sono strumenti che consentono al Giudice di tener conto di tutte le circostanze che abbiamo sopra esemplificato: dalla possibilità di graduare la pena fra un minimo ed un massimo (ex art. 133 comma 2 c.p.); a quella di tener conto di attenuanti generiche (ex art. 62-bis c.p. con le restrizioni, tuttavia, operate dalla novella del 2005) o di procedere a bilanciamento (ex art 69 c.p.); alla regimentazione della stessa recidiva come strumento, almeno tendenzialmente, facoltativo.

Ma la triste realtà delle con-cause della recidiva rimane, con la sua eco di ore vuote, schioccare metallico di metallici portoni, sprazzi di cielo dietro a inferriate, mura, reticolati. Senza possibilità apparente di via di uscita, almeno definitiva.

7.3.1 Un'introduzione alle conclusioni

Crediamo che, una volta ricostruito il Casellario giudiziale, sia sotto il profilo storico che sotto quello funzionale, non ci si possa esimere dal cercare di 'valutarlo', come già abbiamo iniziato a fare: nella sua valenza utilitaristica ed etica, ancor prima che quale riflesso della corrispondente ed atavica dialettica, tra le opposte istanze della difesa sociale e del garantismo individuale.

La nostra società - intendendo, con un approccio marcatamente e limitativamente eurocentrico transatlantico, quella europea del terzo millennio - si sostiene (14) non appartenga più alle società 'disciplinari', incentrate sull'internamento panottico, preconizzate da Bentham e Foucault; ma a quelle, solo apparentemente più liberali e possibiliste, del 'controllo'. Controllo che, complice lo stato d'avanzamento delle tecnologie, può spaziare e correre libero da vincoli e freni in ogni anfratto della nostra quotidiana esistenza, in una sorta di benthamiano super panopticon, appena evaso dagli angusti confini dettati dalle mura e dalle sbarre delle carceri.

E' luogo comune, ma quanto mai veritiero, come la nostra vita sia costantemente monitorizzata e schedata, come fosse un grande, implosivo, 'cartellino' da inserire in una sorta di 'meta-Casellario'. Video-sorveglianza in centinaia di luoghi pubblici o aperti al pubblico; photo-red agli incroci; sistemi di rilevazione della velocità; telepass; accesso condizionato ai centri storici con tele-lettura delle targhe; circuiti delle carte di credito e dei bancomat; gps; telefoni cellulari che localizzano il terminale anche da spenti; badge negli uffici; carte di fidelizzazione nei negozi; e, arrivando ai microchip sottopelle, decine di altri sistemi informatici ed iper tecnologici che, spesso con nostra soddisfazione e senso di appagata sicurezza, tracciano le nostre giornate, i nostri spostamenti, i nostri gusti e le nostre abitudini. Controllandoci.

Come non tornare, ad anni di distanza, alle parole del Bonneville De Marsangy che, nel Traité des diverses institutions complémentaires du système pénitencier (15), parlava di "vigilanza muta, misteriosa, inavvertita [...] l'occhio del governo incessantemente aperto a vegliare indistintamente su tutti i cittadini"?

7.3.2 Il Controllo

Per Deleuze i controlli "sono una modulazione, qualcosa come un calco autodeformante che cambia continuamente, da un istante all'altro [...], stati metastabili e coesistenti di una stessa modulazione, di uno stesso deformatore universale" (16). Sono, quindi, qualcosa di ampio, mutante, strisciante. Un meccanismo complesso che va ad invadere sia le esistenze 'libere', così come e maggiormente quelle 'istituzionalizzate', prime fra le quali quelle di chi delinque, è recluso, è già stato condannato.

Così il (video) controllo del territorio diventa vera e propria biopolitica e primaria sua autoreferenziale giustificazione e ragione d'essere: contribuisce a fare avvertire come necessari i controlli stessi, facendo prevedere e sospettare che in un dato luogo sottoposto a sorveglianza debba necessariamente essere compiuto un crimine. Pretende di operare su un piano 'preventivo' rispetto all'insorgere del pericolo, registrando e guardando con sospetto il 'nemico interno' (da lui stesso creato) in quanto soggetto pericoloso. Raggiunge, in tal modo, il suo scopo e costringe i cittadini, i controllati, ad essere suoi complici: chi non ha nulla da nascondere accetta di buon grado il controllo, giunge ad invocarlo, cadendo nella trappola della moralizzazione che, per dirla con Nietzsche, vede il senso di colpa come fattore predisponente dell'acquiescenza al dominio.

Si può - quindi - sostenere, si parli di autovelox o di Casellario giudiziale, che si tratti di elementi diversificati della stessa species: mirante, quale nuovo esponenziale orwelliano 'grande occhio', ad esercitare un ampio controllo sociale su ognuno di noi. Questa è la funzione (a)morale che possiamo individuare nel Casellario: mettere in guardia il cittadino sui molteplici effetti che un suo, eventuale, reato potrebbe avere sulla sua esistenza; funzionando, al contempo, come co-deterrente a tutela della compagine sociale e come strumento costrittivo a danno del singolo.

Il che non può non essere valutato, su un piano speculativo, che sotto due diversi aspetti: la difesa dell'io dall'ingerenza, autoritaria e deformante, dell'io-collettivo dello Stato; l'istanza, altrettanto difensiva, di tutela di un altro io collettivo, quello sociale, dall'io che delinque.

7.3.3 Il controllo e la difesa sociale

Una suggestiva definizione del controllo ci viene, di nuovo, da Deleuze per il quale sarebbe "a breve termine e a rapida rotazione, ma anche continuo e illimitato" (17). Un tale tipo di controllo è funzionale a difendere il corpo sociale dello stato, i cittadini, da ciò che di antisociale, anaschematico, 'deviante' esiste, viene avvertito per esistente, si induce a credere esista.

L'inclusione escludente dell'altro da sé nei tipi del folle, del criminale, del malato, del deviante sessuale, costruito in quanto altro da emarginare per immunizzarci dal terrore di ritrovarcelo specchiato nell'altro di sé, rappresenta una strategia fantasmatica che utilizza l'effetto di autodisciplinamento forzato delle pratiche istituzionali di divisione [...]. (18)

Con l'eco, recentissima e pertinente, del Pavarini che chiosa:

Nella presente contingenza storica, l'aumento della criminalità, il diffondersi dell'insicurezza sociale, le pratiche di esclusione imposte dal mercato, i nuovi processi di mobilità determinati dalla globalizzazione, la riduzione dello stato sociale ecc. sono solo gli elementi attraverso i quali [...] si costruisce, si impone e alla fine si diffonde universalmente una nuova filosofia morale, un determinato punto di vista sul bene e sul male, sul lecito e sull'illecito, sul meritevole di inclusione o di esclusione (19).

E' questo il terreno sul quale dobbiamo ancorare la prima riflessione sulla giustificabilità dell'essere e dell'esistere del Casellario, instrumentum regni al pari di tanti altri meccanismi di ingegneria politica e giuridica che ci guidano e ci 'tutelano'.

Perché di questo, in fondo, sarebbe il caso di parlare. Di persone che, come l'interdetto o il minore, necessitano di varie forme di 'tutela': della incolumità fisica così come dal raggiro, della libertà di contrarre fino alla stessa possibilità di pensare (che la si vuole non libera e vacua da assiomatici pre-giudizi e immanenti schemi pre-concettuali). Intendiamo dire che le forme dell'odierno controllo rischiano di spingersi 'oltre' (tout court, senza dovere immaginare un 'oltre' spazialmente determinato), fino a sentirsi in dovere - quale mission istituzionale - di abbracciare ogni momento delle nostre esistenze, altrimenti messe di continuo in pericolo dalla massa degli 'altri'. E noi, i singoli sé al contempo oggetto e soggetto dei vari controlli, ci sentiamo protetti e cullati dal complesso meccanismo del Controllo medesimo. In un'ottica del genere, la società è 'costretta' a sentirsi in costante pericolo, oggetto come è di terroristiche campagne mediatiche, ed è spinta ad acclamare forme di controllo che le possano garantire 'difesa sociale'. Mentre, per dirla con Foucault "l'essere sottoposti a scrutinio permanente [...] costituisce una formidabile arma di intimidazione". (20)

7.4.1 Senza scelta

Rebus sic stantibus, assurgono ad ineluttabile necessarietà i mille strumenti di monitoraggio che segnano i nostri percorsi quotidiani, al pari dei percorsi delle nostre menti. In un tripudio di stimoli che ci portano a sentirci in scacco, non liberi, non sicuri. Così (a detta di chi scrive) la pena, il carcere, l'internamento assurgono a nuova luce anche nella società del controllo: arrivando a costituire - in un liberticida continuum autoleggittimante - il suo completamento nella direzione, davvero fantasmatica, di moderna eliminazione del diverso e dell'antagonista.

Cambia, conseguentemente, la stessa idea della pena che smorza i suoi connotati di "cura dell'anima" per abbracciare la funzione di "riduzione preventiva del rischio che incrinerebbe la salvezza non tanto del singolo detenuto, quanto del corpo sociale" (21). Mentre "la rieducazione si è ridotta [...] ad un intervento finalizzato principalmente a inculcare l'autocontrollo, ridurre il pericolo e incrementare la sicurezza pubblica". (22)

Così il Casellario giudiziale diventa strumento indispensabile. Ci guida nel sapere chi siamo noi e l'altro; ci aiuta nel ben capire chi è la nostra controparte nei rapporti sociali e giuridici quotidiani; ci illumina nello stesso pensare agli 'altri', magari in massive classificazioni e mistificatorie partizioni per puri preconcetti (gli stranieri, i nomadi, i 'ladri').

Dando un nome e un cognome a quelle che potrebbero sembrare mere speculazioni teoriche, il Casellario - come sappiamo - guida il Giudice e l'avvocato nel raffrontarsi all'imputato; consiglia la Pubblica amministrazione o il gestore di un pubblico servizio se avvalersi o meno di un aspirante appaltatore; ci induce a non siglare un contratto; fa da dantesco Virgilio a gangli e sinapsi quando si tratta di considerare singoli, gruppi sociali, 'altri e diversi'. Tutto sulla base di una scheda, un cartellino, un elenco di buoni e cattivi. Un precedente, una 'fedina'. Dalla quale, appare chiaro, vengono a dipendere condanne, contratti, appalti, pensieri.

Ciò non è evitabile. Se accettiamo il paradigma della odierna società, minacciata e messa in forse nelle sua stessa esistenza dalle 'orde' di alteres rispetto a sé stessa, a seguito di un processo di auto-convincimento etero-indotto, non possiamo sperare nella eliminazione del 'mostro'; che tale non sarebbe, vigendo tale ipotesi, ma un salvifico angelo capace di mostrarci la retta via e di proteggerci.

7.4.2 Quale inevitabilità giuridica

Affrontando lo stesso discorso sul piano meramente legislativo, più che filosofico, il Codice penale presuppone l'esistenza del Casellario in molti dei suoi istituti e delle sue prescrizioni, prima fra le quali la recidiva. Su di essa si costruiscono condanne e si demoliscono esistenze di chi le subisce, graduando le pene a seconda che a delinquere sia un reo primario o chi al delitto risulti avvezzo. Il Codice penale, tuttavia, è una legge. E' frutto dell'attività legislativa di un dato periodo storico, e specchio del sentire e del pensare degli io-legislatori, di uomini che vivono nella stessa società che sono chiamati a normare. Non è verità assoluta, dipendendo da valutazioni etiche o politiche del momento, e può essere modificato. Ma non può esserlo, in modo radicale ed opposto a quello che oggi prevede, se si continua a 'sentire' attuale l'esigenza di tracciare, per ragioni di difesa sociale, l'esistenza 'giuridica' dei cittadini. Anche approcciando il problema sotto il profilo normativo, quindi, non si raggiungono risultati diversi dalla ineluttabilità dell'istituto del Casellario giudiziale, così come di altri meccanismi di controllo, a meno che non si metta in forse la stessa tesi dalla quale abbiamo preso le mosse.

7.4.3 Il Casellario 'necessario'

Pertanto non crediamo, giusto quanto abbiamo visto, sia possibile - senza addentrarci ancora in circolari riflessioni sulla nostra società - negare l'ineluttabilità di un istituto come quello del quale ci stiamo occupando.

Se non prescindiamo dal, seppur discutibile, bisogno di tutti noi di essere 'messi in guardia' dal deviante; se ci poniamo dal punto di vista dei 'buoni' che temono per la loro incolumità, ecco che sembra anacronistico rinunciare ad un archivio che ci dica dei precedenti giudiziari dei nostri con-cittadini. In effetti concretissime e razionali motivazioni possono essere addotte a che Pubblica amministrazione, servizi pubblici, difensori e singoli conoscano i precedenti giudiziari di altri soggetti. Anche se tutto ciò è suscettibile, come vedremo, di un opposto inquadramento.

Fuori da qualunque ragionevole dubbio risulta, poi e a nostro avviso, la constatazione che ragioni di equità nell'applicazione della pena spingano a graduare le condanne, a seconda di svariati fattori. Fra i quali, legge e ragione vogliono vedervi la reiterazione o meno di atti delittuosi. Se ciò è corretto, anche sotto questo profilo non possiamo fare a meno di disporre, da qualche parte, di una 'scatola nera' nella quale custodire le informazioni sui precedenti penali di ognuno di noi. Tale contenitore, male necessario se proprio vogliamo, deve poter essere utilizzato da chi applica il diritto al caso concreto, stabilendo la pena che il reo deve scontare. Senza possibilità di metterne in forse l'esistenza, a meno di non volere applicare, in maniera odiosa e meccanica, la stessa condanna a chi ha - per la prima volta in vita sua - commesso un delitto non colposo e a chi, per esempio, vive abitualmente dei proventi di attività illecite.

Ciò, al di là delle norme del diritto positivo, si può sostenere risponda ad immanenti istanze giusnaturalistiche, dettate da quel senso di giustizia che richiede e giustifica il concetto stesso di 'pena'; prima ancora che richiederne un'applicazione umana e commisurata a peculiarità del reo e della colpa commessa. Con un avvertimento: che non crediamo nello scopo 'intimidatorio' della pena quale deus ex machina capace di deflazionare il numero di reati dei nostri giorni. Ché, se così fosse, quegli stati in cui vige la pena di morte o pene molto severe vedrebbero un minor numero di reati di altri; eventualità che, invece, gli Stati uniti d'America sono i primi a dimostrate come lontana dalla veridicità. Quindi necessarietà degli aumenti di pena previsti dalla recidiva, al riconoscimento della quale il Casellario è preordinato, con una inevitabile riviviscenza di quelle teorie retributive della pena, talvolta troppo enfaticamente considerate sorpassate.

7.5 Controllo e garantismo

Le considerazioni che abbiamo fatto sopra sono suscettibili - tuttavia - di analisi e di inquadramento anche sotto un, diversissimo, profilo speculativo. Il controllo - necessitato dall'immagine che il cives ha della civitas in cui vive, auto-proclamatosi panacea ai mali sicuritari dell'oggi e, in effetti, funzionale per l'applicazione della pena - ha un rovescio della medaglia. Non può non scontrarsi con il diritto del cittadino alla privacy e con il suo interesse a che sia tutelato il suo buon nome e la sua rispettabilità. Oltre che con il diritto del condannato, una volta 'pagato' il suo debito, di essere cittadino inter pares, capace di trovare un'occupazione e di non essere spinto a delinquere di nuovo.

Per non dilatare, inopportunamente, il nostro campo d'indagine è necessario circoscrivere - anche in questo caso - la nostra attenzione al Casellario ed alla sue più immediate implicazioni, prima fra le quali la recidiva La domanda dalla quale è opportuno partire è, pertanto, se sia davvero indispensabile che i nostri 'misfatti', siano essi un fallimento o una condanna penale, siano custoditi dallo stato e a disposizione di chi, secondo le leggi vigenti, abbia diritto di accedervi.

7.6.1 Giudizio e pre-giudizio: una possibile via di uscita

Per prendere le mosse dalla parte più spinosa, quella che prima facie ci ha già portati a vedere il Casellario come male inevitabile, è opportuno riflettere sulla reale opportunità che il Giudice, nell'applicare la pena ed ancor prima nell'indagare sulla colpevolezza dell'imputato, ne conosca i precedenti penali. Ponendoci, ovviamente, su un piano de jure condendo, il legittimo dubbio di chi scrive concerne la possibilità che l'organo giudicante sia fuorviato o influenzato da quanto appreso. Il periculum consta nell'eventualità che si abbia un giudizio ex ante, quale vero artefice del giudizio finale.

Di certo si deve riconoscere, per quelle ragioni di intima equità prima richiamate, che non può avere lo stesso disvalore il delitto commesso da soggetto incensurato e quello da recidivo plurimo. Ma è pur vero, e dal punto di vista psicologico di chi giudica anche molto 'normale', che il Giudice sarà più facilmente portato - a parità di indizi di colpevolezza - a riconoscere per reo chi già ha commesso reati, magari della stessa specie, rispetto a chi fino a quel giorno è rimasto sconosciuto alla macchina della giustizia criminale. Il che, volendo spingere il ragionamento all'estremo, potrebbe semplicemente voler dire che quest'ultimo è stato più abile nel celare i suoi crimini agli inquirenti. In effetti riconoscere in capo al Giudice, come oggi accade, la doverosa conoscenza dei precedenti dell'imputato (ex art. 431 c.p.p.) potrebbe venire a scardinare il principio, logico ancor prima che giuridico, che il magistrato giudicante debba essere 'terzo'; anche in un nuovo, panico, senso: andando scevro da condizionamenti o convinzioni che si sia formato antecedentemente al momentum, esatto e micro-puntiforme, del giudizio vero e proprio.

D'altronde abbiamo riconosciuto l'intima corrispondenza della recidiva a ragione e a Giustizia, motivo per cui non si può - sempliciter - concludere per l'eliminazione del Casellario, in modo tale da impedire al Giudice di conoscere dei precedenti dell'imputato, sia nella fase cognitiva-istruttoria del processo, che in quella di applicazione della pena.

Soluzione mediana - almeno sul piano teorico - potrebbe essere quella di inibire al Magistrato l'accesso ai dati del Casellario fino alla decisione sulla colpevolezza o meno dell'imputato; per contro il Giudice dovrebbe, successivamente, poter conoscere di tali dati al fine della corretta commisurazione della pena, giuste le norme sulla recidiva che, neppure da un'ottica più radicale se non abolizionista, ci sentiamo di screditare, almeno nella loro sostanza.

7.6.2 Altri casi

Gli altri casi in cui è possibile, per soggetti diversi dagli esercenti la funzione giurisdizionale, acquisire i certificati del Casellario giudiziale possono - tutti - trovare una adeguata giustificazione sul piano pratico. Il che, tuttavia, niente aggiunge alla loro scarsa giustificabilità sul piano concettuale o, ancora prima, di etica giuridica. Ad esempio può certamente sembrare corretto che un Comune, che si accinge ad assumere il vincitore di un concorso, verifichi la corrispondenza a verità della dichiarazione sostitutiva presentata dall'interessato, volta ad attestare come non abbia riportato condanne penali che determinino la non ammissione all'impiego pubblico. Il fulcro della nostra indagine potrebbe, quindi, essere spostato sulla equità di tale previsione che stigmatizza, impedendogli di vedere perfezionata la procedura di assunzione, chi dopo aver vinto un concorso, risulti avere riportato determinati precedenti penali. Lo stesso discorso potrebbe essere fatto - ad esempio - per l'incapacità di contrattare con la Pubblica Amministrazione (ex art. 32 quater c.p.) o per la sanzione accessoria della interdizione dai pubblici uffici (ex art. 317-bis c.p.).

Come è facile intuire, però, ciò vorrebbe dire entrare nel merito di una o cento previsioni normative del nostro ordinamento giuridico, spostando il problema della tutela dell'io contro lo strapotere della collettività organizzata e 'giudicante'. Il Casellario non dovrebbe più essere visto coma 'causa' della violazione del diritto alla tutela del proprio buon nome, ma come 'effetto' esso stesso, dovendo rinvenire la causa primigenia del 'male' nell'impianto normativo del quale il Casellario è parte e strumento.

7.7.1 L'effetto stigmatizzante

Per capire questo 'male' è opportuno rifarsi alla formidabile azione stigmatizzante che il precedente penale esercita nei confronti del soggetto che lo ha subito. Senza andare a disturbare Goffman (23), questa assiomatica verità deve farci da guida nel mentre riflettiamo sulla 'eticità' del Casellario, oscillando tra posizioni fra loro inconciliabili. E' fuori di dubbio che un ex detenuto abbia difficoltà a trovare lavoro, abbia un'autostima profondamente influenzata dal suo trascorso carcerario, si trovi - dal punto di vista del carcere come università del crimine - in un certo qual modo già instradato sulla via della recidiva.

Salvo Vaccaro, a proposito dell'istituzione carceraria, chiosa:

Meccanismo del tutto singolare di eliminazione circolare: la società elimina, spedendole in prigione, delle persone che la prigione spezza, schiaccia, elimina fisicamente: una volta che queste persone sono state spezzate, la prigione le elimina liberandole, rimandandole nella società; qui la loro vita in prigione, il trattamento che hanno subito, lo stato in cui ne sono usciti, tutto concorre a far si che immancabilmente la società le elimini di nuovo, rispedendole in prigione, la quale etc... Attica (24) è una macchina per eliminare, una specie di enorme stomaco, un rene che consuma, distrugge, macina, e poi rigetta (25).

Non sta a noi indagare, in questa sede, sul fitto reticolo di responsabilità che gravano, da questo punto di vista, sul nostro sistema penitenziario ed alle quali abbiamo già fatto cenno: fallimento del concetto stesso di 'trattamento' e di 'ri-socializzazione', sovra-popolazione carceraria, mancanza di 'paracadute sociali' post liberationem e via dicendo. Di certo, però, la via verso la recidiva si apre anche grazie alla diffusione di quelle notizie che sono custodite nel Casellario e che costituiscono, esse stesse, il substrato della recidiva.

Mettendo da parte ipocrisie e menzogne, chi di noi assumerebbe un 'ladro' nella propria azienda? Possiamo interrogarci su chi possa essere considerato a ragione 'ladro' e definirlo, magari, come chi ha rubato ed è stato per questo condannato. A ben riflettere, tuttavia, questa è una ricostruzione di bassissimo profilo morale, di quelle che aumentano pregiudizi e luoghi comuni. Chi ha scontato la sua condanna per un furto non può, oggi, essere considerato 'ladro'. Poteva esserlo fino al compimento dell'ultimo attimo dell'esecuzione della sua pena; non dopo. E', quindi, definibile in mille altri modi, come ognuno di noi, ma senza necessariamente dover fare riferimento al suo precedente.

Il Casellario - necessario e necessitato per quanto abbiamo precedentemente visto - è, pure, lo strumento che dilata, ultra dimidium, questa essenza di essere stato 'ladro' di quel soggetto, marchiandolo con il bollo, non più fisico, a fuoco, ma informatizzato, dell'ignominia. Che fuoriesce, quale miasmo ammorbante di quanto di per sé già morbo, dalle chiusure non ermetiche degli archivi, raggiungendo la società civile che, terrorizzata dal suo nemico interno, reagisce escludendolo. Dunque recidiva come causa della recidiva, con il complice supporto d'archivio del Casellario.

7.7.2 Alcuni esempi da Stati Uniti d'America e Francia

Per comprendere la forza, micidiale, dello stigma possiamo citare alcuni esempi, caratterizzati da una notevole potenza espressiva. Attenta dottrina (Sarzana e Shattuck) narra di due, grottesche, vicende accadute a due cittadini americani a causa della circolazione di notizie improprie o inesatte sul loro conto.

Il primo, uno studente nero, certo Terry Dean Rogan, aveva perduto il portafogli e, con esso, la patente di guida, il documento di identità e la carta di credito. Tali documenti furono utilizzati, per mascherare la sua identità, da un criminale in seguito ricercato per due omicidi e altri gravi reati. I suoi dati, risultanti dai documenti di Rogan, entrarono nel circuito degli schedari informatici di polizia locale e federale e, a causa di tale fatto, Rogan fu arrestato e poi rilasciato dopo cinque giorni di detenzione, una volta che fu appurato lo scambio di persona. Ciononostante i dati non furono corretti e il giovane dovette subire ancora quattro arresti.

La seconda vicenda riguarda il caso di un newyorkese al quale fu rifiutato un posto di lavoro, poiché un 'rapporto di credito' computerizzato mostrava che, all'età di tredici anni, era stato ospitato in un istituto di sanità mentale. I dati, tuttavia, non specificavano che il soggetto era orfano e che, all'epoca, non vi erano altre strutture che lo potevano accogliere per un lungo periodo.

A ben guardare il secondo aneddoto dice e prova anche di più di quanto non potrebbe sembrare: da rilevare non è solo e tanto l'incompletezza del dato, ma il fatto che la circostanza di non potere essere ospitato altrove costituisca un'esimente alla riprovazione sociale dell'essere stato 'recluso'. Il problema che emerge, da sotto il ben pensare, è piuttosto che si rifiuti - e si giustifichi chi rifiuta, come tra le righe dimostra lo stesso Shattuck - un lavoro a chi è stato in una casa di cura per malattie mentali e che ciò possa risultare da qualche archivio.

Il terzo esempio viene dalla Francia, in un piccolo paese vicino a Hirson dans l'Aisne, dove il quattordicenne Thierry si suicidò - extrema negazione, nell'ambiente carcerario, all'appropriazione che il carcere fa del corpo del recluso - a seguito degli sberleffi dei quali era stato vittima durante la ricreazione a scuola. Il motivo degli scherni era il fatto che la madre era considerata una 'ladra', per essere stata incarcerata a seguito della emissione di un assegno a vuoto.

Non necessitando simili accadimento di commento alcuno, si noti tuttavia come gli U.s.a. abbiano da sempre affrontato il fenomeno della recidiva, e di ciò che a riconoscerla è funzionale, in maniera draconianamente drastica; a conferma, basti rimandare al già commentato 'three strikes and you're out' (26).

7.8.1 La 'fuga di notizie'

Come se l'argomento non fosse sufficientemente fluido e non oscillasse tra due poli speculativi opposti, che però si respingono e si attraggono come fossero magneti bipolari, si rende necessario accennare al problema della 'fuga di notizie' dagli archivi del Casellario. Il problema esula dai casi in cui è prescritto che 'qualcuno' acceda ai certificati del Casellario e riguarda le ipotesi, purtroppo non scolastiche, in cui le informazioni prendono vie traverse, fuori da qualsiasi controllo ed uso previsto e autorizzato. Vi sono, infatti, soggetti che per ragioni di servizio vengono a conoscenza di notizie che dovrebbero mantenere segrete e che, invece, divulgano colposamente o dolosamente.

La cosa, che ci accingiamo ed esemplificare, rappresenta una provocatoria criticità dell'istituto ed un suo momento patologico che però, per la frequente facilità con cui si può prognosticare si presenti, è intuibile possa sfociare in una sua fisiologicità; per questo ancora più pericolosa. A conferma delle nostre preoccupazioni, si rimanda al capitolo 4 sul Decreto dirigenziale del 2007, che è andato nel senso di aumentare i controlli sugli accessi al sistema del Casellario e su chi vi accede.

7.8.2 Vita vissuta

Chiunque abbia un amico o un parente in organi di Pubblica sicurezza o di Polizia giudiziaria sa come sia facile, nel nostro paese, accedere alle notizie sui precedenti penali di un cittadino.

Un banale esempio, che denota però una colposa leggerezza di certuni agenti di Polizia giudiziaria e che deve, quindi, essere inquadrato in una sfera di degenerazione del meccanismo, lo possiamo rinvenire nel 'conoscente poliziotto' al quale ci rivolgiamo, in camera caritatis, per sapere se quel Sempronio col quale vogliamo concludere un contratto sia, in effetti, la brava persona che sembra.

A corroborare tale eventualità, e facendo outing per tali non lodevoli episodi, dobbiamo ammettere di avere chiesto, e ottenuto, tali informazioni almeno due volte, prima di concedere in locazione un immobile. La prima volta tramite un amico dell'Arma, la seconda addirittura recandoci presso un Comando stazione periferico dello stesso organo, senza conoscervi nessuno. Qui, accedendo - immaginiamo - alla banca dati del Casellario, fu fatto capire a chi scrive che poteva procedere a perfezionare il contratto. Invero la cosa fu fatta con un certo, professionale, tatto, dato che si fece capire senza dire... Di certo, però, viene da chiedersi cosa sarebbe accaduto se la persona avesse avuto precedenti: anche se, col solito garbato cenno, si fosse dato ad intendere che non era il caso di proseguire con la trattativa, già si sarebbe detto troppo; facendo sorgere sospetti sul signor Caio che, magari, aveva un vecchissimo precedente di nessuna importanza ai fini di un contratto di locazione.

Infine un'altra esperienza diretta, dovuta a ragioni di lavoro. Quale dipendente comunale, addetto ai Servizi Sociali, chi scrive ha necessità di visionare e stampare i certificati anagrafici degli utenti che si presentano per chiedere, che so, un contributo economico o un alloggio di emergenza. Accedendo all'archivio dell'ufficio di anagrafe, è emerso che alcuni nominativi riportano un asterisco. Chieste informazioni sul suo significato, è stato risposto - invero con un tanto di impacciata vaghezza - che stava ad indicare generici "problemi con la giustizia" avuti da uno dei membri del nucleo familiare. Ora, ci troviamo nella situazione di leggere un simbolo, "*", che suona quasi come un 'allarme', quando non è assolutamente necessario sapere se la madre di famiglia, che chiede un aiuto per pagare l'affitto, sia stata in una comunità di recupero per tossicodipendenti o abbia il coniuge appena uscito dalla 'patrie galere'. Con l'aggiunta, nel caso fosse sfuggita, che il minaccioso asterisco individua tutti i componenti di un nucleo familiare nel quale vi sia un soggetto con precedenti penali; in una specie di tragicomico tripudio di quella responsabilità oggettiva che speravamo ormai estinta.

7.8.3 Quale rimedio

Di sicuro se certe notizie non fossero diligentemente archiviate (il che, in ultimo, sta a significare: se non esistesse il Casellario!), non si correrebbe il rischio di una loro, inopportuna, divulgazione. E', però, altrettanto verosimile come non si possa fare a meno di custodire certe informazioni sulla nostra 'esistenza' giuridica, motivo per cui una delle poche soluzioni percorribili dovrebbe essere quella di limitare i casi in cui si possa, legittimamente, accedervi. Eliminando, per tornare agli esempi concreti di prima, la possibilità che l'anagrafe di un Comune sappia dei precedenti penali dei suoi cittadini. E, a maggior ragione, che lo possa sapere l'impiegato di un altro servizio dello stesso Ente che si connette al sistema informatico dell'anagrafe.

Invero, per una sorta di insidioso gioco al relativismo che sta caratterizzando questa parte del nostro lavoro, l'anagrafe deve sapere se un cittadino è recluso in un istituto di pena e per quanto, affinché possa procedere a mantenere nei registri la residenza, anche se viene ovviamente meno il requisito della "dimora abituale" di cui all'art. 43 c.c. Si potrebbe, pertanto, differenziare l'accesso alle informazioni tra i vari uffici, evitando che chi lavora ad altri servizi possa 'vedere' notizie ulteriori rispetto a quelle strettamente necessarie (nel nostro caso: dati anagrafici e componenti il nucleo familiare).

Altro aspetto sul quale si dovrebbe lavorare è quello strettamente 'culturale' degli operatori, al fine di far comprendere la vera, pregnante, riservatezza di quelle notizie delle quali si viene a conoscenza. In questa ottica non dovrebbe più avere cittadinanza quella che abbiamo chiamato 'fuga di notizie', così come il cortese favore di un agente di P.S. che mette in guardia sulla poca probità di un cittadino. Quella 'piccola' gentilezza, di sicuro, egoistico, aiuto nel caso concreto del meschino 'orticello' di ognuno di noi, ha una portata devastante in un'ottica, di più ampio respiro, di garantistico rispetto per la sfera della riservatezza individuale. Che, in fondo, mira a permettere di spezzare il circolo vizioso fra reato-detenzione-reato.

7.9.1 Verso una (possibile) conclusione

Nella nostra opera eziologica sul Casellario giudiziale abbiamo avuto più volte modo di rimarcarne, de jure condito, la necessarietà, in quanto funzionale al riconoscimento ed all'applicazione di istituti penalistici come la recidiva. Che, a sua volta, abbiamo ritenuto rispondere a principi, etici e giuridici, che giungono a legittimarla e necessitarla:

  • solo ed in quanto permetta di graduare diversamente l'ammontare della pena fra delinquente primario e reiterato;
  • solo ed in quanto il giudice possa conoscere del precedente penale, custodito nel Casellario, in questa fase esatta del processo e non prima: quando, deciso sulla reità dell'imputato, si tratti di determinare tipo e quantum della pena;
  • solo ed in quanto - come invero accade oggi in Italia, o meglio, accadeva sino all'entrata in vigore della discussa riforma del 2005 - il Giudice possa liberamente decidere se applicare a meno la recidiva;
  • nel limite in cui norme scellerate non impongano arcaici automatismi o draconiane disparità di trattamento carcerario.

Pur ammettendo che un'indagine sulle cause del 'fenomeno recidiva' ci spingerebbe a riconoscere nello stesso sistema carcerario, ancor più che penale, l'elemento che più spinge verso di esso; con la conseguenza di scivolare sulla pericolosa china del determinismo e di essere portati a non ritenere equo un inasprimento della pena nei confronti di chi ha nuovamente delitto, se considerato come 'spintovi' dal sistema-carcere. Così, lapidariamente, Jean-Marie Domenach: "Al contrario dello scopo proclamato dal legislatore, l'effetto più sicuro della prigione è di esasperare il detenuto e di condurlo alla recidiva (27).

Al contempo, tuttavia, abbiamo colto ogni occasione per insinuare il ragionevole sospetto che, de jure condendo, si potrebbe o si dovrebbe poter fare a meno dei servigi del Casellario, considerabile quale espressione del potere e della prevaricazione dello stato sull'uomo, ultima radice di quei mali che - invece - dovrebbe contribuire a debellare.

7.9.2 Dell'abolizione del Casellario: un tentativo francese

Così è imprescindibile un accenno a importanti posizioni abolizioniste, in un passato recente, in uno stato con noi confinante.

"Sono intollerabili: i tribunali, gli sbirri, gli ospedali, i manicomi, la scuola, il servizio militare, la stampa, la televisione, lo stato", recita la quarta di copertina del primo opuscolo del GIP, titolato Intolérable I. Enquete dans 20 prisons ed edito nel 1971.

Come non si può trattare del Casellario giudiziale prescindendo dall'esperienza francese, così - riteniamo - non si possa affrontare lo spinoso argomento della sua, futuribile, eliminazione dal panorama giuridico dei paesi più evoluti, senza far riferimento proprio al GIP, nato e conclusosi nei primi anni settanta in Francia.

Il Group d'information sur les prisons fu un momento di incontro politico convergente di tre distinte correnti ideologiche: radicale, liberale e cristiano-personalistica; queste vennero rappresentate rispettivamente dai fondatori del Gruppo: Michel Foucault (filosofo e studioso dei sistemi di reclusione di folli e malati), Pierre Vidal-Naquet (storico, denunciatore delle torture praticate dall'esercito francese durante la guerra d'Algeria) e Jean-Marie Domenach (esponente della Resistenza e direttore di Esprit, rivista di matrice cattolico-sociale).

La posizione dei tre intellettuali, ai quali si aggiunsero rapidamente altre menti illuminate della Francia del post sessantotto, si poneva in sottile antitesi rispetto al lirismo rivoluzionario di Sartre (per il quale i detenuti sono una sorta di avanguardia della rivoluzione) e rivendicava la piena coscienza della popolazione carceraria in merito ai suoi diritti ed alla sua 'autonomia'.

Senza distogliere l'attenzione dal nostro campo d'indagine, il GIP ebbe il merito di 'far parlare' i detenuti, attraverso questionari anonimi poi pubblicati e divulgati debitamente, al fine di scuotere il Palazzo ed interrompere la spirale di violenze-incarcerazioni-violenze, che stava funestando non solo il paese d'oltralpe ma Stati Uniti, Spagna, Italia, Svezia.

Il secondo opuscolo del Gruppo d'informazione sul carcere, riportati i dati di un altro questionario rivolto ai detenuti, li rilanciò sul versante della soppressione del Casier Judiciaire, che avrebbe dovuto costituire il prossimo obiettivo del Gruppo stesso. Questo nuovo 'campo di battaglia', tuttavia, non venne allestito in quanto il GIP si auto disciolse alla fine del 1972, inviando - come uno dei suoi, ironici, ultimi atti - una lettera al Guardasigilli in data 20 Novembre 1972, nella quale si legge: "Non appena la proporzione di poliziotti ed ex-poliziotti avrà raggiunto nelle prigioni il 10% della popolazione carceraria, noi ci impegniamo a porre fine a ciò (28) che ha potuto suscitare in Lei tanta inquietudine" (29).

Da Foucault, tuttavia, possiamo apprendere quale sarebbe stata, presumibilmente, la posizione del GIP sulla questione Casellario:

  1. Il Casellario giudiziale vanifica sin da subito la pretesa ipocrita di far passare il carcere come luogo di rieducazione;
  2. vietando l'accesso alla Pubblica amministrazione ai pregiudicati, lo stato giudica ogni giorno il valore del proprio sistema penitenziario;
  3. il sistema giudiziario contraddice il diritto al lavoro: condanna gli ex detenuti alla disoccupazione, alla mercè dei datori di lavoro, ai lavori più sfruttati;
  4. con il Casellario giudiziale non abbiamo una liberazione, ma solo una sospensione della pena (30).

Così, anche in un altro atto del GIP si può leggere una 'dichiarazione di guerra' nei confronti dello stesso concetto di fedina penale, vista quale ostacolo insormontabile al reinserimento, soprattutto lavorativo, degli ex-detenuti; sottoforma di 'suggerimenti' al Guardasigilli per un'auspicata riforma del sistema penale francese:

Soppressione della fedina penale, che non è di alcuna utilità per il datore di lavoro e solo un ostacolo per il detenuto liberato. Infatti, se un malfattore desidera introdursi in un'impresa, si può essere certi che troverà comunque il modo di procurarsi carte e falsi documenti.

Certificato di lavoro rilasciato dall'Amministrazione penitenziaria (con l'intestazione di un servizio pubblico qualsiasi), affinché il prigioniero che alla sua uscita cerca un impiego possa determinare la propria qualifica professionale e dimostrare la propria esperienza. Che alla famosa domanda 'quale è stato il suo ultimo datore di lavoro?', si possa finalmente rispondere senza bisogno di spiegarsi con una menzogna o un buco di svariati anni all'interno della propria vita professionale (31).

7.10 Contro un Casellario 'aperto' e contro il 'sistema'

Non possiamo non concordare con la sintesi di Foucault e di chi riconosce che il sistema giudiziario attuale erige ostacoli insormontabili a chi cerca, scontata la sua pena, di reinserirsi in un contesto sociale e nell'ambiente lavorativo. Non possiamo neppure negare che un ruolo decisivo in questo processo, esso stesso criminogeno e desocializzante, venga svolto dal Casellario: sia nella sua funzione 'fisiologica', sia in quella 'patologica' atta a permettere la fuoriuscita incontrollata di notizie sensibili.

Riteniamo, tuttavia, che scagliarci contro il Casellario, quale nuovo capro espiatorio di parte dei cattivi funzionamenti del nostro sistema penale, rischierebbe di trasformarsi in un approccio riduttivo, se non fuorviante. Non dobbiamo, infatti, perdere di vista la funzione propria del Casellario, che è - in estrema sintesi - quella di in-casellare alcune informazioni sui cittadini, al fine di fornire tali notizie a quei soggetti autorizzati dalla Legge a conoscerne.

Ecco, quindi, che è necessario allargare la critica a quegli istituti che funzionano grazie al Casellario. Costituendo la recidiva un caso a parte (almeno se ricostruita entro i limiti sopra esposti), è sulla rispondenza a Giustizia di alcune previsioni normative che dobbiamo interrogarci.

E' giusto, se rapportato ad un percorso (dichiarato ma mai attuato) di sedicente risocializzazione di chi è uscito dal percorso detentivo, impedire a chi ha precedenti penali di essere assunto dalla Pubblica amministrazione?

E' etico che il Giudice pre-giudichi, anche sulla scorta di quanto appreso sul percorso penale di un imputato?

E' moralmente accettabile che un cittadino, in un modo o in un altro, possa conoscere dei 'peccati' di un suo simile, quando non è esso stesso a parlargliene volontariamente?

A queste domande, saremmo portati a rispondere in senso negativo (con la ipocrisia di avere fruito di quello che abbiamo, criticamente, definito 'conoscente poliziotto') ma, indubbiamente, andremo molto, troppo, oltre un'analisi dell'istituto del Casellario giudiziale in Italia e di quanto ad esso strettamente legato.

Note

1. G. Orano, La recidiva nei reati, Roma, 1883, p. 178.

2. M. Pagano, Principi del codice penale, Tipografia della società belgica, Bruxelles, 1841, p. 438.

3. M. Pagano, Considerazioni sul processo criminale, Bruxelles, 1842, pag 438.

4. A. Buccellati, Istituzioni di diritto e procedura penale, Milano, 1884, p. 220.

5. Ivi, pp. 221-225.

6. G. Giuliani, Istituzioni di diritto criminale, Tip. Viarchi, Macerata, 1840, pp. 357-358.

7. Senza neppure andare a disturbare chi, come il Barzilai, ha sostenuto giustificarsi comunque la nuova condanna, seppure aumentata sulla base della precedente oggetto di errore, come punizione di tutti quei reati che di certo il recidivo ha commesso e che sono rimasti oscuri.

8. F. Grispigni, La personalità e il valore sintomatico del reato, in S.P., 1955, p. 263.

9. E. Gallo, La persona umana nel diritto penale, in "Riv. it. dir. pen.", 1956, p. 423.

10. F. Coppi, Reato continuato e cosa giudicata, Napoli, 1969, p. 254.

11. R. Dell'Andro, La recidiva nella teoria della norma penale, Palermo, 1950, p. 25.

12. F. Carrara, Programma di un corso di diritto criminale", Firenze, 1924, volume II, p. 166.

13. Testo attribuito agli autori indicati nel testo, riportato in un opuscolo del GIP e qui tratto da S. Vccaro, Biopolitica e disciplina, Michel Foucault e l'esperienza del GIP (Group d'Information sur les prisons), Mimesis, Milano, 2005, p. 213.

14. Ibid.

15. Trattato sulle diverse istituzioni complementari del regime penitenziario, traduzione dal francese.

16. G. Deleuze, Pourparlers, trad. it. Quodlibet, Macerata, 2000, pp. 236-7.

17. G. Deleuze, op. cit., p. 239.

18. S. Vaccaro, op. cit., p. 13.

19. M. Pavarini, op. cit., p. 26.

20. Così riportato da S. Vaccaro, op. cit., p. 53.

21. Ivi, p. 51.

22. D. Garland, La cultura del controllo, trad. it. Il Saggiatore, Milano, 2004, pp. 305-6.

23. E. Goffman, Stigma, L'identità negata, Laterza, Bari, 1963.

24. Carcere americano dove, il 13 Settembre 1971, i reparti speciali della polizia repressero nel sangue una rivolta, causando la morte di quaranta detenuti, due terzi dei quali neri. Nello stesso periodo furono numerose le rivolte nelle carceri di svariati paesi europei, Italia e Francia in testa, per protestare non solo contro le precarie condizioni della vita carceraria, ma anche contro gli stessi codici penali, causa della troppo massiva e frequente incarcerazione di cittadini, per i quali si sarebbero dovute individuare misure alternative. Purtroppo, anche nel nostro paese, una legislazione penale di matrice fascista, seppure ripetutamente novellata, non prevede un uso della reclusione quale ultima ratio, ma quale strumento ordinario al quale si ricorre non solo in via definitiva ma anche in via 'preventiva', quale misura di sicurezza. Si rifletta, poi, sulla circostanza che anche quando vengono applicate misure alternative - dagli arresti domiciliari fino all'affidamento al servizio sociale - ciò è appannaggio delle classi sociali meno disagiate, con esclusione quasi totale degli extracomunitari, privi di rete familiare di appoggio e di riferimento, per i quali si aprono le porte del carcere anche per reati bagatellari o quasi.

25. S. Vaccaro, op. cit., p. 70.

26. Vedi nota 41 cap. 6.

27. J.-M. Domenach, in "Esprit", n. 415, Luglio-Agosto 1972.

28. Si fa riferimento alla stessa attività del Gip.

29. S. Vaccaro, op. cit., p. 110.

30. Testo attribuito a M. Foucault, Dits et écrits, volume II, n. 91, 1972, pp. 195-197. Quanto qui indicato con le parole 'Casellario giudiziale' è stato altrove tradotto (da A. Lucera in S. Vaccaro, op. cit., p. 144), con le parole 'fedina penale', da intendersi come sostanzialmente equivalenti.

31. Dal Bollettino APL, n. 16 del 18 Gennaio 1972, in Cahiers de revendications sortis des prisons lors des récentes révoltes, Nancy, 1972.