ADIR - L'altro diritto

Brevi note alla Sentenza della Cassazione, Sezioni Unite Penali, n. 42858/2014

Rosaria Pirosa, 2014

1. Il contrasto giurisprudenziale

Con Cass. Sez. Un. Pen., Sent. n. 42858/2014, è stato risolto il contrasto giurisprudenziale sorto in tema di effetti sull'esecuzione della pena derivanti da declaratorie di incostituzionalità non comportanti l'abolizione della norma incriminatrice. I divergenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità non sono emersi sulla specifica questione oggetto del ricorso ma sulla questione affine, insorta a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 249 del 2010, la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 61, comma 1, n. 11 bis c.p.

Si ricorda che nella vicenda Gatto, il Tribunale di Napoli, in funzione di giudice dell'esecuzione, ha dichiarato inammissibile la richiesta del Pubblico Ministero, il quale invocando la sentenza della Corte Costituzionale n. 251 del 5 novembre 2012, ha sollecitato la rideterminazione della pena inflitta all'imputato per il delitto di detenzione a fini di cessione a terzi di sostanze stupefacenti con sentenza dello stesso Tribunale, che ha ritenuto la riconosciuta attenuante del fatto di lieve di entità (art. 73 comma 5 d.P.R 309/1990) equivalente alla recidiva reiterata specifica. Il giudice dell'esecuzione ha osservato che la sentenza della Corte Cost. non ha comportato abolitio criminis e ha motivato l'ordinanza di inammissibilità richiamando "l'intangibilità derivante dalla preclusione del giudicato". Contro detto provvedimento ha proposto ricorso per violazione della legge penale ai sensi dell'art. 606 comma 1, lett. b) il locale Procuratore della Repubblica. Il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione ha sostenuto l'inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza dei motivi, "non essendo consentito al giudice dell'esecuzione di effettuare alcun giudizio di bilanciamento tra opposte circostanze".

La questione di diritto contenuta nell'ordinanza di rimessione alla Prima Sezione Penale, è stata enunciata nei seguenti termini: "Se, successivamente a una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, possa comportare una rideterminazione della pena in sede di esecuzione".

L'indirizzo inaugurato dalla sentenza Hauohu (Cass., Sez. I, n. 977/2011), afferma che "gli articoli 136 Cost. e 30 commi 3 e 4 L. n. 87/1953 non consentono l'esecuzione della porzione di pena inflitta dal giudice di cognizione in conseguenza dell'applicazione di una circostanza aggravante che sia stata successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima" sostenendo che "spetta al giudice dell'esecuzione il compito di individuare la porzione di pena corrispondente e di dichiararla non eseguibile, previa sua determinazione ove la sentenza del giudice della cognizione abbia omesso di individuarla specificamente, ovvero abbia proceduto al bilanciamento tra circostanze". In senso conforme, si sono espresse Sez. II, n. 8720/2011, Sez. I, n. 19361/2012 Teteh Assic, Sez. 1, n. 26899 del 25/05/2012, Harizi, Sez. 1, n. 40464 del 12/06/2012 Kabi, Sez. IV, n. 21982/2013, Ingordini.

La sentenza Hamrouni (Sez. I, n. 27640/2012, Hamrouni) oppone a tale orientamento un'interpretazione abrogativa dell'art. 30 comma 4 della legge n. 87/1953 affermando che la disciplina prevista nella citata norma è stata completamente assorbita dall'art. 673 c.p.p. e concludendo che "non è soggetta a revoca in executivis la sentenza di condanna intervenuta per reato aggravato da circostanza dichiarata costituzionalmente illegittima successivamente al suo passaggio in giudicato né è consentito al giudice dell'esecuzione dichiarare non eseguibile la porzione di pena corrispondente".

Le Sezioni Unite risolvono il contrasto aderendo al primo indirizzo, discutendo e passando al vaglio critico le argomentazioni svolte nella sentenza Hamrouni (e nell'ordinanza di rimessione).

2. Abrogazione e declaratoria di illegittimità costituzionale: una perdurante confusione

In primo luogo, le Sezioni Unite discutono la tradizionale e risalente interpretazione per cui "l'ultimo comma dell'art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, che dispone la cessazione dell'esecuzione e di tutti gli effetti penali delle sentenze irrevocabili di condanna, pronunciate in base a norme dichiarate incostituzionali, si riferisce alle sole norme incriminatrici dichiarate incostituzionali". Riprendendo quanto già osservato dalla prima sezione in Hauohu, le Sezioni Unite affermano che "tale principio risulta tralaticiamente reiterato senza alcun discernimento tra le norme incriminatrici "complete di precetto e sanzione, costitutive di una fattispecie di reato e le altre norme penali che si riferiscono a elementi accessori (circostanze del reato), traendosene la conclusione che le sentenze si sono "riferite alle norme incriminatrici per lo più solo al fine di distinguere da esse le norme processuali, ovvero nell'ambito di decisioni che avevano a oggetto, in realtà, il problema di situazioni da considerare a tutti gli effetti, anche esecutivi, esaurite" (p. 11).

"Può parlarsi di norma sostanziale tutte le volte in cui è stabilita una sanzione penale per un aspetto dell'agire umano, essendo indifferente, da un tale punto di vista, che la norma disciplini un autonomo titolo di reato o una circostanza aggravante" (p.16).

In particolare, le Sezioni Unite rintracciano e disvelano una perdurante ed erronea sovrapposizione e commistione, presente in alcuni arresti relativi alle ipotesi aggravate già punite da norme del codice penale militare di pace e citate dall'ordinanza di rimessione, tra il fenomeno della successione delle leggi nel tempo (la disposizione di cui all'art. 2 comma 4 concernente l'introduzione di norme più favorevoli) e quello derivante dalla declaratoria di illegittimità costituzionale.

Come indicato dalle Sezioni Unite, "gli effetti della declaratoria di incostituzionalità non sono paragonabili a quelli dello ius superveniens, poiché la dichiarazione d'illegittimità costituzionale inficia fin dall'origine (o, per le leggi a questa anteriori, fin dalla emanazione della Costituzione) la disposizione impugnata", mentre "l'abrogazione non tanto estingue le norme, quanto piuttosto ne delimita la sfera materiale di efficacia, e quindi l'applicabilità, ai fatti verificatisi sino a un certo momento del tempo: coincide, per solito e salvo che sia diversamente disposto dalla nuova legge, con l'entrata in vigore di quest'ultima. Invece, la declaratoria di illegittimità costituzionale, determinando la cessazione di efficacia delle norme che ne sono oggetto, impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che le norme stesse siano applicabili alla stregua dei comuni principi sulla successione delle leggi nel tempo". I diversi effetti dei due istituti sono ricondotti a una differente genesi: "Il mutamento di disciplina attuato per motivi di opportunità politica, liberamente valutata dal legislatore costituisce, pertanto, fenomeno diverso dall'accertamento, ad opera dell'organo a ciò competente, dell'illegittimità costituzionale di una certa disciplina legislativa: in questa seconda ipotesi, a differenza che nella prima, è perfettamente logico che sia vietato a tutti, a cominciare dagli organi giurisdizionali, di assumere le norme dichiarate incostituzionali a canoni di valutazione di qualsivoglia fatto o rapporto, pur se venuto in essere anteriormente alla pronuncia della corte (C. Cost., Sent. n. 4971970)".

La succitata confusione ed equiparazione tra abrogazione e illegittimità costituzionale si basa sulla considerazione che l'efficacia retroattiva della pronuncia di illegittimità costituzionale incontra un limite nei rapporti giuridicamente esauriti. Secondo tale interpretazione, devono considerarsi esauriti quei rapporti che hanno trovato la loro definitiva e irretrattabile conclusione mediante sentenza passata in giudicato, i cui effetti non vengono intaccati dalla successiva pronuncia di incostituzionalità. Su quest'ultimo punto si incentra l'argomentazione della decisione che vede proprio nella diversa concezione del giudicato "il discrimine delle divergenti impostazioni che hanno dato luogo al contrasto di giurisprudenza oggi all'esame delle Sezioni Unite" (p. 17). Da questa considerazione si dipana un'analisi diacronica del passaggio dall'impostazione "assolutistica" del giudicato al progressivo ridimensionamento del significato totalizzante attribuito all'intangibilità del giudicato "quale espressione della tradizionale concezione autoritaria dello stato" (p. 17).

3. L'affermazione di una concezione recessiva del giudicato

La sentenza afferma una concezione recessiva del giudicato non solo con riferimento alle sentenze definitive che violano norme internazionali pattizie (con riferimento ai cd. fratelli minori di Scoppola) ma anche in riferimento al giudicato fondato su norme dichiarate illegittime per violazione della Costituzione, definendo paradossale la scelta di declinare in senso opposto la deroga al principio di intangibilità del giudicato. "Non esiste alcuna ragione per ritenere flessibile e cedevole il giudicato (quanto al trattamento sanzionatorio) fondato su norme nazionali violatrici della CEDU e, per contro, intangibile quello fondato su norme dichiarate illegittime per violazione della costituzione" (p. 34). L'illegittimità dell'esecuzione in atto di una pena determinata sulla base di una norma dichiarata costituzionalmente illegittima dal Giudice delle leggi aveva costituito il fondamento della sentenza Ercolano ma la decisione in commento precisa come gli effetti dell'illegittimità costituzionale non possono differenziati in base alla circostanza che "la dichiarazione di illegittimità costituzionale sia stata emessa per contrasto con l'art. 117 o con gli articoli 3 o 25, secondo comma, o 27, terzo comma, della Costituzione, ovvero con tutte queste norme contemporaneamente" (p. 36). Le Sezioni Unite statuiscono sull'utilizzabilità dell'art. 30 comma 4 L. 87/1953 in quanto "questa disposizione non circoscrive in alcun modo, né indirettamente, né direttamente il divieto di dare esecuzione alla condanna pronunziata in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale, ed anzi, è l'unica conforme ai principi di personalità, proporzionalità e rimproverabilità desumibili dall'art. 27 Cost. che investono la funzione della pena dal momento della sua irrogazione a quello della sua esecuzione, e più in generale all'insieme dei principi costituzionali che regolano l'intervento repressivo penale e che impediscono di ritenere costituzionalmente giusto, e perciò eseguibile, anche soltanto una frazione di pena che consegue all'applicazione di una norma contraria alla Costituzione". La nucleare distinzione tra i due ambiti "incommensurabili" individuati dagli effetti dell'abrogazione della norma incriminatrice e dagli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale, dunque, fonda l'inapplicabilità dell'istituto della revoca della sentenza previsto dall'art. 673 c.p.p.

4. I poteri del giudice in executivis

Le Sezioni Unite ribadiscono che "l'affermazione del carattere esaustivo della previsione del predetto art. 673 preclusiva di ogni altra ipotesi di intervento, costituisce una mera petizione di principio e non tiene neppure in considerazione che quella norma non è neanche idonea a trarre le conseguenze processuali e a legittimare un intervento del giudice dell'esecuzione che renda concreta la sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria nei casi previsti dall'art. 2, comma 3 c.p". Il compito di rimuovere l'illegittimità della pena compete al giudice dell'esecuzione che deve procedere a quel giudizio di valenza che era stato illegittimamente inibito al giudice della cognizione dal divieto costituzionalmente illegittimi. A sostegno della maggiore latitudine dei poteri di cui è stato dotato il giudice dell'esecuzione, la pronuncia pone riferimento a C. Cost. n. 210/2013 che ha condiviso l'individuazione dei possibili strumenti di intervento in executivis delle disposizioni del codice di procedura penale che disciplinano i poteri del giudice dell'esecuzione, "che non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull'efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso", "allorquando imprescindibili esigenze di giustizia, venute in evidenza dopo l'irrevocabilità della sentenza lo esigano", (Sez. Un. n. 18821/2014). E manifestamente irragionevoli erano state ritenute dal Giudice delle leggi, le conseguenze sul piano sanzionatorio del divieto di prevalenza dell'attenuante di cui al comma 5 dell'art. 73 d.P.R. 309/1990 sulla recidiva reiterata, stante "l'enorme divaricazione delle cornici edittali stabilite dal legislatore per il reato circostanziato e per la fattispecie base prevista dal primo comma" (C. Cost. sent. 251/2012). Pertanto, Cass. Sez. Un. Pen., statuisce che "successivamente a una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma diversa dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la rideterminazione della pena, che non sia stata interamente espiata, da parte del giudice dell'esecuzione", conseguendone che "per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 251 del 2012 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 69 comma 4, c.p., nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all'art. 73 comma 5 d.P.R. 309/1990, sulla recidiva di cui all'art. 99 comma 4, il giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 666 comma 1 c.p.p., e in applicazione dell'art. 30 comma 4, L. 87/1953, potrà affermare la prevalenza della circostanza attenuante, sempreché una simile valutazione non sia stata esclusa nel merito dal giudice della cognizione, secondo quanto risulta dal testo della sentenza irrevocabile".