ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

6: Sotto-sistema penale di polizia ed immigrati

Giuseppe Campesi, 2009

A conclusione del nostro discorso sulla nascita e lo sviluppo del sotto-sistema penale di polizia e del suo ruolo nell'economia complessiva dei meccanismi di controllo sociale messi in campo nella storia dell'Italia unita, proveremo a verificare empiricamente alcune delle ipotesi teoriche avanzate. In particolare, ci proponiamo di provare a verificare quale sia l'effettivo funzionamento dei meccanismi polizieschi di controllo sociale rispetto a quella categoria d'individui che abbiamo inquadrato sotto l'etichetta di «nuova classe pericolosa».

Sappiamo, infatti, che la sovra-rappresentazione degli immigrati nelle statistiche criminali ha indotto più di un osservatore a sostenere che tale dato fosse giustificato da una loro particolare propensione a delinquere e quanto una simile lettura del dato statistico possa essere semplificante è stato evidenziato. Ciò che adesso ci proponiamo di verificare empiricamente è l'ipotesi che certi tassi di delittuosità non siano altro che l'espressione dell'intrinseca selettività dei meccanismi di controllo penale operanti in una società marcatamente stratificata.

Proveremo, in sostanza, ad osservare nella realtà concreta ciò che siamo andati sino ad adesso sostenendo sul piano teorico: che il funzionamento effettivo dei processi di controllo sociale sia legato più che ad una dinamica oggettiva della criminalità, alle necessità di disciplinamento e governo dei processi sociali scatenati dalle evoluzioni nel sistema di produzione. In questo quadro interpretativo, il vasto processo di carcerizzazione che gli immigrati subiscono in Italia (come altrove nel mondo occidentale) è il portato delle rinnovate esigenze di disciplina sociale poste dal ciclo politico-economico neoliberista apertosi con la fine del XX secolo. Il “nuovo proletariato” (di cui gli immigrati costituiscono una cospicua fetta) deve essere disciplinato alle peggiori condizioni di lavoro e di vita che le esigenze di valorizzazione del capitale impongono ed è, dunque, esposto ad una maggiore pressione penale.

Sappiamo, però, che tale processo di disciplinamento, e la particolare selettività dei sistemi penali che ne consegue, non sarebbero giustificabili - né, tutto sommato, praticabili - senza il supporto di una complessa costruzione ideologica in grado di qualificare, nell'immaginario collettivo, come «classe pericolosa» i settori più problematici e meno disposti ad accettare supinamente tale processo di disciplina sociale. Affinché certe forme di conflittualità sociale non vengano inquadrate attraverso il “vocabolario della politica” e, dunque, spostate sul pericoloso (per le esigenze del capitale) piano delle rivendicazioni sociali, risultano fondamentali i processi di egemonizzazione del discorso pubblico per mezzo dei quali certi fenomeni vengono dibattuti attraverso il “vocabolario della penalità” ed interi universi sociali vengono così bollati come “classi pericolose”. In proposito è stato ampiamente discusso quale ruolo abbiano i saperi sul crimine (siano essi di stampo teoretico o meno) nella costruzione tale sfondo simbolico, fatto di concetti quali “criminalità” o “pericolosità”, entro cui collocare le problematiche sociali poste dal corso neoliberista imboccato dalle democrazie occidentali.

Con la nostra ricerca, dunque, ci proporremo di verificare entro che limiti i saperi diffusi sul crimine ed in particolare sulla criminalità degli immigrati contribuiscano a giustificare e legittimare l'orientamento selettivo dell'azione delle nostre agenzie di controllo sociale, consentendo che abbia a realizzarsi anche in Italia un marcato processo di criminalizzazione della miseria e di disciplinamento del nuovo proletariato.

6.1: La costruzione sociale della criminalità degli immigrati

Abbiamo sostanzialmente tracciato il quadro di ciò che intendiamo con la locuzione “costruzione sociale” della criminalità, evidenziando a riguardo come non si faccia riferimento ad un processo puramente irrazionale, ideologico, avulso dalla realtà sociale concreta, ma come - al contrario - la dinamica soprastrutturale, che porta alla visione stereotipa dell'immigrato come criminale, trovi i suoi ben precisi referenti materiali nei processi strutturali in corso.

Gli elevati livelli di criminalizzazione che subiscono gli immigrati trovano il loro referente nella deriva neo-liberista delle democrazie occidentali, che ricaccia nella marginalità socio-economica ampi strati sociali e riavvia processi di pauperizzazione che, con il XX secolo, credevamo - almeno nelle nostre società del benessere - sepolti definitivamente.

Il ciclo politico economico che si è aperto nell'ultimo quarto del secolo XX ha posto nuove esigenze di controllo, ha, come visto, determinato la necessità di disciplinare la base della piramide sociale alla nuova dimensione esistenziale che il capitale è disposto a concederle. Tale processo di disciplinamento investe anche l'immigrazione, in quanto componente tuttora essenziale per la composizione numerica del proletariato post-fordista occidentale; gli immigrati extracomunitari, infatti, rinfoltiscono le fila di una vera e propria sottoclasse pesantemente stigmatizzata e totalmente esclusa da una qualche forma di cittadinanza sociale, ma fondamentale per la nostra economia.

Lo strutturarsi di un'immagine degli immigrati quale massa barbara e fuorilegge s'inserisce nel più ampio processo di costruzione sociale dell'insicurezza urbana che, come visto, ha causato un deciso spostamento di priorità nelle politiche criminali dell'Italia di fine XX secolo. Una lettura critica delle statistiche criminali deve essere, dunque, condotta tenendo conto delle strategie di politica criminale che la nostra repubblica ha messo in campo nel quadro del cosiddetto “governo della sicurezza”, poiché in Italia la loro stretta sulle classi marginali si è sostanzialmente risolta in una stretta sull'immigrazione.

Certo tutto ciò non dimostra ancora come in concreto un sistema di controllo sociale altamente formalizzato e strutturato secondo più o meno rigidi parametri d'eguaglianza formale, possa agire selettivamente, assecondando gli stereotipi circolanti e riproducendo, nella realtà statistica, l'immagine sociale negativa che dell'immigrazione si è diffusa (1).

L'idea dell'esistenza di un processo di disciplinamento del proletariato post-fordista (e, segnatamente, del proletariato d'importazione) alle peggiori condizioni esistenziali cui la dinamica produttiva lo costringe - che sembra trasparire dai tassi di carcerizzazione della marginalità sociale (e, in Italia, degli immigrati) che le democrazie occidentali hanno manifestato negli ultimi decenni del XX secolo - va dunque dimostrata empiricamente; e ciò non è possibile se non risalendo “a monte” dei processi di controllo sociale formale, cercando di evidenziare in che misura i processi soprastrutturali che costruiscono quale “classe pericolosa” i settori più recalcitranti della “classe laboriosa” possano incidere sull'azione delle agenzie di controllo e, dunque, sui suoi riflessi statistici, esponendo tali categorie sociali ad una attenzione del tutto privilegiata.

Il tema dell'analisi del sentencing, dell'attività decisionale dei tribunali e delle corti penali, è un tema classico della sociologia giuridica (2) che, con lo sviluppo di un pensiero criminologico critico, di un approccio nello studio nel crimine più attento alla questione della social reaction, ha negli ultimi decenni trovato terreno fertilissimo per la sua diffusione.

Le numerose ricerche condotte all'interno del quadro della criminologia critica - o, più propriamente in questo caso, sociologia giuridico penale - potrebbero essere per comodità distinte tra quelle effettuate sulla base del quadro teorico offerto dalla teoria dell'etichettamento, che, utilizzando in prevalenza metodi qualitativi, tendono a valutare il processo di criminalizzazione ricercando la visione ideologica e le risorse simboliche (o «saperi pratici» nel lessico etnometodologico) in base alle quali ogni singolo attore del controllo sociale identifica la devianza criminale e seleziona i devianti stessi (3); e quelle svolte nel quadro offerto della teoria del conflitto, le quali, utilizzando un metodo di tipo quantitativo, hanno cercato di valutare il peso che variabili quali la classe sociale di appartenenza, lo status occupazionale, o la razza dell'imputato, riescono ad avere sull'esito del processo (4).

Pur nella diversità degli approcci teorici e metodologici, tutti i contributi sono giunti alla conclusione che non fosse tanto il fatto di reato a condizionare l'an ed il quantum di sanzione penale, ma, piuttosto, tutta una serie di fattori e di variabili relative alle caratteristiche dell'autore. Tuttavia, in nessun caso le ricerche svolte sull'argomento hanno preso in considerazione il peso che ha ciò che abbiamo identificato, sulla scia di Luigi Ferrajoli, con il nome di sotto-sistema penale di polizia nel strutturare il processo di criminalizzazione quale un processo preordinato all'individuazione, più che di fatti devianti, di attori devianti.

A riguardo infatti - per quel che concerne i processi di criminalizzazione primaria - andrebbe in primo luogo verificato se, e fino a che punto, le previsioni normative che i giudici sono chiamati ad applicare sono formulate in maniera generale ed astratta, ovvero non riproducano le antiche differenziazioni a seconda del diverso status giuridico del soggetto di diritto (5). In secondo luogo - ed aldilà della circostanza (sia pure della massima rilevanza, come è evidente) che il soggetto di diritto cui si rivolgono i precetti sia formalmente privo di ulteriori specificazioni rispetto alla sua qualità d'individuo agente - se le previsioni siano, o meno, formulate in maniera da consentire la verificabilità del loro contenuto, disciplinando comportamenti offensivi empiricamente riscontrabili ed omettendo, così, di sanzionare modi di essere, stili di vita, stati d'animo, pensieri, intenzioni; ma anche di far riferimento a concetti vaghi ed indeterminabili, a parametri morali o a quant'altro possa costringere il giudice ad una valutazione piuttosto che all'accertamento di un fatto, concedendogli un ampio potere dispositivo.

Sotto il profilo dei processi di criminalizzazione secondaria, invece, si pone la questione di verificare l'effettiva presenza di quelle garanzie giuridiche che assicurano che le ipotesi accusatorie siano seriamente vagliate nel libero contraddittorio fra le parti. Che, dunque, esse siano effettivamente verificate attraverso un'impostazione del processo penale che assicuri che la prova si formi in un orale e pubblico dibattimento, nel libero contraddittorio fra le parti e che la decisione di condanna intervenga - secondo i canoni dell'epistemologia falsificazionista - allorché l'ipotesi accusatoria sia quella con il maggior numero di prove a suffragio, smentisca tutte le contro ipotesi eccepite e resista a tutte le contro prove addotte dalla difesa.

Sul piano storico-teorico abbiamo adeguatamente sottolineato quanto tale modello di sistema penale, che pure è descritto con purezza quasi cristallina nelle pagine dei classici del pensiero penalistico, sia rimasto nel cielo dei buoni propositi e quanto, viceversa, abbia pesato nel delineare i tratti sostanziali dei sistemi penali occidentali l'impronta disciplinare, rappresentata (aldilà della fase esecutiva della pena) dal complesso di istituti polizieschi. È stato evidenziato, inoltre, come l'originaria matrice poliziesca del nostro sistema penale si sia riprodotta identica a sé stessa anche sotto la vigenza della Costituzione Repubblicana, venendo a costruire un vero e proprio sotto-sistema penale e processuale dedicato alla gestione delle contemporanee “classi pericolose”.

Ogni meccanismo poliziesco-disciplinare è intrinsecamente selettivo e discriminatorio: esso è di per sé uno strumento di potere dissimmetrico poiché non prende in carico, sanzionandolo, un comportamento antigiuridico, bensì un carattere peculiare dell'individuo, un suo modo di essere e vivere. In ogni meccanismo disciplinare vi è uno strumento irresistibile per tutte le garanzie individuali tracciate dal pensiero liberale, in essi vi è l'essenza del potere normalizzatore: un potere capace di oggettivare il suo bersaglio giudicandone non già la condotta (che è un'operazione effettuata con parametri giuridici) bensì un suo carattere morale o naturale (la quale è operazione che rimanda all'utilizzo di parametri metagiuridici).

Ogni meccanismo poliziesco-disciplinare è, dunque, il varco attraverso cui entrano nel processo, riuscendo ad incidere sull'esito della decisione, elementi metagiuridici, quali possono essere dei parametri morali, i saperi sul crimine, gli stereotipi circolanti, l'immagine sociale diffusa di criminalità, la pubblica voce, ecc. Essi, strutturando il sistema penale sulla base di una concezione sostanzialista della devianza, ne preordinano l'attività, più che alla sanzione di comportamenti antigiuridici, al controllo - anche preventivo - di quanti manifestino irregolarità tali nella condotta di vita, sì da lasciarne presumere un carattere intimamente deviante. I meccanismi disciplinari non si basano sulla dimostrazione di un fatto trasgressivo, bensì sulla ricerca di quelle che Michel Foucault chiamava “colpe senza infrazione” o “difetti senza legalità”, cioè tutta una serie di circostanze biografiche dalle quali si ritiene di poter inferire la “natura” o il “carattere” intimamente deviato del soggetto preso in carico; ciò che, con una sintetica definizione, abbiamo altre volte chiamato infrapenalità. Per mezzo dei meccanismi disciplinari, più che accertare un'effettiva condotta antigiuridica, si mira a ricostruire il profilo biografico dell'individuo per capire se, e sino a che punto, egli potrebbe commettere l'illecito di cui è eventualmente sospettato o, meglio, altri illeciti in generale; per capire se, e fino a che punto, egli è considerabile un “individuo pericoloso” (6).

Il complesso disciplinare (di cui i meccanismi polizieschi sono solo una parte) è, come ampiamente sottolineato, lo strumento cardine dei processi di controllo sociale nelle società capitaliste, esso consente di combinare un quadro giuridico astrattamente egualitario, con una pratica penale sostanzialmente discriminatoria. Strutturando i meccanismi di controllo sul nesso sapere-potere, esso coniuga alla classica capacità di coercizione del potere sovrano, la possibilità di orientarne, articolarne e legittimarne l'intervento sulla base di più o meno complesse costruzioni concettuali che tematizzano immoralità, barbarie, diversità, difformità, anormalità, supposte patologie, dei suoi bersagli. Il ruolo dei meccanismi disciplinari in sistemi sociali marcatamente stratificati, come i sistemi capitalistici, è dunque quello di consentire la selettività del sistema penale senza intaccare l'ideologia dell'uguaglianza di fronte alla legge penale.

Per mezzo degli strumenti concettuali offerti da un approccio critico è pertanto possibile osservare gli ingranaggi del sistema in moto, per verificare se, ed in che termini, i saperi diffusi sul crimine orientino l'attività delle agenzie di controllo formale del tutto indipendentemente dal verificarsi o, comunque, dall'accertamento dell'essersi verificato un qualche atto antigiuridico. Se, in breve, l'immagine sociale diffusa di delinquenza si riproduca all'interno dei meccanismi penali, nella devianza effettivamente percepita e trattata dagli attori del processo di criminalizzazione secondaria. È chiaro infatti che un sistema penale con caratteristiche simili a quelle descritte dovrebbe presentare un elevato costo dell'ingiustizia: il forte rischio, cioè, che un elevato numero di individui siano colpiti dall'intervento istituzionale, venendo etichettati come devianti del tutto indipendentemente dal compimento di un'effettiva azione offensiva.

Tale rischio - che è appunto il rischio che la sovra-rappresentazione di certe categorie di individui nelle statistiche sulla criminalità sia un prodotto artificiale, dovuto in parte a processi di “costruzione ideologica” della devianza - può essere il portato tanto dell'esistenza di un sistema di criminalizzazione secondario carente sotto il profilo delle garanzie processuali o di un'amministrazione della giustizia irrispettosa delle stesse; quanto di un, più o meno ampio, inquinamento poliziesco-disciplinare del sistema, che consente una selezione dei clienti delle istituzioni penali basata su parametri personologici e sulle categorie del sospetto. In quest'ultimo caso, com'è evidente, l'andamento selettivo del sistema non è, per così dire, patologico, bensì strutturale.

È già intuibile, dunque, quanto i processi di costruzione ideologica della criminalità degli immigrati possano giungere a falsare i riflessi statistici dell'attività di controllo sociale ed è centrale, in quest'ottica, l'analisi delle attività attraverso cui le agenzie di controllo sociale producono tutto quell'insieme di atti (denunce, arresti, condanne) dalla cui rappresentazione numerica riteniamo di poter ricavare il profilo oggettivo della criminalità degli immigrati; tanto più in sistemi dal marcato carattere poliziesco-disciplinare, nei quali il rischio che la devianza venga individuata del tutto indipendentemente dall'accertamento di un fatto, sulla base di parametri personologici e del tutto discrezionali, è molto elevato.

È utile, a riguardo, tracciare un quadro si sintesi delle questioni da sviscerare nel corso dell'esame critico delle statistiche, partendo dai diversi tipi di dato a disposizione.

Il processo di criminalizzazione secondaria, infatti, si suddivide in tanti e diversi momenti, ognuno dei quali ha un suo ben preciso riflesso statistico: le statistiche “di polizia” corrispondono all'attività di polizia giudiziaria svolta dall'autorità amministrativa (denunce, arresti, fermi); le statistiche sulle condanne, riflettono a loro volta l'attività decisionale dei tribunali; dalle statistiche penitenziarie, infine, è possibile ricavare la dimensione quantitativa della penalità effettivamente agita nel nostro sistema, chi e quanti sono, in sostanza, i clienti della nostra amministrazione penitenziaria.

In relazione ad ognuno di questi passaggi si possono individuare diversi fattori in grado influire sull'azione delle agenzie di controllo, variabili idonee, dunque, a distorcerne la rappresentazione statistica. Del resto, e lo si è segnalato, il dato quantitativo non riflette alcuna supposta realtà oggettiva, quanto, piuttosto, la realtà percepita dai soggetti coinvolti nella produzione degli atti che confluiscono, poi, nelle cifre ufficiali: agenti di pubblica sicurezza, parti processuali e magistratura giudicante, magistratura di sorveglianza. Ciascuno di essi determina con la sua attività i livelli di penalità materiale praticati in un dato sistema, contribuendo a circoscrivere ufficialmente l'universo della devianza criminale trattata dallo stesso, costruendo così l'oggetto del dibattito pubblico attorno alla “questione criminale” (7).

Così, sono sostanzialmente due i fattori in grado di incidere sulla rappresentazione quantitativa della criminalità che traspare dalle statistiche sulle denunce:

  1. la propensione a denunciare dei cittadini;
  2. l'organizzazione dell'attività di polizia (8).

Sotto il primo profilo è infatti evidente che, entro certi limiti, il maggior o minor quantitativo di devianza percepita e registrata dalle agenzie istituzionali, è il portato dell'attività di denuncia e segnalazione effettuata dai singoli cittadini. Da un lato è chiaro che quanto non viene portato a conoscenza delle agenzie di controllo sociale formale non entra nelle statistiche ufficiali sulla criminalità (9); dall'altro lato è altrettanto evidente come il quantitativo di delittuosità effettivamente registrato sia in primo luogo il portato della “soglia di tolleranza” di una data realtà sociale. La propensione a denunciare i delitti meno gravi (spesso però anche i più gravi), o i cosiddetti reati senza vittima, infatti, varia di molto a seconda dei contesti storico sociali, delle condizioni personali e degli eventuali rapporti tra vittima ed offensore, nonché in relazione alle speranze di vedere perseguito l'autore del reato o di ottenere comunque qualcosa dalla denuncia del fatto (10).

Sotto il secondo profilo è evidente che l'organizzazione dell'attività delle forze di polizia, le sue priorità, i suoi moduli operativi e quant'altro ne indirizzi l'operato, hanno un effetto decisivo sulla realtà che viene rappresentata statisticamente. Questa è il frutto della “selezione” che, in maniera più o meno consapevole, le forze di polizia operano fra i possibili bersagli della loro attività e di quanto è in grado di incidere su tale selezione: il bagaglio di saperi pratici disponibili, le interazioni con la realtà locale, gli imput provenienti dalle autorità centrali, le influenze dell'opinione pubblica e quant'altro possa servire, nell'organizzazione pratica del lavoro di polizia, per individuare e selezionare i clienti della loro azione (11).

Ovviamente, in tutti questi casi, tanto più ampia è la possibilità di selezionare i suoi clienti sulla base di parametri personologici o sulla base del semplice sospetto, tanto più rilevante potrà essere l'incidenza dei fattori individuati nell'indirizzare selettivamente l'azione di polizia e nel distorcere la realtà statistica, tanto più facile è, insomma, che l'immagine sociale diffusa e dominante di criminalità trovi un immediato riflesso nei dati sulle denunce, gli arresti, eccetera.

Naturalmente si tratta ancora di una fase del processo di criminalizzazione in cui l'attività svolta dall'amministrazione di pubblica sicurezza riflette una realtà la cui rilevanza penale è tutta da provare, spesso poi, molte denunce sono destinate a restare “contro ignoti” o comunque a non essere mai prese al vaglio dall'amministrazione della giustizia. È questo, peraltro, un fattore di forte incertezza del diritto (12), oltre che una circostanza con enormi effetti distorsivi rispetto alla realtà che traspare dalle statistiche sulle condanne: esse, infatti, possono rappresentare semplicemente quella piccola parte di episodi presi in considerazione dall'attività della nostra magistratura e, dunque, sono in misura non indifferente il riflesso dell'organizzazione del lavoro dei giudici e delle priorità che ne muovono l'agire (13).

Tanto più, poi, sarà loro concesso di articolare la risposta punitiva in relazione a parametri personologici, secondo le categorie del sospetto o all'esito di procedure scarsamente garantite, quanto più sarà alto il rischio che la selezione dei clienti del sistema penitenziario si svolga in maniera discriminatoria o, comunque, in base a parametri extragiuridici, che non necessariamente implicano la commissione di un illecito o il suo accertamento.

È già intuibile, dunque, quanti e quali effetti possa aver avuto la vulgata “securitaria” sul livello e sul tipo di penalità effettivamente praticata dal nostro sistema. Quanto la riattivazione dei classici strumenti poliziesco disciplinari e, più in generale, di tutto il sotto-sistema penale di polizia nei confronti della cosiddetta “microcriminalità” abbia potuto favorire una stretta delle agenzie di controllo sulla marginalità sociale. Come visto, infatti, tutta l'organizzazione dell'attività di controllo sociale e, segnatamente, dell'attività di criminalizzazione secondaria, in Italia sembra - nell'ultimo decennio del secolo XX - essere stata preordinata alla repressione quanto più efficiente possibile di tutta quella fenomenologia criminale riferibile alle classi socialmente ed economicamente emarginate. E ciò, peraltro, traspare esattamente dalle statistiche penali in generale e penitenziarie in particolare; queste ultime, poi, presentano un tipo popolazione detenuta per certi versi più consona agli antichi ospedali generali, che a moderni istituti di pena.

Tuttavia, non sono solo le condanne inflitte ad incidere nella determinazione gli effettivi livelli di carcerizzazione: da una lato, infatti, si entra in carcere a vario titolo ed in particolare molto rilevanti abbiamo visto essere i livelli di carcerazione preventiva, il principale fra gli strumenti poliziesco disciplinari attualmente in uso nel nostro sistema. Dall'altro lato, poi, le possibilità di accedere ad alternative al carcere o di ottenere la sospensione condizionale, paiono diversamente distribuite in senso sfavorevole per le categorie più svantaggiate socialmente, poiché, anche in questi casi, il presupposto da valutare è di tipo personologico (14).

È chiaro, dunque, che non tutta la delittuosità percepita e rilevata dal sistema finisce in giudizio, né, tanto meno, tutti gli episodi al vaglio dell'amministrazione della giustizia saranno destinati a portare un nuovo cliente per il circuito penitenziario: a prescindere dalle assoluzioni, infatti, non tutti gli imputati subiranno la carcerazione preventiva, né tutti i condannati entreranno in carcere per scontare la pena e, men che meno, avranno le stesse possibilità di scontare per intero la pena loro comminata, riuscendo alcuni ad accedere alle alternative al carcere previste.

Tutte queste variabili, da cui dipende la selezione della criminalità effettivamente carcerizzata dal nostro sistema penale, sono determinate, come vedremo nello specifico, dall'esistenza di meccanismi disciplinari che impongono agli attori del sistema di effettuare valutazioni personologiche. Ognuna di queste variabili è espressione della strutturale selettività che connota i sistemi penali dalla spiccata vocazione poliziesco-disciplinare, qual è il nostro, da sempre particolarmente attento al trattamento penale della miseria e della marginalità sociale.

Tuttavia nel trattamento penale di quella particolare fascia di marginalità sociale costituita nel nostro paese dagli immigrati, non bisogna dimenticare che un ruolo estremamente criminalizzante lo giocano anche le normative sull'immigrazione. Esse - a parte il già segnalato apporto nell'emarginazione sociale, economica e giuridica degli immigrati, da cui discendono in buona parte i processi di “costruzione materiale” della criminalità degli stessi - quando si articolano in senso spiccatamente restrittivo delle possibilità di immigrazione regolare, espongono i migranti a dei processi di esplicita criminalizzazione e ad un severo controllo poliziesco.

Da una lato, infatti, le norme sull'immigrazione si portano dietro una costellazione di norme penali e di polizia volte al contrasto dell'immigrazione clandestina e, quindi, tendenzialmente dirette specificamente agli immigrati (15). Dall'altro lato poi, quanto più la normativa in materia di immigrazione è restrittiva, tanto più pressanti saranno i controlli polizieschi cui gli immigrati saranno esposti e, quindi, maggiori saranno le attenzioni che le agenzie di controllo sociale gli dedicheranno (16).

In particolare sembra che la relazione esistente tra la chiusura delle frontiere rispetto all'immigrazione e gli elevati tassi di delittuosità e carcerizzazione degli immigrati sia riscontrabile in tutte le nazioni “non di immigrazione”, cioè in tutti i paesi che, per una difficoltà culturale, non riescono a rappresentarsi come paesi aperti ad accogliere i nuovi venuti offrendo loro decenti possibilità di attuare un progetto migratorio in regola e di conseguire un'integrazione socio-economica. Tanto più le politiche immigratorie tendono ad essere restrittive, quanto più sembrano aumentare i tassi di carcerizzazione degli immigrati e le opinioni convinte della natura criminale degli stessi (17) e ciò ci pare strettamente correlato al fatto che un'ottusa politica immigratoria tende a favorire processi di riproduzione dell'irregolarità, con le loro conseguenze di marginalizzazione giuridica e sociale dei migranti, creando così una vera e propria sottoclasse esclusa dall'accesso alla cittadinanza sociale ed interamente affidata ad una «tutela poliziesca».

Il processo di costruzione ideologica della criminalità degli immigrati trova, dunque, il suo principale luogo di coltura nel cortocircuito securitario che ha investito la nostra penisola nell'ultimo decennio del secolo XX, oggetto della nostra indagine saranno infatti le attività processuali attraverso cui si pratica il controllo penale della marginalità sociale e si sanziona la fenomenologia criminale ad essa riferibile. Sarà, dunque, oggetto di verifica il peso che viene ad assumere in tali procedure la criminalizzante immagine sociale della povertà - ed in particolare lo stereotipo dell'immigrato criminale - che si è radicata anche in italia sul finire del secolo scorso

6.2: La ricerca

La ricerca svolta si basa sullo studio di un segmento molto particolare del “traffico penale” che le nostre agenzie di controllo sociale gestiscono: le cosiddette “direttissime”; procedimenti penali che tendenzialmente si instaurano a seguito di un arresto in flagranza e che, normalmente, si chiudono in un ristretto lasso di tempo, quantificabile in circa quaranta minuti.

La scelta di studiare questa specifica tipologia di procedimenti penali è stata dettata da due ordini di ragioni: in primo luogo da ragioni di natura eminentemente pratica, poiché seguire vicende processuali che si sarebbero potute snodare attraverso molte udienze avrebbe protratto la ricerca per un tempo eccessivamente lungo; in secondo luogo da ragioni più strettamente connesse con l'oggetto del nostro lavoro, essendo le “direttissime” la tipica forma processuale attraverso cui si tratta penalmente l'universo delinquenziale selezionato dalle agenzie amministrative durante il controllo del territorio e, dunque, il settore dell'attività processuale penale che più di ogni altro avrebbe dovuto subire l'influsso dei segnalati mutamenti nelle strategie di “governo della sicurezza”. Se, infatti, si assume siano stati gli immigrati extracomunitari il principale bersaglio della stretta securitaria che ha coinvolto la maggior parte dei nostri centri urbani nell'ultimo decennio del XX secolo, allora il principale riscontro di tale mutamento si sarebbe dovuto avere proprio nel tipo di traffico penale che passa quotidianamente in “direttissima”.

Inoltre, lo studio delle direttissime offriva una preziosa occasione per osservare il funzionamento di quell'insieme di istituti “negoziali” recentemente introdotti nel nostro ordinamento avendo a modello il plea bargain satunitense. Negli Stati Uniti le possibilità di negoziare variamente la sanzione penale contribuiscono da tempo a gestire circa il 90% del traffico penale ed una simile deriva verso forme di giustizia penale interamente contrattata sembra si sia innescata anche nel nostro paese. Lo studio delle direttissime ci consentiva di non riprodurre anche noi un'analisi dell'attività di sentencing che non tenesse conto del fatto che, anche in Italia ormai, la stragrande maggioranza delle pronunzie giurisdizionali viene fuori attraverso uno dei procedimenti di deflazione dibattimentale (18). Ciò ci consentiva, inoltre, di illuminare ulteriormente entrambe le questioni sollevate dal diffondersi della “negozialità” nei sistemi penali: tanto la questione giuridico-filosofica, relativa al fondamento assiologico di tali istituti in rapporto alle basi epistemologiche del sistema penale; tanto la questione storico-sociologica, relativa alle effettive funzioni che i riti negoziali sono venuti ad assumere nell'ambito del sistema penale italiano. L'essere della negozialità, infatti, nell'evidenziare le effettive funzioni degli istituti negoziali, consente di formulare un più fondato giudizio circa la giustificabilità assiologica (dover essere) di tali istituti, evitando che simili valutazioni abbiano ad essere espresse avendo riguardo ad una dimensione puramente astratta.

La ricerca sul sentencing si è, come accennato, distinta tra approcci più propensi a rilevare - per mezzo di più o meno complessi modelli statistici - come fattori quali la razza o la classe sociale dell'imputato agissero strutturalmente nel determinare un certo esito processuale ed approcci più propensi a vedere la selettività del sistema come il frutto degli atteggiamenti individuali dei singoli attori del controllo e, pertanto, portati a privilegiare un tipo d'analisi qualitativo. Tuttavia, seppur sostanzialmente convergenti negli esiti con le ricerche condotte secondo i postulati del labelling, ci pare che le ricerche sviluppate dai cosiddetti teorici del conflitto presentino una particolare debolezza teorica.

In entrambi i casi il presupposto di base da cui si parte consiste nell'idea che l'intero processo di controllo sociale sia impostato secondo una spiccata selettività a scapito dei ceti subalterni: “the lower class person is more likely to be scrutinized and therefore to be observed in any violation of the law; more likely to be arrested if discovered under suspicious circumstances; more likely to spend time between arrest and trial in jail; more likely to come to trial; more likely to be founded guilty and if found guilty more likely to receive harsh punishment” (19); tuttavia, nel caso dei teorici del conflitto, si arriva a sostenere esplicitamente che le corti “cannot be neutral like other political, social and economic institutions” e che esse, al contrario, “are simply resources used by different segments of society to advance their own interests. Becouse power and access to power are distribuited unequally in society, courts become an instrument of the powerful for maintaining their power” (20).

Tutte le indagini che sono andate alla ricerca di conferme empiriche a tali assunti teorici hanno cercato di individuare in astratto alcune variabili (razza, status sociale ed occupazionale, età, genere, etc.) e provato a testarne l'influenza sull'attività di sentencing, ma è appunto questo il loro limite intrinseco. Esse sono state capaci di individuare esclusivamente fattori in grado di incidere sul processo, mentre sono state totalmente inadeguate a spiegare anche come tali fattori funzionino nel processo.

Tali inconvenienti sono determinati dal fatto che tali analisi - come tutti gli approcci basati su quella che abbiamo indicato essere una forma tutto sommato volgare di marxismo - si limitano semplicemente a rilevare che l'apparato statale agisce sanzionando con la forza della legge gli interessi dominanti, senza poter giungere a spiegare come la selettività del sistema possa conciliarsi con un quadro giuridico formalmente egalitario e praticarsi senza che l'ideologia dell'uguaglianza di fronte alla legge penale vada in frantumi. Simili indagini, inoltre, esprimono un'implicita visione delle corti penali in base alla quale i giudici - piuttosto che agenti attivi di un autonomo lavoro di valutazione e giudizio - appaiono meri recettori di stimoli esterni che spingono alla discriminazione dei soggetti sociali svantaggiati o, nei casi peggiori, meri esecutori di una vera e propria cospirazione ordita dal Potere, dallo Stato o dal Capitale.

Per tali motivi - pur consci del fatto che l'enorme mole di indagini che tale tradizione teorica ha negli anni prodotto offre una sufficiente “plausibilità empirica” (21) all'idea che i giovani maschi della classe lavoratrice o le minoranze subiscano più facilmente la carcerazione rispetto ad altre categorie di persone e che ciò non abbia tendenzialmente alcun rapporto con il reato commesso e la sua gravità - abbiamo ritenuto più idonea a dar conto del come sia praticata e giustificata all'interno del sistema penale una tanto marcata selettività un tipo d'indagine qualitativa ispirata alle ricerche sul sentencing effettuate dagli etnometodologi.

In base a tale approccio è possibile individuare la «sapienza sociologica pratica» che gli operatori processuali utilizzano nel loro lavoro e verificare come ed in che limiti essa entra nel processo ed interagisce con le procedure operative ed i modelli giuridici che vincolano l'attività di giudici, pubblici ministeri ed avvocati.

L'obbiettivo della ricerca è, in sostanza, quello di individuare gli account, le strutture simboliche, di cui gli attori processuali si servono nello svolgere la loro quotidiana attività pratica ed in particolare quelle procedure interpretative, quelle tipizzazioni, per mezzo delle quali viene identificata, e trattata di conseguenza, la devianza degli immigrati. Tali tipizzazioni rappresentano la subcultura di giudici, pubblici ministeri ed avvocati, elementi simbolici che costituiscono vere e proprie “professional theories about the kind of person who commit crimes, why they commit them, and how such persons should be appropriately treated” (22) e, nell'insieme, sostanziano quella “conoscenza ordinaria” che all'interno di un gruppo (o sotto-gruppo) sociale non viene mai messa in questione, strutturandosi in vere e proprie “routine cognitive” che facilitano l'attività quotidiana: “la vita quotidiana è fatta di routines, e costruire «tipi» di cose che accadono significa rendere possibili tali routines, facilitandone il riconoscimento” (23).

Cercheremo di valutare, quindi, in che misura il sapere pratico utilizzato dai protagonisti attivi dei procedimenti penali (giudice, accusa e difesa) sia corrispondente ai saperi socialmente diffusi sulla criminalità degli immigrati ed entro quali limiti esso incida nel determinare l'an ed il quantum della sanzione penale. In che misura, dunque, “la criminalità degli immigrati ed il ruolo di questi ultimi in quanto «generatori di insicurezza»” possa rappresentare “un elemento simbolico rilevante nelle prassi quotidiane, oltre che un ambito di conoscenza condivisa e data per scontata della realtà sociale che consente di prendere decisioni penalmente rilevanti e di giustificarne la legittimità” (24).

Simili «tipizzazioni», lungi dall'avere un carattere oggettivo, sono elementi fondamentali della stessa realtà, cui pure pretenderebbero di riferirsi descrivendola, contribuendo in maniera decisiva alla sua costruzione materiale. Aspettative cognitive rigidamente pre-strutturate (i “normal crimes” di Sudnow), infatti, potrebbero alimentare un'attività processuale basata su schemi presuntivi difficilmente superabili da parte delle difese, tanto più quando gli stessi avvocati partecipano della conoscenza di senso comune data per scontata, orientando di conseguenza le proprie strategie difensive.

Il problema si pone, com'è evidente, allorché un difensore debba valutare quante risorse spendere nella difesa del suo assistito: è tanto più probabile, infatti, che la difesa si limiti ad una presenza meramente formale, trasformando il processo in una mera routine, quanto più essa sarà convinta del fatto che il reato imputato al suo assistito presenti caratteri di “normalità” rispetto al tipo di persona che si tratta di giudicare. In questi casi è frequente il ricorso a formule difensive “di stile” - come il rimettersi al giudizio della corte - e difficilmente vengono attivate risorse processuali di alcun tipo (25).

Tali distorsioni dell'attività degli attori processuali sono come sappiamo estremamente favorite dalla presenza nel nostro sistema di istituti dallo spiccato carattere poliziesco-disciplinare o dalle perversioni inquisitorie del nostro processo penale: in tutti questi casi il peso degli stereotipi criminali risulta alimentato dal fatto che le valutazioni personologiche siano addirittura imposte al giudice o dalla circostanza che il sistema consenta di eludere variamente la prova del fatto di reato contestato.

Il nostro progetto di ricerca, dunque, si poneva l'ambizioso obbiettivo di provare a valutare in che misura l'ingresso nel processo di «tipizzazioni», schemi presuntivi o conoscenze di senso comune non fosse oltremodo amplificato dalla connotazione disciplinare del nostro sistema penale.

In quest'ottica il processo per direttissima - in tutte le fasi in cui è scomponibile: arresto, convalida dell'arresto, applicazione di una misura cautelare, eventuale scelta di un rito alternativo, giudizio e concretizzazione della pena - appariva un concentrato formidabile di alcuni degli istituti più tipici fra i tanti che abbiamo visto comporre il nostro sotto-sistema penale di polizia.

La questione era quella di capire in base a che tipo di account gli attori processuali coinvolti spiegassero le principali scelte cui quotidianamente li chiama la sequenza processuale attraverso cui si snodano le direttissime, per verificare entro quali limiti le conoscenze socialmente diffuse sulla criminalità degli immigrati non facessero il loro ingresso nel processo penale, favorendo conclusioni della vicenda del tutto indipendenti da un serio accertamento del fatto di reato. In questi casi, più che seri elementi istruttori, sono gli schemi presuntivi basati sugli stereotipi criminali circolanti a selezionare ed identificare la devianza degli immigrati trattata dal sistema, venendo così a circoscrivere la realtà che sarà riflessa dalle statistiche penali e dibattuta, poi, dall'opinione pubblica.

La nostra ricerca intende focalizzarsi, dunque, su un momento centrale nella spirale di produzione/riproduzione della devianza degli immigrati: quello in cui gli imput provenienti dall'opinione pubblica fanno il loro ingresso, sotto forma di stereotipi, nel processo penale influendo sull'azione della magistratura che, a sua volta, ha un ulteriore effetto di ritorno sull'opinione pubblica, restituendo a questa un prodotto statistico parzialmente alterato ed alimentando ulteriormente, così, una certa immagine negativa degli immigrati.

Per analizzare questo processo di costruzione sociale della criminalità degli immigrati, abbiamo utilizzato più di uno strumento d'indagine empirica di tipo qualitativo: l'osservazione dei processi, l'intervista dei principali attori processuali coinvolti (giudici, pubblici ministeri ed avvocati) e la consultazione dei fascicoli processuali.

L'indagine è stata svolta presso il Tribunale Monocratico di un centro urbano medio/grande del centro-nord Italia che, come tutti gli agglomerati con caratteristiche simili, ha subito una forte ondata migratoria negli ultimi dieci anni, nonché l'esplodere di movimenti d'opinione intesi a chiedere maggiore “sicurezza” e, più in generale, la totale eliminazione degli immigrati dallo spazio urbano.

Il periodo di lavoro dedicato alla raccolta del materiale empirico è andato da marzo a dicembre del 2001 ed è ripartibile in tre distinte fasi.

  1. La prima fase della ricerca si è svolta tra marzo e giugno del 2001 ed è consistita nell'osservazione di quaranta procedimenti per direttissima. Data l'esiguità del campione non è possibile trarne dati di tipo quantitativo di una qualche rilevanza, né sarebbe utile, visti i presupposti teorici del nostro lavoro. In ogni caso, nella selezione - tutto sommato casuale - dei processi da osservare, si è cercato di creare un campione che contenesse un eguale numero di procedimenti a carico di italiani e di extracomunitari (cosa non molto facile data la schiacciante preponderanza dei secondi fra gli arrestati giornalieri), in modo da avere dei termini di paragone per poter valutare eventuali differenze nello svolgimento del procedimento a carico delle due categorie di imputati. Il lavoro di osservazione, comunque, è servito in prevalenza all'individuazione di una serie di questioni da sottoporre successivamente agli intervistati. In particolare è valso ad individuare con più precisione gli snodi processuali fondamentali attraverso cui si svolgono i procedimenti per direttissima, nonché ad osservare sul campo quelle che sono le effettive interazioni fra gli attori processuali e gli imputati, con particolare riguardo ai contatti fra difensore e suo assistito. Dai processi seguiti, inoltre, sono stati tratti degli appunti in forma riassuntiva dell'intero svolgimento delle vicenda processuale. Appunti particolarmente rilevanti rispetto agli episodi che normalmente non confluiscono nei verbali d'udienza: come le ragioni che solitamente accompagnano le richieste delle parti processuali, normalmente verbalizzate in forma riassuntiva dagli ausiliari del giudice; nonché le motivazioni orali di alcuni provvedimenti del giudice (come la fondamentale ordinanza cautelare) che spesso nei documenti presenti nel fascicolo sono giustificate per mezzo di mere “formule di stile”. Ma sono serviti soprattutto a documentare quanto riguarda tutto quell'insieme di relazioni informali che, spesso, incidono notevolmente nell'applicazione, in un senso piuttosto che in un altro, delle norme di legge: esortazioni, rimproveri, battibecchi, tentativi di patteggiamenti, reticenze o imprecazioni degli imputati ecc.
  2. La seconda fase della ricerca si è svolta tra luglio ed ottobre del 2001 ed è consistita nell'effettuazione di quindici interviste ai principali attori processuali: cinque pubblici ministeri, cinque avvocati e cinque giudici (26). La scelta dei soggetti da intervistare è avvenuta cercando di privilegiare, nei limiti del possibile, l'audizione di quanti, fra gli avvocati i pubblici ministeri e i giudici, erano stati visti al lavoro nel corso dell'osservazione sul campo, sperando, in tal maniera, di poter ottenere un immediato riscontro tra le parole degli intervistati e le loro prassi operative confluite negli appunti raccolti in aula. Le interviste sono state modellate sul tipo delle «interviste semistrutturate» (27): condotte, cioè, seguendo una traccia di fondo costruita sulla base della pregressa osservazione delle vicende processuali; anche se il colloquio con gli intervistati ha spesso assunto un carattere libero, consentendo occasionalmente l'approfondimento di argomenti anche non previsti nella griglia di questioni preparata originariamente. Tutto sommato i colloqui miravano ad evidenziare l'immagine del tipo di delinquenza trattata nelle direttissime che gli attori processuali possedevano ed, in particolare, come tale sapienza criminologica pratica riuscisse ad orientarli nel corso della loro attività. Uno specifico riguardo è stato dedicato, inoltre, all'utilizzazione di tali saperi pratici che viene fatta nel momento in cui si tratta di applicare alcuni istituti giuridici dallo spiccato carattere poliziesco o, comunque, denotati da gravi carenze sotto il profilo della formulazione tecnico-semantica della fattispecie; nonché nel momento di alcuni snodi processuali fondamentali come la scelta del rito o la concretizzazione della pena. Si è cercato di evidenziare, in sostanza, come e quanto entrino in gioco i saperi pratici a disposizione degli attori processuali nel tentativo di indirizzare - da parte di pubblico ministero ed avvocato - e nell'esercitare quello sconfinato potere dispositivo che la legge spesso attribuisce al giudice. Con un particolare riguardo al tentativo di capire quale ruolo giocassero una certa sapienza criminologica, certi presupposti di senso comune, certe rigide categorizzazioni, rispetto alle decisioni che gli attori processuali sono costretti quotidianamente a prendere, anche rispetto a quelle apparentemente più neutre perché basate su rigidi parametri tecnico-giuridici.
  3. La terza ed ultima fase della ricerca si è svolta tra ottobre e dicembre del 2001. Essa è consistita nella consultazione dei fascicoli processuali relativi alle vicende osservate ed il suo scopo risiedeva principalmente nel riuscire ad ottenere tutta una serie di informazioni a completamento degli appunti raccolti in udienza. Spesso infatti, a causa della distanza che c'era fra l'area dell'aula riservata al pubblico e l'area dove risiedevano le parti processuali ed il giudice, nonché dell'affollamento della stessa, è stato complicato cogliere tutti i passaggi verbali del procedimento. Ma, ancor più di frequente, nel dibattere sulla vicenda le parti rimandavano a documenti presenti nel fascicolo processuale, dando per presupposte circostanze (anche molto rilevanti come vedremo) quali i precedenti del soggetto, l'effettivo quantitativo di sostanza stupefacente sequestrata, ecc., che i semplici uditori ignoravano completamente. L'unico modo di completare la documentazione a nostra disposizione è stato, dunque, quello di accedere direttamente ai fascicoli processuali. Tuttavia, attraverso i documenti ivi presenti è stato possibile raccogliere ulteriori account circa l'attività svolta dagli attori processuali, come le motivazioni ufficiali di alcuni provvedimenti fondamentali quali l'arresto in flagranza operato dall'autorità amministrativa o la stessa motivazione della sentenza, che difficilmente vengono illustrati in udienza. I documenti più significativi sono stati raccolti nell'ambito degli appunti relativi al processo cui si riferiscono ed allegati in appendice al nostro lavoro. In ogni caso non tutte le vicende processuali osservate sono state riportate in appendice, ma solo una selezione mirata a raccogliere, fra tutte, le più significative e paradigmatiche (28). Esse, inoltre, vanno intese quale mero complemento alle parole che è stato possibile raccogliere tramite i colloqui con gli intervistati, di cui in sostanza costituiscono il risvolto pratico. Peraltro non è stato possibile completare la documentazione di tutti i procedimenti da noi osservati, poiché (a parte casi di vero e proprio smarrimento dei fascicoli nei meandri della cancelleria del tribunale!) molte delle vicende in questione erano, durante il periodo in cui completavamo la terza fase della nostra ricerca, pronte per essere trattate in appello (e dunque il relativo fascicolo risultava essere a disposizione del giudice competente) o in Cassazione (e dunque al di fuori della nostra portata). L'integrazione svolta si è, comunque, limitata a completare il quadro relativo al primo grado di ogni vicenda, posto che la nostra osservazione sul campo era stata circoscritta a quella fase di giudizio. Sono state annotate solo sommariamente, dunque, tutte le informazioni - seppur occasionalmente disponibili - relative agli ulteriori gradi di giudizio.

Illustreremo adesso i risultati della nostra ricerca, seguendo lo schema di base utilizzato durante i colloqui con gli attori processuali. Pertanto, dopo un'analisi dell'immagine dell'universo criminale cui questi si riferiscono nel corso della loro attività pratica, passeremo ad analizzare in che modo tale visione li orienti nel corso del processo, seguendo la scansione procedurale che dall'arresto porta alla sentenza di primo grado.

6.3: L'universo criminale. Tipologie delittuose

Il primo profilo da indagare riguarda quello che potremmo definire l'“universo criminale” trattato nei procedimenti per direttissima.

Sappiamo che in direttissima si arriva tendenzialmente (29) previo arresto in flagranza e che, secondo gli artt. 380, 381 c.p.p., diverse sono le fattispecie - sovente anche molto gravi - che consentono l'effettuazione di un arresto da parte della polizia giudiziaria.

Il nostro codice, inoltre, distribuisce la competenza in materia penale in primo grado fra organi diversi a seconda della gravità del reato per cui si procede: la distinzione principale è a riguardo fra reati di competenza della Corte d'Assise e reati di competenza del Tribunale, in quest'ambito, poi, a seguito della riforma del 1998, si distingue ulteriormente fra la competenza del Tribunale Collegiale e quella del Tribunale Monocratico.

In linea di massima, dunque, sono diverse le tipologie delittuose che potrebbero “finire” in direttissima e ciascuna chiama in causa la competenza di un diverso organo giurisdizionale. Tuttavia arbitro della questione resta sostanzialmente il pubblico ministero, cui la legge rimette la facoltà di scegliere se svolgere delle indagini ulteriori o meno, procedendo ad un immediato giudizio. Ed è evidente che, già sotto questo profilo, l'universo delinquenziale che arriva immediatamente - nel breve lasso di tempo previsto per la direttissima - innanzi ad un giudice presenta caratteristiche che agli occhi degli attori del processo non rendono necessaria un'eccessiva spendita di tempo e risorse

Credo il rito direttissimo si distingua per tipologia d'autori. Le persone che vengono comunque arrestate nell'immediatezza del fatto, per cui poi si arriva alla convalida dell'arresto ed alla direttissima, normalmente, per quello che è la mia esperienza, fanno parte di un “criminale” abbastanza scalcinato, di solito sono un po' balordi. (A - I)

le direttissime riguardano proprio la marginalità, gente che vive sulla strada o tossicodipendenti. (PM - I)

Un “criminale scalcinato”, dunque, che si distingue da altri fenomeni delinquenziali anche per la scarsa difficoltà che presentano le indagini

sono le piccole cose che si mandano in direttissima, perché il rito per direttissima è incompatibile con l'esigenza di sviluppare le indagini, quindi se sono cose semplici vanno per direttissima altrimenti non ci vanno. (PM - II)

Facciamo le direttissime soprattutto per i fatti meno gravi, perché vi sono reati come le rapine in banca per cui ci può essere l'arresto, ma non segue la direttissima all'arresto perché la complessità delle indagini suggerisce un altro percorso processuale.

È chiaro che la direttissima è uno screening sul reato di modesta difficoltà d'indagine, dove non è necessario riconnettere eventualmente condotte di concorrenti, insomma dove lo spettro d'indagine rimane molto modesto sul fatto singolo si fa la direttissima, questo incide perché appiattisce i reati sul basso. (G - I)

Per altri versi poi, un'ulteriore selezione potrebbe essere effettuata nell'organizzazione pratica dell'ufficio, poiché, come ci confermano gli attori processuali da noi intervistati, ogni foro penale può scegliere di destinare diversi percorsi processuali ai reati commessi in flagranza

Per quanto riguarda l'esperienza di (...) c'è da dire che il rito direttissimo viene adottato quasi esclusivamente per reati di competenza del giudice monocratico, quindi difficilmente per i reati di competenza collegiale si utilizza questo tipo di procedura, si va davanti al G.I.P. per la convalida dell'arresto, con eventuale applicazione di una misura cautelare e poi si segue il rito ordinario con il rinvio a giudizio o al limite ipotesi di giudizio immediato.

Per i reati invece di competenza monocratica, si procede ritualmente con la direttissima. (G - II)

Una simile organizzazione dei diversi percorsi da far seguire ai procedimenti pendenti implica, com'è evidente, una ben precisa scelta di politica criminale: solo alcuni reati (30) seguono la corsia preferenziale che porta dall'arresto all'immediato giudizio e non solo per ragioni di ordine, per così dire, istruttorio

come politica noi abbiamo deciso come ufficio (si tratta del Tribunale Monocratico)...noi non riusciamo a fare i processi che dovremmo fare la struttura è assolutamente inadeguata, però abbiamo deciso di fare tutte le direttissime, di farle direttamente noi, mentre prima per esempio si procedeva in molti casi alla convalida da parte del G.I.P., poi trattenendo, se veniva applicata la misura cautelare, il soggetto in stato di detenzione, procedendo poi non addirittura alla direttissima, ma a un processo immediato, ad alcuni mesi di distanza.

Noi abbiamo cercato di dare una risposta immediata, giornaliera, per cui noi in un giorno, o due giorni, facciamo la direttissima e applichiamo la misura, se vogliamo, ma già con una sentenza di primo grado insomma.

(...)

Questo comporta dei problemi perché, per esempio, per i reati di droga è necessario avere gli accertamenti chimici e per questo c'è uno sforzo notevole della polizia, che fa immediatamente tutti gli accertamenti, ma lo fa in giornata, cioè per loro è una fatica incredibile fare le direttissime perché: magari provvedono all'arresto in direttissima, non dormono la notte, vengono qui il giorno dopo, per testimoniare, per far la relazione, fanno fare le analisi, noi chiediamo i precedenti dattiloscopici e quindi devono rilevare le impronte, prendere i precedenti...è un'attività molto complessa, soprattutto per la polizia veramente impegnativa, ma è una risposta importante, è l'unico modo per riuscire a dare un po' una risposta, se vogliamo, a questi fenomeni di micro-criminalità.

Poi bisognerebbe rispondere anche alla grande criminalità ma questa è un'altra questione...(G - III)

Una scelta di politica criminale, dettata dall'esigenza di offrire una risposta pronta ed efficiente a quel fenomeno delinquenziale che, più di altri, ha - nell'ultimo decennio del XX secolo - attirato l'attenzione dell'opinione pubblica, ma ponderata anche sulla base di un esplicito ragionamento di economia politica delle risorse processuali, che già abbiamo visto fondare la scelta del legislatore di inserire all'interno del nuovo processo penale un ampio novero di procedimenti speciali

Ma sa il 70 % dei processi sono processi in materia di stupefacenti, anche perché molto spesso gli altri processi non si fanno, questo va anche detto.

Siamo in una situazione in cui i processi che si fanno sono i processi per direttissima e i processi con detenuti, cioè persone che sono in stato di custodia cautelare, che possono essere per rapina, per violenza sessuale insomma...

Questi processi tendenzialmente vengono fatti, c'è però una situazione complessiva, chiamiamola del sistema giustizia, per cui di processi se ne fanno veramente pochi di questi tempi ed anche la riforma del giudice monocratico, che avrebbe dovuto sortire una ripresa di un'attività processuale degna di un paese civile, al momento non è così!

Cioè i processi che vengono rinviati...se lei viene un giorno ad un'udienza di un Tribunale Collegiale, si accorgerà che la maggior parte dei processi vengono rinviati a tempi lunghissimi, quindi tutti i processi con imputati liberi...l'altra mattina ce n'erano dieci, nove sono stati rinviati, per dirle, ma è un dato quotidiano.

Quindi i processi che si fanno sono questi processi, dove c'è una componente di disagio sociale ovviamente fortissima e dove ci sono extracomunitari, dove c'è anche una presenza italiana legata alla tossicodipendenza.

(...)

Il sistema delle direttissime funziona, è l'unica cosa che funziona diciamo la verità!

(A - II)

Sotto questo profilo, dunque, abbiamo già delle precise indicazioni: nel foro di (...) i procedimenti per direttissima effettuati contestualmente alla convalida dell'arresto, che avviene secondo il dettato dell'art. 13 Cost. entro novantasei ore, riguardano solamente i reati di competenza del Tribunale Monocratico e, dunque, delle fattispecie il cui limite edittale non supera nel massimo i dieci anni e, tutto sommato, in situazioni probatoriamente poco difficoltose (31).

Si tratta di criminalità di piccolo cabotaggio cui è riservata, secondo questa prassi, una corsia del tutto preferenziale. Un tipo di delittuosità rispetto alla quale si punta decisamente verso un'alta produttività della macchina giudiziaria, anche a detrimento, delle volte, della stessa qualità delle pronunzie.

Nello specifico, poi, è possibile delineare un preciso elenco di reati più frequenti, nell'individuazione del quale, peraltro, c'è un'assoluta concordanza fra tutti gli attori del processo

direi che le tipologie di reato più frequenti sono sicuramente detenzione con finalità di spaccio di sostanze stupefacenti, reati contro il patrimonio, quindi furti aggravati, rapine, soprattutto rapine improprie, furti che si trasformano poi, per l'uso di violenza, in rapine improprie, questi sono i casi più frequenti. (A - II)

Sicuramente sono le ipotesi di piccolo spaccio, cioè detenzione e piccolo spaccio, 73 che poi diventa automaticamente 73 quinto comma e di furti aggravati oppure quelle piccole rapine improprie; queste sono certamente le fattispecie che si verificano più frequentemente perché sul campo sono quelle che la polizia individua più facilmente.

(...)

Qualche ipotesi di resistenza ma sempre collegata a questo tipo di reati e cioè: o la reazione in ipotesi di accertamenti per stupefacenti e allora ci può essere questo caso, ma direi che proprio l'ipotesi di reati con violenza alla persona o semplicemente di resistenza aggravata perché in danno a P.U. singolarmente presa è difficile, è più rara. (PM - III)

Più o meno sono sempre gli stessi reati, la stragrande maggioranza sono episodi di piccolo spaccio...hashish di solito, quindi droghe leggere, qualche volta cocaina ma abbastanza raramente.

Poi direi che il restante 50% sono furti o tentati furti, le fattispecie sono queste.

No quelle più frequenti, direi che si dividono in 50% piccolo spaccio e 50% furti.

Poi c'è qualche episodio di resistenza a P.U. con lesioni, ma sono diventate abbastanza rare insomma.

Di solito è connessa con un tentativo di arresto per furto o piccolo spaccio, quindi le ipotesi sono sempre quelle, cioè la resistenza viene posta in essere quando c'è una sorpresa in flagranza. (PM - I)

Esiste il problema della droga, che è il primo punto: detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, che costituisce forse l'ipotesi maggioritaria come numero di arresti in flagranza di reato.

Poi abbiamo i furti naturalmente e qui dobbiamo distinguere i vari tipi di furti, ci sono delle specializzazioni, chiamiamole così, e poi ci sono alcune ipotesi di resistenza e lesioni.

Altri reati adesso non mi vengono neanche in mente sinceramente...i danneggiamenti sono rari...risse! Ecco cosa dimenticavo: c'è la rissa.

Quindi metterei prima gli stupefacenti, poi ci sono i furti, resistenze e lesioni e poi le risse. (G - III)

La tipologia di reato più frequente è l'ART. 73 del D.P.R. 309/1990, quindi cessione di sostanze stupefacenti, in particolare cessione di modiche quantità, quindi fatti di lieve entità, pertanto quinto comma ART. 73.

Più che di sostanze stupefacenti pesanti si tratta di hashish, dal punto di vista statistico proprio, questo a mio avviso copre almeno il 50% degli arresti, direi di più, ma almeno il 50%.

(...)

Altre tipologie delittuose sono: il furto, aggravato perché quasi tutti i furti sono aggravati; talvolta la rissa; altri fatti di violenza come lesioni, percosse, minacce, fatti di questo tipo che si sviluppano spesso a grappolo cioè comincia con un'azione di ingiuria, poi si passa allo scontro fisico...ecco. (G - I)

La precisione con cui i brani riportati si ripetono non lascia spazio a nessun tipo di dubbio: ogni mattina l'attività del Tribunale Monocratico di (...) si concentra su questo circoscritto ambito di tipologie delittuose, con pochissime variazioni; si evidenzia inoltre una nettissima prevalenza di reati determinati da un fine “acquisitivo” come i reati contro il patrimonio, ovviamente, e lo spaccio di stupefacenti, salvo poi dover trattare occasionalmente qualche episodio violento causato da una reazione all'intervento delle forze dell'ordine.

Tutto sommato un'attività abbastanza monotona, di routine - come qualcuno degli intervistati non ha mancato di sottolineare, che si fa carico di un tipo di delittuosità spicciola, ricorrente per le strade di ogni centro urbano di una certa dimensione. L'efficiente macchina delle direttissime è riservata al trattamento della criminalità dei ceti marginali, rispetto alla quale - a partire dall'esplosione anche in Italia di una questione “sicurezza urbana” - sempre più pressante si è fatta l'esigenza di una maggiore produttività del sistema.

Tuttavia, nonostante si tratti di episodi dalla gravità spesso irrisoria, queste fattispecie presentano alcuni aspetti di una certa rilevanza sotto il profilo tecnico-semantico, soprattutto dal punto di vista dell'ampiezza del potere dispositivo che esse attribuiscono al giudice. Nell'applicarle, infatti, il giudice è chiamato ad operare tutta una serie di valutazioni che poco hanno a che fare con l'accertamento di un fatto, le quali sono peraltro in grado di determinare, se non la stessa rilevanza penale della vicenda, perlomeno il quantitativo di sanzione applicabile, incidendo in maniera decisiva sulla scelta dello stesso titolo di reato da applicare o, al limite, sulla sussistenza di circostanze attenuanti o aggravanti.

In questi casi vi sono tutti i presupposti perché si verifichino anche macroscopiche disparità di trattamento fra imputati che in tribunale si portano dietro un certo stigma sociale ed imputati che non appaiono a prima vista gli autori “normali” del reato contestatogli.

6.3.1: Reati in materia di stupefacenti

In primo luogo c'è da considerare l'art. 73 D.P.R. 309/1990, il cosiddetto “spaccio”, in assoluto, secondo quanto riferitoci dagli stessi attori processuali, il reato più perseguito in questo genere di processi.

Nell'immaginario collettivo il termine “spacciare” richiama alla mente l'atto di cedere alcunché, in realtà il nostro legislatore ha ricompreso nella previsione dell'art. 73 un florilegio vastissimo di condotte: “chiunque (...) coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene”.

Nella realtà concreta, però, si tratta soprattutto di vicende riguardanti qualcuno colto nell'atto di cedere un determinato quantitativo di sostanza ovvero, caso ancor più frequente, semplicemente in possesso della stessa.

Sappiamo che a seguito del referendum abrogativo del 1993, la semplice assunzione di sostanze stupefacenti non è più considerato comportamento penalmente rilevante, tuttavia il legislatore ha inteso mantenere l'incriminazione relativa alla semplice “detenzione”, arretrando così la soglia di punibilità sino a colpire un comportamento che rappresenta il mero presupposto di una cessione ma, evidentemente, non è ancora una cessione in sé, né, tanto meno, ha un suo sbocco necessario in essa.

La norma specifica a riguardo che è reato il comportamento di chi “comunque illecitamente detiene fuori dalle ipotesi previste dall'articolo 75”, nel quale sono previste alcune sanzioni amministrative per chi detiene sostanze stupefacenti “per farne uso personale”.

La “detenzione illecita” dunque è solo quella per uso “non personale”, il che costringe il giudice, accertata la detenzione, a ricavare altrimenti la convinzione circa la finalità di un atto di per sé penalmente irrilevante

Siamo in presenza di un reato che sotto il profilo materiale presenta una condotta assolutamente neutra perché è una condotta che coincide esattamente dal punto di vista ripeto materiale con la violazione amministrativa dell'art. 75.

Lì la differenza la fa spesso la condizione soggettiva del detentore, oppure circostanze logiche...(A - III)

In questo caso, come in ogni “fattispecie di sospetto” o in ogni fattispecie che pone l'accento sull'intenzionalità, sulla finalità di una determinata condotta di per sé lecita, il baricentro dell'indagine del giudice si sposta dal fatto all'autore e, come giustamente sottolinea il nostro avvocato, il giudice trarrà il suo convincimento circa la finalità della detenzione dallo stile di vita del soggetto, dal suo modo di essere o da altre “circostanze logiche”; tuttavia però

spesso i giudici sono persone di media età, persone adulte, mature, che conoscono anche poco quel tipo di ambiente e tutte le costellazione intorno, fino ad arrivare alla soglia fra chi tratta stupefacenti e chi consuma stupefacenti, per cui alla base di una valutazione di gravità indiziaria c'è l'involucro o le modalità di detenzione dello stupefacente.

Raramente un giudizio di gravità indiziaria si fonda su questi fatti oggettivi, quando le medesime modalità di conservazione dello stupefacente, di detenzione dello stupefacente, sono quelle del consumatore, perché quando va a comprare lo stupefacente lo trova in una determinata confezione, è la stessa confezione che aveva pochi istanti prima il venditore.

Per cui si assiste a delle sorta di presunzioni che denunciano una mancanza assoluta di conoscenza del fenomeno dal punto di vista sociologico (A - III).

È chiaro che in questi casi un giudice, che si può ragionevolmente supporre difficilmente abbia avuto modo di accumulare un'esperienza diretta in materia, si trova a dover valutare se tutta una serie di atteggiamenti o circostanze fattuali possano o meno far ricondurre l'ipotesi nella previsione dell'illecita detenzione e ciò senza alcun parametro certo cui poter appigliarsi nel valutare il quadro indiziario (32).

Egli si troverà a dover valutare tutta una serie di circostanze che, a volte, potrebbero essere assolutamente univoche nell'indicare la destinazione della sostanza, ma che, più spesso, non sono utilizzabili al di fuori di un complessivo giudizio di natura presuntiva. Questo è già un primo caso in cui entra in gioco, nell'aiutare il ragionamento giudiziario ad inquadrare secondo una - piuttosto che un'altra - chiave di lettura determinate circostanze fattuali di per sé penalmente irrilevanti, il bagaglio di saperi pratici cui gli attori processuali fanno riferimento ed, in particolare, quell'insieme di nozioni di senso comune criminologico in base alle quali si ritiene di poter individuare in un determinato soggetto i caratteri del «tipico criminale».

Il quadro simbolico in cui collocare ed interpretare gli elementi indiziari a disposizione, dunque, è inevitabilmente fornito, in questi casi, dalle caratteristiche soggettive dell'imputato: tanto più egli sarà vicino all'immagine del «tipico spacciatore», quanto più verosimile sarà ritenuta l'accusa mossagli e coerenti gli indizi anche più deboli. E sono intuibili a riguardo gli svantaggi cui possono andare incontro quelli che, come vedremo a breve, sono considerati dagli attori processuali gli spacciatori per eccellenza: gli immigrati extracomunitari di origine nord-africana. In questi casi infatti

è una difesa in salita, perché essendo appunto le condizioni soggettive il discrimine e le condizioni soggettive nella quasi totalità dei casi sono sfavorevoli, nell'ottica giudiziale, è evidente che si tratta di risalire una montagna.

Li bisogna cercare di appigliarsi alle circostanze del caso concreto per tirare fuori gli elementi logici che depongono a favore del consumo personale, adesso fare una casistica sarebbe difficile...

(...)

Però, ecco, riuscire a dimostrare il consumo personale di uno straniero è molto complesso, per dimostrare il consumo personale occorre soprattutto dimostrare la capacità economica per procacciarsi lo stupefacente, allora se uno è uno straniero però è in regola con il permesso di soggiorno ed ha uno stipendio, per quale ragione non può avere il vizio dello spinello come l'italiano.

È chiaro che se lo occultava all'interno di biancheria intima forse aveva qualche timore, di più di chi lo conservava in tasca (A - III).

In questi casi dunque, peraltro statisticamente frequentissimi, è più l'immagine che il giudice ha dell'imputato che un qualche accertamento fattuale a determinare l'esito della vicenda.

Tuttavia di una certa rilevanza è, nell'economia complessiva dei giudizi ex art. 73 D.P.R. 309/1990, anche lo stabilire se la vicenda sia inquadrabile o meno nel quinto comma dell'articolo in questione.

Si tratta in questi casi di una fattispecie attenuata che consente di applicare una pena tra un minimo di uno ed un massimo di sei anni di reclusione (più una multa da cinque a cinquanta milioni delle vecchie lire), in luogo della reclusione da otto a venti anni (più una multa da cinquanta a cinquecento milioni) prevista dal primo comma per le droghe cosiddette pesanti; ed una pena tra un minimo di sei mesi ed un massimo di quattro anni (più una multa da due a venti milioni), in luogo della reclusione da due a sei anni (più la multa da dieci a centocinquanta milioni) prevista dal quarto comma per le droghe cosiddette leggere.

Com'è intuibile, è questa una valutazione di non poco conto in vista della sanzione applicabile ed a riguardo il giudice è chiamato a considerare se “per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti (...) sono di lieve entità”. Anche a questo proposito però la certezza del diritto appare sotto diversi profili una chimera: tanto dal punto di vista della determinazione del “quantitativo di lieve entità”, che nell'individuazione di quelle “modalità” o “circostanze” dell'azione che giustificherebbero un trattamento più mite.

In relazione alla prima questione, infatti, caduto con il 1993 il riferimento alle dosi medie giornaliere (stabilito dalla tabella I prevista dal D.M. nº 186 1990) manca un qualsiasi parametro legislativo cui rifarsi

non esiste un indirizzo uniforme, i magistrati spesso ragionano in maniera radicalmente diversa, per cui non c'è un indirizzo unitario, ci sono magistrati che si comportano diversamente, ma in modo davvero diverso, in confronto a quantitativi uguali di sostanza stupefacente, dipende ovviamente anche da quello che è l'atteggiamento politico culturale di fronte a questo tipo di situazione (A - II).

Purtroppo non c'è un limite preciso per poter rientrare nel quinto comma, dipende molto anche dal giudice che ti capita la mattina in cui vai a fare la direttissima, perché ci sono orientamenti giurisprudenziali chiaramente diversi...All'interno dello stesso tribunale, si, purtroppo si.

(...)

Su questo punto non hanno mai evidentemente raggiunto un accordo preciso, perché ci sono casi, questo in particolare poi si nota soprattutto davanti al G.I.P., quando seguono la convalida normale, oppure quando si vanno a fare dei giudizi abbreviati, perché, per le stesse medesime dosi, alcuni giudici applicano il quinto comma ed altri giudici ritengono ci sia il primo comma (A - IV).

C'è da dire questo: che vi sono fattispecie che chiaramente possono essere sussunte nell'ART. 73 comma quinto, perché si tratta di pochi grammi di sostanza stupefacente, mi riferisco all'hashish che viene venduto su strada da gente che ha due grammi, tre grammi, dieci grammi di questa roba; ma anche per quanto riguarda lo spaccio di sostanze della prima tabella in effetti si fa largo uso del comma quinto perché vengono rintracciati pochi grammi. C'è un problema dogmatico molto grosso a proposito della quantificazione della sostanza stupefacente, cioè che non c'è, almeno presso il tribunale di (...), comunque credo sia un fatto quanto mai diffuso, non vi sono dei criteri unitari per valutare se una determinata fattispecie criminosa di detenzione di sostanza stupefacente al fine di spaccio sia, in relazione a certe quantità, sussumibile in un quarto comma, in un quinto comma, in un primo comma, cioè vi sono giudici che ritengono, che ne so, che venti grammi di eroina possano costituire un quinto comma pesante e altri che ritengono che sia già sussumibile nel primo comma, una fattispecie gravissima perché parte da otto anni di reclusione.

La stessa cosa avviene per le droghe cosiddette leggere, sui trenta, trentacinque grammi, quaranta grammi di canapa indiana alcuni giudici ritengono sia un quinto comma seppure di notevole importanza, altri credono sia un quarto comma (PM - IV).

Oggettivamente devo dirle che ancora un criterio non me lo sono fatto, non sono molti anni che mi occupo di queste cose, quindi non lo so!

Tendenzialmente si tratta di guardare alle dosi che si riescono a ricavare da questa sostanza e in genere la cosa migliore sarebbe la dose media giornaliera, perché tiene conto del principio attivo, più che la dose commerciale, però tutte e due sono rilevanti e secondo me bisogna guardare al dato oggettivo, non tanto soggettivo, cioè dei precedenti o meno, anche se si può guardare pure quello.

Sinceramente non glielo so dire...però sopra a 15, 20 dosi medie giornaliere siamo già fuori dal quinto comma, 15, 20 direi...però non ho un criterio oggettivo si tratta di valutare un po' caso per caso (G - III).

Non esiste, dunque, un criterio preciso e, sul punto, si va spesso incontro a macroscopiche disparità di trattamento. La situazione è inoltre complicata dalla formulazione del quinto comma, che, come qualche accenno ci ha già anticipato, parlando di “mezzi”, “modalità” e “circostanze” dell'azione non sembra rimandare al mero criterio quantitativo, ma consente di spaziare prendendo in considerazione anche altri elementi, tra cui tendono a rientrare con una certa insistenza considerazioni sulla tipologia d'autore

peraltro il quinto comma non riguarda solamente il principio che attiene alla quantità dello stupefacente, ma il 73 quinto comma fa riferimento anche ad altri elementi: circostanze e modalità dell'azione, mezzi dell'azione; per cui evidentemente non va considerato esclusivamente quel parametro, è chiaro che è un parametro importante il quantitativo, però ci sono anche altri elementi, ad esempio l'occasionalità della condotta, che possono consentire di qualificare comunque il fatto di lieve entità.

(...)

Difatti, è chiaro che in questi casi...ci sono state sentenze eclatanti, sono andate anche sui giornali, di giudici che hanno ritenuto addirittura il primo comma proprio perché magari il soggetto era pluri-pregiudicato per fatti specifici...secondo me sono degli stravolgimenti della norma, perché comunque non esiste che in presenza di un quantitativo che può essere di due grammi, tre grammi, cinque grammi, si applichi il primo comma, anche in relazione ad un principio di ragionevolezza, perché le pene del primo comma in relazione alle droghe pesanti sono pene edittali nel minimo elevatissime (A - IV).

Il quinto comma non fa riferimento soltanto alla quantità, ma fa riferimento anche alle condizioni soggettive complessive della persona che spaccia e alle modalità del fatto, quindi non sempre si riconosce il quinto comma, a volte il quinto comma per l'eroina si deve riconoscere perché altrimenti si trasmoderebbe nella fattispecie di cui al primo comma che ha come pena minima otto anni, che diventa inapplicabile e spaventosamente sproporzionata rispetto ai fatti che vengono accertati, quindi diciamo che per l'eroina si riconosce il più delle volte il quinto comma per adeguare come si dice la pena da infliggere alle circostanze.

Per l'hashish, dove le pene sono infinitamente inferiori, non è sempre riconosciuto il quinto comma, anche perché siccome il quinto comma attiene non solo la quantità, ma le condizioni complessive della condotta, sia al momento che pregresse, se uno ritiene che il soggetto viva abitualmente di spaccio non gli viene riconosciuto il quinto comma (PM - V).

Come eloquentemente ci evidenziano questi due brani, la questione è un fattore di scontro fra le due parti processuali: l'una che tende, nei limiti imposti da considerazioni equitative, a inasprire la sanzione richiesta allorché ritenga di trovarsi di fronte ad uno “spacciatore incallito”, l'altra che mal sopporta simili valutazioni basate su dati non oggettivi e dunque non ponderabili secondo parametri certi. Il quantum di sanzione applicabile tende ad essere stabilito sulla base di considerazioni relative alla tipologia d'autore che si ritiene d'avere d'avanti e la norma, che pure imporrebbe di modulare la sanzione secondo coefficienti di gravità del fatto, viene piegata ad un'interpretazione che consente una modulazione fondata su parametri personologici. Colui che può apparire uno “spacciatore occasionale” molto facilmente si vedrà concedere l'applicazione del quinto comma e, dunque, una pena significativamente più mite; lo “spacciatore abituale”, viceversa, indipendentemente dell'effettivo quantitativo di sostanza rinvenuto all'atto dell'arresto, verrà severamente sanzionato per la sua complessiva condotta di vita.

La stessa norma, peraltro, imporrebbe di considerare “qualità” e “quantità” della sostanza, cosa che è possibile solo all'esito di uno specifico esame, spesso difficilmente effettuabile nei ristrettissimi tempi delle procedure in questione, se non - come sottolineava in precedenza un giudice - a costo di costringere ad una nottataccia chi ha operato l'arresto.

Allora...quando c'è un arresto il primo esame è il narco-test, che identifica se una sostanza è o meno stupefacente, dopo di che esiste un esame chimico più approfondito, quello più approfondito, che una volta richiedeva necessariamente un tempo molto più ampio, adesso è possibile che lo stesso gabinetto di polizia scientifica dia in 24 ore un esame completo, per cui si determina il principio attivo. (A - II)

Su questo punto, peraltro, le difese esprimono un unanime auspicio: che sia il principio attivo a fungere da metro per la valutazione della sussistenza o meno dell'ipotesi attenuata

poi bisogna vedere aldilà del quantitativo lordo qual è il principio attivo, perché chiaramente dello stupefacente andrebbe considerato il principio attivo... poi dipende, alcuni giudici seguono l'orientamento delle dosi commerciali, altri invece seguono l'orientamento delle dosi droganti, effettivamente sono due parametri diversi. (A - IV)

Sulla base del principio attivo deve essere fatta la valutazione della sussistenza o meno...poi, voglio dire, il discorso del quinto comma...molto spesso i 73 si trasformano in 73 quinto comma, nel senso che poi a volte il dato ponderale veramente si ridimensiona, all'esito dell'esame, però a volte ci sono degli arresti sulla base di un quantitativo che sembra appunto rilevante, poi nel tempo le cose si rivelano non così...(A - II)

È certo però che, anche sulla base del principio attivo, le incertezze circa l'applicabilità del quinto comma non si attenuano e, come evidenziano alcuni dei procedimenti in appendice (33), anche quando si fa riferimento al vecchio parametro del numero di dosi effettivo, ogni giudice resta sostanzialmente libero di orientarsi a suo piacimento: ora considerando il numero di dosi commerciali (il quantitativo “grezzo”), ora il principio attivo, ora le caratteristiche del soggetto. Dando così luogo ad una casistica pressoché infinita che rende assolutamente impossibile per le parti stesse poter adottare una strategia processuale, come sottolinea un PM

questo in qualche modo si riflette poi sulle scelte che fa il P.M., perché il P.M., che non sa quale sia l'orientamento del giudice ritiene magari di poter dare il proprio assenso ad un patteggiamento in riferimento ad un quinto comma ed il giudice invece ritiene che si tratti di un quarto comma, o di un primo comma e quindi non accetta il patteggiamento e rinvia il procedimento avanti ad altro giudice. (PM - IV) (34).

Simili macroscopiche incertezze semantiche rendono complicata non solo l'applicazione di una norma, ma anche il formarsi di determinate routine cognitive e, conseguentemente, di solidi modelli operativi. Questi ultimi, infatti, intanto sono utilizzabili in quanto si fondano su un sapere condiviso dagli attori processuali che consente loro di procedere nell'attività quotidiana con la relativa sicurezza che determinate scelte non incontreranno l'opposizione degli altri protagonisti della vicenda, ma si sposeranno con la visione da cui muovono la controparte o il giudice; avremo modo di vedere quanto la condivisione di un dato sapere pratico sia importante per agevolare le transazioni cui le parti processuali sono chiamati dal nostro sistema.

6.3.2: Reati contro il patrimonio e fattispecie residue

Sotto questo profilo le incertezze e le disparità di trattamento che la formulazione delle fattispecie potrebbe consentire sono senza dubbio meno macroscopiche al cospetto dei reati in materia di stupefacenti.

È da escludere, infatti, che le incertezze possano riguardare la stessa rilevanza penale del fatto contestato poiché, tanto il reato di furto che di rapina - le due fattispecie che stando alle parole degli stessi attori processuali sono nettamente prevalenti in questo genere di procedimenti - sono basate sul concetto di impossessamento, una circostanza fattuale la cui verificabilità empirica non è in discussione.

Piuttosto le questioni che si pongono riguardano il cosiddetto potere di connotazione dei fatti, cioè la possibilità che al giudice è concessa di verificare se il fatto presenti delle sfumature diverse rispetto all'ipotesi di reato cosiddetta “semplice”. Sfumature che potrebbero tanto attenuarne quanto aggravarne la rilevanza penale e dunque determinare significativi scarti nel quantitativo di pena applicabile al fatto concreto.

All'interno del nostro sistema penale esistono tanto circostanze previste in via generale per tutti i reati (35), che circostanze specificamente indicate in relazione alle singole ipotesi delittuose; come nel caso del furto, rispetto al quale il nostro codice elenca tutta una serie di aggravanti speciali (art. 625 c.p.).

L'elencazione copre una casistica talmente vasta che, come unanimemente si ritiene, è difficile poter assistere al verificarsi di un'ipotesi semplice di furto (art. 624 c.p.), salvo poter applicare la sanzione ivi prevista grazie al cosiddetto “giudizio di equivalenza delle circostanze”, cui si ricorre allorché due circostanze di segno opposto (aggravante ed attenuante) sono ritenute neutralizzarsi a vicenda.

Se, infatti, nella prassi è praticamente impossibile imbattersi in una fattispecie semplice di furto, la quale è punibile, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni (più la multa da lire sessantamila ad un milione di vecchie lire), c'è anche da sottolineare come una giurisprudenza tutto sommato diffusa tende ad elidere le gravi sanzioni previste per la fattispecie aggravata (reclusione da uno a sei anni, più multa da duecento mila a due milioni di lire) o pluriaggravata (reclusione da tre a dieci anni, più multa da quattrocento mila a tre milioni di lire) del furto con un elastico utilizzo delle cosiddette attenuanti generiche (art. 62-bis c.p.). Le quali, come sottolinea un avvocato

sono un jolly, sono qualcosa di plasmabile, che può comprendere un po' di tutto ed è proprio quella la funzione riconosciutagli dalla legge (A - III).

Esse, inoltre, sono state all'interno del nostro sistema processuale uno dei primi strumenti di surrettizia transazione con l'imputato, consentendo - secondo lo schema che verrà istituzionalizzato con i procedimenti speciali nel 1988/89 - il baratto di una diminuzione di pena a fronte del risparmio di risorse processuali determinato dalla “deposizione delle armi” da parte della difesa

Una possibile causa della concessione delle attenuanti generiche è il comportamento processuale, è evidente...ed io consiglio talvolta ai miei assistiti, in presenza di una prova schiacciante, di confessare assolutamente la loro responsabilità, evitare di far perdere del tempo al tribunale, di prendere in giro le persone e credo che questo tipo di atteggiamento paghi appunto attraverso la concessione delle attenuanti generiche, in regime di equivalenza, o addirittura di prevalenza con le aggravanti, che se sono, come nel caso del furto, aggravanti ad effetto speciale, comportano un amento rilevante della pena e quindi una loro inoperativtà per effetto delle attenuanti...(A - III)

In altri casi, poi, l'utilizzo delle attenuanti generiche era necessitato dall'esigenza di calmierare i livelli sanzionatori fissati dal legislatore fascista, sovente del tutto sproporzionati rispetto ai fatti effettivamente contestati. In materia di reati contro il patrimonio, infatti, è stato questo uno dei principali accorgimenti tecnici attraverso i quali la giurisprudenza di merito è a lungo riuscita in epoca repubblicana a neutralizzare le pene draconiane previste in materia di reati contro il patrimonio dal “Codice Rocco”. Una prassi peraltro invalsa del tutto indipendentemente dallo zelo professionale dei difensori

si può dire che si tratta di aspetti cosi tanto ripetitivi ed abitudinari che è difficile rimarcarli o evidenziarli, perché comunque il giudice generalmente ha un'esperienza tale che riesce, anche in presenza dell'avvocato più scarso...(A - III)

Quello che posso subito segnalare è che soprattutto per l'ipotesi di furto aggravato, per prassi proprio perché di solito il reato è pluri-aggravato spesso ci sono più aggravanti del 625 c.p. che comportano pene elevatissime per l'entità del fatto, in questi casi è prassi consolidata allora concedere le attenuanti generiche proprio per elidere le aggravanti del 625 c.p. e tornare alla pena base che consente più elasticità di manovra (G - II).

Sul finire del secolo, tuttavia, i reati di strada, tutte quelle attività acquisitive di piccolo cabotaggio solitamente riferibili alla marginalità sociale, alle “classi pericolose”, prendono, come visto, ad assumere una posizione diametralmente opposta nell'apprezzamento collettivo. Come tutte le attività delinquenziali riferibili a quest'universo sociale, prendono a canalizzare ansie e paure che ribaltano completamente una giurisprudenza sostanzialmente costante ormai da quarant'anni. E sotto questo profilo la disciplina dei reati contro il patrimonio si presta altrettanto bene a combinazioni interpretative che comportino significativi aggravi di pena.

A prescindere dalla impressionante casistica delle circostanze aggravanti del furto che, come accennato, coprono interamente tutta la fenomenologia dei furti -

Il furto...normalmente si tratta di furti aggravati, il furto semplice è un'ipotesi ormai residuale, ormai la giurisprudenza ritiene furto semplice il furto nel supermercato, dove non c'è nessuna aggravante, e poca altra roba, ma direi che in modo particolare il furto nel supermercato, i furti aggravati sono quelli che vengono commessi normalmente su vetture e quindi li c'è la duplice aggravante della violenza sulle cose e dell'esposizione alla pubblica fede (PM - V).

Un meccanismo ricorrente era quello di inquadrare il cosiddetto “furto con strappo” (art. 625.1 nº 4 c.p.p.) come “rapina impropria” (art. 628.2 c.p.), che è il fatto di chi “adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l'impunità”. In quest'ultimo caso, infatti, si parte da un minimo di tre anni di reclusione per arrivare fino ad un massimo di dieci anni (più una multa da un milione a quattro milioni di lire).

Sul punto gli intervistati sembrano saper inquadrare con una certa precisione la differenza che, sul piano teorico, dovrebbe correre tra le due ipotesi, tuttavia, nel momento in cui provano a formulare delle ipotesi più concrete sulla base della casistica esperita, i confini tornano evanescenti e la stessa condotta si dilegua tra furto aggravato, rapina impropria, furto tentato con reato di violenza connesso ecc.

il confine è quello previsto dalla giurisprudenza e dalla dottrina: se la violenza interviene specificamente sulla cosa il furto è con strappo, se vi è un tentativo di resistenza e quindi la violenza dalla cosa si trasferisce alla persona o per caduta o per qualche altro accidente, il fatto trasmoda in rapina e se non è aggravata da circostanze previste dal codice si procede anche per rapina con il rito direttissimo; perché dieci anni è la pena prevista per il giudice monocratico, si possono fare le direttissime solo fino a dieci anni. (PM - V)

La rapina vuole la violenza e la minaccia e la violenza e la minaccia sono sempre dirette nei confronti della persona rapinata, io posso puntare una pistola alla tempia dicendo dammi il portafoglio; nel furto con strappo invece la violenza si realizza sostanzialmente sull'oggetto, io vedo la classica persona anziana per la strada con la borsetta sulla spalla, paso di corsa, prendo la borsetta e contemporaneamente provoco un danno alla signora perché gli strappo la borsetta dalla spalla, però tutta l'azione si è realizzata nei confronti del bene non nei confronti della persona, la differenza è questa.

Ovviamente se l'azione determina dei danni, cioè se la signora subisce una lesione, oppure viene trascinata addirittura per terra ...allora si può pensare che vi sia il concorso di due distinte fattispecie che sono quella di cui al 624 bis e quella di cui al 582, poi c'è tutto un distinguere una gradazione di cose, cioè già nel caso in cui ci sia...non so, io strappo la borsetta alla signora, questa si aggrappa alla borsetta ed io la trascino per strada per qualche metro già li io avrei qualche perplessità a dire che è soltanto furto con strappo, forse c'è anche la rapina (PM - IV).

È intuibile in quali difficoltà possa incorrere un pubblico ministero all'atto di dover formulare un capo d'imputazione: sarà necessario un deliberato atto di aggressione, oppure sarà sufficiente una condotta non deliberatamente aggressiva ma idonea di per sé a procurare una lesione o, ancora, basterà la semplice lesione prodottasi a far rileggere l'intera vicenda in termini di rapina e non più di “furto con strappo”. La legge in questi casi non è più di alcun aiuto e la scelta fra un capo d'imputazione o un altro dipenderà da altri fattori.

Ancora una volta il potere dispositivo concesso dal legislatore al giudice, consente che a determinare la fattispecie applicabile siano, più che precise circostanze fattuali, considerazioni personologiche: prima si valuterà il “tipo d'autore” che si ritiene di avere davanti, cercando di capire quale sanzione sarebbe più appropriata e, solo in seconda battuta, si cercherà di far quadrare anche giuridicamente la lettura dell'episodio proposta e, soprattutto, il quantitativo di sanzione richiesto (36). Tipico esempio della subbiettivizzazione del nostro sistema penale, il meccanismo è molto simile alla prassi rilevata da Rossett e Cressey nel loro studio sul plea bargain statunitense (37). Tuttavia all'interno del nostro sistema penale non esiste ufficialmente la possibilità di modificare l'imputazione il fatto di reato né, tanto meno, tale possibilità è stata introdotta con la nascita nel 1988/89 di istituti simili al plea bargain (il legislatore si è infatti limitato ad introdurre delle semplici riduzioni di pena a favore dell'imputato che scegliesse un procedimento speciale), il potere di manipolare le fattispecie penali secondo finalità special-preventive è un'aberrazione prodotta dall'enorme potere di disposizione concesso agli organi giudicanti, ai quali è in certi casi concesso di perseguire una maggiore (o minore) afflizione penale anche variando il titolo di reato applicabile al medesimo fatto. Tanto più la formulazione delle fattispecie presta il fianco a diverse interpretazioni, quanto più ampio sarà lo spazio entro cui muoversi concesso agli attori processuali e le possibilità di effettuare valutazioni di vario genere, arrivando sino al punto di poter ponderare l'opportunità di sussumere il medesimo fatto empirico all'interno di una previsione normativa piuttosto che un'altra.

Beh...la differenza sarebbe nel fatto che lo strappo di per sé non dovrebbe comportare nessuna forma di violenza nei confronti della parte lesa, nel senso che se io, ad esempio, ho a tracolla la borsetta se io riesco a sfilare questa borsetta, sia pure usando una certa violenza necessaria per fare questo, comunque per costringere la persona ad aprire la mano: qui rientriamo nello strappo; se però la persona ha un minimo di resistenza rispetto a questa condotta, cioè trattiene l'oggetto, trattiene la borsa o quello che è, e questo provoca inevitabilmente un aumento dell'attività violenta del ladro per poter vincere la resistenza della parte lesa, secondo me siamo già nell'ambito della rapina.

(...)

Devo dire che anche qui, certe volte il P.M. contesta la rapina impropria che non c'è ed in altri casi in cui magari c'è non la contesta, lì dipende...non lo so...evidentemente fa dei tipi di valutazione; per esempio l'ipotesi in cui il ladro riesce ad impossessarsi del bene, la polizia lo segue e nel momento in cui la polizia lo ferma il ladro oppone una resistenza: in alcuni casi contesta furto e resistenza, in altri casi contesta rapina impropria; lì il problema è stabilire il nesso temporale fra le due condotte, vedere se c'è una soluzione logica o meno fra le due condotte, non sempre è facile quindi si possono avere queste disparità...

(...)

Qui il limite è, ripeto...non so come dire, io mi occupo dell'imputazione che ricevo, in certi casi è chiaro che io posso anche rimettere gli atti ritenendo il fatto diverso, però normalmente è giustificabile questo fatto, cioè una diversa valutazione, perché, ripeto, si tratta di valutare...

(...)

Poi la prassi...sa, è tutto aleatorio per certi versi, non è una scienza esatta (G - III).

Con il “pacchetto sicurezza” tuttavia una simile strategia ha perso in parte la sua efficacia. Se prima, infatti, era possibile all'occasione leggere la vicenda come fosse una rapina impropria, costringendo il giudice a dover partire, nello scegliere la pena da applicare, da un minimo di tre anni di reclusione ed impedendogli di operare un bilanciamento fra le circostanze del fatto che poteva addirittura portare all'applicabilità della sanzione prevista per il furto semplice. Adesso, a seguito della riforma, il “furto con strappo” è divenuto un'autonoma fattispecie punibile con la pena della reclusione da un minimo di uno ad un massimo di sei anni (più la multa da seicentomila a due milioni di lire), mentre nel caso ricorrano altre aggravanti la pena è addirittura identica a quella prevista per la rapina (art. 624 bis c.p.p.).

L'intervento ha in sostanza registrato a livello normativo aggravi di sanzione che nella pratica si ottenevano attraverso vere e proprie forzature della fattispecie, eliminando, con un generale inasprimento repressivo a riguardo, le discriminazioni consentite da una simile prassi.

Sostanzialmente l'universo delinquenziale trattato in direttissima si esaurisce a questo, salvo qualche episodio violento spesso scatenato dallo stesso intervento dell'autorità di pubblica sicurezza

Può capitare anche qualcosa in materia di resistenza e violenza a P.U.

(...)

spesso sono (reati) commessi nell'occasione dell'accertamento di un altro reato, c'è da dire che magari spesso si tratta di un reato che non consente l'arresto, quindi il giudizio di convalida ed il conseguente giudizio direttissimo alla fine viene effettuato solo per l'ipotesi che consente l'arresto, per esempio: vi è un controllo per l'identificazione di un soggetto o perché magari sta vendendo cd non regolari, senza il timbro SIAE, in quell'occasione spesso la situazione porta anche un discorso di violenza e resistenza a P.U., ovviamente il nostro intervento, come giudici della direttissima, è limitato solo al reato che consente l'arresto (G - II).

Si tratta di episodi comunque ricollegabili agli immigrati ed al serrato controllo cui sono sottoposti per le strade delle nostre città, sempre esposti al rischio di essere fermati con il pretesto dell'identificazione dagli agenti di pubblica sicurezza

Episodi di resistenza a pubblico ufficiale comunque collegati a reati del primo tipo...insomma...non vogliono ovviamente dare le generalità o seguire in questura chi li vuole arrestare, chi li vuole identificare; per il resto ci sono poche altre cose...ci può essere la rissa, comunque collegata anche questa all'immigrazione.

(...)

Problemi di nord africani che o per motivi di “spazi” contesi per quanto riguarda la zona di spaccio, oppure per alcolismo o per noia o per rivalità di gruppo cominciano a tirar fuori i coltelli o cocci di bottiglia, comunque non è diffusissima a livello di esperienza giudiziale in direttissima (G - IV).

In direttissima si ha a che fare, in buona sostanza, con un insieme di tipologie delittuose i cui protagonisti sono precisamente identificabili ed il cui teatro è prevalentemente la strada. Reati che chiamano ad un'attività quotidiana le agenzie di pubblica sicurezza impegnate nel controllo del territorio ed impongono al Tribunale Monocratico dei ritmi di lavoro infernali per tener dietro al quotidiano “rastrellamento”.

Ma, piuttosto, vediamo con maggior precisione qual è l'universo sociale coinvolto in queste vicende processuali.

6.4: L'universo criminale. Tipologie d'autore

Abbiamo potuto intuire quale rilevanza possa avere, in questo genere di procedimenti, l'immagine, la visione che gli attori processuali hanno degli individui che si trovano a dover giudicare: il sapere criminologico pratico cui fanno riferimento gli attori processuali è fondamentale dato che gli spazi più o meno ampi che le fattispecie penali lasciano sono solitamente colmati da considerazioni personologiche. Spesso poi, come nel caso dei reati in materia di stupefacenti, si arriva al punto di poter, di fronte al medesimo dato oggettivo, considerare non penalmente rilevante un episodio in base ad un complessivo giudizio sulla persona che si ha di fronte e, dunque, condizionare non solo il quantum di sanzione applicabile, bensì anche l'an della stessa.

Sotto questo profilo, dunque, è centrale capire secondo quale prospettiva, sulla base di quali strutture simboliche i pubblici ministeri, le difese e i giudici si apprestano a svolgere il proprio lavoro. In particolare poi, per comprendere entro quali limiti il processo di costruzione ideologica della devianza degli immigrati si rifletta nel dato materiale, statistico, che risulta all'esito dell'attività processuale, è fondamentale capire in che misura lo sfondo simbolico che viene a costituire l'orizzonte cognitivo degli attori processuali sia mutuato dagli stereotipi criminali circolanti e tale esigenza è ulteriormente accentuata dal fatto che i canali d'ingresso all'interno del processo dei saperi diffusi socialmente sul crimine non si riducono, come vedremo in dettaglio, ai difetti semantici delle fattispecie penali.

Cercheremo di ricavare, dunque, quale sia l'immagine di delinquenza cui gli attori processuali fanno riferimento nella loro attività quotidiana, per poter valutare in seguito entro quali limiti essa riesca a determinare l'esito dell'attività processuale ed, ovviamente, i suoi riflessi statistici.

Possiamo tutto sommato sottolineare già da adesso la concorde visione che si evidenzia rispetto all'identificazione dell'imputato ricorrente in direttissima: tutti gli intervistati riescono infatti a descrivere con una certa precisione l'autore tipico delle due categorie di reato che abbiamo visto caratterizzare questi procedimenti, piccolo spaccio di sostanze stupefacenti e reati contro il patrimonio

Beh l'autore tipico del piccolo spaccio è l'extracomunitario magrhebino, tunisino, algerino, eccetera, che si procaccia da vivere con il piccolo spaccio, poi chiaramente dietro a questo fenomeno emergente, cioè queste situazioni in cui si arresta l'extracomunitario, c'è una organizzazione che fornisce la sostanza...le basi logistiche...però è chiaro che quelle sono indagini che non hanno a che fare con la direttissima insomma, stanno alle spalle delle direttissime, anche in maniera del tutto indipendente direi.

Poi il tipo d'autore del furtarello al supermercato o sulle automobili è sempre il tossicodipendente, che normalmente si procura i pochi denari che servono per acquistare la sostanza.

Non si va molto distante da queste due tipologie (PM - I).

La spartizione è categorica: per quanto riguarda lo spaccio netta prevalenza di extracomunitari; sotto il profilo dei reati contro il patrimonio, invece, significativa (ma non schiacciante) prevalenza di tossicodipendenti di nazionalità italiana. Di quest'ultimi ci occuperemo a breve, prima vediamo le caratteristiche del “tipico spacciatore”.

6.4.1: Lo spacciatore extracomunitario

Lo spaccio al minuto è, secondo un'immagine ormai parecchio diffusa socialmente, appannaggio esclusivo degli immigrati extracomunitari ed in questo le parole degli attori processuali da noi intervistati giungono a confermare una verità sociale sostanzialmente inconfutabile

ovviamente c'è una grossa componente di soggetti, persone extracomunitarie, questo è un dato purtroppo di realtà sia nella composizione delle persone che vengono portate ai processi per direttissima, sia nell'equivalente che si trova all'interno del carcere; ormai siamo su percentuali che si aggirano intorno al 60% come dato minimo...(A - II).

Sa la tipologia d'autore...vabbé attualmente molti extracomunitari, non c'è dubbio, lei avrà visto seguendo le direttissime che la maggior parte degli arrestati quotidianamente sono extracomunitari, soprattutto per quanto riguarda poi lo spaccio per strada, perché è molto raro ultimamente, almeno per la mia esperienza, vedere fermato lo spacciatore italiano che vende al dettaglio...(A - IV).

Diciamo che per quello che riguarda gli stupefacenti ormai, premesso che noi facciamo degli stupefacenti molto modesti, lo spaccio da strada sostanzialmente...cioè non è che si fanno grosse operazioni - a parte che non si farebbero in monocratico, o meglio solo in via residuale - in realtà ormai si può dire che questo reato è dell'extracomunitario perlopiù nordafricano, qualche volta ci possono essere soggetti di altre aree, ma perlopiù Tunisia Marocco Algeria ... sedicente, senza fissa dimora, cioè un soggetto che non si conosce non si sa chi sia, non si sa neanche se effettivamente sia di quel paese da cui dice di provenire ecc.; comunque sostanzialmente ormai lo spaccio da strada è nelle mani di questi soggetti.

Qualche italiano magari in concorso, nel senso che si trova lo spacciatore magrebino in strada e poi magari si va nell'abitazione dove c'è l'italiano e c'è il piccolo quantitativo depositato (G - V).

Altrettanto precisa è la caratterizzazione sociale dello «spacciatore extracomunitario», esattamente corrispondente alla descrizione miserabilista che dell'immigrazione è diffusa a livello sociale: l'impossibilità di trovare un lavoro e di ottenere un permesso di soggiorno rendono, nell'ottica degli attori processuali, necessitata la scelta criminale. Una simile visione corrisponde, in linea di massima, a quell'interpretazione criminologica (poco importa adesso se di stampo teoretico o meno) tanto radicata socialmente secondo cui sono povertà e disoccupazionela causa del crimine e della corrispondente preponderanza di soggetti marginali nelle statistiche criminali. E ciò, nell'attuale contingenza storica, vale a maggior ragione per gli immigrati, che compongono la base della nostra piramide sociale

Sono aumentati effettivamente gli stranieri che magari non riescono a trovare un lavoro, un'attività e che quindi cercano di andare avanti con attività criminose; lo spaccio è poi quasi esclusivamente in mano a stranieri, il piccolo spaccio, anche se ci sono poi anche degli italiani...(G - III).

Ma, soprattutto, ciò vale per una ben precisa componente di immigrati: gli immigrati irregolari, i quali subiscono il peso di una tipizzazione che li fa apparire soggetti destinati inevitabilmente ad una vita marginale, basata sulla commissione di atti illeciti, una vera e propria sottoclasse radicalmente esclusa dal mercato del lavoro e condannata al delitto

vivono sulla strada, sono clandestini, non hanno una dimora, non hanno documenti, non sono in regola con le norme sul soggiorno regolare nel territorio, sono persone che magari sono sfuggite all'espulsione o che sono state espulse e poi sono rientrate...situazioni di disagio e, voglio dire, difficilmente recuperabili nella maggior parte dei casi, sono situazioni in cui non si può pensare neanche che in un futuro possano permanere sul territorio regolarmente, perché sono destinati all'espulsione (A - II.

Tuttavia, sotto questo profilo, gli accenti variano. Se, infatti, è unanimemente la mancanza di integrazione sociale ad essere ritenuta responsabile di una simile dedizione all'attività di spaccio, occasionalmente possono affiorare opinioni pronte a sottolineare che la vita in strada sia tutto sommato una scelta. Come visto (38), infatti, anche in Itala il dibattito che l'opinione pubblica ha - tutto sommato abbastanza inconsapevolmente - condotto sulla nascita di una underclass, e sulla sua partecipazione all'attività delinquenziale, ha registrato una netta partizione tra quanti sono più propensi a ritenere che povertà ed emarginazione siano frutto di cause strutturali che portano più o meno inevitabilmente al crimine; e quanti, invece, ritengono che una vita ai margini, da esclusi, sia una scelta ben precisa che, nel caso dell'immigrazione, assume i tratti di un vero e proprio percorso migratorio vissuto deliberatamente nell'irregolarità e nella criminalità.

Da un lato, infatti, non manca chi - seppur tradendo quella semplificazione nell'impostazione dei termini del problema tipica delle interpretazioni ortodosse della criminalità dei ceti marginali, il cui risvolto pratico è una completa giustificazione della selettività del sistema penale - rileva le ragioni strutturali del problema, arrivando sino al punto di accennare al ruolo della nostra società nel costruire le stesse basi materiali della “criminalità degli immigrati”.

Il problema è complesso...se qualcuno si degnasse di guardare i tipi di reato ed in particolare il 73 quinto comma e il giudizio direttissimo, come una spia inevitabile di quello che è ormai un malessere sociale, si renderebbe facilmente conto che spesso e volentieri addirittura si conoscono, sono noti alle forze dell'ordine, sono noti agli avvocati, sono noti ai giudici, gli indagati - imputati, inevitabilmente poi condannati. Questo significa che il sistema non funziona, si vuole curare una malattia con una cura che probabilmente è peggiore del male stesso, o quanto meno inutile: dopo sei mesi il clandestino extracomunitario resta un clandestino extracomunitario, non gli è data nessuna possibilità di un qualunque tipo, non reinserimento, ma almeno di inserimento.

Quindi è inevitabile che dopo la pena, quelle fantomatiche parole di prevenzione speciale...eccetera, prevenzione generale...non hanno senso se il cittadino extracomunitario, che inevitabilmente è costretto a quel tipo di reato, esce dal carcere e non ha un posto dove stare, non ha di che mangiare.

Allora noi spendiamo i famosi 80, 100 milioni, per i famosi sei mesi di punizione...tenga presente che una famigli mono-reddito vive con 2 milioni al mese, 4 persone, marito, moglie e due bambini; che per dodici mesi fa neanche 10 milioni, tutto compreso, anche la tredicesima.

Noi spendiamo 100 milioni per rendere dei disgraziati, più disgraziati. Alla fine tutti contenti perché li abbiamo messi in carcere, come avrà visto, tutti siamo bravi a...Posizioni poi ovviamente indifendibili! (A - I)

O chi - cercando di evitare tanto il meccanicismo di una certa ortodossia criminologia, quanto le categoriche conclusioni indotte da certi stereotipi di bassa lega sempre più radicati socialmente - prova ad articolare il suo giudizio distinguendo fra i vari percorsi di vita individuali che possono avere una deriva nella scelta criminale

Allora...l'immigrato nord-africano che spaccia e che fa un'attività di spaccio da strada, quindi prevalentemente con droghe leggere, hashish e marijuana, è una figura che credo sia quella stereotipata nell'immaginario collettivo, però credo che all'interno di questa categoria vi siano poi delle tipologie diverse: c'è quello che è qui da vari anni in modo clandestino oppure riuscendo ad avere anche il permesso di soggiorno, che ha deciso di dedicarsi a quest'attività e mette in preventivo la possibilità di trascorrere dei periodi di tempo in carcere, perché comunque rientra nella sua visione complessiva, fa parte del rischio. Poi c'è ne sono altri che magari sono appena arrivati in Italia, hanno un amico, un parente, visto anche il concetto di famiglia allargata che esiste in quei paesi da dove loro vengono, trova questo punto di appoggio, magari in questo punto di appoggio si è inserito in un ambiente criminale ed i primi tempi può capitare che aderisca così allo stile di vita di chi era già presente in Italia, perché sostanzialmente può avere l'impressione che forse è più facile o è l'unica soluzione per riuscire...(A - III)

Ma, nell'opinione di altri, la commissione d'illeciti assume i tratti di un complessivo stile di vita che denota, se non l'intima malvagità, perlomeno lo scarso senso morale del soggetto: poco propenso al sacrificio ed al duro lavoro, egli sceglie la via dei facili guadagni e, sovente, giunge sul nostro suolo con il preciso intento di dedicarsi all'attività delinquenziale

algerini, tunisini, marocchini, loro vivono di questo, si arrestano, fanno un periodo in carcere escono e ricominciano, questa è la loro vita.

(...)

Per me loro vivono di queste cose, non mi risulta che...quelli che lavorano non mi risulta che facciano queste cose, quindi quelli che arrivano da noi sono una selezione degli stranieri, sono i clandestini che vivono di reati, probabilmente non hanno fonti di reddito o non le vogliono o non hanno la possibilità.

(...)

Diciamo che quelli che vengono da noi di solito sono quelli clandestini, perché quelli che hanno un lavoro o un permesso di soggiorno probabilmente non si incontrano con i nostri uffici; noi abbiamo una selezione particolare non è che veniamo in rapporto con tutti gli stranieri, veniamo in rapporto con quelli che delinquono, quelli che delinquono sono clandestini!

(...)

Poi si vede...sono sempre loro!

Cioè se uno fa un raffronto dopo si accorge che erano stati processati due mesi prima e il giudice se li ritrova davanti, i nomi sono quelli insomma...

Loro sono inseriti spesso anche a livello di organizzazione, cioè: loro sono l'ultimo gradino, ma molto spesso fanno parte di un'organizzazione, quindi come escono ricominciano; abbiamo avuto molti esempi di persone arrestate che si fanno anche la custodia cautelare escono e ricominciano a stare sulla strada a spacciare, questa è la loro vita! (PM - II)

Devo dire che sono abbastanza rari quelli che decadono da una situazione lavorativa e finiscono a fare lo spaccio, almeno, statisticamente, per quei pochi casi in cui hanno un'identità ed hanno avuto un permesso di soggiorno, sono pochi i casi in cui noi vediamo persone che erano entrate per un lavoro e che poi spacciano (G - I).

Nella visione degli intervistati, comunque, lo spacciatore è tendenzialmente non in regola con le norme sul soggiorno in Italia e tale dato, oltre ad essere un chiaro sintomo della pervicacia con cui si cerca di evitare l'espulsione, è sostanzialmente considerato espressione di una ferma volontà di eludere ogni tipo di controllo sociale (39), in questo senso l'irregolarità (peraltro associata indebitamente alla clandestinità) diviene sinonimo di criminalità e sintomo di una scelta di vita delinquenziale, di una volontà di auto escludersi socialmente adottando uno stile di vita marginale

credo che al 90%, forse 99%, non sono in regola, sono sedicenti, non so se a questo punto sia anche una scelta processuale loro nel senso di non manifestare il possesso di documenti, perché potrebbero avere delle conseguenze...non lo so; però se uno è regolare lo dice, quindi io direi che proprio la maggior parte sono tutti irregolari (G - III).

Sono quasi tutti privi di permesso di soggiorno, quasi tutti sono anche privi di un'identità certa, perché non hanno documenti ed ogni volta che vengono fermati danno identità diverse anche solo per pochissimi caratteri e quindi sono normalmente identificati con le impronte digitali e il fotosegnalamento, ma non sappiamo esattamente chi sono...

(...)

La nazionalità magari si, ma non sappiamo le generalità proprio e questo crea dei problemi in fase di espulsione, perché non vengono accettati alla frontiera da un paese di origine se non sono di identità certa.

E quindi finché non ce l'hanno, finché la legge è in questi termini, anche l'espulsione diventa problematica (PM - I).

Normalmente quei pochi che hanno un permesso di soggiorno dichiarano un'attività lavorativa in qualche momento, però devo dire che quelli che arrivano da noi...io non so, possono essere due i motivi: uno che non intendono documentare la loro identità, perché loro normalmente i documenti da qualche parte li hanno, però li tengono lontani da se proprio perché se vengono fermati non sono identificabili...il loro problema è proprio quello evitare l'espulsione.

Questo fa si che poi sia anche difficile provare di avere avuto un lavoro, di avere avuto una residenza...eccetera.

Però quelli che hanno il permesso di soggiorno spesso, quelli che arrivano da noi, hanno comunque abbandonato la residenza dichiarata, formalmente risiedono a Napoli, di fatto a Napoli non ci sono...all'indirizzo indicato quando si vanno a fare le notifiche dicono che non ci sono e non sanno chi siano (G - I).

Le indicazioni stereotipe cui paiono far riferimento gli attori processuali, tuttavia, non si limitano all'elencazione delle caratteristiche sociali del “tipico” spacciatore, inevitabilmente immigrato, clandestino e marginale. Se si passa da questo genere di analisi all'immagine complessiva che del fenomeno criminale in questione gli attori processuali posseggono, nonostante i soggetti da noi intervistati siano professionalmente costretti ad occuparsi quotidianamente di questo tipo di delinquenza, il ricorrere di una certa visione molto radicata nell'immaginario collettivo si fa ancora più frequente, fino al punto di arrivare a sostenere l'idea che il problema dello spaccio di stupefacenti sia ormai dovuto esclusivamente agli extracomunitari. Idea che evidenzia come, anche nel sapere degli attori processuali, l'aspetto forse più visibile - a causa della connotazione etnica dei suoi protagonisti e di quegli svantaggi sociali che non mancano di riprodursi nella struttura dei mercati illegali, condannando i soggetti svantaggiati ad un'attività prevalentemente di strada - di un problema certamente più ampio e complesso, sia confuso ormai con il problema tout court, offuscando le sue ulteriori sfaccettature (40.)

Automaticamente, poi, lo spaccio al minuto è visto come parte di una organizzazione più complessa al cui interno, al pari di quanto non avvenga nei settori economici ufficiali, è possibile distinguere due livelli ben precisi. Si potrebbe sostenere, in sostanza, che sia diffusa tra gli intervistati quell'idea di “taylorismo” o “fordismo” criminale che, nonostante sia per certi versi una verità sociale indiscussa, abbiamo visto essere tutto sommato smentita da numerose ricerche sull'argomento

sembra di vedere che c'è anche una specie di controllo, non c'è molto affidato...cioè una volta, parliamo del furto perché lo spaccio di stupefacenti è un fenomeno relativamente recente, c'era il delinquente individuale, il piccolo artigiano ladro ecco; adesso mi sembra di capire invece che c'è una certa irregimentazione, un controllo della criminalità, nella prostituzione sicuramente...nella droga ancor di più, quindi devi comunque far capo ad un'organizzazione che poi in qualche modo ti spinge anche a rendere per quello per cui sei stato assunto.

È questa produttività che è comunque richiesta, anche nelle piccole attività come quella delle pulizie dei vetri ai semafori...ormai è tutto controllato a livello organizzativo, penso che siano meccanismi che stritolano, non c'è una garanzia sindacale all'interno di organizzazioni di questo genere (G - IV).

Bisognerebbe forse fare un discorso più ampio e partire da quella che è la situazione, la gestione dello spaccio in una città come (...), dove c'è sempre stato questo problema ma dove ho l'impressione...io mi occupo come gruppo diciamo all'interno della procura dei reati contro il patrimonio, quindi non posso dire di avere un esperienza a tutto campo...ho l'impressione che ci siano oramai due fasce distinte di gestione del traffico di stupefacenti: cioè una di alto livello, che si occupa delle importazioni di grosse quantità, che lavora più specificamente su sostanze tipo cocaina così e che appartiene a quelle indagini che vengono svolte con intercettazioni per lungo tempo...insomma certamente non finiscono in direttissima. Poi lo spaccio su strada che quando arriva al processo per direttissima è soltanto nel suo aspetto diciamo più immediato e molto limitato, in molti casi è un'indagine che nasce e finisce lì, con l'individuazione di un soggetto, di due o tre soggetti, qualcuno di più, ma non tanto perché altrimenti siamo in una situazione un pochino più complessa, che con tutta tranquillità, anzi per quanto ci ripetono tutte le volte gli operatori di P.G., parlo particolarmente della squadra mobile, del nucleo che si occupa dei reati in materia di stupefacenti, si tratta di una gestione a livello territoriale che ha un minimo di organizzazione, probabilmente collegata anche alla provenienza geografica degli spacciatori...cioè si può dire il gruppo di Sfaks di tunisini che opera in una certa zona, che gestisce lo spaccio al minuto e che probabilmente ha fonti approvvigionamento... (PM - III).

In alcuni casi si teorizza esplicitamente una sorta di divisione etnica delle sfere di competenza: da un lato gli organizzatori ed i trafficanti di grosso calibro, che manovrano grossi quantitativi di droga e che, per le ragioni già evidenziate in precedenza, non finiscono mai in direttissima; dall'altro la manovalanza, sotto la direzione di un qualche quadro inferiore, che agisce in prevalenza sulla strada e difficilmente gestisce grossi quantitativi di droga

il mercato basso, lo spaccio al minuto, la manovalanza, che poi finisce nelle maglie (del sistema penale), è in mano ai cittadini extracomunitari, extracomunitari specifici perché ognuno ha un suo settore di specializzazione: marocchini, algerini, fascia Nord-Africa; lei non avrà mai visto un albanese in direttissima per un 73 quinto comma, mai!

I paesi dell'est hanno un altro campo di specializzazione: o sfruttamento della prostituzione, o reati violenti, o, se parliamo di traffico di stupefacenti, parliamo di quantità sicuramente rilevanti, sono organizzati...sono occidentali insomma! (A - I)

Gli albanesi si servono dei magrebini per lo spaccio, almeno è possibile che ci sia una prevalenza di situazioni di questo tipo, effettivamente albanesi non se ne arrestano per queste cose.

Gli albanesi forse hanno il controllo...il monopolio della prostituzione, francamente io non me ne occupo in maniera diretta, forse il collega...se ne occupa più frequentemente; io credo che se la droga arriva dalla zona dell'Albania, o dalla zona adriatica, probabilmente viene immessa sul mercato e spacciata al dettaglio da persone diverse da quelle che la portano in Italia, viene poi fornita probabilmente ad organizzazioni di extracomunitari che la distribuiscono al dettaglio.

A memoria mi sembra di non avere mai avuto direttissime in cui un albanese veniva fermato per un episodio di piccolo spaccio, per furti o per ricettazioni o per reati contro il patrimonio si, ma per piccolo spaccio gli albanesi mai visti, non mi ricordo di averli mai visti.

La ragione potrebbe essere quella: che le organizzazioni albanesi che portano la sostanza in Italia, poi la rivendono prima del dettaglio insomma (PM - I).

Gli immigrati extracomunitari di origine nord-africana, insomma, sono unanimemente considerati i nuovi “operai della droga”, coloro che avrebbero sostituito la vecchia figura dello spacciatore tossicodipendente “nostrano”, un nuovo proletariato criminale

chi arriva alla direttissima è l'ultimo anello di una catena, per cui fanno quello che facevano una volta i tossicodipendenti italiani, si è avuta una sostituzione, come in tutti i lavori, quindi sono gli ultimi, sono quelli che devono portare la bustina o la cessione all'acquirente e certamente esiste una piramide, però ci sono tanti che sono sulla strada e che per sopravvivere fanno questo, non potrebbero fare altrimenti probabilmente...(A - II)

Una criminalità di basso profilo, certamente, ma non per questo considerata meno pericolosa. Sotto questo aspetto, infatti le parole degli intervistati ricalcano pedissequamente le immagini apocalittiche che una certa cronaca di bassissima lega rilancia all'opinione pubblica. Si evocano scenari da stampa sensazionalistica in cui la città è in mano a bande criminali che lottizzano il territorio e dominano in maniera assoluta le strade, senza più spazio in tale settore dell'economia illegale per il piccolo artigiano del crimine

cioè lo spaccio per strada a (...) è ormai diviso per lotti in qualche modo, cioè se si va in via (...), via (...) e così, ci sono delle zone di spaccio che appartengono a determinati spacciatori o collettività di spacciatori, per cui è molto difficile per una persona che non appartenga al giro o comunque non abbia il consenso da parte di altri spacciatori, andare a spacciare in quella zona, cioè se ci andiamo io e lei dopo due secondi ci cacciano via.

Quindi per questo mi viene da pensare che debbano avere dei rapporti...coloro che vanno a spacciare, presi per la prima volta, che per la prima volta lavorano in quelle zone, debbono avere in qualche modo un contatto con la criminalità che già sussiste in quella zona (PM - IV).

Dunque la situazione è questa...noi stiamo parlando quasi sempre di nord-africani, perché lo spaccio di hashish è gestito dai nord-africani, sono persone che vivono in strada, che dormono perlopiù in casolari abbandonati trovandosi fra di loro, che si dividono le zone di azione ed agiscono con un'organizzazione che s'intuisce, nel senso che il corriere di strada ha sempre pochissimo con sé, normalmente non lo tiene più nemmeno addosso, però si vede che ha un riferimento cioè sa da chi andarla a ritirare quando ha finito la sua piccola dose...a parte che si nota per strada, se uno va in p.zza (...) o in via (...), si vede che ci sono sempre le stesse persone che si spostano hanno contatti con uno che rimane fisso in un posto (G - I).

Normalmente poi, come accenna l'ultimo brano, il fatto che questi individui vengano trovati in possesso di quantitativi irrisori di sostanza non è considerato indicativo di una loro minore pericolosità, piuttosto esso vale a fondare un giudizio di maggiore capacità criminale. Il sapere criminologico pratico cui gli attori processuali attingono fornisce loro delle vere e proprie teorie sul come certi individui commettano determinati reati, teorie che, come in questo caso, valgono ben aldilà dei dati oggettivi a disposizione, a strutturare severi giudizi di pericolosità sociale che giustificano il ricorso al carcere.

Un fatto dalla rilevanza oggettiva irrisoria vale, dunque, a fondare, se collocabile all'interno di un determinato quadro simbolico qual è quello fornito dalla stereotipo dello spacciatore extracomunitario, il ricorso a misure anche molto severe; e così l'immigrato irregolare nord-africano trovato nei pressi di una zona della città ritenuta comunemente punto d'incontro degli spacciatori con addosso un piccolo quantitativo di sostanza stupefacente diviene, nella visione degli intervistati, uno spacciatore che avrà nascosto nei pressi del luogo in cui viene fermato, o altrove, il resto della sostanza a sua disposizione

ormai le tecniche di spaccio, soprattutto su strada, sono collaudate, nel senso che difficilmente il soggetto spacciatore viene colto in possesso di un quantitativo superiore ad una o due dosi, sia di hashish che di eroina, la cocaina come spaccio al minuto direi che è praticamente...

(...)

Una dose di cocaina è 0,10 all'incirca 0,15, 0,20; l'hashish viaggiamo su qualche grammo: 5, 6, 10 g. all'incirca, è uno spinello o poco più.

Ormai la loro tecnica è consolidata, nel senso che c'è tutta una catena molto complessa attraverso la quale, dal luogo nel quale la sostanza stupefacente, quantificabile ad esempio in decine di grammi, è occultata, al momento in cui una dose passa dalla mano dello spacciatore a quella dell'acquirente; normalmente questi arresti si risolvono con il sequestro di quantitativi di hashish molto modesti.

Però, siccome si tratta nella stragrande maggioranza dei casi - come dicevamo - di soggetti extracomunitari privi di attività lavorativa, privi di dimora, con precedenti di polizia anche specifici, spesso scarcerati da poco perché casomai in precedenza avevano ottenuto il beneficio, si riesce ad ottenere la misura cautelare e la condanna a qualche mese di carcere (PM - V).

in generale le quantità sono abbastanza ridotte perché l'arresto avviene di persone che si dedicano allo spaccio piccolo, allo spaccio terminale e quindi si tratta di persone che sono normalmente in possesso di piccole quantità, salvo naturalmente avere una specie di riserva occulta nelle vicinanze del luogo dove praticano lo spaccio, dove vanno a rifornirsi quando hanno esaurito le dosi (G - III).

In breve l'immagine dell'immigrato irregolare nord-africano è, nella visone degli attori del processo, al pari di quanto accade nell'immaginario collettivo, rigidamente pre-strutturata. Egli è un individuo sradicato, privo di una pur minima integrazione all'interno della nostra società e, qualora non spinto all'attività di spaccio da una sorta di vocazione, facile preda delle organizzazioni criminali che controllano il mercato della droga. Per soggetti del genere ogni prospettiva di una futura integrazione è considerata a dir poco chimerica.

I rischi insiti in simili presunzioni - a dir poco insuperabili come sottolineava in precedenza un avvocato - sono già intuibili, anche se avremo modo di vederli meglio in dettaglio (41) allorché ci appresteremo ad analizzare la sequenza di atti che porta ad una sentenza di condanna. Prima però c'è da sottolineare come l'immigrato extracomunitario non sia l'unica figura sociale a subire il peso di una simile immagine negativa.

6.4.2: Il ladro tossicodipendente

Delineare il profilo del tipico autore di reati contro il patrimonio è più complesso, visto e considerato che gli attori processuali non esprimono a riguardo descrizioni univoche. Certo è possibile identificare dei dati di tendenza tutto sommato sufficientemente rimarcati, ma non si assiste più alla descrizione di un preciso identikit come nel caso degli spacciatori extracomunitari.

Indubbiamente si fa in netta prevalenza riferimento ad un universo sociale miserevole, fatto di soggetti comunque ai margini del mercato del lavoro, anche se non manca qualche accenno a casi di «reati eccezionali»

assolutamente la tipologia sociale è quella di un soggetto in precarie condizioni economiche, è un soggetto che il più delle volte assume stupefacenti, è un soggetto che sicuramente vive in condizioni disagiate, è abbastanza raro trovare la persona...poi c'è anche quello, voglio dire che trovi anche la persona che commette il furto in un negozio di abbigliamento ed è una persona “regolare”, con un'attività lavorativa, che non ha nessun bisogno di commettere un furto e che comunque lo ha commesso.

È successo anche, mi sembra la primavera scorsa, che ci fu anche un caso del genere, venne fatto anche un articolo sul giornale, è chiaro che è molto raro, nel senso che se lei va per una settimana a vedere le direttissime le capiterà molto più raramente di vedere casi di questo genere, vedrà molto più spesso il borseggio sull'autobus (A - IV).

Salvo i casi eccezionali, di persone “regolari”, senza alcuna apparente ragione per commettere reati contro il patrimonio, si tratta di quell'insieme di soggetti ai margini della società pronti a sfruttare qualsiasi occasione per tirare a campare. I classici “oziosi e vagabondi” della normativa di polizia, che adottano spesso come «normale» strategia di sopravvivenza la commissione di reati contro il patrimonio, piccoli furtarelli quotidiani per una sopravvivenza alla giornata.

Ma l'individuazione dell'ozioso e vagabondo contemporaneo è, per la verità, più precisa: il riferimento è infatti ad una particolare categoria sociale fra quelle che compongono il variegato universo della marginalità sociale, una categoria cui, senza remore, si attribuiscono la stragrande maggioranza di reati contro il patrimonio commessi da cittadini di nazionalità italiana

il tipico imputato italiano per furto in direttissima è il tossicodipendente, il tossicodipendente che cerca di rubare la radio nella macchina e viene preso, cerca di rubarla per comprarsi la dose.

Credo che questa sia la figura più ricorrente di ladro italiano (A - III).

I furti sono ormai quasi esclusivamente furti di necessità del tossicodipendente...una volta quando si parlava di sussistenza si pensava all'alimentazione, adesso ci sono anche altri tipi di bisogni che evidentemente inducono agli stessi comportamenti (G - IV).

Ma, a parte il ristretto universo sociale composto dai tossicodipendenti nostrani, gli attori processuali evidenziano essere avvenuto un mutamento radicale nei ranghi bassi della piramide sociale, mutamento che si riflette inevitabilmente nelle caratteristiche del tipico microcriminale processato per direttissima

adesso possiamo dire che rispetto alla società di venti o trenta anni fa si assiste anche alla scomparsa di un certo tipo di micro-criminalità, il ladro tradizionale, quello che andava negli appartamenti o rubava sugli autobus ... la criminalità, diciamo così, “indigena” sta scomparendo, cioè viene scacciata da un tipo di criminalità più aggressiva, che trova la sua aggressività appunto in motivazioni di sussistenza maggiori di quelle che, in una società ormai ricca, stanno da noi cominciando a venir meno.

Questo si vede anche pensando alla prostituzione, non so immaginare che fine abbiano fatto le quarantenni o cinquantenni che stazionavano sui viali; queste prostitute locali di fronte a quest'immigrazione violenta di ragazze di diciotto vent'anni, con prezzi più accessibili...c'è stato un grosso movimento di mercato (G - IV).

Beh certo, questi reati delle direttissime una volta riguardavano fondamentalmente - io poi facevo il pretore quindi non avevo la droga - comunque per quello che riguardava i furti, le resistenze, erano relative o ad una categoria che potremmo definire professionale, cioè di persone che in qualche modo hanno deciso di vivere attraverso un'attività delittuosa, mi riferisco soprattutto ai furti sui treni, che hanno una specializzazione particolare o a certi tipi di borseggiatori; altrimenti erano tutti tossicodipendenti, che utilizzavano il furto o altri reati per procurarsi il denaro.

Adesso effettivamente si assiste ad un cambiamento, almeno io riesco a percepirlo in questo senso, perché i tossicodipendenti sono diminuiti o almeno nella realtà che mi capita tutti i giorni...(G - III)

Il crearsi di nuove sacche di povertà ed emarginazione sociale ha causato un parallelo mutamento che ha stravolto la composizione sociale dell'universo microcriminale. Ciò si rifletterebbe, secondo le parole degli intervistati, non solo sul mercato delle droga o della prostituzione, ormai unanimemente attribuiti ad una gestione “imprenditoriale” e ad una “manovalanza” straniera, bensì anche nel settore dei piccoli reati contro il patrimonio, dei borseggi, degli “scippi”, delle piccole rapine, proprie o improprie, che quotidianamente avvengono per le strade di un qualsiasi centro urbano dalle discrete dimensioni.

Al tossicodipendente che si procaccia la dose con il furtarello, tipologia d'autore dalla connotazione quasi proverbiale da un paio di decenni a questa parte, si affiancano così tutta una serie di figure sociali diverse e, soprattutto, dalla diversa provenienza e con delle particolari specializzazioni

i furti sono di pertinenza...qui bisogna fare delle distinzioni, nel senso che c'è furto e furto, per cui: i furti in autobus a (....) sono ormai commessi quasi esclusivamente da sud-americani, i furti in treno molto frequentemente da algerini, si osservano cose strane: fino a tre anni fa pochissimi sud-americani commettevano furti in autobus a (...) e questi erano commessi solo da algerini che li commettevano in autobus ed in treno, adesso si vedono meno frequentemente...non so per quale motivo, forse sono andamenti altalenanti della mia clientela...meno frequenti i furti in treno da parte di algerini, quasi esclusivo monopolio delle linee dell'autobus per i sud-americani, stabili gli algerini nello spaccio di sostanze leggere, stabili i tunisini nello spaccio di sostanze pesanti.

Per quanto riguarda i nomadi: furti in appartamento per nomadi maschi, furti con destrezza in supermercati, in autobus, furti truffaldini a carico di persone anziane da parte delle donne nomadi, ti parlo di nomadi sinti, cioè nomadi di etnia italiana.

C'è una particolarità: le uniche donne che vengono processate per direttissima, o quasi, sono proprio nomadi, per questioni che attengono i furti, qualche tossicodipendente, ma con meno frequenza.

Nomadi slavi, i rom, di nuovo furti più o meno con la stessa ripartizione di competenza, cioè per le donne furti con destrezza, per gli uomini furti in abitazione (A - V).

Borseggi in autobus i sud-americani, furti in appartamento slavi, molti, non tutti ovviamente, appartenenti alla comunità nomade e comunque tutti gli slavi arrivati dopo lo sfascio dell'est Europa.

Di questi, per la mia esperienza, c'è ne sono secondo me in direttissima; mentre stranieri, africani del nord, quindi tunisini, marocchini, più che altro per reati legati allo spaccio di stupefacenti; poi capita anche di vedere arrestati italiani e nella mia esperienza personale mi è capitato di vederli in direttissima soprattutto per furti, qualcuno per spaccio di hashish, ma più che altro per furti oppure anche per fatti di resistenza a pubblico ufficiale a cui e seguita una violenza, ovviamente sulla persona e sono personaggi un po' sbandati (A - III).

Oppure nei furti nei grossi centri commerciali anche qui sono cittadini extracomunitari, ma non quelli che normalmente spacciano...non so...cittadini dell'est, tipo rumeni, bulgari, polacchi, che vivono in condizioni di precarietà economica - a parte gli zingari, i nomadi - cercano di procurarsi qualche genere alimentare o qualche genere di prima necessità; oppure, sulle automobili, il tossicodipendente insomma (PM - I).

E poi c'è il disgraziato che ruba nel supermercato e li ancora non siamo riusciti a far capire che sarebbe meglio non li arrestassero, ma questa è una cosa assolutamente trasversale...c'è stato un periodo in cui venivano i rumeni che rubavano...a me è capitato uno che ha preso cinquemila lamette da barba: “mi scusi, cosa ci fa con cinquemila lamette da barba?”, “poi le rivendo!”. Cioè le prendono qui e poi là le rivendono, perché sono beni anche modestissimi che là non ci sono, per cui ci sono anche furti di cose veramente ridicole, che poi per il numero e la quantità, per questo tipo di persone, soprattutto rumeni...io ne ho avuti quattro o cinque...diventano reati consistenti per quanto riguarda il danno, perché ne prendono un quantitativo molto alto; ma normalmente i furti nei supermercati sono furti molto modesti (G - V).

Per concludere, sembra delinearsi con una certa precisione nelle parole degli attori processuali il profilo dell'“ozioso e vagabondo” contemporaneo e si tratta di una descrizione che ricalca sostanzialmente le immagini che abbiamo visto essere diffuse socialmente, gli stereotipi criminali circolanti.

Agli “sbandati” nostrani nei cui confronti, già sul finire degli anni '80 era stata ingaggiata una guerra senza quartiere, si sono aggiunti i “miserabili” provenienti dall'estero nel rendere più variegato e pericoloso l'universo della microcriminalità.

Salvo qualche diversità d'accento presente nelle parole dei pubblici ministeri che, della lotta a questo tipo di criminalità sono ovviamente portati a fare un abito professionale, adottando metafore “guerresche” e costruendosi l'immagine di un “nemico” pericoloso ed agguerrito, i giudizi sono unanimi. Tendenzialmente però i toni delle descrizioni offerte scivolano verso una pacata rassegnazione, nell'ottica degli attori processuali nient'altro è possibile aspettarsi dalle categorie sociali che si trovano a dover giudicare o difendere e, sovente, sembra implicita l'idea che, se pure in un caso specifico innocenti, questi soggetti non avranno modo di procacciarsi da vivere altrimenti che con la commissione di reati.

Non è l'episodio specifico che gli si contesta, ma una complessiva condotta di vita che li mette in condizione di non poter vivere se non attraverso il delitto: questi individui vengono, attraverso tali procedure, responsabilizzati della loro miseria, della loro marginalità socio-economica, del loro sradicamento, del loro “anormale” stile di vita che li porta a vagabondare di città in città senza alcuna stabile prospettiva. Tale visione dell'ozioso e vagabondo contemporaneo si fonda sull'idea classica che siano essi stessi, e non un dato fattore strutturale o un complesso di ragioni sociali, i responsabili della loro condizione sociale marginale e disagiata, la quale, quando non è frutto di una vera e propria scelta di vita, denota perlomeno una certa debolezza morale, una carenza di valori etici cui può forse sopperire l'intervento penale. Ed è proprio tale idea che legittima, tanto agli occhi dell'opinione pubblica che degli attori del controllo sociale, l'opportunità di innescare un processo di disciplinamento che sia in grado, se non di normalizzare le condotte di vita di tutti i soggetti in questione, perlomeno di neutralizzare la loro pericolosità sociale, rendendo al contempo meno appetibile e più rischiosa la scelta di vita criminale.

Vedremo, adesso, come una simile immagine dell'universo delinquenziale preso in carico nei processi per direttissima si rifletta perfettamente nelle scelte effettuate degli attori da noi intervistati in occasione degli snodi processuali fondamentali.

6.5: Il procedimento. Arresto e convalida

Chiarito quale sia l'universo delinquenziale preso in considerazione in tali procedimenti e l'immagine che gli attori processuali ne hanno, possiamo passare ad esaminare la scansione procedurale attraverso cui si giunge alla pronunzia finale, cercando, sempre attraverso le parole degli intervistati, di evidenziarne come il sapere criminologico pratico di giudici e parti processuali influisca sull'andamento di giudizi.

Che in questi procedimenti ci si occupi prevalentemente di microcriminalità è stato adeguatamente evidenziato, adesso c'è da sottolineare come la selezione dell'universo delinquenziale che gli attori processuali ci hanno descritto sia in prevalenza opera dell'attività degli agenti polizia giudiziaria. Ci preme evidenziare, in sostanza, in quale misura ciò che finisce in direttissima non sia in fondo - come sottolinea il nostro giudice - un prodotto preconfezionato dall'attività dell'autorità amministrativa

in un certo senso siamo legati un po' alla politica criminale delle forze dell'ordine, non è che siamo in grado più di tanto di capire perché in certi periodi i borseggiatori erano tutti quanti sudamericani: peruviani equadoregni, questa gente; poi invece c'è stato il periodo...adesso per esempio, il periodo in cui cominciano ad arrestare i nomadi per i furti nelle case, sono soggetti geograficamente ben definiti, che commettono determinati tipi di reato (G - V).

L'attività del tribunale, dunque, si svolge su un tipo di delittuosità già selezionata in precedenza dall'attività degli agenti che operano gli arresti e questo, come sottolinea il nostro giudice, condiziona pesantemente l'ambito operativo della magistratura. Viene immediatamente in questione, dunque, il problema del come sia effettivamente distribuito il potere di indirizzare le politiche criminali ed in particolare il problema di capire quali fra le autorità che concorrono all'azione di criminalizzazione secondaria assume un ruolo d'indirizzo e che tipo d'influenze esterne eventualmente subisca (42). Si tratta, in sostanza, di capire che rapporto incorra fra gli organi di pubblica sicurezza e la magistratura e quale ruolo assumano in questo complesso rapporto i due referenti dell'autorità amministrativa: l'esecutivo, che influisce dall'alto e la comunità locale, che influisce dal basso sull'azione delle forze di polizia.

Nello svolgere la nostra ricerca non abbiamo condotto un'indagine specifica sull'attività delle forze dell'ordine e sulle priorità che ne muovono l'agire nel corso della quotidiana azione di controllo del territorio in cui sono impegnate. Pur in assenza di specifiche interviste condotte con personale di polizia, tuttavia, siamo in grado di formulare alcune considerazioni a partire dai dati che è stato possibile ricavare dai verbali d'arresto inseriti all'interno dei fascicoli processuali da noi consultati e, soprattutto, da alcuni passi delle stesse interviste agli attori processuali. L'arresto, infatti, pur essendo un atto compiuto in piena autonomia dall'autorità amministrativa viene sottoposto al vaglio del giudice nel corso della cosiddetta “convalida” e, ancor prima, dello stesso pubblico ministero che, seppur informalmente, tende come vedremo ad indirizzare con i suoi consigli l'azione dell'autorità amministrativa.

Seppur in via indiretta, dunque, è possibile ricavare dal materiale a nostra disposizione qualche dato circa gli arresti e, data la centralità di un atto come l'arresto in flagranza, da cui in fin dei conti dipende la stessa possibilità di instaurare un procedimento per direttissima, proveremo con tutta la cautela del caso a farne uso per trarne alcune considerazioni sull'attività della polizia.

Diversi sono i fattori che potrebbero incidere, nell'ambito dell'elencazione effettuata dal codice di procedura penale, sulla selezione dei reati per cui si procede all'arresto in flagranza. La stessa organizzazione del controllo del territorio, potrebbe essere specificamente preordinata alla repressione di alcuni particolari reati piuttosto che altri e ciò si evince alle volte da alcuni passi dei verbali d'arresto, in cui sono ricorrenti formule di questo tipo

l'intervento è avvenuto nel corso di un servizio mirato a contrastare il fenomeno dello spaccio di sostanze stupefacenti in zona (...), personale dipendente in abiti civili ha così proceduto ad un servizio di polizia appiedato in via (...), con il preciso intento di individuare spacciatori.

Nell'organizzazione di quest'attività, come sappiamo, sono tendenzialmente le pressioni dell'opinione pubblica ad indirizzare l'autorità di pubblica sicurezza nell'approntare servizi mirati di controllo del territorio per eliminare certi fenomeni piuttosto che altri. Già da tempo l'azione di prevenzione e di controllo del territorio è effettuata cercando di intervenire sulle realtà percepite come particolarmente odiose dalla cittadinanza e, con l'esplodere del “problema sicurezza”, anche gli imput provenienti dalle autorità centrali si sono assestati sulla medesima lunghezza d'onda, ponendo come priorità assoluta dell'azione di polizia la lotta alla cosiddetta microcriminalità.

Altre volte, però, il contributo dei comuni cittadini può essere addirittura più preciso nello stimolare l'azione delle forze di polizia. Spesso, infatti, è la stessa propensione dei cittadini a segnalare certi episodi, piuttosto che altri, ad indirizzare l'attività delle forze dell'ordine ed un dato simile è confermato da diversi processi riportati in appendice, dove l'intervento degli agenti sovente avviene a seguito di segnalazione effettuata da qualche comune cittadino circa “presenze sospette” in zona. Altre volte ancora, poi, la partecipazione dei comuni cittadini all'attività di controllo del territorio si organizza in forme più complesse, fino alla creazione di veri e propri corpi di “delatori volontari” dotati addirittura di un riconoscimento ufficiale da parte dell'autorità municipale

ad esempio per quanto riguarda il problema dello spaccio di droga, soprattutto nella zona (...), ci sono i pattuglianti cittadini che...molte volte capita che sono loro che avvertono la polizia o i carabinieri che ci sono queste persone, solitamente extracomunitari, che stanno ponendo a loro avviso un'attività di spaccio.

(...)

Sono volontari che collaborano con il comune.

Loro chiaramente non hanno poteri di arresto, osservano, chiamano...

(...)

Fanno delle relazioni di servizio, vengono sentiti a sommarie informazioni da coloro che operano l'arresto...

(...)

Non entrano mai in tribunale se non nell'ambito di un giudizio direttissimo vero e proprio.

(...)

Io devo dire che più volte sono incappata nelle loro dichiarazioni per quanto riguarda extracomunitari arrestati in zona universitaria...

(...)

Il più delle volte viene raccontato...poi chiaramente quello che avviene lo sanno solamente loro, che loro vedono queste persone, quindi affermano di essere presenti nel momento in cui viene commesso il reato, dicono che li hanno visti passare, oppure che li hanno visti andare a prendere il fumo nascosto...non so...nel cestino del rusco, chiamano chiaramente il 113, il 113 interviene, loro sono lì ed indicano le persone che secondo loro avrebbero commesso un'azione delittuosa (A - IV).

...Arresto che deriva da attività che sul territorio viene svolta dalla polizia, dai carabinieri, dalla guardia di finanza, nelle zone, diciamo così, sensibili della città; oppure nasce da attività di osservazione posta in essere da un'istituzione che a (...) ormai è presente da qualche decennio, le cosiddette pattuglie cittadine, sono volontari che...così...passeggiano normalmente in centro, se vedono situazioni particolarmente significative le osservano, poi chiamano il 112 o il 113...

(...)

Da qualche decennio, sono un'istituzione di...vigilanza privata ante litteram diciamo, sono dei soggetti che svolgono quest'attività, sono riconosciuti naturalmente dal comune, hanno un loro statuto, ma non hanno nessuna qualifica particolare, ne agenti di P.G., ne agenti di P.S., sono dei privati cittadini.

(...)

Non hanno alcun potere, l'unico potere loro è quello di osservare e riferire, quando osservano cose che sono riconducibili ad un'attività di spaccio, telefonano alla polizia ed ai carabinieri...(PM - V)

Come sottolinea il nostro avvocato, ovviamente i delatori non entrano mai nel giudizio per testimoniare e ciò accade a causa del fatto che la stragrande maggioranza dei procedimenti in questione finisce, come vedremo, con un procedimento di deflazione dibattimentale, i quali come sappiamo, salvo i patteggiamenti sulla pena, consentono di fondare la decisione sugli atti di polizia, verbali di arresto, sommarie informazioni, ecc.

Lei non ha mai visto testimoniare perché forse si è previsto, nell'ambito del procedimento per direttissima, un procedimento speciale, ad esempio l'applicazione pena o il giudizio abbreviato...(A - IV).

Seppure il rito abbreviato non escluderebbe a priori la possibilità di procedere ad un minimo di attività istruttoria in aula, fare entrare la diretta testimonianza di questi soggetti all'interno del processo, innanzi all'autorità giudicante, resta parecchio complicato per un difensore

Però, sa purtroppo è anche difficile, perché la persona viene arrestata, viene condotta davanti al giudice, c'è anche un problema, come dire, di preparazione della difesa perché i tempi sono stretti, c'è poco da fare...(A - IV).

Aldilà di questi problemi, peraltro fondamentali, su cui avremo modo di tornare a breve, ciò che si evidenzia è un'attività di polizia rigidamente appiattita sulle indicazioni di politica criminale che provengono dall'opinione pubblica. La selezione dei problemi da affrontare, e delle priorità da seguire nel farlo, sembra ormai essere fortemente condizionata dai moniti della comunità locale e lo stesso “sapere di polizia” si conforma schematicamente ai saperi sul crimine diffusi socialmente.

Tutto ciò fa sì che gli arresti effettuati - tanto sul piano della tipologia delittuosa che della tipologia d'autore - riflettano esattamente gli stereotipi sul crimine circolanti, riproducendo la figura dominante del tipico delinquente extracomunitario (ma anche del tossicodipendente nostrano) tanto nella realtà statistica che corrisponde all'attività di polizia (dati sulle denunce e sugli arresti), tanto nel campione di imputati che gli attori processuali si trovano a dover trattare.

I seguenti stralci dai verbali d'arresto di alcuni dei protagonisti dei processi osservati, nel loro continuo richiamarsi all'allarme sociale destato all'interno della comunità locale dagli episodi perseguiti, sono a riguardo eloquenti

...ritenuta la flagranza del reato di furto aggravato; la pericolosità sociale del prevenuto, desumibile dai precedenti specifici per reati contro il patrimonio emersi a seguito di interrogazione della banca dati di polizia, nonché dalla mancanza di una fissa dimora e di un lavoro, da cui si evince che lo stesso possa trarre fonte regolare di sostentamento dal compimento di attività delittuose; il grave allarme sociale determinato nella giurisdizione dai reati di micro-criminalità, si procedeva all'arresto...

...per quanto sopra rilevato, per la condotta che, continuamente reiterata in quella zona, desta grave allarme sociale nella cittadinanza e inoltre evidenzia una notevole esperienza criminale del soggetto; per il suo status di clandestino, privo di domicilio, di una stabile occupazione, circostanze che fanno ritenere che egli tragga il suo sostentamento dalla commissione di attività illecite; dispongono l'arresto....

...gli arresti si giustificano dall'elevato allarme sociale derivante dal fatto che nel centro storico, soprattutto nelle ore serali e notturne, avvengono numerose risse tra bande di cittadini extracomunitari, che spesso si affrontano con bottiglie di vetro o altre armi improprie, creando autentiche scene di panico tra i cittadini, spesso anziani o famiglie che transitano.

Inoltre due dei tre arrestati sono sprovvisti di documento, senza fissa dimora, clandestini sul territorio italiano, rendendo difficoltosa la loro identificazione ed, eventualmente, il loro rintraccio, mantenendosi quindi in tale stato di “sedicenza” appunto per garantirsi l'impunità.

...atteso quanto precede, rilevato che il prevenuto non svolge alcun'attività lavorativa, è privo di stabile dimora; tenuto conto che il luogo in cui si sono verificati i fatti di cui trattasi è notoriamente frequentato da assuntori di sostanza stupefacente, tanto da essere ritenuto altamente degradato; considerato anche il comportamento, oltremodo scaltro, di K., il quale si generalizza quale minorenne, consapevole di fruire d'agevolazioni legate a questo status, tuttavia a seguito d'ulteriori accertamenti presso il gabinetto di polizia scientifica, si accertava che il soggetto aveva, in occasione d'altri foto-segnalamenti, fornito altre generalità.

...premesso quanto sopra ed in considerazione: del grave allarme sociale determinato nella giurisdizione dai reati pertinenti alla violazione della normativa sugli stupefacenti; della mancanza di una fissa dimora o residenza che ne faciliterebbe l'irreperibilità; della mancanza di un'attività lavorativa, che fanno ritenere che A. tragga regolare fonte di sostentamento da tale attività delittuosa; dalla mancanza di documenti attestanti l'identità personale, che ne caratterizzano lo stato di clandestinità sul territorio nazionale.

La lettura di questi brani, tuttavia, segnala anche un ulteriore questione. Nei casi in specie, infatti, si trattava di arresti “facoltativi”, cioè di reati rispetto ai quali la legge lascia alla polizia giudiziaria un margine di discrezionalità nell'ambito del quale valutare l'opportunità di effettuare l'arresto o meno. La questione è di una certa rilevanza poiché la stragrande maggioranza degli imputati nei procedimenti osservati è stata arrestata e portata immediatamente innanzi ad un giudice sulla base di un atto discrezionale della polizia giudiziaria. E ciò vale soprattutto per il reato ex art. 73.5 D.P.R. 309/1990, lo “spaccio” o la detenzione illecita di modiche quantità di stupefacente, che è in assoluto l'ipotesi delittuosa più frequente nei procedimenti per direttissima, per il quale è previsto l'arresto facoltativo in flagranza. È centrale capire, dunque, quale genere di considerazioni muova la polizia giudiziaria nell'effettuare o meno un arresto in questi casi.

Come sappiamo, caduto il vecchio riferimento alle “qualità morali della persona”, il nuovo codice impone in questi casi di valutare oltre alla gravità del fatto anche “la pericolosità del soggetto desunta dalla sua personalità o dalle circostanze del reato”.

L'arresto facoltativo in sostanza si basa su dei presupposti personologici che impongono all'autorità di pubblica sicurezza di riservare questa grave misura solo ad alcuni soggetti, esso è un provvedimento dal carattere intimamente selettivo poiché la stessa legge obbliga a prendere in considerazione, aldilà del fatto stesso, le caratteristiche del soggetto.

La questione è di non poco conto: l'arresto, infatti, oltre alla immediata limitazione della libertà personale in via amministrativa che determina, porta, attraverso l'ingresso nella “catena di montaggio” delle direttissime, ad un subitaneo giudizio; mentre c'è da credere - anche sulla base delle considerazioni che abbiamo visto svolgere agli intervistati a proposito delle routine operative adottate dal Tribunale, che riservano una corsia assolutamente preferenziale al trattamento penale dei casi di microcriminalità ed in particolare degli imputati arrestati durante il quotidiano rastrellamento delle forze dell'ordine - che un denunziato a piede libero difficilmente vedrà presa in considerazione la sua vicenda prima dello scadere dei tempi di prescrizione. La scelta circa l'arresto in sostanza segna un netto spartiacque fra le vicende che finiscono a giudizio e le vicende che con tutta probabilità non ci arriveranno mai e, dunque, lungi dall'essere un provvedimento che incide semplicemente sulla velocità con cui la vicenda arriverà ad una pronunzia di primo grado, spesso dietro un arresto risiede un vero e proprio surrettizio potere in materia di politica criminale in mano agli agenti di polizia.

Quando l'autorità amministrativa appronta i servizi di controllo del territorio, presidiando a tappeto le strade dei centri cittadini, si muove con degli obbiettivi ben precisi. Essa non attua un'azione di contrasto alla criminalità in generale, ma a quelle specifiche forme di criminalità che destano particolare allarme sociale, cercando di individuare e selezionare in particolare gli “oziosi e vagabondi” contemporanei, coloro che per le loro condizioni di vita disagiate lascino ritenere fondato il sospetto di trarre il proprio sostentamento dall'attività delittuosa. Solo chi presenti le caratteristiche di un “normale” spacciatore o di un “normale” borseggiatore, infatti, subirà un provvedimento d'arresto in flagranza e verrà tolto dalla circolazione

C'è assolutamente questa considerazione, se la polizia ferma un italiano con 10 g. di hashish e ferma un marocchino con 10 g. di hashish in tasca: l'italiano non va in carcere, forse non viene neanche denunciato per detenzione di stupefacenti, forse gli viene elevata un contravvenzione per illecito amministrativo, il marocchino viene condotto prontamente nelle aule di giustizia, questa è una cosa che mi sento di poter dire serenamente (A - III).

Il presupposto del giudizio direttissimo è l'arresto e l'arresto, specialmente se eseguito nei casi in cui è facoltativo, ha un senso se è prodromico all'applicazione di una misura cautelare, quindi quelle categorie di soggetti arrestabili lo sono nella misura in cui nei loro confronti è applicabile più facilmente una misura cautelare.

Conclusioni non se ne possono trarre, penso che vengono tante volte perse di vista altre valutazioni che dovrebbero essere proprie di casi simili, per cui per un reato di modestissima gravità uno straniero viene con grande facilità arrestato, processato poi, comunque sottoposto a misure cautelari e per un reato presumibilmente più grave un cittadino italiano viene denunciato a piede libero, non processato per direttissima, non sottoposto a misure cautelari (A - V).

In certi casi l'arresto è facoltativo: quindi il 73.5, se viene ritenuto dalle circostanze del fatto, è un'ipotesi di arresto facoltativo, bisognerebbe a quel punto argomentare sulla necessità di interrompere l'iter criminoso, sui precedenti del soggetto; però normalmente tutto ciò accade, nel senso che c'è difficilmente per spaccio su strada un soggetto: identificato, immune da pregiudizi penali, immune da segnalazioni di polizia, con una attività lavorativa, che in buona sostanza commette una fesseria per la prima volta, direi che difficilmente viene arrestato.

A me personalmente o non è mai capitato o se è capitato, è capitato così di rado che non me ne ricordo, normalmente queste sono riflessioni che la polizia giudiziaria svolge e normalmente vengono anche comprovate con le cosiddette strisciate del terminale della polizia scientifica, che altro non è che la rilevazione di precedenti situazioni attraverso le impronte e la dimostrazione di plurime spendite di generalità false da parte del soggetto (PM - V).

Non tutte le persone fermate vengono portate alla convalida con direttissima, alcune vengono liberate immediatamente quando si ritiene...appunto arresti facoltativi che non siano necessari (G - III).

L'azione delle forze dell'ordine si concentra, dunque, sul tipo dell'ozioso e vagabondo contemporaneo e, più in particolare, su quella specifica categoria d'individui costituita dagli extracomunitari non in regola con le norme sul soggiorno. La loro semplice presenza per le strade cittadine è associata al degrado ed alla criminalità e, similmente a quanto non avvenga presso l'opinione pubblica, anche la polizia tende a confondere la percezione del problema con la sua dimensione oggettiva. Cosicché, ormai, la lotta alla criminalità è totalmente confusa con la lotta all'immigrazione irregolare e i servizi di controllo del territorio si trasformano in veri e propri rastrellamenti quotidiani, che mirano a far sparire comunque certi individui dalle vie cittadine.

Io non sono in grado di darti una risposta scientificamente corretta, possoriportarti una impressione: l'attenzione delle forze di polizia e poi a seguire del tribunale, si concentra non necessariamente sui soggetti potenzialmente più pericolosi, ma su quelli più facili da arrestare.

Non è vero che destano maggior allarme sociale, perché ogni persona ragionevole ed intelligente saprebbe capire da dove arriva l'allarme sociale, quindi: quelli più facili da arrestare e quelli, così, maggiormente visibili, quindi forse più scomodi, far sparire qualche nord-africano senza tetto che bivacca per la strada forse può dare qualche ritorno d'immagine che non far sparire un tossicodipendente, che poi tutto sommato da qualche parte a dormire la notte và (A - V).

Le brevi note (peraltro non più che delle mere formulette di stile) che i redattori dei verbali d'arresto spendono a proposito dei motivi che ne hanno orientato l'agire in questi casi, confermano tali assunti. Esse, infatti, ricorrono continuamente all'immagine delle vie cittadine “invase” da questi nuovi poveri, soggetti sradicati, privi di un lavoro o di una stabile dimora, la cui stessa miseria lascia presumere un elevato potenziale di pericolosità sociale.

L'arresto è in ogni caso sottoposto al vaglio dell'autorità giudicante - la quale è chiamata a valutare tanto la sussistenza dello stato di flagranza nel reato, quanto la sussistenza dei presupposti che giustificano un arresto facoltativo - e, dunque, il potere discrezionale attribuito all'autorità amministrativa subisce dei temperamenti, dovendosi confrontare anche con la visione degli organi giudicanti. In tali casi, infatti, le motivazioni che sorreggono l'azione degli organi amministrativi vengono vagliate dal giudice, il quale potrebbe eventualmente non ritenere giustificata una prognosi di pericolosità fondata sul mero status sociale dell'arrestato, imponendo, seppur indirettamente, degli indirizzi diversi all'attività degli agenti di pubblica sicurezza.

Tendenzialmente, però, l'autorità giudicante sembra appiattita sui medesimi orientamenti di politica criminale che muovono l'autorità di pubblica sicurezza, limitandosi a “cassare” il provvedimento d'arresto solo quando la polizia giudiziaria ha ecceduto nell'esercizio del suo potere arrestando una persona le cui “qualità morali o sociali” non giustificavano una simile misura riservata agli “oziosi e vagabondi” contemporanei

Un caso di non convalida dell'arresto, potrebbe essere nel caso in cui per esempio venga arrestata una persona incensurata per un fatto di modesta gravità, in cui comunque, anche nell'ambito del potere discrezionale che c'è rispetto all'arresto facoltativo, davvero non si capisce per quale ragione una persona incensurata che lavora è stata trovata con due grammi di sostanza stupefacente, c'è magari pure il dubbio che fosse per uso personale, beh lì si chiede che non venga convalidato l'arresto; però insomma sono situazioni molto particolari, solitamente si punta ad una richiesta sulla libertà e poi dipende anche da quelle che sono anche le richieste del P.M., perché a volte è anche lo stesso P.M. che non fa richiesta di applicazione della misura cautelare pur chiedendo ovviamente la convalida (A - II).

Nei casi di arresto facoltativo, che però...insomma...anche lì, trovano sempre il modo di convalidare nel senso che poi, soprattutto se si tratta di stranieri, c'è quel dato della pericolosità che loro desumono dal fatto che il soggetto non è identificato, vi è pericolo di fuga e quindi...(A - IV).

Ricordo di non averlo convalidato in un caso in cui c'era un tentato furto di un italiano incensurato, allora li l'arresto era facoltativo e non c'erano presupposti per giustificarlo, quando l'arresto è facoltativo c'è una certa discrezionalità, si può fare si può non fare, si deve fare solo nei casi in cui sia giustificato da caratteristiche soggettive, nel caso in specie non lo ho ritenuto e non ho convalidato.

Ma sono casi abbastanza sporadici proprio perché la tipologia di queste persone fa si che ci sia sempre una pericolosità abbastanza latente diciamo, perché sono persone che vivono nella strada, che non hanno un'attività lecita e fanno di questa loro vita in strada fonte di sostentamento, che dal punto di vista della reiterazione è già...(G - I) (43).

Al di fuori di questi specifici casi vi è la tendenza a convalidare la stragrande maggioranza degli arresti, dettata magari, come qualcuno degli intervistati sottolinea, più che da ragioni relative al fatto di reato ed alla sua gravità effettiva, dall'esigenza di arrivare comunque, in relazione a “certi soggetti”, ad un provvedimento cautelare e ad eventuale una condanna. Tanto l'autorità amministrativa che i giudici, dunque, tendono a far funzionare la “macchina delle direttissime” portandone agli estremi la selettività, ponendo un argine a monte del procedimento e cercando nei limiti del possibile di riservare l'arresto - con tutto ciò che ne consegue - alle postmoderne «classi pericolose»

L'arresto viene convalidato in percentuali che credo possano essere del 90, 95%, se non viene convalidato non è per ragioni di merito ma per ragioni tecniche, i casi in cui l'arresto non viene convalidato dipendono magari da una diversa qualificazione del fatto, oppure si versa in casi di arresto facoltativo e non di arresto obbligatorio, però sono assolutamente infrequenti...

(...)

Si, sono questioni di diritto, se torni al caso del furto: per il furto semplice può essere consentito l'arresto in flagranza, ma non per il tentato furto semplice; quindi valutare il fatto come ipotesi di delitto tentato e non di delitto consumato ti comporta che un arresto possa non essere convalidato, però sono casi assolutamente infrequenti.

Questa infrequenza dipende...così...comunque dall'intenzione di processare, tecnicamente credo che le situazioni in cui l'arresto non dovrebbe essere convalidato anche per ragioni di merito e non solo per ragioni procedurali dovrebbero essere maggiori, forse non superiori al 20, 30% al massimo delle situazioni...

Qual è il criterio che t'impone di arrestare una persona che ha rubato una maglietta al mercato: perché torni a trovare una giustificazione se vai ad esaminare le categorie, che sono categorie generali ed astratte, cioè il tipo di autore del reato...

(...)

ma insomma uno che ruba una maglietta al mercato non è persona pericolosa tanto da privarla anche solo temporaneamente della libertà personale, tanto meno nella prospettiva di una misura pre-cautelare prodromica a misure che hanno carattere di maggior definitività.

Considera però che la mancata convalida dell'arresto comporta che il rito di fatto sia sradicato, quindi la tendenza è di convalidare e processare (A - V).

In questo quadro è praticamente impossibile per le difese sperare di ottenere una non convalida del provvedimento d'arresto: difficilmente, allorché si tratti di convalidare un provvedimento d'arresto obbligatorio, i giudici ritengono insussistente la flagranza del reato; mentre, se si tratta di un provvedimento facoltativo, bisognerebbe essere in grado di far apparire il profilo biografico del proprio assistito in una luce positiva, riuscendo a tratteggiare l'immagine di un individuo poco pericoloso socialmente, la cui presenza innanzi al giudice è considerabile del tutto eccezionale

Evitare la convalida dell'arresto è un obbiettivo che non viene mai preso in considerazione come principale, perché generalmente gli arresti vengono eseguiti in presenza dei presupposti che legittimano gli agenti ad effettuarli, per cui sono rari i casi in cui difettano assolutamente i presupposti.

Mi è capitato che un giudice abbia non convalidato l'arresto, però è stata sicuramente un'eccezione rispetto a quello che accade solitamente; quindi è un obbiettivo che il difensore non si pone, la formula classica sulla convalida è: mi rimetto alla valutazione del giudice, mi rimetto a giustizia (A - III).

Io da quando sono qua al monocratico credo di non aver mai non convalidato per assenza di flagranza.

Ci può essere un problema di mancanza di indizi, ma quella è un'altra questione, però...allora... se mancano gli indizi nel senso che non sono sufficienti in genere, siccome poi è una valutazione che fa il magistrato all'esito della relazione orale quando ha sentito l'arrestato e le argomentazioni di P.M. e difensore, allora normalmente questa mancanza di indizi ritenuta dal giudice non influisce sulla convalida: siccome la convalida è un provvedimento che riguarda l'operato della P.G. già fatto, allora noi diciamo che la P.G., in quella situazione lì, era legittimata ad operare l'arresto, quindi te lo convalido, dopodiché però io all'esito di questo giudizio di convalida siccome ci sono degli elementi dubbi ... gli indizi non sono gravi, allora non ti applico la misura per mancanza di indizi (G - V).

Questa scarsa frequenza di non convalide dell'arresto, inoltre, è estremamente favorita da una prassi invalsa presso la procura di (...), prassi che consente all'autorità amministrativa di effettuare gli arresti in flagranza, anche nei casi di arresto facoltativo, con un margine di sicurezza circa la legittimità del provvedimento, selezionando una tipologia di arrestati che corrisponda anche alla visione dei soggetti arrestabili propria dell'ufficio che poi andrà a sostenere l'accusa in giudizio

un po' per la stessa esperienza giudiziaria in queste cose delle forze dell'ordine, un po' per il contatto che loro hanno con il P.M. quando decidono di procedere ad un arresto: c'è una selezione abbastanza precisa, direi che è un caso raro la mancata convalida dell'arresto (G - IV).

Anche nel caso di arresto facoltativo non mi è mai capitato, ma perché devo dire che esiste da parte dello stesso P.M. una scrematura iniziale delle situazioni, per cui decidono loro quali...e quindi tutto sommato...(G - III).

Questa “scrematura iniziale” delle situazioni avviene grazie ad un contatto anche telefonico fra gli agenti che operano l'arresto ed il pubblico ministero “di turno”, che sarà, poi, il magistrato che preparerà il fascicolo per la convalida ed il successivo giudizio. È come se esistesse, in sostanza, un sorta di filtro preventivo al giudizio di convalida previsto dalla legge, filtro che distribuisce il potere di politica criminale attribuito agli organi di pubblica sicurezza tra procura ed autorità amministrativa, evitando tendenzialmente l'insorgere di conflitti circa l'individuazione dei soggetti arrestabili fra gli organi che andranno a sostenere l'accusa in giudizio

Per esperienza all'arresto non convalidabile proprio perché non ci sono i presupposti di legge non si arriva, perché la polizia...si...compie un atto proprio che è quello dell'arresto, ma comunque nel comunicarlo illustra, su richiesta del P.M., quelle che sono le circostanze e il P.M. può già manifestare i suoi dubbi in quella sede...

(...)

Questo avviene telefonicamente. Quindi che si arrivi proprio all'arresto non convalidabile per mancanza dei presupposti lo escludo, se qui parliamo soltanto delle direttissime, anche qui, per esperienza, proprio perché già c'è stato questo contatto telefonico in cui è stato descritto il fatto, le circostanze, si è parlato del soggetto... insomma così...ci può essere, una volta che arrivano gli atti, la verifica di una situazione di incensuratezza, mentre magari la polizia si rappresentava un soggetto con precedenti eccetera che erano i classici precedenti di polizia, mentre invece risulta incensurato non era niente di tutto questo.

Questo inciderà soltanto in sede di udienza perché a quel punto comunque la convalida immediata rappresenta una garanzia ed i termini sono talmente ristretti che, nel momento in cui a me arrivano gli atti, manca mezzora un ora all'inizio della direttissima, quindi non c'è un provvedimento di liberazione del P.M., che quindi porterebbe ad un prolungamento dei tempi, perché tutto sommato è molto più rapido l'intervento del giudice nei tempi della direttissima.

Quindi escludo...(PM - III).

(...)

Normalmente noi stessi facciamo da filtro, nei casi che non potrebbero essere convalidati in sede di giudizio li rimettiamo in libertà immediatamente.

(...)

la prassi è quella di chiamare immediatamente il P.M. e rappresentargli la situazione in modo che il P.M: possa intervenire immediatamente; è chiaro che se il fatto è eclatante, cioè: il magrebino che viene fermato con 20 g. di cocaina lo si arresta e poi si può chiamare il P.M. successivamente.

Normalmente chiamano subito e chiedono una valutazione anche nel merito, anche perché poi è chiaro che se fanno degli arresti non giustificati senza avvisare un P.M., l'effetto immediato è quello della liberazione dell'arrestato ed in concreto poi è una specie di sconfessione del loro operato.

(...)

Ma direi che il rapporto con l'autorità giudiziaria è assolutamente corretto e tranquillo, i casi di contrasto sono minimi, quasi inesistenti.

Direi che l'esperienza è talmente vasta che i casi ormai sono venuti alla luce tutti, quindi anche gli operatori singoli sanno qual è il nostro orientamento e come si possono trovare poi in direttissima, perché poi la particolarità della direttissima è che sono loro a fare la relazione al giudice e quindi è chiaro che se hanno una situazione di dubbio su come potranno poi relazionare al giudice, prima si consultano con il P.M. (PM - I).

Grazie a questa prassi, dunque, la polizia riesce ad evitare una elevata incidenza di non convalide, portando, così, in direttissima solo persone rispetto alle quali il pubblico ministero ritenga di potere perlomeno chiedere una misura cautelare.

I modelli operativi degli organi amministrativi, dunque, non si costruiscono del tutto autonomamente, seguendo gli indirizzi provenienti dall'autorità centrale o assecondando pedissequamente le pulsioni della realtà locale, essi, entro certi limiti, si devono fondare sulla base di un sapere condiviso tanto dall'organo d'accusa, che dall'organo giudicante. Tutto ciò evita conflitti fra le varie autorità protagoniste del processo di criminalizzazione secondario, consentendo che l'individuazione dei devianti da portare in direttissima avvenga tutto sommato consensualmente e che l'autorità amministrativa, cui spetta il potere di individuare preliminarmente i soggetti da arrestare, non incorra in sconfessioni del suo operato, potendo agire con la relativa tranquillità che il suo lavoro non sarà invalidato dai magistrati

è chiaro che l'arresto è una attività di P.G., quindi il P.M. non ci può far niente, ma dato che la P.G. comunque al P.M. anche alle due di notte lo scoccia, anche per dirgli: abbiamo arrestato...un arresto obbligatorio...però lo chiama comunque ed è corretto, perché il P.M. alla mattina alle otto deve sapere quanti arrestati ha, perché poi deve organizzarsi il suo lavoro.

Ci sono quei casi in cui magari anche la stessa P.G. ha dei dubbi, ti descrive un po' com'è la modalità del fatto e tu capisci che ci possono essere chiaramente dei dubbi sulla flagranza...tu stesso dici: guardate, è chiaro che l'arresto è vostro, ma se mi avete telefonato anche per un consiglio io, come magistrato, il consiglio che vi posso dare è questo.

C'è da dire che la P.G. teme molto le mancate convalide, perché per loro è un problema credo di statistiche o comunque di rapporti interni, gerarchici ecc., la mancata applicazione della misura non gli interessa più di tanto, basta che ci sia stata la convalida, perché è la convalida che attesta la bontà del loro operato (G - V).

Si, se ci sono situazioni dubbie in cui si è a cavallo sull'arresto facoltativo e quindi sui suoi presupposti, se ne parla con il P.M., perché...insomma...non siamo qui per fare statistica ma per applicare la legge, quindi chiaramente si dice: no questo non è il caso, si dice anche quali sono i reati per cui arrestare o per cui fare una denuncia a piede libero (PM - III).

La selezione dei soggetti da arrestare è, dunque, ben precisa, essa rappresenta il frutto degli indirizzi di politica criminale che l'autorità amministrativa ha assunto nell'improntare i servizi di controllo del territorio, nei limiti in cui essi corrispondano alla visione della procura, che opera da vero e proprio filtro selezionando ulteriormente fra i fermati dall'autorità di pubblica sicurezza quanti presentino un sufficiente grado di pericolosità sociale. A seguito di questa selezione l'arrestato finito innanzi al giudice per la convalida ha, come accennato, delle possibilità irrisorie di vedersi non convalidare il provvedimento della polizia giudiziaria: sia perché si tratta di soggetti rispetto ai quali vi è una ferma intenzione di procedere il più speditamente possibile, sia

perché il presupposto fondamentale del rito direttissimo è la flagranza del reato. Questa viene quasi sempre dimostrata dall'intervento degli operanti che assistono e la loro testimonianza è insuperabile...(A - III).

Il procedimento di convalida infatti avviene a seguito dell'audizione da parte del giudice dell'agente che ha operato l'arresto e dell'arrestato, i quali riportano oralmente le loro versioni dei fatti. Il rito seguito nel corso di questa doppia audizione è quello dell'Udienza Camerale, in base al quale l'esame è condotto dal giudice senza la presenza del pubblico e le parti possono intervenire con le loro domande solo in seguito (cosiddetta cross examination indiretta) (44).

In realtà l'esame dei protagonisti della vicenda, l'agente e l'arrestato, appare nella maggior parte dei casi una pura formalità. Come suggerisce il nostro avvocato, infatti, è praticamente impossibile smentire nel merito le parole dell'agente e l'audizione dell'arrestato si risolve in una mera formalità da espletare per la regolarità della procedura.

La circostanza è di non poco conto, poiché, come vedremo, la convalida ha un peso decisivo su tutto il resto dei provvedimenti che vengono adottati dal giudice in tali procedure; ma, tuttavia, essa è un dato in un certo senso necessitato da quello che Franco Cordero (45) chiama “residuo alogico” della testimonianza: la credibilità o meno di un teste.

È naturale, infatti, che un individuo descritto nei termini che abbiamo visto dagli attori processuali non possa godere di alcun credito presso un giudice. Nei suoi confronti pesano come un macigno il giudizio sociale negativo che si porta dietro in Tribunale ed il fatto di trovarsi innanzi, come contraddittore, un agente di polizia giudiziaria, la cui credibilità è difficilmente in questione. Com'è evidente, nell'ottica del giudice, le parole di quest'ultimo non potranno che avere un valore nettamente superiore rispetto a quelle di “balordo” di strada qualsiasi.

Convalidato l'arresto seguirà eventualmente l'applicazione di una misura cautelare che, come ci apprestiamo a vedere, è il vero cuore di questi procedimenti.

In ultimo si può considerare che, già sul piano del provvedimento prodromico all'instaurazione di un giudizio direttissimo, l'arresto in flagranza, si assiste ad una forte selettività nell'operato delle forze dell'ordine. Selettività che riserva queste procedure ad una ben precisa clientela: a quanti presentano le condizioni soggettive tali da lasciare presumere come molto probabile l'applicazione di uno successivo provvedimento cautelare e generalmente si tratta di soggetti cui difficilmente si fa mancare l'occasione di un soggiorno nelle nostre patrie galere. L'arresto nei procedimenti studiati riflette perfettamente la finalità che, con gli anni '90, è stata attribuita al controllo poliziesco del territorio: l'eliminazione dallo spazio urbano dei soggetti più marginali ed apparentemente problematici. Quasi si trattasse di un nucleo specializzato di operatori ecologici, l'autorità amministrativa è ormai esplicitamente chiamata a garantire il decoro delle vie cittadine attraverso l'eliminazione fisica degli scarti sociali, dei nuovi poveri.

6.6: Il procedimento. Misure cautelari

Come sappiamo non esiste più nel nostro sistema la “cattura obbligatoria”, il provvedimento cautelare, infatti, è ormai applicato su ordinanza di un giudice previa richiesta da parte della pubblica accusa. Nei procedimenti in questione è il giudice della convalida dell'arresto (un Giudice per le Indagini Preliminari) a disporre sulla eventuale richiesta cautelare e, nel farlo, è tenuto a valutare la sussistenza di tutta quella serie di circostanze che rendono giustificabile il provvedimento.

I presupposti che la legge prevede concretizzano un vero e proprio “giudizio cautelare” che ha, all'interno del procedimento principale (il giudizio sul fatto), una vita propria e degli autonomi mezzi di gravame, grazie ai quali è possibile portare la questione sino in Cassazione del tutto indipendentemente dal corso procedimento sul merito delle imputazioni.

La nostra ricerca si basa sull'osservazione dei procedimenti di convalida degli arresti e dei susseguenti giudizi e, pertanto, non spinge il suo sguardo sulle vicende successive della misura cautelare eventualmente applicata al soggetto, ma si limita all'analisi dei provvedimenti sullo status libertatis presi dal giudice in prima battuta, al momento della convalida.

In questi casi, dunque, si tratta di stabilire se l'arrestato debba permanere in vinculis, ovvero possa essere immediatamente liberato, magari con l'applicazione di un mezzo cautelare meno afflittivo.

Cercheremo di capire, adesso, come ed in base a quali elementi gli attori processuali da noi intervistati si orientano in questo frangente processuale: come, cioè, il pubblico ministero valuta la richiesta cautelare da effettuare; come la difesa resiste a tale richiesta, adducendo elementi a sostegno del suo assistito; e come, infine, il giudice si orienta nell'emettere la sua ordinanza.

6.6.1: Gravi indizi ed esigenze cautelari

Per applicare una misura cautelare è necessario valutare in via preliminare la sussistenza di tutta una serie di circostanze. Sappiamo, infatti, che non tutti i reati consentono l'applicazione di una misura ed in particolare i reati al di sotto di una certa soglia di pena escludono a priori l'applicabilità delle misure più afflittive.

Nel caso della convalida di un arresto tuttavia, la legge (art. 391.5 c.p.p.) consente di prescindere dai limiti di pena previsti per le misure coercitive. Così al giudice è consentito - anche in occasione della convalida di un arresto facoltativo che è previsto per i reati meno gravi - applicare una custodia cautelare in carcere anche per reati come il furto semplice, puniti nel massimo con una pena ben al di sotto dei quattro anni normalmente richiesti dall'art. 280.2 c.p.p.

Tuttavia, a prescindere da questa deroga, restano in vigore gli specifici limiti stabiliti dall'art. 274.1 lett. b-c, allorché statuisce che un'ordinanza cautelare fondata sul pericolo di fuga possa essere emessa solo se è prevedibile che possa essere in concreto irrogata una pena superiore ai due anni; e che una misura basata sul presupposto della pericolosità del soggetto richieda che si stia procedendo per un reato punito, nel massimo, con una pena superiore ai quattro anni di reclusione (46).

Aldilà dei limiti di pena, comunque, è richiesta la sussistenza, da un lato dei cosiddetti “gravi indizi di reità” e dall'altro delle cosiddette “esigenze cautelari”, che costituiscono il “merito” del giudizio cautelare e dunque, senza ombra di dubbio, le questioni più importanti da valutare in vista di un simile provvedimento.

Sotto il primo profilo gli intervistati ribadiscono più volte la perfetta coincidenza dei gravi indizi con i presupposti stessi della convalida dell'arresto. Quale giudice, infatti, ritenendo corretta la valutazione circa la flagranza del reato operata dagli agenti di polizia giudiziaria, potrebbe negare, successivamente, la sussistenza dei gravi indizi?

Tuttavia c'è anche chi delinea, con una sofisticata interpretazione del disposto codicistico, dei parametri in base ai quali poter distinguere i presupposti oggettivi delle due misure, pre-cautelare e cautelare

La convalida è comunque un giudizio sulla bontà dell'operato della P.G. al momento in cui è intervenuta, perché la P.G. può essere intervenuta in una situazione ambigua...mettiamo che trova cinque persone, nel caso di una rissa, che hanno tutte dei segni sul volto ed hanno avuto una segnalazione al 113 che c'è una rissa in piazza, per fare un'ipotesi, loro intervengono trovano queste persone che hanno dei segni palesi di lesioni sul volto, in quel momento sono legittimati a pensare, perché la situazione offre questa lettura, che si sia verificata una rissa con lesioni, che è un reato che consente l'arresto; dopodiché se all'esito della convalida i cinque arrestati...per es.vengono portati al pronto soccorso e risulta che le lesioni...voglio dire, è una cosa diversa...la convalida c'è ma poi forse non c'è la misura.

Quindi è una valutazione diversa quella che fa la P.G. rispetto a quella che fa il giudice, secondo me, nel momento in cui applica la misura, per cui io posso dire che tu P.G. eri legittimamente portata a credere che ci fossero i gravi indizi di un reato, quindi te lo convalido il tuo operato, dopodiché io che ho sentito tutte le cose ho fatto una valutazione di tipo diverso...la P.G. opera in un'ottica diversa: di repressione e prevenzione dei reati; io devo applicare la legge quindi devo verificare se ci sono poi i presupposti della norma.

(...)

Il provvedimento di convalida che è una valutazione ex post dell'operato a suo tempo fatto è una valutazione che dice: all'epoca...in quel momento quando tu hai operato hai operato legittimamente, quindi ti convalido l'operato, dopodiché, a questo punto, io dico che non ci sono né i gravi indizi né la flagranza...e quindi non ti do la misura, tant'è che la convalida non può essere impugnata di fronte al tribunale del riesame, si potrebbe andare per Cassazione contro il provvedimento di convalida, però non è un provvedimento per cui tu puoi chiedere un riesame della situazione di fatto, perché è una situazione che è già chiusa, il codice non consente di ritornarci sopra (G - V).

Questo brillante tentativo di distinguere le due valutazioni, tuttavia, resta isolato e tutto sommato dalla scarsa rilevanza pratica: nella realtà la convalida di un arresto equivale ad un sindacato sulla sussistenza degli indizi di reità e quindi sposta immediatamente il fuoco dell'analisi sulle cosiddette “esigenze cautelari”.

Tracciate come sappiamo dall'art. 274.1 c.p.p., le esigenze cautelari costituiscono il principale presupposto da valutare in questi casi. Privare o limitare la libertà personale di un soggetto prima di una sentenza definitiva è un atto grave ed in stridente contrasto con il fondamentale principio della presunzione d'innocenza e, dunque, il legislatore prevede che siano solo delle esigenze ben precise a poter giustificare un simile provvedimento.

L'evoluzione e la storia delle misure cautelari hanno evidenziato chiaramente come simili istituti abbiano, anche con la nuova formulazione adottata nel 1988, abbondantemente tradito la loro autentica funzione. Lungi dal rappresentare gli strumenti di “cautela endoprocessuale” posti a tutela della prova o dell'effettività della sanzione, si sono definitivamente trasformate in strumenti polizieschi di difesa sociale e, all'occasione, in arnesi inquisitori.

Interessante adesso sarebbe capire quale funzione effettiva assumano nei procedimenti in questione ed a riguardo certamente illuminanti sono le parole che gli intervistati spendono a proposito delle esigenze (fra quelle delineate dalle lettere a - b - c dell'art. 274.1 c.p.p.) che più spesso fondano un'ordinanza cautelare

sicuramente la lett. C ...

(...)

Perché sussista il pericolo di fuga dovresti prognosticamente preventivare una pena superiore ai due anni, non è così frequente vedere in direttissima fatti che meritino pene superiori ai due anni, poi considera...torna al tipo di autore di reati da processo per direttissima, l'arabo clandestino sul territorio nazionale pervicacemente attaccato, pur nella sua clandestinità, che pericoli di fuga potrà mai suscitare...

(...)

Il suo obbiettivo è non muoversi dall'Italia, quello che ti dà cinquanta nomi falsi per non essere espulso...(A - V)

Indubbiamente in relazione al procedimento per direttissima, che esclude particolari esigenze probatorie, necessariamente non si fa riferimento al 274 lett. A, le esigenze probatorie non esistono! Il processo nasce e finisce li, non c'è pericolo d'inquinamento...questo è un primo dato.

L'esigenza che viene sempre evidenziata è quella del 274 lett. C, il pericolo di reiterazione, questo proprio per le caratteristiche di tipo d'autore con cui ci troviamo ad operare, ripeto nella maggior parte dei casi sono: o soggetti che per la loro irregolare presenza nello stato, mancanza di lecite fonti di reddito, mancanza di qualsiasi dato indicativo di una attività lecita, modalità operative, piccolo spaccio...eccetera, fa ritenere che questo tipo di attività illecita sia l'unica o preponderante fonte di reddito e quindi che vi sia in concreto il pericolo di reiterazione.

Analogamente per quanto dicevo prima invece, per i rati contro il patrimonio, nella maggior parte dei casi: o siamo di fronte ad un soggetto sempre extracomunitario senza fissa dimora eccetera e anche qui le stesse valutazioni di cui sopra; oppure quando si tratta di un cittadino italiano, quindi naturalmente perfettamente identificato, o anche questo ha problemi di domicilio; ma soprattutto siamo di fronte ad un pluri-pregiudicato, ed è la maggior parte dei casi perché altrimenti un cittadino noto, con domicilio, incensurato, non arriva al direttissimo viene denunciato a piede libero, a parte poche eccezioni (PM - III).

Normalmente, proprio per le cose che le dicevo prima: cioè per il fatto che gli arresti in flagranza vengono eseguiti, ripeto, dopo aver passato questo duplice filtro prima della P.G. e poi del P.M., nei confronti di soggetti che in qualche modo sono già entrati nel circuito criminale e giudiziario, la cautela, l'esigenza che si sottolinea nel novanta per cento dei casi è quella della lett. C ex ART. 274.1 C.P.P., cioè il pericolo di reiterazione, perché sono soggetti che in qualche modo...per il modo di vivere, per il tipo di reati che hanno commesso, le modalità di commissione che possono indicare una professionalità ecc...sono soggetti che è probabile commetteranno delitti analoghi (G - V).

In sostanza le caratteristiche stesse dei soggetti con cui si ha a che fare impongono di considerare quale esigenza cautelare il “pericolo di reiterazione della condotta criminosa”, cioè la pericolosità sociale dell'arrestato.

Ma c'è di più: traspare nuovamente dalle parole degli intervistati quella che è la funzione effettiva di tutta la “macchina delle direttissime”: selezionare in strada i soggetti più pericolosi, gli emarginati o la gente ormai totalmente “incanaglita”, che si ritiene tragga il suo sostentamento dalla commissione di piccoli reati (meglio se già passata al vaglio delle agenzie di controllo sociale) e sottoporli entro tempi brevissimi al giudizio, con contestuale applicazione di una misura cautelare. Per gli altri, per le persone “normali”, il “cittadino noto, con domicilio, incensurato”, percorsi processuali completamente diversi: denuncia a piede libero e, con tutta probabilità, pronta prescrizione della notitia criminis.

Come è evidente, dunque, in queste procedure la misura cautelare assume la funzione di un provvedimento di polizia diretto contro quelli che un tempo si chiamavano “oziosi e vagabondi”, gente che a causa delle sue condizioni di vita non lascia presumere nulla di buono circa il suo futuro comportamento. La custodia cautelare riassume in sé le funzioni che nel XIX secolo ebbero i testi di Pubblica Sicurezza e che, negli Stati Uniti degli ultimi decenni, ha assunto la Jail, non tanto sanzionare un'infrazione, quanto gestire e neutralizzare la problematicità di tutta una variegata tipologia di persone: l'hustler, cioè il ragazzo disoccupato (o sottoccupato) che passa molto tempo in strada “in cerca di occasioni” e perciò anche molto visibile e fatalmente esposto all'azione della polizia, il vagabondo derelitto, la persona che non ha più un tetto e vive dove capita, il “tossico”, l'immigrato non in regola con le norme sul soggiorno, senza una fissa dimora o uno stabile lavoro (47). Quest'insieme d'individui costituisce quella sottoclasse che, come sappiamo, ha preso ad attirare gli odi e la paura dei cittadini inclusi che in essa vedono una nuova classe pericolosa, spingendo al contempo le forze dell'ordine all'esercizio di un severo controllo poliziesco su tale “plebaglia”.

È così che nelle aule del Tribunale Monocratico, al pari di quanto non avvenga in un sentire comune ormai radicato, si parte dall'insuperabile presunzione che ogni soggetto marginale sia un potenziale criminale e, soprattutto, quando si tratta delle nuove classi pericolose, la nostrana sottoclasse: gli immigrati irregolari

Qui è il pericolo di reiterazione della condotta criminosa perché loro campano di questo, fanno questo!

(PM - II).

se uno vive di quella attività, continuerà a vivere di quella attività se lasciato libero, indipendentemente dall'arresto, quindi l'assenza di fonti di reddito lecite comporta una presunzione pressoché assoluta che costui si procacci da vivere attraverso l'attività di spaccio (PM - V).

Ma direi che l'esigenza che si guarda di più e la recidiva, se sono arrestati altre volte, se hanno precedenti di polizia oppure precedenti penali...togliere un po' dalla circolazione persone che delinquono abitualmente, questa è l'esigenza (PM - I).

Ciò che si prende in carico per mezzo di simili procedure è una “classe pericolosa”, più che dei semplici “individui pericolosi”. Ad un primo sguardo infatti pare che, più delle specifiche condizioni individuali, siano generiche considerazioni idonee a qualificare un'intera categoria sociale - qual'è il segmento dell'immigrazione irregolare - a fondare una prognosi sfavorevole. È uno stigma socialmente costruito che riguarda un intero universo sociale ad entrare in gioco in questi casi, bollando come classe pericolosa l'intero ambito dell'immigrazione irregolare

valgono certo le condizioni personali, valgono...non dovrebbero valere perché se tu dici che una persona deve stare in carcere perché è straniero, senza documenti, è privo di una documentabile attività lavorativa...Si certo, però queste caratteristiche non individuano...non sono dati della personalità, non individuano una persona e non la qualificano come potenzialmente pericolosa, individuano una categoria di persone, individuano un autore potenziale di reati, ma non affermano che quella persona processata per queste condizioni abbia una maggior propensione a commettere reati rispetto a persone in condizioni diverse (A - V).

c'è uno stretto convincimento basato anche sulla logica: non ha casa, non ha un lavoro, inevitabilmente se lavora fa un lavoro in nero, comunque non dimostrabile in un aula di tribunale, rimesso in libertà delinque di nuovo, ritorna nel suo ambiente... non è che ci sia molto da ragionare, non è che partano da chi sa quale preconcetto o da quale forma di razzismo latente, è un'inevitabile analisi anche spicciola di una situazione di fatto che è a monte che si dovrebbe differenziare, giunti a quel punto non è che ci siano molte strade percorribili (A - I).

Presunzioni simili agiscono anche nel caso del “tipico” ladruncolo tossicodipendente, le cui ordinanze cautelari sono forse uno degli atti più facili da motivare per un giudice. Rispetto a tale categoria sociale si assiste, analogamente a quanto non accada per i cittadini extracomunitari, ad una sorta di invincibile presunzione di pericolosità fondata su uno stereotipo altrettanto radicato nel sentire comune

I tossicodipendenti che commettono reati contro il patrimonio normalmente si tratta di soggetti che non hanno un'attività lavorativa e che la loro condizione di tossicodipendenza porta necessariamente a commettere reati contro il patrimonio, perché devono trovare i soldi per comprarsi la roba, questo è facile da motivare (G - V).

La pericolosità del soggetto, in sostanza, vale a fondare la stragrande maggioranza, se non la totalità, delle richieste cautelari effettuate dai pubblici ministeri, anche perché le ulteriori esigenze che la legge prevede sono, come risulta dai seguenti brani, sostanzialmente inutilizzabili

Allora lei deve considerare che normalmente gli arresti in flagranza riguardano pochi indagati ed un fatto semplice, altrimenti non passano in direttissima, vanno di fronte al G.I.P. per chiedere la misura; è evidente che questo porta già ad escludere che la misura possa essere applicata per esigenze probatorie, queste non ci sono mai, il reato è li, è concluso, il soggetto è solo quello, non si deve individuare nessun altro, quindi normalmente non viene mai richiesta, tanto meno data, per esigenze probatorie.

(...)

Qualche volta ci può essere il pericolo di fuga, allora se fossimo molto rigorosi il pericolo di fuga lo dovremmo applicare in tutti casi in cui il soggetto è extracomunitario, sedicente, senza fissa dimora, senza lavoro ecc.

In realtà rischia di diventare poi una formula di stile, perché allora il pericolo di fuga c'è sempre per questi soggetti, se deve essere concreto bisognerà che qualcuno mi dimostri chiaramente che questo, per es., ha dei collegamenti particolari con certi ambienti o ha disponibilità economiche tali per cui, è in possesso di documenti, se lo lasci libero domani scappa dall'Italia, siccome nessuno me lo dimostra mai...non c'è questa concretezza secondo la mia interpretazione, allora normalmente per il pericolo di fuga la misura non viene applicata.

Quindi di fatto è sempre la lett. C. (G - V).

Il pericolo di fuga non è mai facile ravvisarlo, anche se queste persone non hanno nessun legame col territorio, quindi in astratto potrebbero avere il pericolo di fuga, perché non hanno un lavoro, non hanno stabile...dormono ovunque; però la legge vuole che sia concreto il pericolo di fuga...

(...)

In concreto significa che non dev'essere astratto, in relazione alle condizioni personali, ma dev'essere provato, che ne so: ha un biglietto di un aereo in tasca; questo ha voluto il legislatore!

Allora, messa in questi termini, il pericolo di fuga diventa molto difficile da provare (PM - II).

Quanto mai opportunamente si ritiene che il pericolo di fuga, il quale si sarebbe risolto in una sorta assoluta presunzione di sussistenza per gli immigrati extracomunitari non in regola con le normativa per il soggiorno, debba essere concretamente dimostrato e, dunque, difficilmente il pubblico ministero può, in astratto senza indicare specifici elementi, fondare la sua richiesta sulla base lettera b dell'art. 274.1 c.p.p.

Analogamente nessuna rilevanza riescono ad avere le cosiddette “esigenze probatorie” in simili procedimenti dove, come vedremo, è quasi impossibile andare aldilà delle audizioni effettuate in occasione della convalida dell'arresto e dei verbali di polizia presenti all'interno del fascicolo d'accusa.

In breve, la misura cautelare applicata all'esito di una convalida dell'arresto funge da misura poliziesca cui è assegnato il semplice scopo di controllare più strettamente un individuo ritenuto comunque pericoloso per la società. Come suggeriva prima un pubblico ministero: si tratta di “togliere dalla circolazione persone che delinquono abitualmente”.

È dunque fondamentale comprendere quali siano più specificamente i parametri utilizzati per operare una simile prognosi, aldilà del, pur fondamentale, generico riferimento all'appartenenza del soggetto ad una vera e propria “classe pericolosa”.

6.6.2: Prognosi di pericolosità: i precedenti

Scendiamo su di un terreno spinoso nel momento in cui cerchiamo di capire con più precisione in base a quali criteri si effettuano le cosiddette “prognosi di pericolosità”, un terreno sul quale si assiste anche a profonde divergenze di vedute fra avvocati e magistratura (intesa complessivamente, comprendendo insieme sia gli uffici giudicanti che requirenti).

Inoltre, sul punto, si chiamano in causa quei saperi pratici sulla cui base abbiamo visto costruire, da parte degli attori processuali, la visione dell'universo delinquenziale trattato in direttissima.

È ovvio infatti, è lo abbiamo già sottolineato, che quando all'interno del processo si debbono effettuare delle valutazioni personologiche necessariamente gli attori processuali debbano riferirsi ad un sapere altro rispetto alla mera scienza giuridica. Si entra in questi casi nel campo delle scienze umane e, segnatamente, delle scienze criminologiche cui, come sappiamo, è preclusa ogni possibilità d'ingresso all'interno del processo penale.

I protagonisti delle nostre interviste, dunque, si trovano spessissimo a dover effettuare delle valutazioni sul futuro comportamento di un soggetto privi di una qualsiasi nozione specifica a riguardo e, sovente, senza gli idonei strumenti d'indagine sulla vita del soggetto che pure sono chiamati a valutare

a noi non pervengono notizie individuali di questo tipo, non sappiamo se questo vive in albergo oppure ci va episodicamente o vive in un capannone abbandonato o fa parte di un certo gruppo di criminalità che spazia e si sposta sul territorio, direi che quello che noi valutiamo è l'episodio...poi da una serie di episodi possiamo renderci conto di un fenomeno, però non abbiamo né la possibilità né l'occasione di indagare sulle modalità di vita di queste persone (G - IV).

Come ammette candidamente il nostro giudice, dunque, simili valutazioni sono effettuate sostanzialmente al buio o, comunque, con notevoli margini d'incertezza, a causa dell'assenza di strumenti d'indagine idonei a vagliare le circostanze che potrebbero fondare un giudizio di pericolosità come quello richiesto per l'applicazione di una misura cautelare

ah certo si va di necessità in via molto approssimativa quando si fanno le valutazioni richieste per le misure cautelari, si cerca di fare riferimento all'ufficialità: cioè ai precedenti penali, alle denuncie o anche al fatto se abbiano o meno dato generalità false in altre occasioni, gli alias indicano la necessità di tenere coperti in qualche modo atteggiamenti passati o prospettive future.

Diciamo che si fa una prognosi di futura incensuratezza o meno, che purtroppo è legata ad una potenzialità che normalmente non viene considerata criminogena: perché uno che è senza lavoro o senza una fissa dimora non necessariamente deve essere una persona propensa a delinquere.

Purtroppo per il numero e per l'esperienza, per l'id quod plerumque accidit, sappiamo che è così.

In alcuni casi si tende un po' a fare i sociologi anziché i giudici e quindi all'incensurato, che però si trova in certe condizioni, a volte si nega la pena sospesa perché...si sa per esperienza che appena liberato quello è nelle condizioni di non potere fare altro che delinquere (G - IV).

In questi casi dunque, pur non essendo padroni del sapere che sono chiamati ad utilizzare, i giudici e gli attori del processo in generale, tendono a fare i sociologi.

Ovviamente, alla lunga, con l'esperienza pratica, si formeranno un bagaglio di conoscenza su cui fondare le presunzioni che la legge impone loro di effettuare, l'id quod plerunque accidit è appunto questo: un insieme di “saperi pratici” in base ai quali poter prendere certe decisioni in una maniera tutto sommato giustificabile agli occhi degli altri attori processuali, di chi prenderà in considerazione la vicenda magari a seguito della richiesta di riesame o di appello della misura, o, al limite, della stessa opinione pubblica nei casi particolarmente eclatanti.

Tale bagaglio di saperi pratici tende, come abbiamo visto, a coincidere con l'insieme di stereotipi criminali circolanti, di saperi diffusi sul crimine, tende a riprodurre l'immagine sociale delle “nuove classi pericolose” e difficilmente gli attori processuali possono approfondire ulteriormente i caratteri di un individuo, andando aldilà del quadro simbolico che lo stereotipo offre loro. Lo stesso giudice ci offre un ulteriore conferma in proposito allorché tenta di spiegarci come mai l'immigrato extracomunitario è, a suo modo di vedere, inevitabilmente portato al delitto

Abbiamo un contesto sociale d'immigrazione che è criminogeno di per sé, perché non hai altri mezzi di sussistenza e te li devi procurare in altro modo (...) La situazione soggettiva generale...arrivi su un barcone, hai speso tutto per darlo agli scafisti, sbarchi lì, ti promettono di farti fare alcune cose, per alcuni è vero, altri vengono arruolati dalla criminalità, altri gettati nei campi a raccogliere pomodori, per chi non c'è posto questi si trovano su di un territorio sconosciuto, senza un reddito, senza un documento, senza niente!

(G - IV)

Il quadro che il nostro giudice ci dipinge corrisponde perfettamente a quel tipo di visione dell'immigrazione che definimmo “miserabilista”, una visione che, completamente dimentica della quotidiana realtà d'inserimento lavorativo degli immigrati - anche non in regola con le norme sul soggiorno, fomenta ansie ed inquietudini agitando l'immagine di un'invasione di miserabili pronti a tutto per sopravvivere.

Tuttavia, il quadro simbolico offerto dagli stereotipi circolanti dovrebbe, al limite, servire da sfondo in cui inserire e valutare tutta una serie di circostanze ulteriori che vanno, come già suggeriva il nostro giudice, dai precedenti allo staus giuridico del soggetto, per finire con le sue condizioni lavorative ed abitative. Una specie di radiografia sullo stile di vita dell'individuo: dove vive, lavora, ha precedenti, ecc.? Tutti elementi che, se dovutamente approfonditi, potrebbero arrivare a smentire anche il più radicato degli stereotipi. Ma è qui che iniziano i contrasti. Cominciamo con i cosiddetti precedenti penali.

Comunemente si ritiene che un soggetto che presenti precedenti condanne passate in giudicato non debba godere di grosso credito. Considerata da alcuni un marchio infamante, la recidiva come sappiamo è ormai un istituto tipico dei sistemi penali moderni.

Secondo il nostro codice penale essa comporta degli aggravi di pena e può portare sino alla dichiarazione di abitualità, tendenza o professionalità nel delitto che, come visto, oltre ad essere un indelebile etichettamento, sono uno dei presupposti delle cosiddette misure di sicurezza.

Nel caso in specie, invece, si tratta di utilizzare ad altri fini i dati provenienti dal casellario penale: essi servono per valutare il futuro comportamento del soggetto, per stabilire se, nelle more del procedimento in corso, ci si possa fidare di lui, lasciandolo a piede libero, o meno.

Tuttavia, nei processi a carico di immigrati extracomunitari privi di regolare permesso di soggiorno e sovente di una identità certa, si è stati a lungo nella concreta impossibilità di stabilire se tizio fosse o meno un pregiudicato. A riguardo si parlava correttamente di “incensuratezza formale”. Il problema, però, è stato nel tempo superato adottando la prassi del sistematico “fotosegnalamento” di chiunque fosse di incerta identificazione, cosicché, dal momento della rilevazione delle impronte digitali del soggetto, seppure ancora sostanzialmente sconosciuto e quindi non espellibile, si sarebbe stati in grado di stabilire con precisione la sua successiva “carriera criminale”. Al deficit di controllo disciplinare che il nostro sistema scontava nei confronti di tali individui si è nel tempo sopperito con l'utilizzo d'idonee tecnologie d'identificazione e con l'esponenziale incremento del controllo poliziesco sull'immigrazione, tant'è che a carico di molti degli imputati nei procedimenti osservati risultavano una serie infinita di “fermi per identificazione”, che evidenziano la continua pressione disciplinare cui sono esposti tali soggetti nelle nostre metropoli. In tutti i procedimenti a carico di extracomunitari da noi osservati, infatti, l'arrestato giungeva innanzi al giudice seguito da una scheda in cui erano precisamente indicati tutti i suoi contatti con le agenzie di controllo sociale italiane ed, eventualmente, gli alias forniti nelle varie occasioni.

La circostanza è di una certa rilevanza poiché, come si evince dai brani di seguito riportati (48), nel foro di (...) si è radicata la prassi di tenere in considerazione non solo i dati relativi al Casellario, cioè le sentenze passate in giudicato, bensì anche tutti i precedenti relativi a processi pendenti o a semplici provvedimenti di polizia, fino ad arrivare ai semplici fermi per identificazione. Sul punto gli avvocati non lesinano critiche

quello è un discorso delicatissimo e gravissimo, nel senso che la scelta politica attuale della procura ed anche degli organi giudicanti è vergognosa!

Lo dico senza timore, perché li si toccano e si violano principi costituzionalmente garantiti, la presunzione di non colpevolezza dovrebbe valere a qualsiasi livello, il 274 richiama i precedenti penali così come devono essere tecnicamente intesi e cioè: precedenti condanne passate in giudicato; il richiamo al 133 ti apre strade anche, se pur indirettamente, sui precedenti giudiziari, anche forse su quelli dattiloscopici, però si esagera su questo perché dovrebbe essere valutato ciò che si sa, non ciò che potrebbe essere, per cui l'esito di un riferimento ad una banca dati delle forze di polizia vale tanto quanto un pezzo di carta igienica, nella mia testa!

Stavo scrivendo prima due richieste all'ufficio stranieri per due persone che avevano tentato di far entrare dei parenti, uno il fratello, con i nuovi decreti che fissano le quote per l'immigrazione, in entrambi i casi l'ufficio stranieri ha negato l'autorizzazione sul presupposto che queste persone - per entrambi era lo stesso reato - fossero state in passato denunciate per ricettazione, questo era quello che si leggeva su quei provvedimenti.

Allora, sempre perché vale più la pena badare al pratico piuttosto che ai principi, invece di scrivergli: una persona denunciata non è una persona condannata, sono andato a controllare gli esiti di questi procedimenti ed in entrambi i casi si trattava di notizie di reato archiviate, per uno c'era stata addirittura un'assoluzione, per l'altro un'archiviazione.

Ecco, questo è il valore dei precedenti dattiloscopici...! (A - V).

Abbiamo provato, ma ormai è qualche anno, abbiamo provato in ogni modo, però purtroppo prevale il dato che...voglio dire...secondo me la regola dovrebbe essere che bisognerebbe chiedere, ultimamente vedo che alcuni lo fanno, quando si tratta di carichi pendenti, cioè non mi posso fidare del CED che esce dal ministero, con le impronte digitali, non mi posso fidare di quello, anche perché i procedimenti molte volte poi vengono archiviati...non è che...cioè, la denuncia in sé non mi dice niente, invece il certificato di carichi pendenti, mi dice che effettivamente quel procedimento esiste, qual è l'esito del procedimento, se vi è stata una richiesta di rinvio a giudizio, una sentenza di condanna...sono dati comunque più importanti.

(...)

Anche perché purtroppo nei terminali rimane tutto dentro, non è che vengono cancellati i procedimenti finiti...infatti molte persone che hanno avuto problemi con la giustizia, poi nel corso del tempo li ferma la polizia: procedimenti ancora in corso, no, come no, lei risulta denunciato per furto ed in realtà quel procedimento è bello che finito, il soggetto magari è gia stato assolto e invece nel terminale risulta ancora denunciato per furto.

Non viene mai fatta una scrematura e cancellato quello...(A - IV)

Una prassi nata per sopperire alla cosiddetta “incensuratezza formale” degli extracomunitari richiedendo le informazioni presenti sulla banca dati di polizia, si è radicata sino al punto di stravolgere lo stesso principio della presunzione d'innocenza sino a sentenza definitiva (49) e, sul punto, le considerazioni svolte da Marzio Barbagli circa i vantaggi che gli immigrati trarrebbero all'interno del processo penale dal loro status d'incensuratezza formale appaiono assolutamente insostenibili e prive di alcun fondamento empirico (50).

L'utilizzazione dei precedenti “giudiziari” (i carichi pendenti) o “di polizia”, in ogni caso, è solitamente accompagnata da tutta una serie di valutazioni ulteriori che vengono a costruire lo sfondo simbolico in cui collocare le informazioni ricavate dalle banche dati. Simili precedenti in senso “a-tecnico” valgono, nel giudizio di alcuni intervistati, solo se corroborati da dati ulteriori sulle condizioni sociali e di vita del soggetto

Noi purtroppo abbiamo un sistema giudiziario che è di una lentezza incredibile, per varie ragioni che adesso non diciamo, fra l'altro dall'irrevocabilità di una sentenza, alla trascrizione sul casellario ci sono anche dei tempi tecnici, talora elevati, per cui il casellario giudiziale è fondamentale, non c'è dubbio il precedente è quello, però non possiamo non tener conto di altri fattori, altrimenti saremmo veramente nell'impossibilità di andare avanti. Questi fattori di cui almeno io tengo conto sono i precedenti giudiziari, cioè condanne in primo grado che una persona ha subito, ancorché non definitive, è chiaro che non è un precedente in senso tecnico, ma è un elemento di valutazione che da solo non sarebbe sufficiente, ma se a questo uniamo una situazione particolare del soggetto... Tipo...il soggetto sedicente, senza un'abitazione, senza una fissa dimora, senza mezzi apparenti di sostentamento e che per di più risulta avere subito alcune condanne in primo grado ancorché non irrevocabili, sono tutti elementi che, valutati nel loro complesso, evidenziano come la persona viva del provento di attività illecite, quindi il giudizio di pericolosità in concreto sussiste anche se incensurato, nel caso del furto per esempio (G - III).

Sostanzialmente precedenti in senso stretto, cioè se un soggetto viene arrestato per detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti e dal casellario giudiziale si verifica che ha più sentenze passate in giudicato che lo condannano per lo stesso tipo di reato, allora già la prognosi è una prognosi di probabilità di commissione di fattispecie analoghe.

Però queste, almeno secondo la giurisprudenza di alcuni giudici, non sono necessarie, credo che laCassazione sia più rigorosa, la Cassazione le ritiene necessarie, però è anche vero che vi sono delle situazioni in cui il pericolo di reiterazione del fatto si evince da altri parametri, cioè anche se non ci sono delle sentenze passate in giudicato, anche se non ci sono dei carichi pendenti, cioè dei processi che pendono sul capo dell'arrestato in relazione a fattispecie analoghe e anche se non ci sono denunce, dalle quali possono essere scaturiti anche arresti, bisogna considerare il modo di vita dell'imputato stesso, cioè se io ho di fronte un soggetto clandestino che è stato sorpreso a spacciare eroina in via (...), allora io valuto che non ha possibilità di lavorare nel nostro paese non essendo in regola con le norme sul permesso di soggiorno, valuto anche che, in via (...), per poter spacciare occorre avere il consenso degli altri spacciatori, allora queste due cose mi fanno pensare: uno, che abbia contatti con la malavita locale; due, che dovendo come tutti mangiare un paio di volte al giorno, non avendo un lavoro ed essendo stato sorpreso a spacciare droga, presumibilmente se rimane libero lo troveremo il giorno dopo, se non in via (...), in via (....) a spacciare sostanze stupefacenti, quello sa fare!

Ecco, per quanto riguarda questi criteri vi sono alcuni giudici, forse formalmente rigorosi, giustamente rigorosi, che dicono: no non c'è esigenza cautelare nella misura in cui non ci sono dei precedenti passati in giudicato, né precedenti di altro genere...

(...)

I precedenti di polizia o i carichi pendenti possono costituire anche questi dei criteri, dei parametri di valutazione che da soli non sono sufficienti per fondare una prognosi di pericolosità, però uniti alle condizioni soggettive...che so...comunitari, extracomunitari, clandestino che non lavora e alle condizioni oggettive, cioè che questo è stato sorpreso a spacciare sostanze stupefacenti, possono far indurre che vi sia una pericolosità sociale del soggetto e ritenere che possa nuovamente realizzare, nelle more del processo, nuove fattispecie dello stesso tipo.

La giurisprudenza di questo tribunale è un po' varia, si va dai giudici più rigorosi che non concedono mai la misura cautelare in mancanza di precedenti passati in giudicato, a giudici che invece ritengono possa essere sufficiente una condizione soggettiva come quella di cui si è parlato prima, unita magari ad un carico pendente, a un precedente di polizia, però sufficientemente vicino nel tempo...che so...due settimane prima la medesima persona è stato fermato dalla polizia giudiziaria, è stato identificato ed è stato anche arrestato sempre per una stessa fattispecie.

C'è anche un altro fatto che secondo me è molto indicativo e vi sono certi giudici che lo prendono proprio in considerazione, cioè: qualora, sempre nel caso di soggetto non bene identificato, questo soggetto dia degli alias...nel senso che dare alias è già un reato secondo la legge italiana, questo ci indica la volontà che ha l'arrestato di sfuggire a quello che è il controllo sociale, questo è un indice che alcuni giudici ritengono molto importante, addirittura fondante...(PM - IV)

Tornano insistentemente i giudizi basati su una considerazione stereotipa dell'universo sociale da cui proviene l'individuo: un contesto di immigrazione clandestina, che di per sé può denotare, nell'ottica di alcuni attori processuali, la volontà di sottrarsi al controllo sociale e dunque una scelta di vita criminale; ma che, più in generale, lascia al soggetto poche possibilità di sopravvivere se non attraverso la commissione di reati.

In questi casi le remore di tipo garantistico nel fondare il provvedimento cautelare sulla base di un semplice precedente di polizia, fino al punto di utilizzare i semplici fermi per identificazione in cui il soggetto ha fornito diverse generalità, sono totalmente sopite da una valutazione circa lo status sociale.

Delle volte però, nelle opinioni degli intervistati, affiorano considerazioni specifiche circa l'intrinseca pericolosità di chi è accusato di reati in materia di stupefacenti, fondate generalmente sull'idea che tali soggetti non possano che agire nell'ambito di una ben precisa organizzazione radicata sul territorio e che, dunque, lo spaccio di stupefacenti non possa non costituire una way of life, anche aldilà dai dati che è possibile ricavare dai precedenti penali del soggetto

Nel caso degli stupefacenti il discorso è ancora diverso, perché qui un elemento importante, che viene tenuto presente, è il fatto che una persona che spacci una quantità...che sia in possesso di una rilevante quantità di stupefacente - per rilevante non intendo una quantità enorme, ma intendo più di quello che è la dose che può avere una persona...insomma più dosi, che per di più spaccia in zona dedita allo spaccio, significa due cose: che questa persona è in grado di procurarsi della droga da vendere guadagnandoci e quindi è in grado di procurarsi della droga all'ingrosso; inoltre è ammesso a vendere droga in zona di traffico di stupefacenti, questo vuol dire necessariamente che è una persona accettata dagli altri criminali che praticano quell'attività in quella zona, che ha quindi dei contatti criminosi, pur non essendo magari inserito in una associazione criminosa, però ha dei contatti tali da rilevarne la pericolosità sociale ed il pericolo di reiterazione, già solo questo potrebbe essere sufficiente per l'applicazione di una misura cautelare...per la droga eh! (G - III)

In presenza di precedenti sicuramente, in assenza di precedenti di fronte ad un reato particolarmente grave, quale io ritengo sia lo spaccio di stupefacenti, anche quello che mi appare un personaggio incensurato che tuttavia mi risulta con degli alias già in altre occasioni, ecco questi sono i famosi precedenti di polizia ...

(...)

ripeto per me in materia di spaccio di sostanze stupefacenti anche al minuto anche la singola dose è comunque un reato grave, lo ritengo nelle mie richieste un reato che non può essere mai considerato, come dire, espressione isolata di una iniziativa criminale autonoma del singolo, ma sempre espressione di un gruppo o comunque dell'appartenenza ad una se pur minima organizzazione e quindi pericolo di reiterazione quanto mai concreto ed invincibile se non con la misura cautelare in carcere (PM - III).

Se si tratta di reati in materia di stupefacenti anche qui generalmente il soggetto, normalmente extracomunitario, che non ha un lavoro, non ha fonti di reddito, ha dimostrato...adesso non sto parlando di quello che semplicemente dà la bustina o la stecchetta di fumo sotto i portici di via (...), magari al poliziotto in borghese, qui c'è una scarsa professionalità...ma quello che per es. tiene l'ovulo in bocca, si nasconde ecc., un minimo di capacità pratica nella commissione del reato la dimostra e allora, in questo caso, le condizioni sue personali ed il fatto che ha dimostrato di essere un minimo professionale nello svolgere questo tipo di attività criminale ci consente di dire che, molto probabilmente se lo rimettiamo fuori, non avendo egli altre possibilità di sostentamento, chiamiamolo così, ritornerà a spacciare, perché ha dimostrato di essere capace di farlo, di conoscere qualcuno... perché poi questi sono soggetti che sono l'ultimo anello della catena, non sono loro quelli che hanno il grosso, loro hanno collegamenti con altri soggetti intermedi o quello un po' più alto...insomma sono collegati ad una catena di spaccio di stupefacenti; quindi, adesso è un discorso molto banale, però io non saprei dove andare a prendere l'eroina per spacciare, se un soggetto è invece in grado di avere un piccolo fornitore, che gli garantisce quelle tre quatto bustine da spacciare ogni giorno, vuol dire che è in collegamento con degli ambienti criminali e quindi la valutazione che fa il giudice è: se lo metto fuori, non ha nessun'altra possibilità di lavoro perché non mi documenta non mi dice che cosa fa, come si mantiene, dove vive, se ha qualcuno che l'aiuta ecc., io posso pensare che molto probabilmente lui tornando fuori tornerà dai suoi amici fornitori e dirà: datemi delle altre bustine che vado a spacciare, anziché magari in via (...) da qualche altra parte, la valutazione è questa (G - V).

Ben aldilà dei semplici precedenti - sia pure di polizia che rispetto agli extracomunitari hanno un peso decisivo, dato lo stretto controllo poliziesco cui sono sottoposti e la precarietà di status giuridico che li espone a continui fermi per identificazione ed a reiterati provvedimenti di espulsione - sembrano assumere un peso decisivo ai fini dell'ordinanza cautelare le condizioni sociali complessive dell'arrestato.

Tutta quella serie di circostanze che, come sottolineava uno dei giudici intervistati, ben difficilmente possono essere conosciute con precisione dall'organo giudicante, ma che, nonostante tutto, assumono una rilevanza fondamentale poiché è a partire da esse che si tracciano nella visione degli attori del processo i connotati delle “nuove classi pericolose”. Così come avviene a proposito della visione che gli attori processuali hanno del mercato della droga, che evidenzia quanto il loro sapere, piuttosto che formarsi autonomamente per mezzo del contatto quotidiano con la realtà umana e sociale che passa in tribunale ogni giorno, sia appiattito sulle immagini che la stampa sensazionalistica rimanda quotidianamente all'opinione pubblica.

6.6.3: Prognosi di pericolosita': documentabilità di certe situazioni

Il problema, quando si tratta di dover accertare le complessive condizioni di vita di un soggetto extracomunitario, è quello di riuscire a documentare circostanze fondamentali come l'esistenza di un lavoro o di un domicilio.

Trattandosi tendenzialmente di soggetti non in regola con il permesso di soggiorno è quanto mai complicato riuscire a dimostrare il fatto di lavorare in nero e, nella prassi effettiva, seppure qualcuno dimostra di essere cosciente dell'enorme incidenza di immigrati nel settore informale della nostra economia, si tende a partire dal presupposto dell'inesistenza di alcun tipo di integrazione economica

li ovviamente la colpa non è degli extra-comunitari ma è della nostra società che cerca di sfruttare in qualche modo i lati positivi, per noi, di una data situazione.

Per cui qui ci vuole un minimo di esperienza anche di sensibilità anche da parte del giudice nel valutare la credibilità del soggetto, è ovvio che c'è quello che fa il facchinaggio in nero, lo fa saltuariamente, ma in un modo che può essere considerato continuativo, soprattutto se è in Italia da alcuni anni, ce ne sono invece molti che allegano un tipo di lavoro senza dare poi nessuna modalità di controllo, nessuna attendibilità...ti dicono ho lavorato una settimana a Napoli, poi ho perso il lavoro, poi dopo sono stato due anni senza lavorare, adesso ho questo tipo di prospettive...qui francamente è un problema di credibilità individuale.

Se una persona dimostra appunto di avere tentato o di stare ancora tentando un inserimento sociale che lo possa appunto togliere da prospettive criminali questo viene valutato.

Però in effetti tutto ciò è, per ovvi motivi, scarsamente controllabile.

Cominciano però ad esserci i casi in cui ci sono situazioni lavorative già consolidate, con il libretto di lavoro...insomma l'integrazione lentamente procede.

Quella poi la vediamo poco perché, ovviamente, queste sono persone che poi non delinquono, o perlomeno in una percentuale ridottissima, per quale motivo uno deve andare a rischiare la galera a spacciare eroina in piazza (...) se riesce a guadagnare un milione e mezzo due milioni facendo il metalmeccanico (G - V).

Il problema è, com'è evidente, di una certa rilevanza poiché, per l'inadeguatezza degli uffici giudiziari a conoscere con un margine di attendibilità la situazione sociale effettiva dei processati, si assiste all'utilizzo di rigidi schemi presuntivi che, in sostanza, hanno l'effetto di ritorcere contro chi già ne subisce tutto il peso la circostanza che all'interno del nostro sistema sociale la precarietà lavorativa (e, per gli immigrati, anche di status giuridico) stia diventando una condizione esistenziale stabile e duratura per un numero crescente d'individui. La drammaticità delle condizioni di vita e di lavoro di questi soggetti si risolve in un elemento atto a fondare una assoluta presunzione di marginalità socio-economica e, dunque, di pericolosità sociale. Il problema riguarda soprattutto la situazione lavorativa degli immigrati irrgolari (51).

...lavoro in nero; ecco, questa è una realtà effettiva, una realtà esistente, che però non è documentabile o non è rappresentabile oralmente, se ci fossero delle persone disposte a testimoniare dell'esistenza di quest'attività lavorativa, dell'esistenza di questo rapporto di lavoro, è chiaro che il giudice potrebbe farsi un opinione su questo, però ovviamente la prova rappresentativa in questo caso è ancora più difficile che la prova documentale (A - III).

Una persona che non ha un permesso di soggiorno chiaramente non potrà mai avere una situazione lavorativa...ufficiale; è chiaro: hanno delle attività lavorative in nero, alcuni, altri non hanno alcuna attività lavorativa.

Situazioni abitative...alcuni pur non essendo regolari hanno delle situazioni abitative regolari, o sono ospiti da connazionali, oppure pagano anche degli affitti da persone italiane che gli affittano le stanze, chiaramente tutto in nero, però loro hanno una situazione abitativa regolare...

(...)

nessun datore di lavoro mi farà mai una dichiarazione dove mi dice che effettivamente quel soggetto sta svolgendo per lui un'attività lavorativa, diversa è invece la questione dell'abitazione, anche perché l'abitazione...voglio dire, non è necessario dire: questa persona sta pagando un affitto, si può semplicemente dire: questa persona è ospite presso una persona regolare...(A - IV).

Si è nella sostanziale impossibilità di documentare l'effettiva esistenza di certe situazioni e, dunque, questi soggetti pagano doppiamente il peso dell'integrazione subordinata che riserva loro l'Italia. In un primo momento, nelle pessime condizioni lavorative, sovente in nero, cui sono costretti; in un secondo quando, allorché si dia adito a sospetti di alcun genere, il fatto di lavorare al nero diviene sinonimo di disoccupazione e marginalità socioeconomica, quanto basta per essere ritenuti un potenziale criminale. E se pure qualche giudice si dimostra più disponibile a riguardo, le parole di un avocato da noi intervistato, nonché l'attività pratica del Tribunale cui abbiamo assistito, ci segnalano l'assoluta eccezionalità di una simile apertura

però il problema è questo: noi il problema fiscale non lo consideriamo, forse in questo per certi aspetti veniamo anche meno al nostro dovere, perché in teoria noi ogni volta dovremmo fare indagini, un rapporto...eccetera.

Per cui in realtà per favorire la ricostruzione del quadro di vita dell'imputato omettiamo di prendere qualsiasi atteggiamento aggressivo nei confronti del datore di lavoro ciò nonostante non viene mai delineato in concreto questo lavoro in nero.

Cioè un conto è dire: lavoro in nero, che non vuol dire nulla; un conto è dire: lavoro in nero quattro ore tutti i pomeriggi, vado a pulire le scale presso tal posto, allora questo già consentirebbe di fare nome cognome andare a vedere ed eventualmente considerare che c'è questa cosa, ma non viene mai definita questa attività in nero (G - I).

Si però vede...voglio dire...a me nessun giudice ha mai detto: avvocato se il suo assistito lavora in nero mi faccia fare una dichiarazione del suo datore di lavoro, perché evidentemente non potrebbe dirmelo, quindi è chiaro che un cittadino comune che assume un lavoratore in nero, extracomunitario, privo del permesso di soggiorno, non potrà mai fare una dichiarazione pensando che il giudice chiuderà un occhio, mi sembra abbastanza incredibile che una persona possa auto denunciarsi contando che il giudice non farà nulla (A - IV).

In sostanza è più frequente il caso di un giudice o di un pubblico ministero che non credano in partenza a certe asserzioni dell'arrestato, considerandole una, pur legittima, strategia difensiva

Intanto si può chiedere al giudice di sospendere momentaneamente l'udienza e di far fare un accertamento di polizia, se è su (...) basta mandare una pattuglia volendo e si vede se il lavoro esiste o meno; è che spesso ci si accorge subito che sono lavori che non esistono, sono delle prese in giro per i giudici, perché ci dice l'extracomunitario: io lavoro da Pino che sta in una strada che io non so che strada è però io ci so arrivare, quando parlano così, è evidente a mio parere che ci stanno prendendo in giro e quindi non si fa niente, cioè si ritiene che non esista questo lavoro; quando mi dice: sono assunto, anche se al nero, in quella ditta, nome, cognome ed indirizzo, allora mi pare che possa essere più creduta questa cosa e allora si fa qualche approfondimento in più (PM - II).

Premesso che il più delle volte sono scuse che l'imputato legittimamente frappone fra sé e il carcere, sarà anche capitato però che il P.M. o il giudice chieda: va bene, ma dammi qualche dettaglio più preciso e normalmente si tratta di Giovanni che lavora a Medicina con il quale saltuariamente faccio e dico...per cui; tocca a chi vuol dimostrare di lavorare, se pure al nero, l'onere di fornire la prova dell'effettività di questo lavoro, prova che non viene fornita e quindi non vengono tenute per buone queste osservazioni, se poi lo dimostrerà successivamente...non è che la misura cautelare rappresenta una pietra tombale (PM - V).

Mah...qui secondo me c'è veramente una resistenza a dire qualcosa, tutti quanti più o meno sostengono che fanno lavori in nero saltuari, però se uno gli chiede dove lo hanno fatto, non danno mai il nome di una ditta di una persona o di un datore di lavoro, forse lo fanno perché non vogliono metterlo nei guai, non lo so, però non esiste.

Per quello che riguarda la situazione abitativa qualcuno lo dice dove abita, ma la maggior parte dice di dormire da amici o comunque per strada e quindi anche qui non forniscono indicazioni, magari vengono fuori dopo, se poi vogliono gli arresti domiciliari, ma tendenzialmente non danno indicazioni (G - III).

Per altri versi, poi, gli stessi elementi che, a dire di qualche giudice, potrebbero dimostrare l'esistenza di un lavoro, sono valsi più spesso - stando ai processi da noi osservati - a fondare un giudizio di colpevolezza. Quando qualcuno degli arrestati è stato trovato in possesso di qualche banconota, si è sempre sostanzialmente partiti dalla presunzione che quel denaro fosse il provento di pregresse attività delittuose, difficilmente è stato creduto l'extracomunitario che ha provato a sostenere che la cifra fosse frutto di un'attività lavorativa.

Certo ci sono quelli che fanno riferimento ad un lavoro in nero, in questi casi è chiaro che l'imputato può dire quello che vuole ed il giudice, se quello non dà un minimo di elementi in più, è difficile che faccia un atto di fede...cioè mi deve dire che tipo di lavoro ha fatto, dove è andato, se conosce in qualche modo il suo datore di lavoro o mi faccia vedere che ha due soldi, perché se lavori in nero per poco che ti pagano forse cinquantamila lire in tasca le hai e invece sono delle cose che buttano lì sapendo che lo stato non è in grado di accertare se il lavoro c'è o meno, normalmente non ci crediamo; è una di quelle cose che l'imputato ha il diritto di dire, perché possono dire quello che vogliono, ma anche il giudice ha diritto di non crederci se non è un minimo rivestita di concretezza (G - V).

Spesso e volentieri, infatti, le “cinquantamila lire in tasca” sono state considerate, nella motivazione della condanna, una ulteriore prova del fatto che il soggetto, ritenuto inevitabilmente privo di altre fonti di reddito, trae il suo sostentamento dalla perpetrazione di illeciti. È evidente come, di fronte a certe radicate presunzioni, dimostrare di avere un reddito divenga per l'immigrato irregolare una probatio diabolica.

Più in generale però, questo discorso vale per la stragrande maggioranza degli arrestati: l'essere inquadrati fra le “classi pericolose”, infatti, significa molto spesso che nei propri confronti si possono riattivare surrettiziamente antichi meccanismi giuridici che il nostro sistema riservava agli “oziosi e vagabondi”. Così, l'impossibilità di documentare in qualche maniera la legittimità del possesso di un determinato valore, se un tempo comportava l'esplicita sanzione come “sospetto ladro”, oggigiorno vale a motivare una condanna per furto priva di seri riscontri probatori (52) o, comunque, a dimostrare che il soggetto trova di che vivere per mezzo del delitto.

6.6.4: Scelta della misura. La custodia in carcere come surrettizia sanzione

Altra rilevante questione riguarda la scelta misura applicabile. Appurato che rispetto a certi individui vige una sostanziale presunzione assoluta di pericolosità sociale, si tratterà di capire quale tipo di misura, fra le tante che in nostro codice prevede, tende ad essere applicata con maggiore frequenza e perché. Capire secondo quali criteri ci si orienta nella scelta tra: obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, divieto o obbligo di dimora, arresti domiciliari e custodia cautelare in carcere.

A riguardo tornano in questione, ovviamente, le considerazioni già svolte a proposito della situazione sociale in cui versa la stragrande maggioranza degli arrestati, ma ciò che a questo proposito assume maggiore rilevanza è soprattutto la situazione abitativa e, più in generale, familiare di questi soggetti.

Le parole degli avvocati sono eloquenti: si hanno delle speranze di ottenere misure diverse della custodia in carcere - anche eventualmente in sede di riesame del provvedimento - solo dove ci siano situazioni abitative stabili, meglio se relative a stretti legami familiari. In particolare, poi, gli immigrati subiscono in questo caso tutto il peso di quello che abbiamo chiamato deficit d'incasellamento disciplinare: il loro essere fluttuanti sul territorio dello Stato, sovente costretti ad un'esistenza precaria che li rende sfuggenti per le maglie dei meccanismi poliziesco-disciplinari

mah...dipende ovviamente dalle condizioni personali, familiari, della persona che viene arrestata, perché se si tratta di persone italiane, o comunque di persone radicate a qualunque titolo sul territorio magari c'è una famiglia per cui ci si attiva per contattare la famiglia, per vedere se quantomeno c'è la possibilità degli arresti domiciliari e questo è un conto.

Laddove invece si è di fronte a persone che non hanno radicamento sul territorio e che quindi non hanno nemmeno la possibilità di avere qualcuno, un amico, un parente, che li ospiti, diventa più difficile, a volte le richieste in tema di libertà si fanno perché si devono fare, perché non si possono non fare, ma non sempre con il convincimento che possano portare a qualcosa e poi la domanda sulla libertà viene comunque riproposta all'esito del processo, se rimane la custodia cautelare applicata...(A - II)

La strategia è presto detta, se c'è la possibilità degli arresti domiciliari: arresti domiciliari; il che implica che ci sia qualcuno disponibile...anche in sede di riesame eventualmente, che si può fare nell'arco di una settimana quindi velocemente, però ci deve essere un riferimento esterno: un parente, un amico, un familiare.

Questo normalmente accade per gli italiani o comunque con persone anche extracomunitarie, i famosi regolari, però radicati sul territorio.

(...)

l'obbl. di pers. Alla P.G. ...anche lì insomma, che valenza ha?

Cioè se si parla di pericolo di reiterazione del reato: spaccia davanti alla caserma, va a firmare e ritorna spacciare dopo, se parliamo di questo reato specifico.

Se parliamo di altri reati, violenti per esempio, spesso e volentieri magari per incensurati, capita anche insomma (A - I).

Anche lì è un problema di condizioni soggettive, nel senso che colui che non ha una fissa dimora, che non ha un'attività lavorativa, che non ha neanche una certa identificazione...noi chiediamo le misure quali l'obbligo di presentazione alla P.G., il divieto o l'obbligo di dimora...eccetera, ma ci viene sempre detto che non è possibile perché appunto sono soggetti che sfuggono ad ogni controllo e pertanto sono misure che comunque nei loro confronti non hanno alcuna efficacia.

(...)

nei confronti di soggetti che abbiano particolari condizioni, che abbiano un'abitazione, che abbiano una fonte lecita...che comunque abbiano un'abitazione, che comunque siano reperibili aldilà della firma che vanno a mettere in questura magari tre volte alla settimana, che volendo ci possa essere un controllo su di loro.

Rispetto agli italiani o comunque anche ai soggetti con il permesso di soggiorno, non vengono frequentissimamente applicate queste misure, però ho notato che quando magari queste persone non hanno particolari precedenti vengono, a volte, sottoposte anche a queste misure, ma meno di frequente sicuramente (A - IV).

Certo è che per gli italiani vi è una maggiore richiesta di arresti domiciliari proprio perché hanno una casa, allora quando loro ci dicono che hanno una casa, spesso si telefona alla famiglia che risiede in questa casa e si chiede loro se vogliono accogliere il figlio, il marito, il fratello...quello che è, per gli extracomunitari questo è impossibile. (PM - IV)

Su questo piano, a parità di ritenuta pericolosità sociale, fra extracomunitari ed italiani sussiste una sostanziale, quanto inevitabile - stante i presupposti oggettivi di una misura come gli arresti domiciliari - discriminazione: l'immigrato subisce il carcere in misura percentualmente nettamente superiore.

Difficilmente egli possiede una stabile sistemazione abitativa, o comunque una sistemazione ritenuta idonea ad accogliere un individuo agli arresti domiciliari, visto che la promiscuità - condizione normale purtroppo negli insediamenti di immigrati, spesso anche in regola, nelle nostre città - è spesso di per sé ritenuta un potenziale criminogeno o, comunque, una soluzione non idonea all'applicazione della misura meno affittiva.

Bisogna poi verificare se li è possibile che si realizzino le condizioni per gli arresti domiciliari, cioè gli arresti domiciliari sono tali per cui uno, dovendo rimanere sempre in casa, dev'essere anche aiutato, chi è che va a fare la spesa, chi è che l'aiuta se c'è ne bisogno...cose di questo tipo.

Quindi ci vuole anche un nucleo piuttosto stabile, non è che quattro persone alla rinfusa dentro un appartamento che magari vanno vengono...cambi di persone...possa essere quanto mai utile per gli arresti domiciliari, noi quando per gli extracomunitari ci sono dei nuclei familiari, ovviamente non soltanto per loro mah...facciamo, prima che il giudice si pronunzi con ordinanza sul cautelare, una telefonata dove sentiamo se la famiglia vuole prendere quale ospite, un ospite anche oneroso e gravoso come uno agli arresti domiciliari (PM - IV).

Tuttavia, nelle considerazioni degli attori processuali “togati” (pubblici ministeri e giudici), la scelta del carcere sembra essere dettata anche dall'idea che, comunque, gli extracomunitari presentino livelli di pericolosità sociale superiore rispetto agli stessi italiani e, dunque, impongano più pressanti esigenze di tutela della collettività; esigenze che solo per mezzo del carcere è possibile soddisfare

perché un obbligo di dimora, come si diceva prima, può anche non servire al fine di tutelarci, noi collettività, dal pericolo di reiterazione di nuovi fatti, un obbligo di presentazione alla P.G. molto spesso è acqua fresca, non serve a niente, allora rimangono due fattispecie che sono quella degli arresti domiciliari o il carcere, gli arresti domiciliari nella maggior parte dei casi non possono essere concessi perché l'arrestato non ha fissa dimora, allora a quel punto non si può fare altro che concedere l'unica misura concedibile in quelle circostanze: il carcere (PM - IV).

Direi che un discorso di arresti domiciliari se possibile si privilegia, perché la “ratio” voluta dal legislatore e seguita dal giudice è quella di limitare la custodia cautelare in carcere alle ipotesi sia più gravi, che comunque non consentono diversamente una tutela della collettività, quindi laddove si prospetti - questo è un problema che spesso la parte stessa deve far rilevare - la possibilità di un domicilio stabile, una situazione tranquillizzante per la collettività, questa strada viene seguita (G - II).

La scala consiste in poco, perché non c'è una casa, questi o vanno in carcere o qualunque altra cosa non serve a niente; l'obbligo di firma a questi qui li fa ridere, non se ne fanno niente, non ci vanno!

È gente che non ha un nome non ha un documento, quindi: se ritornano in libertà ricominciano; se vanno dentro, è una misura cautelare molto pesante, ma non ci sono alternative, questi una casa non ce l'hanno.

(...)

Le loro condizioni sono queste, abbiamo avuto un caso recente di uno che era stato messo agli arresti domiciliari e poi è stato arrestato con un grosso quantitativo di droga che spacciava stando a casa, cioè faceva venire tossici a casa sua (PM - II).

Io personalmente nei confronti di soggetti con quelle caratteristiche chiedo sempre la custodia cautelare in carcere perché non vi è alcuna possibilità gradata di applicare una misura minore, se non hanno dimora è impossibile applicare gli arresti domiciliari, l'esperienza mi insegna che quelle rare volte che sono state applicate altre misure, quali l'obbligo di firma dopo dieci minuti l'obbligo di firma viene violato, da soggetti volatili sul territorio dello stato.

Normalmente in casi del genere io chiedo sempre la custodia cautelare in carcere (PM - II).

Il problema è che applicare queste misure significa di fatto non applicare niente, perché di fatto la misura dell'obbligo di firma anche tre volte alla settimana...perché noi le scriviamo queste cose: perché se questo va tre volte alla settimana in questura percepisce la presenza dell'autorità, quindi si dà una regolata...non è vero niente! Questi vanno, fanno la loro firma, poi vanno fuori e fanno quello che vogliono, quelle sono misure un po' finte, il codice le ha previste noi qualche volta le applichiamo, perché appunto sono soggetti che hanno diversi precedenti ma hanno commesso un fatto modestissimo e quindi non si possono mandare in carcere, ma anche completamente mandarli in libertà ci dà ...ripugna perché effettivamente il personaggio, il soggetto ...la pericolosità ci sarebbe, ma queste misure di fatto...io per esempio sono piena di segnalazioni di gente a cui ho applicato queste misure che non è andato ed allora abbastanza spesso scatta l'aggravamento, che in questi casi poi è sempre in carcere, perché è gente che non ha dimora (G - V).

Anche di fronte a reati dalla consistenza irrisoria (la stragrande maggioranza in questi procedimenti) si fa fatica, come sottolinea il nostro giudice, ad evitare il carcere.

Tutti i brani si soffermano più o meno velatamente sull'esigenza di tutela della collettività, evidenziandoci definitivamente quale sia la funzione che la misura della custodia in carcere viene ad assumere in questi casi: pura e semplice neutralizzazione. Sulla base di un presupposto personologico si anticipa l'eventuale sanzione applicabile ottenendo un duplice effetto: neutralizzare quello che è ritenuto un alto potenziale di pericolosità sociale ed ottenere un agile ed efficacissimo meccanismo di controllo sociale, che non richiede alcun costo in termini di risorse istruttorie impiegate. Gli immigrati, le nonpersone che sfuggono ad ogni tipo di controllo, pagano il loro stile di vita, la loro posizione socialmente emarginata; per tali soggetti, rispetto ai quali il crimine può apparire una condotta di vita del tutto normale, il carcere interviene indipendentemente dalla prova di un fatto di reato, lo stereotipo è sufficiente a surrogarla giustificando un provvedimento cautelare estremamente affittivo come la custodia in carcere

Per un reato che non sia insomma il classico stile di vita, se c'è un cittadino extracomunitario che comunque lavora ha una casa comunque è inserito in qualche modo e una sera è ubriaco, perde la testa e si trova coinvolto più o meno coscientemente in una rissa, è un caso molto diverso e si può tranquillamente aspirare ad una misura cautelare meno grave.

La misura carceraria non scatta perché cittadino extracomunitario, ma perché, inevitabilmente, il cittadino extracomunitario o almeno una parte di questi...(A - I)

Certi arrestati, così, scontano tendenzialmente tutta la loro eventuale sanzione in carcerazione preventiva

nel caso degli extracomunitari per stupefacenti rilevo che molto spesso restano in custodia cautelare quasi fino al completamento della pena, nel senso che essendo pene abbastanza elevate per gli stupefacenti ed essendo comunque la pericolosità ritenuta all'inizio persistente, perché per lo stesso modus vivendi dell'arrestato e per l'assenza della possibilità di praticare misure alternative, spesso si arriva alla definizione del processo con l'imputato ancora in carcere, quindi di fatto poi vengono tolti dal territorio per periodi significativi (G - II).

La trasformazione della custodia in carcere in un vero e proprio surrogato sanzionatorio teleologicamente orientato alla special-prevenzione è, del resto, testimoniata dalla particolare prassi adottata presso il foro di (...) dal Tribunale del riesame (53), una prassi che rappresenta un tipico esempio di deformazione della cultura e della prassi trattamentale

se si va a guardare la giurisprudenza del tribunale del riesame...per es. può essere benissimo che il giudice che ha applicato la misura ha ritenuto che la prognosi fosse sfavorevole e quindi non si potesse ritenere che quel soggetto, in caso di condanna, avrebbe avuto diritto alla sospensione condizionale e quindi lo tiene dentro; dopodiché sta dentro quel tot ed ad un certo punto viene fatta una richiesta di rimessione in libertà...il giudice gliela respinge e si va davanti al tribunale del riesame: lei vedrà guardando alla giurisprudenza del tribunale del riesame di (...), una giurisprudenza che ha un senso proprio perché si basa sullo studio delle persone...cioè su come è il criminale.

Questa giurisprudenza dice: è vero che il giudice che ti ha applicato la misura, per la gravità del fatto, perché sei stato colto in una situazione particolare, anche se eri incensurato, ha fatto bene a dire che in caso di condanna in quel momento lì non avevi diritto alla sospensione condizionale; però trascorsi sei mesi di carcere una attività di recupero in qualche modo forse ci può essere stata.

L'obbiettivo è, com'è evidente, quello di utilizzare lo shock del carcere in funzione disciplinare, non già per avviare alcun “trattamento” rispetto ad un individuo la cui colpevolezza sarebbe, peraltro, ancora interamente in questione, bensì per spingere verso una condotta di vita più regolare chi già manifestava, avendo dato adito a sospetti sul suo conto, perlomeno un certo “disordine morale”.

il carcere, non è bello dirlo, ma ti fa ripensare alle cose soprattutto se sei un soggetto che ha commesso per la prima volta un reato e per la prima volta vai in carcere, stai in carcere per un periodo significativo...uno due tre mesi...che non sono pochi per un soggetto che non c'è mai andato dentro.

Allora il tribunale del riesame adotta questa prassi, fa una valutazione per cui in questo momento io posso dire che questo se lo metto fuori non commetterà altri reati e quindi posso pensare che dopo aver trascorso un certo periodo in carcere adesso, se lo giudicassi e condannassi, gli darei la sospensione condizionale della pena, mentre probabilmente quando è stato arrestato...lei consideri che questi quando vengono da noi non passano per il carcere, vanno in camera di sicurezza, perché è proprio vietato, quindi potrebbe capitare che un soggetto - incensurato - che viene arrestato alle cinque del mattino, alle undici del mattino ha la convalida, non applico la misura perché dico che in quel caso lì verrà applicata la sospensione condizionale della pena...questo qua non ha capito niente, pensa che forse a commettere quel reato si va impuniti.

Allora probabilmente se ha trascorso un paio di mesi in carcere il giudice del riesame potrà dire: è vero che in quel momento era difficile dire che ti avrei dato la sospensione condizionale, se ti dovevo giudicare in quel momento, adesso sono passati sei mesi, sei un incensurato hai un lavoro, una famiglia, a questo punto posso pensare che se ti condanno adesso ti do la sospensione condizionale. La prognosi che faccio adesso, perché deve essere sempre attuale, mi fa dire che tu in futuro non commetterai altri reati.

Quindi la valutazione sulla sospensione condizionale della pena può cambiare nel corso del procedimento stesso.

(G - V)

Con questa prassi (legata alla concedibilità o meno della sospensione condizionale che è uno dei presupposti in relazione ai quali viene emessa l'ordinanza di custodia cautelare in carcere) in sostanza, il Tribunale del riesame si arroga competenze spettanti alla magistratura di sorveglianza, valutando se il tempo trascorso dal soggetto in custodia preventiva possa essere servito al suo eventuale disciplinamento.

Ma quale sarà il quantum di detenzione in grado di lasciar ragionevolmente presumere che il soggetto si asterrà in futuro dal commettere reati, quale il limite oltre il quale diventa concedibile questa sorta di alternativa al carcere preventivo, aberrazione partorita da un'inarrestabile degenerazione del sistema. Lo chiarisce un avvocato

Si però è anche vero che, adesso non tutti, però ci sono anche dei giudici che a fronte del passare del tempo in stato di custodia cautelare carceraria e a fronte della possibilità di un inserimento in un'abitazione...insomma qualcosa si riesce ad ottenere...magari non dopo un paio di settimane, ma dopo un bel po' più di tempo...

Adesso il criterio che usa il tribunale delle libertà è che la scarcerazione sulla base del decorso del tempo avviene quando è stata scontata due terzi della pena inflitta, un criterio che si applica in moltissime situazioni con soggetti extracomunitari che non hanno alternative...(A - II)

Scontati preventivamente due terzi di una pena ancora del tutto virtuale, il tribunale ritiene di poter concedere la libertà al soggetto, segnato dall'esperienza e, con tutta probabilità, meno propenso a ripetere gli errori del passato, incamminandosi verso un'esistenza più ordinata e regolare.

Per dare ulteriormente la misura dello svuotamento della funzione cognitiva del processo in atto citerò un brano di un'intervista ad un altro giudice, in cui viene descritta una ingegnosa prassi per mezzo della quale è possibile creare all'interno del nostro sistema un istituto inesistente: la cosiddetta probation

questa è una cosa che dico così, non c'entra niente con il diritto, però certe volte mi è capitato di vedere delle persone che mi sembravano agli inizi di quella che poteva essere una carriera criminale e secondo me, in questo caso, mi è capitato di non decidere subito, ma di dare dei rinvii alle volte anche lunghi, nello stesso tempo applicando gli arresti domiciliari con l'attività di lavoro, cioè delle misure cautelari dicendo: se si comporta bene, se risponde positivamente, se cerca una comunità di recupero, tutto il trattamento sanzionatorio sarà adeguato a quello che sta facendo, alla sua responsabilizzazione...

(...)

Si la misura cautelare, e la pena che sarà applicata, come deterrente, cioè la pena che io ti applicherò dipenderà da come tu ti comporti, qualche volta questo devo dire ha funzionato e questo è positivo, ma questo glielo dico perché io credo in quella che è la messa alla prova, che è praticata nei sistemi anglosassoni...

(...)

La probation che in Italia non esiste purtroppo, ma che sarebbe una cosa fondamentale, perché responsabilizza le persone, ma non le responsabilizza dopo otto anni che hanno commesso il fatto, quando la sentenza è divenuta irrevocabile, li responsabilizza immediatamente.

Questa purtroppo non c'è (G - III).

Giungere all'irrevocabilità della sentenza, con la correlativa prova del fatto, è ormai un inutile incombenza facilmente surrogabile dando totale credito agli atti di polizia qualora dovutamente supportati dal quadro simbolico offerto dagli stereotipi criminali circolanti, su questa base si possono nel frattempo applicare le sanzioni all'uopo necessarie e praticare addirittura percorsi rieducativi se l'arrestato appare “recuperabile”.

Anche se il soggetto sta già magari scontando la sua pena, la vicenda, tuttavia, dovrà comunque essere chiusa in un tempo ragionevolmente compatibile con le esigenze di economia processuale ed a riguardo giungono in soccorso - quanto mai opportuni, secondo le logiche efficientiste che sottendono tali procedure - gli schemi transattivi introdotti con la riforma del 1988/89. Seppure, infatti, i principali strumenti di controllo sociale adottati dal nostro sistema nel governo delle nuove classi pericolose appaiono essere l'arresto e la custodia cautelare in carcere, si tratta di una deriva poliziesca in gran parte ancora surrettizia, dato che il nostro ordinamento continua formalmente a richiedere una prova dei fatti ed una relativa sentenza di condanna, anche se quest'ultima, con il soggetto già in vinculis, appare poco più che una mera formalità.

6.7: IL PROCEDIMENTO. SCELTA DEL RITO E GIUDIZIO

Secondo l'art. 451.5 c.p.p. prima dell'apertura del dibattimento il giudice è tenuto ad avvertire le parti della facoltà di richiedere un giudizio abbreviato o un'applicazione della pena concordata. In sostanza prima che abbia inizio il vero e proprio giudizio, in cui si dovrebbe formare la prova effettiva su cui fondare la decisione - posto che fino ad adesso tutti i provvedimenti si sono basati su meri indizi di reità - alle parti è data la possibilità di scegliere di far prendere un percorso diverso alla vicenda processuale.

In tutti i casi come sappiamo si ottiene un cospicuo risparmio di risorse processuali a fronte di uno sconto di pena, in particolare però: con il “giudizio abbreviato” (che con la L. n. 479/1999 è divenuto instaurabile senza necessità del consenso della pubblica accusa) si ottiene uno sconto di pena pari ad 1/3 a fronte dell'utilizzabilità ai fini della decisione degli atti d'indagine e di (temperati, dopo alcune pronunzie della corte costituzionale e l'intervento del legislatore nel 1999) limiti all'appellabilità della sentenza; con il cosiddetto “patteggiamento”, invece, previo accordo con il pubblico ministero, è possibile chiedere l'applicazione di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria diminuita fino ad 1/3 o di una pena detentiva che, diminuita fino ad 1/3, non superi i due anni di reclusione, eventualmente subordinata alla concessione del beneficio della sospensione condizionale (la cui concedibilità va comunque valutata dal giudice). In questo caso, oltre allo sconto di pena ed all'eventuale concessione della sospensione condizionale, si ottiene l'esenzione dall'obbligo di pagare le spese processuali, l'inefficacia della pronunzia rispetto ai giudizi amministrativi e civili, l'estinzione del reato se entro cinque anni non viene commesso un altro reato della stessa indole; si perde, però, ogni possibilità di appello, escluso ovviamente il ricorso in Cassazione.

Dal 1999, infine, è stata prevista da un lato la possibilità di far entrare ulteriori elementi di prova nel giudizio abbreviato (54) e dall'altro la possibilità per il giudice di valutare la “congruità” della pena richiesta dalle parti.

In entrambi i casi, com'è evidente, la base per le trattative è comunque costituita dagli elementi a carico dell'arrestato contenuti negli atti di polizia. Sta alla difesa ed al suo assistito scegliere se contrastare le accuse che vengono elevate affrontando un pubblico dibattimento e rischiando una pena eventualmente più pesante, ovvero accettare una transazione che comporti qualche vantaggio più a breve termine.

Sono scelte fondamentali per la difesa che vengono solitamente prese in considerazione del complessivo andamento della vicenda processuale. È infatti impossibile considerare separatamente la fase della convalida dell'arresto e dell'applicazione della misura cautelare dalla fase in cui si dovrebbe in concreto decidere la vicenda, poiché, anche a causa della stretta contiguità temporale dei due momenti, esiste un forte condizionamento reciproco. La negoziazione ha dei risvolti sull'intero andamento della vicenda processuale, essa non è un momento separato ben discernibile dal resto della procedura, ma, al contrario, pervade l'intera attività che gli attori processuali sono chiamati ad effettuare.

Da un lato, infatti, è il giudizio a subire un pesante condizionamento da parte del procedimento di convalida e del giudizio cautelare

il giudice in fondo quando decide di applicare la misura cautelare richiesta dal P.M. ha già espresso una valutazione in termini di gravità indiziaria, in qualche modo deve anticipare un giudizio sui presupposti della colpevolezza e quindi fa già capire come la pensa, comunque è anche chiamato ad esprimere una valutazione sulla personalità dell'arrestato nel momento in cui valuta le esigenze cautelari. Per cui sostanzialmente da questi due giudizi emerge il pensiero del giudice (A - III).

Beh...sa, lei va a fare un giudizio direttissimo con un giudice che il più delle volte gli ha appena applicato la misura cautelare ritenendo i gravi indizi di colpevolezza è evidente che mezz'ora dopo quel giudice non è che potrà ritenere l'imputato innocente, è rarissimo.

A meno che non ci siano delle contraddizioni all'interno del fascicolo del P.M., contraddizioni o comunque mancanze dal punto di vista delle indagini allora uno capisce che c'è ampio spazio, però...è difficile che il giudice ritorni sui suoi passi dopo che ha applicato la misura cautelare...voglio dire, è un dato umano no? (A - IV)

Dall'altro, anche eventuali transazioni già intervenute fra accusa e difesa potrebbero esercitare delle influenze rispetto allo stesso giudizio cautelare

Il difensore cerca di stare a galla, nel senso che un difensore deve avere come obbiettivo non di salvaguardare un principio, anche se magari personalmente a quel principio terrebbe molto, ma deve avere come ultimo obbiettivo quello di annullare o ridurre il danno per la persona che sta assistendo.

In questo stanno dentro mille elementi, mille parametri di valutazione, che c'entrano solo fino ad un certo punto con le norme del 274 c.p.p., del 133 c.p. e di quant'altro, nel senso che, intanto questa è una considerazione che ha una qualche dignità tecnica anche se indiretta, il discorso sulle misure cautelari in molte situazioni si confonde con quelle altre considerazioni che attengono le scelte dei riti e con, è una parola grossa dire strategie, comunque con le indicazioni difensive del caso.

Per cui tu puoi ottenere di non avere applicata una misura cautelare se preventivamente interviene, anche se implicitamente, una forma di accordo con il P.M. e poi di fatto anche col giudice, che sia per le parti accettabilmente compromissoria, per cui io posso accettare un rito per me non premiale, come un patteggiamento, per soggetti ad alta potenzialità di recidiva, perché poi insomma le cose vanno anche dette: molte delle persone che difendo fanno quei reati tante volte perché quello è il loro mestiere, quindi una persona con alta potenzialità di recidiva non ha interesse ad una sentenza che rapidamente passa in giudicato, come può essere una sentenza resa a seguito di accordo fra le parti.

L'accettare un patteggiamento è per me, almeno parzialmente, un compromesso, questo compromesso può essere in qualche modo premiato con una mancata richiesta di applicazione di misura cautelare; può intervenire un accordo che preveda una pena un po' più alta anche se condizionalmente sospesa (A - V).

Dalle parole di quest'avvocato si può intuire quante e quali accorgimenti siano necessari in tali procedure nel tentativo di “stare a galla”. Ma c'è di più: emerge chiaramente come la strategia più saggia che un avvocato possa seguire per sperare di ottenere qualcosa per il suo assistito in procedimenti simili - dove si parte da schiaccianti presunzioni di pericolosità sociale che assegnano il valore di una prova inconfutabile a semplici atti di polizia - sia quella di mettere da parte i principi e cercare, molto più prosaicamente, di giungere ad un accordo con l'accusa

sono meno frequenti, anzi sicuramente rari, i casi in cui in un giudizio direttissimo ci si difende a tutto campo, sono molto più frequenti quelle situazioni in cui per ottenere quel risultato, che è il miglior bilanciamento tra pena e misure cautelari, intervengono compromessi vari, anche una confessione in situazioni di prova non così limpida e non così perfettamente raccolta può aiutare a trovare una soluzione, per cui li è chiaro...sembrano tutti uguali invece ognuna è diversa.

Ti ho detto queste cose per dirti che le questioni tecniche ed i principi...

Se io mi metto a fare disquisizioni ex art. 133 c.p. e m'incaponisco su quello, anche se io dovrei essere tenuto a dimenticarmene, a maggior ragione un giudice, forse possono poi portarmi ad un risultato opposto, cioè un giudice a cui girano i “maroni”, un processo che s'incarognisce e s'incattivisce con esiti meno favorevoli per la persona che difendo (A - V).

Dibattimento, oralità, prova che si forma in pubblico innanzi al giudice, spettatore imparziale del contraddittorio fra le parti, che deve decidere sulla vicenda...Tutto confinato nei manuali di procedura o riservato ai processi a carico di “galantuomini”. In questi casi meglio scendere a patti, accettare che valgano come prova gli elementi raccolti dalla polizia giudiziaria a fronte di un cospicuo sconto di pena o, magari, concordare una pena più vantaggiosa con l'accusa

Comunque il rito direttissimo non è un rito, in quella fase del dibattimento, così diverso da un rito ordinario, è un rito diverso da quello ordinario perché manca tutta la fase precedente, però nel processo di convalida non ci interessa, quindi è difficile che un imputato che, a meno che non sia sicuro al 100% di essere assolto, cioè di essere innocente - non tanto quello, quanto che il giudice lo assolva - scelga il rito ordinario, spesso si scelgono questi riti premiali, perché si dice: io sono colpevole, il giudice sicuramente mi condanna, se proprio mi deve condannare allora mi condanni con 1/3 della pena di meno (PM - IV).

Traspare chiaramente dai brani riportati la forte spinta sistemica ad una soluzione immediata del caso, come già ha avuto modo di rilevare Maynard nella sua ricerca sul plea bargain: “the structure of negotiation puts a priority on the here-and-now, informal, resolution of case” (55) costruendo un sistema fortemente costrittivo in cui l'imputato, se non esplicitamente minacciato per mezzo dello spauracchio di una pena più severa, è indotto dalle lusinghe di un trattamento sanzionatorio più mite a rinunziare al contraddittorio (56). Al limite è possibile avvalersi del “termine a difesa” (ex art. 451.6 c.p.p.), prendendosi qualche giorno per valutare meglio la vicenda ed effettuare in maniera più ponderata le scelte sul rito da seguire. Ma, in ogni caso, che vicende simili finiscano in dibattimento è pressoché impossibile. Tutto si gioca sulla scelta del rito da utilizzare: patteggiamento o rito abbreviato? Una scelta che ha dei risvolti molto importanti per il destino dell'arrestato, risvolti che spesso, tuttavia, per essere compresi necessitano di una certa perizia tecnica di cui non sempre, com'è ovvio, l'imputato è in possesso (57.)

credo che alla fine sia una scelta lasciata per buona parte alla sensibilità del difensore, nel senso che se io...io cerco in tutti modi possibili di far comprendere alla persona ciò che sta accadendo, quali sono i suoi diritti e quali sono i suoi doveri e quali sono le possibilità per affrontare la situazione, poi è ovvio che mi rendo conto che ci sono persone che hanno determinati strumenti per comprendere ed altri meno.

Per cui: più una persona può partecipare perché ha gli strumenti, allora più si tratta di una decisione presa insieme, meno una persona ha questa possibilità ed allora più si tratta di una scelta che alla fine dipende da me (A - III).

Vedremo adesso sulla base di quali ragionamenti e con che prospettive si effettuano queste fondamentali scelte processuali. Scelte che tuttavia non vanno iperazionalizzate: è chiaro, infatti, che solo in certi processi, dove i rapporti di forza tra accusa e difesa sono perlomeno paritari - se non a vantaggio di quest'ultima - il patteggiamento può assumere i caratteri di una scelta accuratamente ponderata dall'imputato e dal suo difensore, cui si giunge solo innanzi ad effettivi e tangibili vantaggi; al contrario in processi dove l'imputato è dotato di uno scarsissimo “potere contrattuale” esso appare, più che il momento di una vera e propria negoziazione tra accusa e difesa, un meccanismo per maneggiare il più speditamente possibile il traffico penale.

L'idea del patteggiamento come un mercanteggiare continuo alla ricerca del miglior compromesso è, soprattutto nei procedimenti che si svolgono presso le “corti basse” a carico di individui appartenenti al novero delle classi pericolose, tutto sommato erronea, i risultati cui è possibile giungere sono tendenzialmente già fissati in rigidi schemi operativi che rendono perfettamente consapevoli gli operatori processuali di ciò che in certi casi è possibile ottenere o meno. Difficilmente, infatti, le parti giungono ad un accordo compromissorio partendo da posizioni diametralmente opposte e negoziando esplicitamente per mezzo di reciproche concessioni; più spesso, invece, le proposte avanzate tengono conto delle prassi radicatisi e la negoziazione assume un carattere prevalentemente implicito, incanalandosi su binari prefissati.

Nella fissazione di tali schemi gioca un ruolo fondamentale il sapere pratico cui fanno riferimento gli attori processuali nel corso del loro lavoro quotidiano ed il grado di condivisione di tale sapere, sino al punto che è possibile guardare il patteggiamento come un meccanismo per maneggiare “valutazioni comuni” circa i fatti e, soprattutto, l'autore, in modo di individuare quale, tra le soluzioni prefissate, meglio si adatti al caso in specie (58).

Vediamo, dunque, quali modelli operativi funzionano all'interno del Tribunale Monocratico oggetto del nostro studio e come, tra questi, si orientino gli attori processuali, ma - soprattutto - le difese, cui la legge rimette l'incombenza di effettuare la scelta del rito.

6.7.1: Patteggiamento

Il patteggiamento implica che accusa e difesa siano giunte ad un compromesso sulla pena, con eventuali benefici, da applicare al caso in specie; il giudice in questi casi interverrà in un secondo momento per valutare la “congruità” dell'accordo raggiunto dalle parti e l'eventuale concessione del beneficio di legge. Le due parti processuali, movendo da prospettive opposte, dovrebbero in teoria trovare un accordo che risulti soddisfacente per entrambe, cosa non molto facile da realizzare come vedremo, visto che di vera e propria contrattazione non pare sia possibile parlare.

Nell'impostare la propria strategia le parti processuali sono in grado di prefigurarsi, già a partire da una valutazione complessiva circa la tipologia d'autore che si ritiene di avere d'avanti, i risultati che è possibile ottenere e, dunque, hanno a disposizione dei percorsi ben definiti da cui è pressocché impossibile riuscire a discostarsi. Ciò vale a maggior ragione per le difese, cui spetta il compito di effettuare la scelta preliminare sul rito, rinunciando all'ordinario per rifugiarsi in uno dei riti premiali. Tendenzialmente, infatti, le difese tentano la via del patteggiamento solo allorché possano sperare di ottenere una sospensione condizionale della pena, evitando così il carcere, anche in via preventiva, al proprio assistito

nel patteggiamento l'obbiettivo che si cerca di raggiungere è quello di subordinare il patteggiamento stesso alla sospensione condizionale della pena, questo è un accordo che molto raramente si riesce a raggiungere, proprio perché i presupposti per la sospensione condizionale della pena o difettano o comunque...siccome tra questi presupposti c'è anche una valutazione prognostica di non recidiva, è una valutazione che o non si sente di fare il P.M. o potrebbe essere respinta dal giudice, per cui è abbastanza raro.

Si fanno patteggiamenti per quelle persone, magari giovani, che hanno fatto una ragazzata e che si ha una probabilità molto elevata che si astengano in futuro dal commettere nuovi reati, quindi si può patteggiare una pena così bassa da poter essere sostituita con una sanzione pecuniaria, si paga la multa si evita di bruciarsi una parte della sospensione condizionale della pena ed in più ci sono tutti gli effetti favorevoli che conseguono al patteggiamento, come l'estinzione del reato in tempi rapidi eccetera (A - III).

Solo con una certa tipologia d'autori, dunque, è pensabile di imbarcarsi in un patteggiamento sperando di ottenere un risultato vantaggioso: deve, infatti, trattarsi di individui il cui profilo biografico possa lasciar presumere che l'episodio di cui sono accusati rappresenti una parentesi del tutto eccezionale nella loro vita, individui che, in sostanza, non paiono così pericolosi socialmente da meritare il carcere. Più che avanzare una proposta per saggiare la disponibilità della controparte, il difensore riesce, attingendo al bagaglio di saperi criminologici pratici disponibili, a proporre una soluzione direttamente accettabile per l'accusa e relegando, così, la negoziazione esplicita a casi eccezionali.

Tuttavia, non è solo a causa dei loro effetti nell'immediato che le considerazioni personologiche riescono ad influire sugli orientamenti della difesa: il patteggiamento, infatti, a giudizio delle difese risulta poco conveniente per i loro assistiti, quando appartengano ad una certa “tipologia delinquenziale”, sopratutto in una prospettiva di lungo termine

Guardi io lo utilizzo pochissimo, nel senso che non mi piace il patteggiamento, ma non mi piace il patteggiamento perché la sentenza diventa immediatamente irrevocabile, si può fare solo il ricorso per cassazione; ma non mi piace il patteggiamento soprattutto perché rispetto alle persone che io difendo, la maggior parte delle persone che difendo, soprattutto in direttissima, sono perlopiù soggetti extracomunitari gravati magari da vari procedimenti penali in corso, quindi che...o comunque che vengono scarcerati e magari riarrestati il mese dopo, ritengo che il patteggiamento per loro sia un rischio, perché comunque la sentenza diventa definitiva, perché magari gli arrivano nel frattempo altre definitive e quindi ci può essere un cumulo di pene che diventa eccessivo.

Allora fra le due preferisco, nel caso in cui appunto vi sia una responsabilità penale evidente, quindi non vi sia scampo, procedere con il rito abbreviato, perché comunque consente di contenere la pena. Certo, purtroppo non è decidibile prima la pena che l'imputato dovrà andare a scontare, però comunque, a parte i casi eclatanti, voglio dire le pene poi, bene o male, rispetto ai furti o allo spaccio sono abbastanza equilibrate, almeno ultimamente mi sembra che siano un po' più pesanti, però...(A - IV)

Dove c'è una prova di colpevolezza difficilmente superabile, ovviamente si cerca di ridurre il danno e quindi di avere le riduzioni di pena previste dai riti premiali.

La differenza tra scegliere il patteggiamento o l'abbreviato, almeno per quello che capita a noi, è di vedere se si tratta di una persona che si sa essere un delinquente professionale, per cui con un patteggiamento la sentenza diverrebbe irrevocabile in fretta, anche se per esempio ci si volesse mettere in mezzo un ricorso per cassazione strumentale, comunque però la sentenza diverrebbe irrevocabile in fretta, diventerebbe definitiva e sarebbe una condanna in più da eseguire a carico di una persona che invece per vivere commettere reati.

Quindi per queste tipologie d'autore si fanno generalmente dei giudizi abbreviati, perché hanno tempi più lunghi di maturazione per arrivare alla esecutività della sentenza, c'è un appello in mezzo, c'è un cassazione in mezzo e quindi questa è una valutazione che si fa.

Oppure si ricorre al giudizio abbreviato nel momento in cui l'ipotesi di patteggiamento che si ha in testa non è minimamente presa in considerazione dal P.M., allora se il gioco vale la candela si patteggia e buona notte, sempre che non esista quella situazione di tanti precedenti...(A - III).

In questi casi, quando si ha a che fare con individui la cui condizione sociale o i cui precedenti lascino supporre si tratti di delinquenti abituali, è preferibile sobbarcarsi il rischio di un rito abbreviato dove - anche se non si può concordare la pena e, dunque, è possibile subire una sanzione molto più alta rispetto all'accordo che si sarebbe raggiunti con la pubblica accusa - si otterrà comunque una cospicua riduzione della sanzione.

Tuttavia spesso è possibile piegare ad altri fini il raggiunto accordo con il pubblico ministero, sfruttando i meccanismi procedurali per evitare che a trattare la vicenda sia un giudice non gradito

Nei casi in cui, visto che hai sempre a che fare anche con misure cautelari, puoi subordinarlo alla concessione della sospensione condizionale, ottenere un consenso da un P.M., pur avendo di fronte un giudice che sai a priori che non ti concederà mai la sospensione condizionale, può essere un buon modo per liberartene di quel giudice visto che lo rendi incompatibile e poi fai un abbreviato con quello che ti viene dopo, non si potrebbe ma si può tutto (A - V).

Ferma è, al contrario, la posizione dei pubblici ministeri, i quali lavorano per ottenere che il soggetto, quando appaia uno dei classici autori “tipo”, abbia comunque un assaggio di carcere. Su questo piano è pressoché categorico il rifiuto di patteggiare una pena con il beneficio della sospensione

Io mi oriento, in presenza di queste fattispecie, parliamo dei soggetti appena descritti, parliamo di art. 73, io il consenso lo presto a condizione che non venga chiesta la sospensione condizionale della pena, una pena tutto sommato modesta, pochi mesi, però a condizione che non venga richiesta la sospensione condizionale della pena, perché ritengo che sia una contraddizione in termini dire che c'è il rischio di reiterazione un secondo prima e un minuto dopo dire si presume che il soggetto si asterrà dal commettere reati, questo è il mio modo di orientarmi (PM - V).

Innanzitutto guardo alla giustizia della pena, perché è chiaro che l'avvocato, facendo come deve fare gli interessi del suo assistito, tende sempre ad avere una pena minima; qui il problema fondamentale è quello della sospensione condizionale della pena, un avvocato chiederà sempre, se fa il patteggiamento, la sospensione, ora la sospensione non è un diritto costituzionalmente garantito all'arrestato o all'imputato che ha pochi precedenti o non ha precedenti, il giudice può sospendere la pena in relazione a determinati criteri, che sono poi in qualche modo criteri premiali, cioè se ritiene che non vi sia pericolo in qualche modo che possa reiterare questo genere di condotta, se ritiene che la pena inflitta, l'esperienza avuta sia tale da poter far si che questo contatto con la giustizia non determini un'ulteriore reiterazione...io vedo avvocati che provano a chiedere la pena sospesa per pluri-pregiudicati, a quel punto lasciano perdere, io rifiuto solitamente perché, ripeto, secondo me la sospensione condizionale della pena è un istituto che va dato con il contagocce, perché è un istituto premiale sostanzialmente (PM - IV).

Di fronte a certi “tipi” di delinquente non è possibile patteggiare la sospensione condizionale, oppure, se la tenacia del difensore strappa comunque un accordo sulla sospensione, la contropartita che si chiede è un proporzionale aggravio della sanzione applicabile, in modo da rimandare il carcere ad un eventuale successivo reato

Io diciamo che mi oriento positivamente per l'applicazione pena quando sono di fronte ad una persona identificata, di cui conosco bene i precedenti, di cui posso prevedere quello che sarà l'esito quanto ad esecuzione o sospensione della pena, quindi quando mi trovo di fronte ad un soggetto che non mi dà queste garanzie, soprattutto per quanto riguarda l'accordo sulla sospensione condizionale della pena, cui in genere mira la difesa, perché la difesa cerca di ottenere questo...no...l'immediata liberazione è lo scopo fondamentale penso per il difensore, ecco, in questo caso, se mi deve essere strappato un accordo sulla sospensione condizionale della pena, anche in presenza di un soggetto che per me non avrebbe tutti i requisiti per ottenerla, allora cerco di alzare il quantitativo di pena in modo tale di, come si dice, “bruciare” la sospensione condizionale della pena, quindi di farlo arrivare a quel massimo oltre al quale col nuovo reato dovrebbe certamente scontare tutta la pena.

In molti casi quando c'è la disponibilità della parte ad applicare la pena in presenza di un soggetto che non può fruire di sospensione condizionale, mi accordo tranquillamente su questo punto...poi si dice: ci si accorda tanto la sconta tutta e il risultato, dal punto di vista sanzionatorio, tra questo tipo di accordo e l'esito di un abbreviato, non è sostanzialmente...anzi si cerca magari proprio per la brevità del rito di arrivare ad una pena contenuta, non nei minimi, ma insomma...sarei contraria all'applicazione sempre dei minimi di pena.

Se riesco ad ottenere o da un lato la rinuncia alla sospensione condizionale e allora mi accordo su una pena più bassa, o dall'altro sospensione condizionale ma una pena più elevata, allora va bene l'applicazione pena; in particolare penso agli stupefacenti che per me è sempre il reato più serio.

Per quanto riguarda i reati contro il patrimonio in genere si giunge all'accordo sull'applicazione pena, è più una scelta del difensore oramai che del P.M., perché il P.M. può manifestare la sua disponibilità ma il difensore, per avere più strade aperte in sede d'impugnazione, molto frequentemente, soprattutto quando si tratta di clienti che hanno precedenti, imbocca la via dell'abbreviato piuttosto che...tanto alla fine il risultato non è poi tanto diverso (PM - III).

“Bruciare” la sospensione vuol dire mettere il soggetto nella condizione di dover scontare una doppia pena in caso di un nuovo reato e, dunque, assicurarsi che, con ragionevole certezza, in caso di un ulteriore sbaglio possa essergli applicata una custodia cautelare in carcere e che, in caso di condanna, trascorra un significativo periodo di detenzione.

Tuttavia, come segnala un pubblico ministero, non sempre l'accordo sulla sospensione condizionale è considerato dai giudici un elemento costitutivo del patteggiamento e, dunque, occasionalmente vi può essere una terza persona in grado di influire sull'esito del patteggiamento

Perché poi in relazione al patteggiamento invece vi sono diverse giurisprudenze in relazione a questo problema, cioè: vi sono alcuni giudici che ritengono che l'accordo sulla sospensione condizionale sia un elemento costitutivo del patteggiamento e quindi, qualora manchi il consenso di una delle parti, ritengono che il patteggiamento non possa essere concluso, ve ne sono altri, come il giudice...che ritiene invece che questo accordo rimanga al di fuori del patteggiamento, quindi la difesa può in via autonoma chiedere la sospensione condizionale e il giudice in via autonoma può decidere sulla sospensione condizionale; qui bisogna conoscere gli orientamenti dei singoli giudici e prendersi anche dei rischi da parte della difesa. (PM - IV).

In ogni caso sarà il giudice a dover valutare l'accettabilità della sanzione richiesta. Ancora una volta, tuttavia, i principali problemi che gli organi giudicanti si pongono riguardano la concedibilità del beneficio della sospensione condizionale e, dunque, non tanto una valutazione sulla proporzione dell'entità della sanzione rispetto al fatto contestato (e, si badi, non accertato), bensì la questione della pericolosità del soggetto e le conseguenti esigenze di tutela della collettività, soprattutto quando si ritiene di essere di fronte ad individui sfuggenti che, a causa della precarietà del loro status giuridico e del loro scarso radicamento sul territorio, appaiono al di fuori di ogni controllo

Direi che patteggiamenti ne chiedono pochissimi, credo perché è più vantaggioso l'abbreviato, perché hanno lo stesso sconto di pena e possono fare appello, quindi non devono fare il ricorso in cassazione che forse è più oneroso.

Può darsi che sia legato anche ad una mia particolare inclinazione a dare poche sospensioni condizionali della pena, di solito sono favorevolissima a dare pene molto basse però sono molto contraria a dare, in queste tipologie, la sospensione condizionale, perché penso che non sia positiva, perché non si può onestamente fare una prognosi che faccia ritenere che queste condotte non si ripeteranno, soprattutto quelli che hanno dato diverse generalità, voglio dire il principio è che venendo in un ordinamento giuridico straniero dovrebbero quanto meno portarsi dietro i documenti, cioè essere identificabili, a mio avviso questo è il minimo di collaborazione che un ordinamento deve chiedere, perché il fatto di non rendersi identificabili e magari anche di aggravare questa assenza di dati per l'identificazione con, al contrario, dati confusi che consistono in diverse dichiarazioni di identità è, a mio avviso, una rottura dei principi della convivenza sociale, evidenzia l'intenzione di sottrarsi ai controlli dell'ordinamento, è un sintomo di pericolosità e non consiglia la sospensione condizionale della pena; piuttosto consiglia pene brevi da scontare e poi dopo vedere, dopo si ricomincia un altro periodo, secondo me le detenzioni dovrebbero avere un fine sanzionatorio deterrente e quindi aprire una possibilità diversa in seguito (G - I).

Si cerca in ogni modo di far assaggiare il carcere, soprattutto a certi arrestati, o comunque di levarli per un certo periodo dalla circolazione, anche, eventualmente, accettando patteggiamenti molto “bassi” che però escludano la concessione dei benefici di legge

recentemente mi è capitato, di soggetti che hanno talmente tanti di quei precedenti che non possono sperare niente, il fatto appare tutto sommato non particolarmente grave allora si concorda con il P.M., anche se delle volte alcuni P.M. sono molto rigidi, una pena molto bassa ed in genere noi la diamo in questi casi, cioè quando un soggetto sta dentro, e sicuramente se la farà tutta addirittura prima che la sentenza passi in giudicato, anche in caso di patteggiamento, allora il giudice la dà la pena bassa, perché dice: è brutto perché tu in realtà sconti la pena in custodia cautelare però non puoi avere niente di diverso, cioè hai diciotto precedenti magari il reato lo hai anche confessato, allora l'unica cosa che ti posso fare è darti effettivamente una pena molto bassa, allora in quel caso il difensore se riesce cerca di concordare una pena molto bassa.

Io non credo di aver mai rifiutato un patteggiamento perché secondo me la pena era un po' troppo bassa, cioè in quel caso lì, quando il soggetto rimane dentro, il mio ragionamento è: va bene la pena è bassa, te la fai in custodia cautelare, però intanto la sconti insomma; se invece la rifiuto: passa un altro giudice, non può più essere riproposto il patteggiamento, deve essere fatto il processo e via dicendo...nel frattempo è possibile che qualcuno lo metta fuori, perché poi non è che possa stare in custodia cautelare per dei mesi (G - V).

Del resto, le parti, così come sono in grado di calcolare in anticipo i risultati che, caso per caso, è possibile eventualmente ottenere patteggiando, sono in grado, proprio perché partecipano del medesimo sapere pratico cui fa riferimento l'organo giudicante, di intuire anche quale sarà la disponibilità del giudice a concedere una sospensione condizionale e, dunque, regolarsi di conseguenza, magari anche per liberarsi di un certo giudice, come suggeriva un difensore

direi che, a parte il controllo sulla correttezza del computo che s'impone comunque, su un discorso di adeguatezza della pena per quella che è la mia esperienza non ho mai avuto problemi sotto questo profilo, un po' perché abbiamo dei P.M. che ovviamente hanno molta esperienza e molta competenza sotto questo profilo, ritengo anche che i difensori conoscendo anche la giurisprudenza del tribunale di (...) si adeguano un po' a quelle che sono le indicazioni.

Qualche problema ci può essere sul discorso della sospensione condizionale della pena, di solito però, siccome questa fase segue l'eventuale applicazione di una misura cautelare, in quel provvedimento che o accoglie o rigetta la richiesta di misura cautelare già il giudice anticipa in un certo modo le sue valutazioni, quindi può capitare ad esempio che venga rimesso in libertà un soggetto perché può avvalersi del beneficio della sospensione condizionale della pena, come è previsto espressamente dalla legge.

Laddove c'è già quest'anticipazione le parti sanno già di potersi sbilanciare in un modo piuttosto che in un altro, viceversa se viene applicata una misura cautelare, anche a fronte di una incensuratezza formale dell'imputato, ma il giudice si è già pronunciato nel senso di dire: il fatto è di particolare gravità, per esempio nel caso degli stupefacenti non può rientrare in un'ipotesi di quinto comma dell'ART. 73 - che è quello che in teoria consentirebbe la sospensione condizionale della pena - anche questo è un imput che viene dato alle parti che poi ne fanno ovviamente uso.

A me non è mai capitato, però a volte capita di rigettare un patteggiamento non tanto per la quantificazione quanto per un discorso di sospensione condizionale della pena.

Quello che ho già detto a proposito delle misure cautelari quindi: la presenza di precedenti con alias o comunque di reiterazione nell'arco di un periodo molto breve, sono tutti elementi che entrano in gioco anche per la valutazione del beneficio, quindi è quello che ovviamente pesa in questo tipo di decisioni, soprattutto nel caso di soggetti extracomunitari, laddove c'è questo meccanismo di dare alias di volta in volta diversi in modo da poter ovviare a questo problema, che però fortunatamente con i mezzi adesso a disposizione riusciamo a superarlo (G - II).

Altre volte, però, l'orientamento del giudice è meno inteso ad imporre la propria volontà anche a discapito dell'accordo delle parti

innanzitutto stabilire cosa s'intende con giudizio sull'equità della pena, il problema non va posto in questi termini, cioè io per quel tipo di fatto magari riterrei equo sei mesi di reclusione, per intenderci, come risultato finale, operata già la riduzione per il patteggiamento, se mi chiedono cinque mesi non mi sto a formalizzare, nel senso che credo che il giudizio di congruità dev'essere un giudizio dato in termini ampi, cioè di non scandalo in qualche modo, cioè di non totale incongruità della pena, ma non posso pretendere che la mia valutazione debba coincidere con quella delle parti, quindi una tolleranza ci deve essere.

Questo come primo punto, e questo riguarda sia la pena che la sospensione condizionale della pena, anche se, mentre sulla pena la cosa sembra evidente, sulla sospensione condizionale potrebbe sembrare meno evidente nel senso che uno dice: ma quella o si dà o non si dà; però è anche vero che ci sono situazioni poi al limite, adesso io qui lo dico ma può sembrare un po' strano, insomma quello che voglio dire è che il mio intervento è un intervento che non vuole sostituirsi a quello che è l'accordo fra le parti, ma semplicemente valutare se è assolutamente inaccettabile.

Se è inaccettabile lo rifiuto, se invece è accettabile secondo i principi, le prassi normali, lo accetto anche se al limite è un po' diverso da quella che sarebbe stata la mia decisione, qualora non avessero chiesto il patteggiamento.

Per quello che riguarda la sospensione condizionale poi qui si tratta di vedere, perché poi ognuno ha le sue idee c'è chi la applica in maniera più ampia c'è chi la applica in maniera più restrittiva e così via...(G - III)

In questo caso, a differenza che nei precedenti, il giudizio di “congruità” è inteso come una valutazione sull'accettabilità dell'accordo anche aldilà delle specifiche convinzioni del giudice e, dunque, l'intervento dell'organo giudicante lascia notevoli spazi alle trattative delle parti.

Ad ogni modo traspare chiaramente quale importanza abbia, per una corretta impostazione delle trattative, la specifica conoscenza dell'orientamento del giudice che ci si trova innanzi: delle volte è possibile trattare con la ragionevole tranquillità che l'accordo raggiunto non verrà cassato dal giudice, altre volte si potrà trattare con la precisa speranza che quell'accordo venga rifiutato costringendo il giudice a rimettere la questione ad un altro magistrato, altre ancora, infine, sarà meglio rinunziare ad ogni tentativo di patteggiamento e scegliere la strada del rito abbreviato.

6.7.2: Rito abbreviato

La scelta del giudizio abbreviato è ormai rimessa all'insindacabile volontà della difesa, la quale opta per questo rito quando non ha tendenzialmente nulla da ottenere dal patteggiamento e, dunque, risulta tutto sommato preferibile assumersi il rischio di una pena un po' più severa, piuttosto che avere una pronunzia destinata a diventare definitiva in tempi rapidissimi.

La strategia, già segnalata dalle considerazioni dei difensori, è talmente ovvia che appare perfettamente chiara anche ai un giudici

di norma, l'abbreviato viene richiesto quando il soggetto ha applicata una misura, sta in carcere e quindi la possibilità che rimanga in carcere in caso di condanna è molto alta.

A quel punto li all'imputato...alla difesa, perché sono valutazioni di carattere tecnico che fa l'avvocato, non conviene chiedere il patteggiamento, perché la sentenza di applicazione pena può essere solo oggetto di ricorso per cassazione, altrimenti passa in giudicato, allora gli conviene chiedere l'abbreviato, anche se è chiaro che non indicando una pena il giudice gliela può dare anche più alta di quella che avrebbe potuto concordare, però conserva la possibilità dell'appello ed in appello la prima cosa che si fa si abbassano le pene, perché altrimenti non si sa cosa stiano lì a fare i nostri colleghi d'appello.

In genere se viene fatta una richiesta di abbreviato è con quello scopo lì: perché il soggetto sta dentro, non può avere benefici, è molto probabile che anche un tribunale delle libertà lo lasci dentro...allora cosa vado a chiedere il patteggiamento che in poco tempo poi la pena mi passa in giudicato e poi me la devo scontare in definitiva, allora faccio un abbreviato e vado in appello, intanto passa del tempo magari riesco a trovare qualcuno dove fare i domiciliari, quindi ci può essere una modifica della custodia, in genere l'intenzione è quella (G - V).

Consci delle ragioni che muovono un difensore ad optare per un rito abbreviato - che, a fronte di un automatico sconto di pena, lascia comunque aperta la vicenda ed in ogni caso può implicare, anche aldilà della proposizione di un appello, una spendita ulteriore di risorse processuali - alcuni giudici, inoltre, adottano una vera e propria strategia persuasoria nel tentativo di giungere all'immediata definizione del caso attraverso un patteggiamento. Strategia che evidenzia ancora una volta quanto forte sia ormai la spinta strutturale ad una maggiore efficienza ed al massimo risparmio di risorse

Per quello che riguarda il rapporto patteggiamento giudizio abbreviato diciamo che c'è un certo atteggiamento dei giudici diretto a privilegiare e premiare il patteggiamento, perché questo in qualche modo estingue il processo, tranne che per questa strana cosa del ricorso per cassazione, che non si capisce bene perché l'abbiano...o meglio si capisce: per favorire la categoria degli avvocati (59)...c'è questa cosa che è molto americana: io ti do una pena molto minore di quella che ti spetterebbe però scappiamo, non parliamo più di questa cosa e affrontiamo gli altri processi che ci sono.

Per cui per chi sceglie il patteggiamento viene ritenuta congrua anche una pena non troppo elevata.

Diverso è il caso dell'abbreviato perché a questo punto tu hai uno sconto di pena assicurato anche nella misura ed hai anche la possibilità di impiegare i diversi gradi di giudizio, anche se il caso è clamorosamente evidente...si parla di casi di flagranza o di ammissione di colpevolezza, per cui non si capisce per quale motivo si debba continuare ad occuparsi di questa vicenda.

In questi casi sicuramente nonostante ci sia la riduzione di un terzo della pena, l'orientamento è quello di partire dalla pena più alta in modo da, non dico da penalizzare, ma da evitare che si speculi su un meccanismo alternativo fra patteggiamento e G.A., il quale consente poi di proseguire con altri gradi di giurisdizione.

È chiaro che i quattro mesi di applicazione pena ex ART. 444 C.P.P. diventano sei mesi con il rito abbreviato, questo per valutazioni inespresse ed inesprimibili da parte di un giudice, perché dire: guarda che se non patteggi e fai l'abbreviato poi ti do di più, questo non è un discorso che sia accettabile...però poi effettivamente...insomma...anche psicologicamente, perché siamo uomini, è ovvio che questa circostanza pesi (G - IV).

Certo, nonostante non chiuda immediatamente la vicenda, la scelta del rito abbreviato resta un male minore per le difese, nel senso che, comunque, è una sostanziale deposizione delle armi, come sottolinea un avvocato, spiegandoci quale sia la differenza fra un rito dibattimentale ordinario ed un rito abbreviato

Il discrimine è il doversi difendere sul serio, nel senso che abbreviato, con o senza condizione, di fatto hai calato le braghe! (A - V).

In questi casi, infatti, si accetta che per decidere la vicenda il giudice utilizzi gli atti compiuti dalla polizia giudiziaria, dando luogo ad un giudizio fondato su di un quadro probatorio costituito - oltre che dalle audizioni di agente ed arrestato effettuate in occasione della convalida - da “dichiarazioni spontanee” rilasciate dall'arrestato nelle stanze del commissariato o della questura, ovvero - nelle ipotesi migliori, quando gli elementi a disposizione sono maggiori - da “sommarie informazioni” raccolte in strada dagli agenti da gente che non testimonierà mai innanzi al giudice ciò che ha visto o sentito

Il rito abbreviato è l'espressione dell'alternativa inquisitoria del nostro processo penale, concettualmente dovrebbe essere altrettanto contestabile se viviamo in un mondo che si fissa come principio l'avere un processo in cui la prova si forma davanti a chi deve valutarla, però si vive in un mondo reale, il premio sulla pena fa molto comodo...(A - V)

È pur vero però che, all'occasione, il fatto di doversi basare solo sui semplici atti d'indagine può essere un vantaggio per le difese e, dunque, una richiesta di rito abbreviato può servire ad inchiodare l'accusa sull'inadeguatezza degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero

Ecco, lì bisogna valutare caso per caso assolutamente, nel senso che se si ha la possibilità di visionare in modo minimo gli atti d'indagine può capitare di osservare che ci sono delle contraddizioni, o comunque delle lacune, che consigliano di accedere al rito abbreviato perché appunto il giudice deve decidere allo stato degli atti e se si tratta di atti favorevoli a noi conviene scegliere questa opzione (A - III).

Un abbreviato senza condizione che vincola il giudice a farlo può servirti al rovescio, nel senso che puoi decidere di farlo quando la prova ti manca, salvo che poi il giudice può sempre tentare d'ufficio d'integrarla (A - V).

Oltre al potere di integrare la prova attribuito al giudice è stata recentemente introdotta la possibilità per la difesa di chiedere un giudizio abbreviato cosiddetto “condizionato”, cioè di subordinare la richiesta di rito all'assunzione di nuovi elementi di prova.

Tuttavia, conformemente allo spirito inquisitorio che sottende i procedimenti speciali, nell'innovare la disciplina del giudizio abbreviato il legislatore ha previsto che la richiesta condizionata fosse sottoposta al vaglio del giudice, il quale ne avrebbe dovuto valutare la compatibilità con le esigenze di economia processuale. Il che vuol dire, in sostanza, valutare se le prove richieste facciano perdere del tempo inutilmente o meno

li il limite è quello della ragionevolezza, non è che si possano fare discorsi statistici, può anche darsi che qualcuno più facilmente ti possa ammettere delle prove rispetto a qualcun altro, poi conta che un abbreviato, anche in una situazione a prova persa, tu puoi avere un interesse a dimostrare qualcos'altro, anche per avere dei criteri per commisurare la pena, quindi l'oggetto della tua prova può essere quello che riguarda la possibilità di affermare come sussistente una circostanza attenuante, in un reato contro la persona magari il reato c'è stato, ma sai, dimostrare la provocazione può avere un qualche rilievo e visto che valgono queste, forse statisticamente attinenti alla realtà, ma di per sé odiose abitudini di valutare prima la categoria di appartenenza che non il tipo di reato, tante volte può essere utile dimostrare qualcosa che riguardi...non so...l'esercizio di attività di lavoro, una presenza regolare in Italia, o un programma terapeutico per un tossicodipendente o il tentare di risarcire il danno ed hai bisogno di un po' più di tempo per farlo (A - V)

Tuttavia, risulta difficile comprendere oltre quale soglia una richiesta di assunzione probatoria possa giudicarsi un inutile perdita di tempo e, peraltro, come sottolineano le parole di questi giudici, è tutto sommato difficile che le difese chiedano un rito abbreviato condizionato, soprattutto in simili procedimenti dove difficilmente si ritiene dubbia la prova dei fatti

Innanzitutto c'è da dire che il R.A. condizionato statisticamente nel direttissimo non è frequente, perché di solito sono situazioni in cui c'è abbastanza evidenza del fatto, gli avvocati diciamo così, un po' per senso di responsabilità, un po' perché avvertono che sarebbe respinta, la condizione la praticano molto raramente (Lenzi G).

Io posso dire di non aver mai visto in direttissima una richiesta di rito abbreviato condizionato, quando è richiesto è sempre “secco”. (G - V).

La scarsa incidenza di richieste di un rito abbreviato condizionato è del resto confermata anche dai processi da noi osservati, in cui, tranne in un caso, una simile richiesta non è stata mai avanzata, anche in presenza di vicende in cui c'era un certo interesse ad ascoltare le persone sulle cui dichiarazioni si basava tutta la prova dei fatti.

Nell'unico caso in cui la richiesta è stata avanzata, poi, il giudice ha drasticamente rigettato la proposta asserendo che, qualora la difesa fosse stata intenzionata a sentire un testimone, avrebbe potuto scegliere il percorso ordinario ed andare in dibattimento dove la prova dei fatti è un suo diritto (60).

Come dire: se si aspira ad uno sconto di pena, bisogna perlomeno accettare di ritenere provata la propria colpevolezza anche se sulla base di semplici atti di polizia ed in presenza di dubbi sulle effettive circostanze del fatto. In caso contrario si sappia che l'aspirazione a difendersi a tutto campo comporta il serio rischio di una pena ben più consistente.

Un vero e proprio giudizio sui fatti, con assunzione di prove ed audizione di testimoni, non segue dunque l'udienza di convalida. Effettuate le scelte di rito, se il giudice non deve applicare la sanzione richiesta dalle parti, invita queste alla conclusione e decide la vicenda.

In pratica il cuore di questi procedimenti è rappresentato dall'udienza di convalida (che è anche la fase cui viene dedicato più tempo dei circa quaranta minuti in cui tutta la faccenda viene conclusa) e gli unici elementi di prova sono costituiti dai verbali di arresto, con le eventuali sommarie informazioni raccolte dalla polizia giudiziaria, dall'audizione dell'agente che ha operato l'arresto e dell'arrestato (61).

L'atto principale, dunque, è la decisione circa lo status libertatis dell'individuo, con il quale - come hanno evidenziato più volte gli stessi intervistati - il giudice esprime da un lato una valutazione di gravità indiziaria e dall'altro un giudizio di pericolosità sul soggetto, che sono già un vero e proprio pre-giudizio. Difficile che il giudice torni, nel volgere di qualche minuto, su suoi passi.

Pertanto, nel momento della scelta del rito, la vicenda è già praticamente decisa, prima ancora che formalmente il giudizio vero e proprio si sia aperto. Una valutazione indiziaria e, soprattutto, un giudizio di pericolosità sono una prova dei fatti a tutti gli effetti e rappresentano la base da cui il nostro sistema costringe l'accusato a trattare, invertendo sostanzialmente l'onere della prova. Se il soggetto vorrà contrastare la pretesa punitiva fondata sui sospetti a suo carico, affronti il processo con il rischio di perdere gli immediati benefici cui potrebbe accedere.

Il livello d'inquinamento poliziesco-inquisitorio e lo svuotamento della funzione cognitiva del processo sono evidenti: in tali procedimenti il giudizio di pericolosità sociale arriva a fondare una vera e propria presunzione di colpevolezza in grado, peraltro, di colmare le, soventi enormi, lacune istruttorie, esso fornisce un valido quadro simbolico per mezzo del quale dare senso ai pochi elementi a disposizione e trasforma i provvedimenti adottati dal giudice in veri e propri atti di polizia, preordinati, più che alla sanzione di fatti accertati, alla tutela della collettività dagli individui ritenuti pericolosi.

Non è più l'accusa a dover dimostrare la fondatezza dei suoi sospetti attraverso un orale e pubblico contraddittorio, ma l'imputato a dover valutare l'opportunità di negoziare una immediata conclusione della vicenda a fronte di sostanziosi sconti di pena e, magari, anche del beneficio della sospensione condizionale, oppure affrontare le accuse in dibattimento, con tutti i rischi del caso. Chiaramente la scelta di un rito speciale è, per gli imputati dotati di minore potere contrattuale, quasi un percorso obbligato, cui si accede attraverso schemi tutto sommato già ben delineati nella prassi del tribunale. Due sono i principali modelli operativi a disposizione delle difese, per le quali, se si tratta di difendere il classico “autore tipo”, è meglio rifugiarsi nel rito abbreviato, anche accontentandosi eventualmente di una sanzione un po' più severa; mentre è possibile tentare la via del patteggiamento, sperando anche di poter ottenere una sospensione condizionale della pena e, dunque, di evitare il carcere al proprio assistito, solo allorché quest'ultimo possa esser fatto apparire un “autore eccezionale”.

Questi sono gli ambiti di manovra che il sistema lascia, in tali procedimenti, ai difensori e non vi è alcuno spazio in tale contesto per una difesa a tutto campo o per altre strategie difensive; a riguardo resta solo da capire come - qualora non si sia patteggiato e fermi gli sconti previsti - venga effettuata dal giudice la concretizzazione della pena e la scelta sui benefici di legge.

6.8: Il procedimento. La pena

L'ultima questione da affrontare riguarda, a questo punto, la concretizzazione della pena e l'eventuale concessione del beneficio della sospensione condizionale.

Il parametro in entrambi i casi è quello posto dall'art. 133 c.p., come segnalato, tipica espressione di quel sincretismo teorico che informò la codificazione fascista e che, tutt'ora, non smette di costringere gli organi giudicanti a dei veri e propri cortocircuiti logici, con dei risvolti di non poco conto sulla qualità del ragionamento giudiziario - esposto a delle insolubili aporie - e sulla stessa certezza del diritto.

La norma consta di due commi in cui sono elencate tutta una serie di circostanze (tanto oggettive: attinenti cioè al fatto di reato; che soggettive: relative alle caratteristiche del soggetto) in base alle quali il giudice è tenuto a stabilire la quantità di sanzione applicabile fra i - sovente ampi - limiti previsti in astratto dal legislatore.

È chiaro che in questi casi, trattandosi di parametri che spaziano dalla gravità oggettiva del fatto (entità del danno, grado di colpevolezza, ecc.) fino alla cosiddetta “capacità a delinquere” del reo (precedenti penali, condizioni di vita, carattere, ecc.), la scelta delle circostanze cui dare maggiore preminenza sarà dettata dalla finalizzazione attribuita dal singolo giudice alla sanzione, dalla personale filosofia della pena del giudice.

Mettendo da parte le considerazioni manualistiche o dottrinarie, che lasciano il tempo che trovano quando si scontrano con la prassi, sembra evidente che, di fronte all'immensa varietà di parametri cui poter fare riferimento, la scelta sarà rimessa alla sensibilità del singolo

La diversa concezione del diritto si ripercuote poi anche nel trattamento sanzionatorio, se lei entra in tribunale si accorge che...insomma le pene non sono le stesse per gli stessi casi, cioè non c'è uniformità di trattamento e a volte ci sono davvero delle situazioni macroscopiche: dal caso, che venne pubblicato sul giornale, di due sentenze di condanna a cinque anni e quattro mesi in rito abbreviato, per due extracomunitari che avevano un quantitativo di eroina minimo, eravamo al zero virgola zero e rotti; a situazioni analoghe davanti ad altro giudice che sono state punite con otto mesi. Ha capito, quindi dipende...(A - II)

Se un fatto oggettivamente identico può essere stato valutato in maniera totalmente diversa da due giudici, senza che nessuno dei due sia incorso in una applicazione illegittima della norma, è appunto a causa della elasticità dei parametri posti dall'art. 133 c.p., che attribuiscono all'organo giudicante uno sconfinato potere dispositivo.

Come sottolinea un altro avvocato, di fronte a questa norma ci si può aspettare tutto ed il contrario di tutto

(l'art. 133 c.p.) non dà confini: può essere applicato in un verso o nell'altro, perché ha aspetti favorevoli al difensore ed aspetti meno favorevoli...(A - V).

Ai nostri fini, dunque, è centrale capire come vengano considerati i parametri posti dall'art. 133 c.p. e, soprattutto, se siano gli aspetti oggettivi a rilevare o, viceversa, ancora una volta gli aspetti soggettivi. Se, in sostanza, la sanzione venga proporzionata alla maggiore o minore riprovevolezza del fatto, o alla maggiore o minore pericolosità dell'autore; ovvero non possano entrare in gioco ulteriori elementi come il comportamento processuale, o la valutazione delle cosiddette circostanze attenuanti generiche.

A questo proposito, pur nella varietà di posizioni ed accenti, possiamo notare come pubblici ministeri e giudici, tendano a propendere per una valutazione delle caratteristiche soggettive del reo

si prende in considerazione in realtà la persona in concreto, più che questi riferimenti all'articolo 133, si prende in considerazione sempre quell'aspetto dei precedenti di polizia o precedenti specifici e il comportamento tenuto dalla persona nel caso specifico, quindi anche l'ammissione della responsabilità o la correttezza processuale.

I parametri sono quelli insomma (PM - I).

Comunque si, la gravità del fatto, poi naturalmente anche le condizioni di vita, o comunque di vita anteatta della persona, se ci sono gli elementi per conoscerla, perché se siamo di fronte ad un soggetto sconosciuto, sostanzialmente con generalità sconosciute, che ha fatto di tutto per non farle conoscere, che ha fornito una decina di alias eccetera, gli elementi sono più negativi che positivi, per disegnare quella che può essere la richiesta di pena, che quindi in molti casi si limita...si ferma sul dato obbiettivo del fatto (Plazzi PM).

(...)

Si...anche qualche considerazione va fatta su quello che è l'atteggiamento processuale, quindi le risposte date in sede di udienza di convalida, l'atteggiamento in alcuni casi assolutamente indifferente a quello che sta accadendo, addirittura irriverente nei confronti del giudice, del P.M., delle forze di polizia...mi condiziona abbastanza, devo dire, questo tipo di atteggiamento (PM - III).

Io tendenzialmente sono portato a prendere in considerazione gli elementi per così dire soggettivi, quelli che evidenziano la capacità a delinquere del colpevole, quindi sicuramente le condizioni di vita per tutto quello che ho detto prima, visto il tipo di imputati che mi capitano di fronte; dalla condotta del reato, soprattutto prendo in considerazione la condotta processuale perché voglio vedere esattamente come una persona, che è arrestata che ha avuto a che fare con la giustizia, può rapportarsi con la giustizia stessa, cioè il Dott. ... secondo me ha perfettamente ragione quando dice che il processo penale si basa sulla responsabilità, allora mi piace vedere, se è nelle mie possibilità, qual è il grado di responsabilizzazione che è stato raggiunto da un determinato soggetto, anche in quelle condizioni estreme come è un processo penale.

Allora a me piace mettere in evidenza la condotta processuale degli arrestati che collaborano con il giudice, se io ti prendo dentro una tabaccheria con due borsoni di sigarette alle quattro di notte dopo che tu hai infranto la vetrina, non puoi venire a dire che è stato un errore giudiziale.

Questa mi piace, cioè l'idea di porsi in modo onesto nei confronti del giudice, questo mi dà, non dico una buona immagine del reo, perché se sei li davanti qualcosa hai fatto, però mi induce a ritenere che magari la pena da applicare non debba essere severa come in altri casi, quindi posso utilizzare una pena base che è minore rispetto a quella che avrei scelto nel caso in cui questo tale magari abbia voluto negare l'evidenza o cose di questo genere (PM - IV).

La pericolosità desumibile dai precedenti, in generale la recidiva è un qualche cosa che viene trascurato ma secondo me è importante...

(...)

recidiva in senso atecnico, anche se non è contestata, però valutare un attimo questa persona...

(...)

Mah sa il discorso della pena è un discorso complicatissimo, qui poi non entriamo, però è un problema di segnale e di equità: il segnale deve essere che la recidiva viene punita, altrimenti si svuota il significato dell'effetto deterrente della pena, però, ripeto, questo è tutto un altro discorso.

Bisogna distinguere fra la pena come momento applicativo e l'esecuzione della pena, ecco, l'esecuzione della pena ha fortunatamente tutta una serie di istituti che consentono un programma, diciamo, per la persona; dobbiamo allora distinguere pene troppo basse talora non servono neppure per responsabilizzare la persona ad un programma di recupero, perché la prima volta una pena bassa può avere un significato, ma se questo cade ancora, diventa recidivo, secondo me bisogna fargli capire che una pena più ampia è più utile per lui, perché il processo di recupero può essere fatto in sede di esecuzione attraverso l'affidamento e tutti i benefici che ci sono collegati, però questo è un discorso complesso sa...(G - III)

A parte il riferimento, prevalente fra i pubblici ministeri, al comportamento processuale del reo - che esplicita una mai sopita cultura inquisitoria volta a stimolare e premiare l'auto accusa - è chiara l'intonazione special-preventiva attribuita alla sanzione, poco importa per adesso se intesa alla special prevenzione positiva - cui sembra far riferimento l'ultimo brano, in cui è chiara la classica concezione della poena medicinalis - o negativa. Più che sul fatto di reato l'attenzione si concentra sull'autore e la pena viene modulata a seconda del “tipo” che si ritiene di avere di fronte. Ma è evidente che, mai come in questo caso, le generalizzazioni sono impossibili.

Il brano successivo già evidenzia, per esempio, come ci sia chi ritiene che il parametro dell'art. 133 c.p. in fondo non dia nessuno spazio al giudice, il quale invece si orienta secondo le rigide guidelines del foro in cui opera (ma è chiaro come nei casi citati in precedenza dal nostro avvocato tali presunte linee guida non siano valse a nulla)

Questo è un problema...insomma su questi argomenti fanno poi le lezioni agli uditori...io adesso non voglio sconvolgerla ma di fatto ci sono le pene tariffa, non è bellissimo dirlo, ma mi ricordo che quando entrai, diciotto anni fa, la prima cosa che mi disse il mio affidatario era proprio: insomma non stiamo qui tanto a discutere, per il furto in appartamento si dà tanto, per il furto sull'autobus tanto, per l'hascish fino a tot così...cioè purtroppo ormai è così, quella è una norma che sembrerebbe che dà al giudice chi sa quale discrezionalità, è vero certe volte ci consente i dare due mesi in più, due mesi in meno, nel caso in cui...per esempio nei casi di scarso principio attivo, quindi anche se si tratta di eroina la pena la tengo particolarmente bassa, oppure tengo in considerazione il fatto che sei venuto in giudizio, hai ammesso l'addebito tranquillamente, hai dato le tue generalità, ti sei comportato bene, non hai opposto nessun tipo, non tanto di resistenza perché altrimenti sarebbe un altro reato, comunque insomma ti sei fatto perquisire tranquillamente eccetera, lo valuto questo comportamento per tenerti la pena un po' più bassa o viceversa alzarla.

Però insomma le pene sono poi tariffe.

(...)

Le posso dire che qualche volta mi è capitato in collegio, dove appunto si discute anche sull'entità della pena, di essere in minoranza perché i miei colleghi valutavano queste circostanze in maniera negativa dicendo: no teniamo la pena più alta questo è un “delinquentone”.

Io, ripeto, se devo basarmi solo sul soggetto questa è una valutazione che non faccio, se il fatto è molto grave allora...però perché il fatto è molto grave non perché il soggetto ha cento precedenti, è molto difficile che alzi la pena per questo motivo, è chiaro che non gli do le generiche, i benefici, però poi non è che la pena diventa anche più grave.

Questa è una valutazione mia e mi rendo conto che molto spesso, appunto quando mi trovo nei collegi in cui si discute si dibatte, mi trovo in minoranza, quindi evidentemente la sensibilità di altri è diversa.

Io guardo al limite le circostanze che consentono di tenere la pena più bassa, quindi favorevoli all'imputato (G - V).

In fondo però questo brano, pur nella sua originalità, con il suo accenno finale non fa che confermarci come una buona maggioranza di giudici tenda a rimarcare le condizioni soggettive del reo e, dunque, ad offrire una visione special preventiva della sanzione. Le guidelines, infatti, rappresentano dei modelli operativi fondati sulla base di un certo sapere pratico che consente ai giudici di inquadrare con una certa facilità il “tipo” di imputato calibrando di conseguenza la sanzione. Esse, però, funzionano - soprattutto quando l'organo giudicante è collegiale - nei limiti in cui sono condivise e può anche darsi il caso, come suggeriva il nostro giudice, di un conflitto tra visioni differenti della giustizia.

Le impressioni riportate dai difensori confermano, in ogni caso, la prevalente intonazione special-preventiva che è data alla sanzione

Allora...il criterio è la gravità del fatto, però è chiaro che non è solo la gravità del fatto, perché i parametri del 133 sono di tipo sia soggettivo che oggettivo.

È chiaro che, ma questo è normale, incide l'incensuratezza, l'assenza o la presenza di precedenti di polizia o di procedimenti penali in corso, quanto sono datati eventuali precedenti e incidono sicuramente le condizioni di vita individuale e sociale; per cui è chiaro che c'è un quantum di pena aggiuntivo rispetto a situazioni...voglio dire le situazioni di disagio molto spesso sono penalizzate, perché l'essere clandestino, l'essere privo di documenti, l'essere senza fissa dimora, solo nella sensibilità di alcuni è considerato come un elemento di cui tener conto perché comunque il fatto illecito può essere collegato ad una situazione di disagio, magari non voluta; mentre per altri diventa un elemento aggiuntivo che va ad unirsi alla valutazione di gravità del fatto (A - II).

Il brano in questione, tuttavia, è rilevante sopratutto per un ulteriore spunto che ci offre.

Nel fare riferimento alle condizioni di disagio sociale, infatti, ci segnala uno dei fattori che, più di altri, possono portare a valutazioni diametralmente opposte della stessa circostanza o caratteristica personale.

Come chiarisce il nostro difensore, situazioni che, nella sensibilità di alcuni possono portare ad una diminuzione di pena, solitamente connessa ad un'applicazione delle circostanze attenuanti generiche o comunque legata ad una positiva valutazione dei motivi a delinquere, nella sensibilità di altri possono portare a sostanziali aggravi della sanzione.

Condizioni sociali più difficili, da un certo punto di vista e secondo una logica special preventiva, sono stimoli al delitto e, dunque, sintomi di una maggiore pericolosità sociale. Inversamente, secondo schemi retributivi, rendono meno severo il rimprovero che è possibile muovere al soggetto e, dunque, minore l'esigenza di sanzionare il comportamento illecito.

Il nostro sistema dà rilevanza ad entrambe le prospettive e ciò si riflette nelle oscillazioni vertiginose che subisce sul punto la stessa giurisprudenza di merito: ora attenta a non colpevolizzare della sua situazione di disagio il soggetto, ora a tutelare la collettività da soggetti comunque ritenuti portatori di un elevato potenziale di pericolosità

È quello che io individuo come condizioni difficili di vita, a mio avviso sono condizioni che consentono, davanti ad un fatto normale, diciamo il solito spaccio non connotato né da particolari modalità, né da particolare gravità, di concedere le attenuanti generiche, quindi non so per l'hashish da 6 mesi si va a 4. Questo è consentito perché le condizioni di vita sono difficili. Però è consentito come dicevo in una occasione, non sempre! Perché non si può accettare dal punto di vista sociale che questa attenuazione valga in eterno, perché ad un certo punto la pena dovrebbe essere applicata, dovrebbe condurre ad una modifica dell'atteggiamento di vita e a delle scelte.

Il nostro problema è proprio di evitare la reiterazione di condotte criminose e questo aldilà della connotazione etica, non so se mi spiego, cioè se un soggetto, che eticamente mi può anche coinvolgere, per il quale però ritengo ci sia un elevato pericolo di reiterazione, io devo prendere quelle misure!

Mentre magari un soggetto assolutamente spregevole che però per il suo quadro complessivo di vita ha una possibilità di vita diversa mi consente di attenuare...(G - I).

Si, però, paradossalmente, quegli indici di determinazione della pena che dovrebbero operare in senso favorevole rispetto al reo...comunque la condizione socialmente disagiata o economicamente disagiata, familiarmente disagiata, dovrebbe corrispondere ad una mitigazione del trattamento sanzionatorio, perché, come dire, sotto l'aspetto di prevenzione speciale il recupero da fare è meno grave di chi può, ad esempio, versare in una diversa situazione socio economica.

Però, paradossalmente invece viene valutato contro il reo. (A - III).

Chiaramente questi rilievi riguardano soprattutto le tipologie d'autore che più frequentemente transitano nei procedimenti da noi osservati: immigrati extracomunitari e tossicodipendenti.

Entrambe le categorie, infatti, versano in pesantissime condizioni di disagio ed emarginazione sociale ed è sulla constatazione di tale dato di fatto che generalmente si fonda l'immagine negativa che si portano dietro in tribunale. Queste tipologie d'autore sono inevitabilmente considerate tanto più pericolose, quanto più miserabili ed emarginate.

Nel momento della concretizzazione della pena, tuttavia, queste stesse circostanze dovrebbero valere, in un ottica retributiva, esattamente in senso inverso, come rammenta un giudice citando una vicenda che lo ha mosso ad agire in tal senso

una volta mi ricordo che un extracomunitario, che era entrato forse con il permesso, mi dichiarò guardi io ho spacciato perché, lavoravo, adesso non lavoro più e quindi lo ho fatto per guadagnare qualcosa, quest'atteggiamento è stato disarmante per me e gli ho dato la sospensione condizionale della pena perché era una persona che aveva un minimo di identificazione e mi sembrava un atteggiamento di una persona non adusa al crimine e poi la dichiarazione “lo ho fatto perché mi dovevo comprare qualcosa da mangiare” insomma...magari non era vera, però...(G - I).

Questo monito alla comprensione resta tuttavia isolato e, immediatamente dopo, lo stesso giudice sottolinea come non sia possibile giustificare in eterno chi, pur versando in una situazione di emarginazione, non tenta strade diverse per sopravvivere. Alla lunga è necessario responsabilizzare il soggetto del persistere della sua situazione di disagio

Davanti però alla ripetizione è evidente che il problema diventa di trovare veramente un altro metodo per vivere, perché non possiamo accettare che questo sia una scriminante eterna, cioè può esserlo in un momento di difficoltà, ma non può essere...cioè la condizione di vita difficile che io riconosco a queste persone di solito come motivo di concessione delle attenuanti generiche, però vale la prima volta dopo non vale più (G - I).

Tanto i tossicodipendenti che gli immigrati extracomunitari non in regola con il permesso di soggiorno, non hanno alcuna speranza di poter sensibilizzare il giudice per mezzo del riferimento alle loro condizioni sociali disagiate. Anzi, un simile riferimento può risultare addirittura pericoloso per una corretta strategia difensiva

Le condizioni di vita disagiate diventano per gli extracomunitari un elemento negativo, non c'è dubbio!

Questa è la realtà quotidiana, però è mio dovere...perché credo poi in quello che dico, perché, certo, ci sarà colui che viene qui per intraprendere un'attività di spaccio, ci sarà però anche colui che viene qui e vive una condizione di vita disperata e disagiata, è così; senza un casa, senza un lavoro...

Per cui, secondo me, visto che peraltro il nostro codice fa riferimento anche a queste condizioni, il giudice a mio avviso deve anche temerne conto in positivo...(A - IV)

L'immigrato secondo me è la categoria più sfortunata, nel senso che quasi mai gli viene riconosciuta una seconda possibilità...

Nel senso che purtroppo non hanno la possibilità di accedere agli strumenti di recupero, perché essendo clandestini di fatto non possono essere aiutati da nessuno, perché nessuno è legittimato a prestare qualche servizio nel loro interesse, salvo il rispetto dei diritti dell'uomo.

Per cui è sicuramente la categoria che sin dal primo arresto sconta una condizione di disagio maggiore degli altri (A - III).

Tante volte ho ben poco da sottolineare, dovrei sottolineare i motivi a delinquere, ma possono essere un boomerang.

Perché tanto le situazioni reali tante volte sono sottese a quelle formali e facilmente intuibili da chiunque, non è facile dire, quando a tutti sembra chiaro di avere davanti uno spacciatore professionista, che è stato portato al delitto da situazioni di indigenza e povertà.

Può agire in senso contrario, anche lì io posso ben dire, quando parlo della personalità di un extracomunitario, che in fondo anche se non lavora in modo regolare potrebbe lavorare in nero e che quindi è una persona in fondo pericolosa come chiunque altro, però poi lo stesso discorso loro me lo potrebbero fare quando si giudica il suo reato: allora avvocato ci sono poi possibilità alternative rispetto allo spaccio di stupefacenti per provvedere alle esigenze ed alle necessità della vita? (A - V)

Ma la tossicodipendenza per un verso è un fattore che deve suscitare interesse per il tentativo di recupero, però dal punto di vista della pericolosità è un aggravante, perché il tossicodipendente è più pericoloso di una persona che non è tossicodipendente...(G - III)

L'ambigua rilevanza che assume il disagio sociale nell'esercizio del potere discrezionale attribuito al giudice per la concretizzazione della pena è il sintomo di una più generale tendenza che si registra nell'opinione pubblica: un mutamento di sensibilità rispetto al mondo della miseria e dell'emarginazione. Traspare chiaramente, infatti, l'esigenza di restaurare il principio della responsabilità del singolo per la propria condizione disagiata, utilizzando la sanzione penale quale strumento disciplinare atto a costringere l'individuo a cambiare stile di vita (o, perlomeno, a neutralizzarne il potenziale di pericolosità). Esigenza, questa, tipica di quella concezione stigmatizzante della povertà che torna ormai a diffondersi anche in Italia

Per anni, infatti, la particolare situazione sociale del soggetto è valsa presso la giurisprudenza di merito a fondare una prassi sostanzialmente indulgenziale: nei casi di soggetti particolarmente “ai margini”, l'applicazione dei minimi di pena e la concessione delle attenuanti generiche erano, infatti, un'attività sostanzialmente automatica. Tale prassi era espressione di una certa sensibilità parecchio diffusa socialmente cui ripugnava di responsabilizzare ulteriormente il soggetto a causa della sua situazione economicamente disagiata. Nel tempo, soprattutto con l'ultimo decennio del secolo XX, si è avuto un ribaltamento e, come abbiamo visto, le figure sociali che popolano i margini delle nostre metropoli, subiscono ormai tutto il peso di un'immagine criminalizzante. Essi non suscitano più alcuna compassione per la loro condizione, bensì paura e odio; non sono più individui da aiutare, sui cui sbagli indulgere, bensì soggetti pericolosi da neutralizzare. Nel sentire comune, ormai, la povertà ed il disagio, più che da complessi fattori strutturali al di fuori dalla portata dell'individuo, sono causati da scelte di vita ben precise, dall'abbandono morale o da una qualche forma di deficienza individuale cui sopperire con l'intervento disciplinare.

L'inversione, già evidente nei brani riportati allorché fanno riferimento a necessarie “modifiche dell'atteggiamento di vita” da indurre attraverso la sanzione penale, si fa esplicita allorché gli intervistati accennano ai parametri che muovono (o dovrebbero muovere) il giudice nel concedere la sospensione condizionale. L'istituto, infatti, che ha conosciuto a lungo un'applicazione pressoché automatica in consonanza con l'accennata prassi indulgenziale, subisce oggi una revisione restrittiva dei suoi parametri applicativi. La restrizione, inutile dirlo, opera allorché si ritiene di avere di fronte un soggetto particolarmente disagiato, che non ha altre strategie di sopravvivenza se non la commissione di illeciti

guardi la sospensione condizionale della pena è una cosa che diventa sempre più difficile ottenere, soprattutto rispetto a questi soggetti privi di certa identità...

(...)

Ma una volta era più facile ottenere la sospensione condizionale della pena, rispetto a soggetti incensurati era praticamente sempre data, adesso invece anche rispetto a soggetti incensurati è più difficile.

È difficile perché i giudici ritengono che le loro condizioni soggettive non gli consentono altro che vivere dei proventi dei reati, una prognosi favorevole non è possibile e quindi la sospensione condizionale, che implica che il soggetto si asterrà in futuro dal commettere altri reati...(A - IV)

Io ritengo che nei confronti di soggetti con queste caratteristiche, la sospensione condizionale della pena, che non è un diritto è diventata di fatto un diritto, una consuetudine, ma per una forma di distorsione del sistema giudiziario, la sospensione condizionale della pena dovrebbe sempre presupporre una valutazione in ordine alla possibilità, se non alla certezza, che il soggetto in futuro si asterrà dal commettere reati.

È evidente che la sospensione condizionale della pena può e deve essere concessa nel caso del delinquente primario, con un'attività lavorativa, del giovane incensurato, dello studente che ha commesso una fesseria, di colui che ha un tessuto diciamo così sociale che gli può consentire di... purtroppo nei confronti di questi soggetti in assenza di alternative valide, che oggi non esistono, cosa altro si può dire per giustificare una sospensione condizionale della pena: o una finzione, oppure una affermazione chiara e netta che se vivono di spaccio, per ovvi motivi, riprenderanno a spacciare per sopravvivere.

Fanno alcuni mesi e poi riprenderanno a fare le loro attività, però diciamo che quel debito, piccolo, è stato pagato, questo è il mio personale punto di vista (PM - V).

La mia opinione personale, ma che diverge da quella degli altri, è che c'è stata un'applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena, anche da parte mia probabilmente, un po' lassista...Ci sono opinioni diverse, la mia opinione è cambiata nel senso che...così...riflettendo un po' sulla sospensione condizionale devo dire che in realtà i presupposti sono tanti, la semplice incensuratezza in realtà non sarebbe un presupposto sufficiente, perché ci vuole il giudizio di...cioè la cosiddetta presunzione che si asterrà dal commettere ulteriori reati ed è una presunzione che dev'essere positiva, suffragata da degli elementi concreti e positivi....È sempre un problema di radicamento secondo me, e di responsabilizzazione, quindi un soggetto radicato che ha degli interessi stabili, di lavoro, familiari, di reddito diciamo è un soggetto che può garantire in qualche modo il fatto che si asterrà dal commettere altri reati; ma una persona in situazione irregolare, addirittura sedicente, che non ha un lavoro, non ha interessi familiari, difficilmente può offrire delle garanzie di questo tipo, è questo il problema (G - III).

L'inversione nella prassi applicativa della sospensione condizionale rispetto al tipico delinquente marginale, di piccolo cabotaggio, è, dunque, uno dei più eloquenti segni dell'avvio anche in Italia di un processo di criminalizzazione della miseria (62).

Il rifiuto della concessione del beneficio anche in assenza di precedenti penali, sulla sola base di una considerazione relativa alle condizioni disagiate del reo, significa che la sensibilità della magistratura di merito rispetto all'universo della marginalità sociale è radicalmente mutata, è l'inequivocabile segno che in Italia la soglia di tolleranza rispetto alle forme di delinquenza riferibili all'universo della marginalità sociale è vistosamente arretrata. Il beneficio è ormai riservato esclusivamente a coloro che sono considerabili “autori eccezionali”, soggetti che, in linea di massima, non appaiono essere costretti a strategie d'esistenza basate sulla commissione d'illeciti perché comunque caratterizzati da un minimo d'integrazione o, comunque, provenienti da un buon ambiente sociale.

Tuttavia, si incontrano opinioni pronte a sostenere che certe forme di delinquenza non siano semplicemente dovute a problemi di sopravvivenza in condizioni particolarmente difficili, bensì ad espliciti progetti di vita criminali. In particolare gli immigrati irregolari privi di documenti d'identità sono, all'occasione, descritti come soggetti che hanno esplicitamente programmato una sorta di “progetto migratorio criminale”. Non individui che giunti con la speranza di un lavoro ripiegano, di fronte alle difficoltà d'integrazione, verso la delinquenza, ma soggetti partiti con la precisa intenzione di mettere in pratica attività delittuose una volta giunti nel paese di destinazione ed a sostegno di tale idea è portato il loro continuo tentativo di sfuggire a qualsiasi forma di controllo sociale per mezzo dell'occultamento della loro reale identità.

Così, come segnala questo pubblico ministero, presso alcuni fori si adotta una prassi particolarmente repressiva nei confronti di chi risulti essere privo di documenti, condizione considerata sintomo di una precisa volontà criminosa e di particolare pericolosità sociale

a (...), dove, prima di queste modifiche per cui molti processi arrivavano in direttissima, quando si facevano questi arresti era stata concordata la non applicazione della sospensione condizionale della pena nei confronti dei soggetti non identificati...

Tra procura, giudici...una prassi interna per cui la sospensione condizionale della pena, anche per chi era formalmente incensurato, non veniva concessa, affermando di non poter formulare una prognosi favorevole per mancanza di dati certi sull'identità, a quel punto molte volte appariva il passaporto nel corso del procedimento, saltava fuori e quindi si concedeva la sospensione condizionale.

Penso che per molti di questi ci siano i documenti da qualche parte che però non vengono esibiti...Mi sembra appunto una manifestazione di correttezza processuale, di comprensione della serietà del fatto, comprensione del fatto di trovarsi davanti ad un tribunale che ti sta giudicando, mentre invece a volte sembra invece che ti sta di fronte lo consideri un male necessario in un piano di attività criminale, o comunque in una prospettiva di vita basata, o comunque accettata, per essere fondata essenzialmente sulla reiterazione di azioni delittuose, per cui si accetta anche questa conseguenza... questo mi porta ad affrontare negativamente o comunque con molti dubbi un giudizio di prognosi favorevole all'imputato. (PM - III)

In linea di massima, dunque, questo mutamento di prospettiva nei confronti della delinquenza spicciola e dell'universo sociale che se ne rende più spesso protagonista, è considerabile uno dei principali effetti della diffusione di certi stereotipi criminali, di una certa immagine sociale della delinquenza come fenomeno prevalentemente legato al mondo della povertà, dell'emarginazione.

L'imponente processo di criminalizzazione della miseria che, alimentato dalla grancassa mediatica, si è avviato nell'ultimo decennio ha, dunque, avuto i suoi ben precisi effetti sulla prassi della giurisprudenza di merito.

Ciò ha riguardato ovviamente in misura maggiore gli immigrati extracomunitari che, come visto, godono, nell'opinione dei soggetti processuali, di una sorta di assoluta presunzione di pericolosità sociale; ma non meno colpite da questo generale inasprimento nell'atteggiamento dei magistrati sono state le altre forme di microcriminalità ed i suoi attori protagonisti

Nei confronti di queste vere e proprie “nuove classi pericolose” il sistema si adatta recuperando funzioni anticamente riservate ai provvedimenti polizieschi dedicati agli oziosi e vagabondi e riportando alla luce la sua antica sostanza disciplinare. Le direttissime rappresentano a riguardo il migliore esempio proprio perché riguardano un tipo di criminalità dalla consistenza tutto sommato irrisoria, rispetto alla quale però la società sembra porre pressanti esigenze di controllo sociale. Ciò che - sin dall'inizio, nel momento in cui la polizia giudiziaria sceglie se arrestare o meno - si valuta in tali procedimenti non è tanto il fatto di reato, che passa decisamente in secondo piano (anche dal punto di vista probatorio), bensì la pericolosità del soggetto, il suo appartenere o meno ad una “classe pericolosa”.

ritengo che purtroppo ci sia un po' di...siano un po' visti male questi soggetti che continuano a commettere reati, non essere identificati, non avere un permesso di soggiorno, che continuano a rimanere in Italia nonostante le espulsioni e quindi vengono chiaramente sanzionati più pesantemente.

(...)

Probabilmente per il discorso che facevamo prima, nel senso che la criminalità da parte degli extracomunitari è sicuramente aumentata negli ultimi anni, negli anni novanta ce n'era molto meno...(A - IV)

Attualmente c'è, sta montando, prima da varie parti politiche ora si sta generalizzando perché il problema è reale...c'è questa aggressività crescente della micro-criminalità, che poi non tanto micro perché sono cose abbastanza serie, verso la quale non potendo operare la prevenzione, perché non ci sono i mezzi, si tende ad agire con la repressione, cioè cominciando ad elevare le pene.

È una tendenza che c'è, io la vedo in atto, vedo colleghi che erano magari molto sensibili a tutte le circostanze del 133, che però di fronte ad esigenze di difesa sociale a queste adeguano il livello di pena.

Penso che sempre più si vadano privilegiando, per necessità non per scelta, le esigenze di difesa sociale...cioè la neutralizzazione di una persona comunque scomoda che comunque crea dei problemi, ben sapendo che la rieducazione è diventata di fatto impossibile se non per piccole fasce, ci sono bei carceri, bravi educatori, ma assolutamente non sono in grado di realizzarla.

Questo mette anche a disagio chi deve svolgere la funzione di giudice, perché non dovrebbe tenere conto di prospettive ed esigenze sociali ma limitarsi ai casi individuali, invece si viene un po' travolti de quelle che sono le necessità generali della società (G - IV)

I giudici, dunque, sono loro malgrado protagonisti di un processo disciplinamento sociale in cui il sotto-sistema penale di polizia, in quanto strumento principe di governo delle classi pericolose, assume un ruolo fondamentale. Esso consente che, in parallelo con l'abbassamento delle condizioni di vita per uno strato sociale più o meno ampio e con il conseguente crearsi di sacche di marginalità sociale, si riattivi il classico principio della less eligibility, facendo funzionare i meccanismi disciplinari quale strumento di gestione di una sottoclasse sempre più ampia cui è riservata una cittadinanza di infimo livello. L'estensione qualitativa (sotto forma di maggiore afflittività) e quantitativa (sotto forma di un'estensione complessiva del trattamento penale della miseria) dell'intervento penal-poliziesco, infatti, consente di costringere buona parte dei soggetti socialmente emarginati ad accettare supinamente le condizioni di vita che la nostra struttura sociale riserva loro, eliminando, al contempo, gli strati sociali più problematici, neutralizzando gran parte il loro potenziale di conflittualità sociale ed evitando, così, una crisi sociale ben più grave di quella scatenata da un parziale aumento della criminalità nei centri urbani. Il potenziale eversivo che l'esistenza di uno strato sociale totalmente ai margini ed escluso da una qualsiasi forma di cittadinanza sociale reca con sé viene così ridotto ad una dimensione politicamente innocua e circoscritto all'interno dell'arena semantica del concetto di «delinquenza» e «pericolosità», il quale consente, peraltro, che il nostro sistema penale possa sostenere elevati livelli di selettività a scapito degli individui più ai margini socialmente, senza infrangere l'ideologia dell'uguaglianza di fronte alla legge penale e, dunque, la base ideologica che continua a legittimare un sistema così patentemente discriminatorio.

6.9: Note conclusive

La prima impressione che ci sentiamo di trarre dal nostro studio sui procedimenti per direttissima è quella di una marcata burocratizzazione dell'attività giurisdizionale. Come involontariamente ci confermò un pubblico ministero - avvicinandosi incuriosito dal fatto che ci fosse qualcuno intento a spendere il suo tempo per studiare simili procedimenti - di direttissime “se ne hai vista una le hai viste tutte”.

Effettivamente, come potranno dimostrare i processi riportati in appendice, tutto è basato su una routine di formule standardizzate e rigidi schemi operativi: con le prime si interpreta la realtà per mezzo di tipizzazioni e generalizzazioni di senso comune che consentono di individuare il “tipo” d'autore in questione ed il trattamento più idoneo alle sue caratteristiche; grazie ai secondi ogni singola vicenda processuale viene “evasa” (quasi fosse una pratica burocratica) nel modo più celere ed efficiente possibile.

Un sistema perfetto per gestire il traffico penale imposto dalla quotidiana attività di rastrellamento che gli agenti di polizia giudiziaria operano in strada, una vera e propria catena di montaggio, il cui prodotto finale è, come suggeriva un giudice, “la neutralizzazione di una persona comunque scomoda che comunque crea problemi”. Poco importa l'eventuale accertamento del fatto contestatogli.

Ciò che più di ogni altra cosa avvicina simili procedure alle prassi burocratiche e poliziesche è l'estrema rilevanza che assumono che condizioni personali dell'arrestato, la sua supposta pericolosità. L'intero meccanismo, dall'organizzazione del controllo del territorio alla prassi operativa del Tribunale Monocratico, pare infatti preordinato alla gestione delle “nuove classi pericolose”, di quell'universo sociale sempre più ai margini che la deriva politico-economica di fine secolo crea nei nostri agglomerati urbani.

Sostanzialmente ciò che si sanziona in queste procedure non è l'infrazione di una norma penale, bensì quel vasto campo di atteggiamenti, stili di vita, condizioni personali, ecc. che abbiamo inquadrato nel concetto di infrapenalità. Come un tempo per gli oziosi e vagabondi, ciò che i soggetti processati per direttissima pagano è soprattutto il fatto di versare in condizioni di povertà ed emarginazione tali da trasformarli, nel giudizio degli attori processuali, in potenziali delinquenti.

Simili presunzioni, che come visto costituiscono alcuni dei capisaldi su cui si basa il “sapere criminologico pratico” degli attori processuali, si sono strutturate nel sentire sociale a partire dall'ultimo decennio del XX secolo, allorché si è avviato anche in Italia un ampio e pervasivo processo di criminalizzazione della miseria. I riflessi sul piano delle statistiche penitenziarie sono stati pesanti, come abbiamo avuto modo di sottolineare, ma a simili dati si è arrivati grazie ad un profondo mutamento nella prassi degli attori processuali, sempre più propensi a responsabilizzare gli imputati della loro condizione sociale svantaggiata.

È così che - come abbiamo potuto notare anche grazie alle parole degli intervistati: la misura cautelare della carcerazione preventiva si è progressivamente trasformata in una misura di difesa sociale che la collettività utilizza nei confronti degli oziosi e vagabondi contemporanei; mentre la prassi applicativa della sospensione condizionale della pena si è completamente ribaltata ed i parametri per la sua concessione si sono - di fronte a questi stessi soggetti, senza fissa dimora, senza un lavoro ufficiale o una famiglia - resi parecchio stringenti.

Nei procedimenti per direttissima si giudica più la persona che un qualche reato e tale giudizio sull'autore - oltre a determinare l'adozione di provvedimenti fondamentali come la custodia in carcere o la concessione dei benefici di legge, che decidono in sostanza se il soggetto entrerà o meno in carcere - influisce sulla stessa valutazione circa la colpevolezza dell'imputato, cui comunque il giudice è tenuto.

L'arrestato, infatti, resta sostanzialmente accusato di un reato, e la sua responsabilità andrà comunque provata dato che, com'è evidente, il sistema continua formalmente a richiedere un provvedimento di condanna. In caso contrario, infatti, la stessa custodia in carcere perderebbe ogni legittimità. Tuttavia, che in simili procedimenti si vada oltre i semplici sospetti è quantomeno difficile.

Un'autentica prova dei fatti è inconcepibile in tali procedure e ciò per due ordini di ragioni: in primo luogo perché il giudizio sul fatto risulta pesantemente inquinato dal giudizio sulla convalida dell'arresto e dai suoi risvolti inquisitori ed in secondo luogo perché gli schemi transattivi consentono di eludere il vero e proprio giudizio.

L'unica attività istruttoria che viene svolta in tali procedimenti avviene durante l'udienza di convalida, allorché vengono ascoltati l'agente che ha operato l'arresto e l'arrestato. Tuttavia, come sappiamo, durante la stessa udienza di convalida è fatto obbligo al giudice di valutare, previa richiesta del pubblico ministero, l'opportunità di applicare una misura cautelare. Ciò determina, data la centralità del provvedimento cautelare, che l'indagine svolta spazi più che sulle circostanze fattuali sulle condizioni soggettive dell'arrestato.

Già sotto questo profilo, dunque, la maggior parte del tempo che un giudice dedica alla trattazione di ogni singola vicenda è spesa a cercare di capire se il soggetto abbia o meno dei precedenti, un lavoro, una casa, a ricostruire, in sostanza, un quadro in base al quale valutare tale persona ed il suo stile di vita.

Come sappiamo, nei fatti, a causa degli schemi transattivi introdotti nel 1988, l'attività istruttoria si riduce a questo e, dunque, quando non debba applicare una pena richiesta dalle parti, gli strumenti su cui il giudice fonda la sua decisione sono dati dagli atti di polizia e dal giudizio sull'autore che ha formulato.

A fronte di atti che in un processo ordinario non avrebbero alcuna rilevanza probatoria, il giudice è necessariamente costretto a completare il suo orizzonte cognitivo con i suoi saperi pratici e, soprattutto, utilizzando gli elementi raccolti sull'autore. Si tratterà di valutare se ed entro che limiti egli corrisponda al “tipo” di autore del reato di cui è accusato: il “tipico spacciatore”, il “tipico borseggiatore” ecc.

Gli stereotipi criminali giungono opportunamente a colmare le lacune del quadro cognitivo a disposizione del giudice, il quale potrà facilmente ricavare dalla cosiddetta prognosi di pericolosità (il giudizio su ciò che il soggetto potrebbe in futuro fare), cui dalla legge è insistentemente chiamato, la convinzione circa la fondatezza dei suoi sospetti (ciò che il soggetto avrebbe potuto fare).

Come suggerito inizialmente, è irrefrenabile la deriva burocratica del processo penale: in tali processi i semplici sospetti ed un complessivo giudizio di pericolosità valgono, al pari di quanto non accada nell'agire poliziesco, a privare immediatamente il soggetto della sua libertà personale ed a invertire, ai fini del giudizio, l'onere della prova. Sarà l'arrestato a dover valutare l'opportunità di trattare, ovvero scrollarsi di dosso i sospetti a suo carico e gli stereotipi che forniscono loro consistenza.

Uno dei principali effetti che un simile processo di burocratizzazione ha determinato è il totale svuotamento della funzione cognitiva del processo, con un ritorno ai meccanismi penali pre-moderni: salva ovviamente l'applicazione della custodia cautelare in carcere, che anticipa la sanzione a prima della prova di alcun fatto di reato, innanzi a “certi” imputati (rispetto ai quali si parte da una sorta di presunzione di colpevolezza) non è più indispensabile una prova piena, ma si può optare per una sanzione ridotta in funzione della minore certezza che il fatto presenta. Come nell'antico sistema delle prove legali: a una semi-prova, corrisponde una semi-pena.

Che i nostri istituti di pena si siano trasformati in strutture molto più simili agli antichi ospedali generali non dovrebbe dunque sorprendere, né dovrebbe sorprendere il fatto che tale riespandersi dell'area poliziesco-penale di trattamento della marginalità sociale, faccia immediato seguito al parallelo ritirarsi dell'area dell'intervento socio-assistenziale dello stato. Lo strumento disciplinare non perde le sue tipiche funzioni con la svolta politico economica neo-liberista.

Il mantenimento di una struttura sociale sempre più polarizzata passa, necessariamente, attraverso il recupero di prassi operative volte al controllo e, se necessario, alla neutralizzazione pura e semplice delle problematiche poste da una base della piramide sociale pauperizzata in misura sempre crescente. Riemergono, così, prassi operative che durante il ciclo politico economico social-democratico si credevano definitivamente sepolte, come del resto un certo spietato liberismo economico e certi livelli di povertà.

Simili fenomeni macrosociali trovano un perfetto risvolto nelle vicende spicciole che ogni mattina si svolgono presso il Tribunale Monocratico di questa come di altre città italiane, si riflettono perfettamente nelle dinamiche microsociali che muovono l'agire degli attori processuali da noi osservati al lavoro ed intervistati e nella concezione del mondo da cui partono nel corso del loro lavoro quotidiano.

Il giudizio sociale oltremodo criminalizzante nei confronti della marginalità sociale che affolla le vie di questa e di altre città - ma che consente anche, è bene non dimenticarlo, elevati livelli di estrazione di plusvalore alle nostre imprese - si riproduce perfettamente nel sapere pratico che orienta gli attori nella loro azione e ne giustifica l'operato. Al nuovo proletariato è concessa solo un'integrazione rigidamente subordinata: inserimento economico subalterno, a patto di una totale invisibilità sociale. Quanti sfuggono a tale processo di disciplinamento, manifestando comportamenti conflittuali, problematici, disagio o semplicemente destando sospetti, vengono presi in carico dal sistema penale e, nei limiti del possibile, accantonati dall'arena sociale.

Il processo di disciplinamento delle nuove povertà, infatti, incontra degli ostacoli in quel minimo di garanzie che il nostro sistema tuttora conserva e che il “securitarismo” non ha ancora spazzato via del tutto: non è infatti possibile “internare” a tempo illimitato, con un semplice atto amministrativo, gli oziosi e vagabondi contemporanei (rispetto agli immigrati, il regime dei centri di permaneza temporanea rappresenta una piccola ma significativa eccezione) com'era possibile un tempo. Né, a tal fine, è sufficiente un mero giudizio di pericolosità sociale, anche se, nella prassi, esso porta all'applicazione sistematica della custodia cautelare in carcere ed a legittimare condanne basate sui meri sospetti, come nei procedimenti da noi osservati.

Pare, dunque, più corretto sostenere che sia in atto una progressiva involuzione all'interno della nostra pratica di controllo sociale che spinge verso il recupero delle antiche funzioni di controllo delle classi pericolose che ancora tra XIX e XX secolo erano assegnate in via esclusiva al sotto-sistema penale di polizia; involuzione che attualmente si realizza per mezzo di adattamenti degli istituti processuali esistenti, senza una completa deriva poliziesca, ma che potrebbe sfociare nel ritorno delle antiche aberrazioni (in questo caso i centri di permanenza temporanea sarebbero più che eccezioni, vere e proprie anticipazioni di un passato che ritorna).

Valutare quali potrebbero essere gli sviluppi futuri è quanto mai complesso, data l'infinita serie di variabili che potrebbero cambiare il corso degli eventi. Certo è che se le premesse sono date dalla realtà che ci circonda, simili prospettive non paiono troppo inverosimili...Tuttavia, mai come in questo caso, il nostro auspicio è quello di essere incorsi in un grossolano errore.

Note

1. Hanno sostanzialmente negato che i livelli di delittuosità espressi in Italia dagli immigrati potessero essere considerati frutto di un pregiudizio delle agenzie di controllo formale S. Segre e F. Pittau (cfr.: S. Segre, Migrazioni internazionali e delinquenza giovanile: un'analisi sociologica, cit.; F. Pittau, Riflessione sul fenomeno della criminalità degli immigrati in Italia, in: Rassegna italiana di criminologia, 1999, p. 501 e ss.), anche se nessuno dei due autori si è sentito di escludere perentoriamente l'eventualità che gli immigrati potessero essere maggiormente esposti all'attenzione delle forze di polizia. Viceversa anche tale eventualità è stata decisamente negata da M. Barbagli (cfr.: Immigrazione e reati in Italia, cit.), a parere del quale né l'autorità di pubblica sicurezza, né la magistratura, sono responsabili di un trattamento discriminatorio nei confronti degli immigrati.

2. Cfr.: R. Treves, Sociologia del diritto, cit., p. 244 e ss.

3. Cfr.: A.V. Cicourel, The organisation of Juvenile Justice, New York, 1968; A. Rossett, D.R. Cressey, Justice by consent, cit.; D.W. Maynard, Inside the plea bargaining, cit.; Bernstein et al., Societal reaction to deviants: the case of criminal defendants, in: American sociological review, 42, 1977;D. Sudnow, Reati normali. Aspetti sociologici del codice penale nella difesa d'ufficio, in: P. Giglioli, A. Dal Lago (a cura di), Etnometodologia, cit.; Gibson, Race as a determinant of criminal sentencing, in: Law and society review, 19, 1978. Più di recente anche in Italia alcuni contributi hanno, sulla base dei medesimi presupposti teorici, analizzato tanto l'attività della polizia che della magistratura, cfr.: S. Palidda, Polizia ed immigrati, un'analisi etnografica;F. Quassoli, Immigrazione uguale criminalità. Rappresentazioni di senso comune e pratiche organizzative degli operatori del diritto, in: Rassegna italiana di sociologia, XL, 1, 1999.

4. Cfr.: Hagan, Extra-legal attributes and sentencing: an assessment of a sociological viewpoint, in: Law and society review, 8, 1974; Clarke, Koch, The influence of icome and other factors on whether criminal defendants go to prison, in: Law and society review, 11, 1976; Lizotte, Extra legal factors in chicagois criminal courts: testing the conflict model of criminal justice, in: Social problems, 25, 1978; American sociological review, 42, 1977, numero monografico dedicato a classe e crimine; Chiricos, Waldo, Socioeconomic status and criminal sentencing: an empirical assessment of a conflict position, in: American sociological review, 40, 1975; I. Jankovic, Social class and criminal sentencing, in: Crime and social justice, 10, 1978; Bridges, Crutchfield, Crime, social structure and criminal punishment: white nonwhite rates of imprisnment, in: Social problems, 34, 1987; Sampson et al., Structural variations in jouvenile court processing: inequality, the underclass, and social control, in: Law and society review, 27, 2/1993; Chiricos et al., Unemplyment and punishment: an empirical assessment, in: Criminology, 29, 1991; in Italia cfr.: A. Cottino, C. Sarzotti, C. Tibaldi, Uguaglianza di fronte alla legge penale: una ricerca in pretura, in: Dei delitti e delle pene, 1994.

5. Prima dell'avvento delle codificazioni borghesi, infatti, “le norme penali non disciplinavano figure di reato, bensì ponevano una serie lunghissima di comportamenti nominati che venivano identificati non tanto dalla qualità dell'azione e dalla natura dell'evento, quanto dalla qualità della persona che commette l'azione e dalla qualità del bene danneggiato della persona offesa[5]” (G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, cit.).

6. Cfr.: parte I, par. 2.2.3.

7. Cfr.: F. Quassoli, Stranieri e criminalità in Emilia-Romagna: un quadro statistico, in: Quaderni di città sicure, 21, 2000.

8. Cfr.: S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit.; Id., Polizia ed immigrati un'analisi etnografica, cit.; Id., Devianza e criminalità tra gli immigrati: ipotesi per una ricerca sociologica, cit.; F. Quassoli, Stranieri e criminalità in Emilia-Romagna: un quadro statistico, cit.

9. È questo il cosiddetto “numero oscuro” della criminalità, il cui studio è una delle questioni classiche della scienza criminologica, cfr.: T. Bandini, U. Gatti, M. I. Marugo, A. Verde, Criminologia, cit.

10. Cfr.: T. Bandini, U. Gatti, M. I. Marugo, A. Verde, Criminologia, cit.

11. Cfr.: H. Sacks, Come la polizia valuta la moralità delle persone basandosi sul loro aspetto, in: A. Dal Lago, P. Giglioli (a cura di), Etnometodologia, cit.; D. Chapman, Lo stereotipo del criminale. Componenti ideologiche e di classe nella definizione del crimine, Torino.

12. Cfr.: M. Pavarini, Il «grottesco» della penologia contemporanea, cit. Si consideri, per esempio, che delle 1.480.775 denunce per furto effettuate nel 1999 il 95% (1.407.721) era contro ignoti; cfr. ISTAT, Statistiche giudiziarie penali, 1999.

13. F. Quassoli, Immigrazione uguale criminalità. Rappresentazioni di senso comune e pratiche organizzative degli operatori del diritto, in: Rassegna italiana di sociologia, XL, 1, p. 43 e ss.; Id, Stranieri e criminalità in Emilia-Romagna: un quadro statistico, cit.

14. Cfr.: M. Pavarini, Il carcere razzista?, in: C.I.D.S.I., Gli stranieri in carcere. Dossier '94, cit.

15. M. Pastore, Produzione normativa e costruzione sociale della devianza e della criminalità tra gli immigrati, Milano, Quaderni I.S.MU., 9, 1995.

16. Cfr.: J. P. Lynch, R. J. Simon, Saggio comparativo sul coinvolgimento criminale di immigrati e autoctoni in sette nazioni, cit.

17. Ibidem.

18. Come ha segnalato Maynard (cfr.: Inside plea bargaining, cit.) diversi studi sull'attività delle corti negli Stati Uniti hanno ingenuamente trascurato quest'aspetto del sistema penale americano.

19. Chambliss, Crime and the legal process, cit. in: Lizotte, Extra legal factors in chicagois criminal courts: testing the conflict model of criminal justice, cit., p. 564.

20. Gibson, Race as a determinant of criminal sentencing, cit., p. 456.

21. Cfr.: Chiricos et al., Unemplyment and punishment: an empirical assessment, cit.

22. D.W. Maynard, Inside the plea bargaing, cit., p. 159.

23. P. Jedlowski, «Quello che tutti sanno». Per una discussione sul concetto di senso comune, cit., p. 56.

24. F. Quassoli, Il sapere dei magistrati: un approccio etnografico allo studio delle pratiche giudiziarie, in: A. Dal Lago, R. De Biasi, Un certo sguardo. Introduzione all'etnografia sociale, cit., p. 199.

25. Che la qualità della difesa sia direttamente proporzionale allo status sociale dell'imputato è stato adeguatamente dimostrato da una ricerca empirica condotta in Italia presso i vecchi uffici della pretura, cfr.: A. Cottino, C. Sarzotti, C. Tibaldi, Uguaglianza di fronte alla legge penale: una ricerca in pretura, in: Dei delitti e delle pene, 1994, p. 121 e ss.

26. Le interviste sono riportate in forma assolutamente anonima, salvo l'indicazione della qualifica del soggetto intervistato (A: per gli avvocati; G: per i giudici; PM: per i pubblici ministeri) ed un numero romano (I - V).

27. Cfr. T. Bandini, U. Gatti, M. I. Verde, A. Verde, Criminologia, cit., p. 56.

28. Per ovvi motivi saranno taciuti tanto i nomi degli imputati, quanto le date del procedimento. Le uniche informazioni cui faremo riferimento saranno il titolo di reato contestato, ovviamente, ed il riferimento alla sigla degli intervistati qualora uno di questi sia protagonista (in veste di difensore, di pubblica accusa o di giudice) del procedimento.

29. L'art. 449 c.p.p. consente al pubblico ministero la scelta di procedere alla convalida dell'arresto con contestuale giudizio, ovvero di procedere comunque al giudizio direttissimo entro quindici giorni dalla convalida dell'arresto. Il quinto comma dello stesso articolo consente anche di portare al giudizio direttissimo l'indagato che, pur non arrestato in flagranza, abbia comunque confessato.

30. Sono sostanzialmente i reati attribuiti dall'art. 33-ter c.p.p. alla competenza del tribunale Monocratico: cioè i reati previsti dalla normativa sugli stupefacenti all'art. 73 (D.P.R. 309/1990) escluse le ipotesi aggravate dall'art. 80 - fra le quali c'è anche il caso di reati relativi ad “ingenti quantità” di sostanza - nonché tutti i reati non specificamente indicati come afferenti alla competenza del Tribunale Collegiale (art. 33-bis c.p.p.) e comunque puniti con una pena inferiore nel massimo ai dieci anni di reclusione.

31. In uno dei processi da noi osservati (cfr. appendice, proc. nº 8) infatti, il giudice manifestò le sue perplessità circa la scelta da parte della pubblica accusa di processare per direttissima un imputato di estorsione semplice (art. 629 c.p.).

32. Diversi esempi in tal senso si hanno nei processi in appendice, cfr. i proc. nº 2, 5, 7, 16.

33. Cfr. in particolare il proc. nº 17 e, più in generale, tutti i procedimenti in materia di stupefacenti.

34. Come testimonia uno dei processi in appendice (cfr.: proc. nº 17) in cui l'accusa era condotta dallo stesso PM intervistao.

35. Contenute all'interno del Capo II (Delle circostanze del reato), Titolo III (Del reato), Libro I (Parte generale) del Codice Penale.

36. Cfr.: D. Sudnow, Reati normali. Aspetti sociologici del codice penale nella difesa d'ufficio, cit.; F. Quassoli, Il sapere dei magistrati: un approccio etnografico allo studio delle pratiche giudiziarie, cit. La tendenza è dunque quella di interpretare il caso secondo la combinazione più grave, tanto più il soggetto è considerato pericoloso socialmente, secondo una prassi già segnalata nella sua ricerca da A. Colombo (cfr.: Etnografia di un'economia clandestina, cit., p. 209, 210). Per qualche esempio in tal senso cfr. i proc. nº 3 e 14 in appendice.

37. Cfr.: Rossett A., Cressey D.R., Giustice by consent. Plea bargain in American courthouse, cit.; cfr. anche: D.W. Maynard, Inside the plea bargain, cit.

38. Cfr.: par. 5.3.1.

39. L'accertamento delle esatte generalità del soggetto è sovente fonte di problemi per i giudici, oltre che di comici siparietti, cfr. i proc. nº 6 e 7 in appendice.

40. Analogamente Milena Chiodi, nella sua ricerca sul quartiere Crocetta a Modena, ha rilevato quanto la particolare visibilità degli spacciatori extracomunitari possa aver inciso sulla stessa percezione dell'esistenza in zona di un mercato della droga “all'aperto”, tant'è che non è mancato, tra i suoi intervistati, qualcuno pronto a sostenere con decisione che lo spaccio non esistesse prima dell'arrivo degli extracomunitari (cfr.: M. Chiodi, Immigrazione, devianza e percezione d'insicurezza: analisi del quartiere Croceta a Modena, cit.).

41. Qualche esempio è possibile averlo già da adesso leggendo alcune delle vicende processuali riportate in appendice (cfr. proc. nº 2, 5, 7, 9).

42. Sotto il profilo del processo di criminalizzazione primaria il ruolo del legislatore sarebbe, in teoria, tutelato dalla stessa Costituzione per mezzo della riserva di legge in materia penale, anche se in concreto gli enormi spazi che il nostro sistema lascia al potere dispositivo del giudice tendono ad attribuire fette consistenti di tale potestà anche agli organi giudicanti.

43. Il caso cui si riferisce il giudice è consultabile in appendice cfr. proc. nº 22.

44. Secondo il rito dibattimentale, invece, l'esame è condotto, pubblicamente dalle parti private ed al giudice è consentito intervenire con le sue domande solo dopo che le parti abbiano esaurito le questioni da sottoporre all'esaminato (cosiddetta cross examination diretta).

45. Procedura Penale, 2001, cit., p. 647 e ss.

46. Come visto il “Pacchetto Sicurezza” ha ulteriormente allargato la possibilità di eludere i limiti previsti dalla legge a riguardo, cfr. retro, par. 4.4.4.

47. Cfr.: J. Irwin, The Jail. Managing the underclass in American society, cit.

48. Ma anche da tutti i procedimenti riportati in appendice.

49. Che si tratti di una specifica prassi adottata nel foro di (...) è testimoniato dal proc. nº 22, in appendice. Nel caso in questione infatti l'arrestato era difeso da un avvocato proveniente da un altro foro, il quale, appreso che a fondare il provvedimento di arresto facoltativo erano stati dei precedenti di polizia che risultavano a carico del suo assistito presso la relativa banca dati (si trattava di una denuncia per furto), è letteralmente trasalito, denunciando come illegittima una simile prassi. Non è forse un caso se, nel processo in questione, si è avuta l'unica non convalida di un arresto fra tutti i procedimenti osservati.

50. Cfr.: M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 98.

51. Ma anche il discorso relativo all'abitazione ha la sua rilevanza ed, a breve, avremo modo di approfondirlo.

52. Cfr. il proc. nº 10 in appendice. Per la normativa ottocentesca sui sospetti ladri di campagna, cfr. parte I, par. 3.1; si ricordi però che ancora fino al 1996 era in vigore la contravvenzione prevista dall'art. 708 del c.p. fascista, cfr. retro, par. 4.4.1.

53. Cfr. a questo proposito il proc. nº 5 in appendice.

54. Possibilità ulteriormente allargata con la L. n. 144/2000.

55. D.W. Maynard, Inside the plea bargaining, cit., p. 197.

56. C.G. Brunk, The problem of voluntariness and coercition in the negotiated plea, in: Law and society review, 13, n. 2, 1977, p. 527 e ss.

57. Si consideri poi che in tali procedimenti l'avvocato apprende i termini della questione e conosce il suo assistito qualche minuto prima dell'inizio dell'udienza di convalida. Nelle strettissime fasi processuali attraverso cui si giunge alla chiusura della vicenda egli si trova costretto a valutare le scelte effettuabili, illustrarle al suo assistito e vagliare la disponibilità del pubblico ministero ad eventuali patteggiamenti. Il tutto risulta notevolmente complicato dalla presenza di un imputato extracomunitario, con il quale l'avvocato cerca di comunicare tramite l'interprete.

Non sono rari, tuttavia, i casi in cui fra difensore e suo assistito non avviene nessun tipo di comunicazione, tanto più ove si tratti di difensori d'ufficio o di avvocati raccattati per i corridoi del tribunale a causa dell'assenza del difensore nominato.

58. Cfr.: M. Feeley, Pleading guilty in lower courts, in: Law and Society Review, 13, n. 2, 1977, p. 461 e ss.; D.W. Maynard, Inside the plea bargaining, cit., p. 198.

59. È appena il caso di ricordare che il ricorso in Cassazione per motivi di legittimità è previsto contro ogni pronunzia giurisdizionale che incida sulla libertà personale dell'individuo dall'art. 111.7 Cost.

60. Cfr. proc. nº 8, in appendice.

61. In molti dei procedimenti in appendice (cfr. proc. nº 3, 5, 8, 9, 14, 20) si può verificare come siano state determinanti ai fini della decisione le parole di soggetti che mai sarebbero giunti innanzi ad un giudice.

62. Cfr.: i proc. nº 6, 7, 12, 13, in appendice.