ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

2: L'emergere dei meccanismi disciplinari

Giuseppe Campesi, 2009

Siamo abituati a pensare che l'intero settore di comportamenti coperto dalla normativa penale sia un insieme di azioni estremamente pericolose per l'esistenza stessa della nostra società e che queste vengano perseguite secondo schemi prefissati, i quali, in una certa misura, rappresentano una garanzia contro accuse e condanne ingiuste.

L'ideologia dell'eguaglianza di fronte alla legge penale si è potuta produrre solo a partire dalla "rivoluzione borghese" che, scardinando le vecchie strutture dell'ancien regime, ha realizzato il presupposto fondamentale perché una simile idea si diffondesse: l'azzeramento di ogni differenza di status giuridico fra gli uomini - eliminando tutte le differenziazioni di ceto che il vecchio sistema feudale aveva riprodotto per secoli. Condizione a partire dalla quale si è anche potuta realizzare quella semplificazione e razionalizzazione dell'ordinamento giuridico che i riformatori auspicavano (1).

Ora non vi è chi non veda quale conquista rappresentò il raggiungimento e la codificazione di una tale eguaglianza (formale) fra gli uomini, soprattutto in settori dell'ordinamento dove il potere sovrano aveva la possibilità di incidere in maniera determinante sulla vita dei cittadini, come il diritto penale. Alla stessa stregua non è possibile non considerare la costituzionalizzazione dei diritti individuali di ogni singolo e il loro porsi come argini al diritto di punire sovrano, come una conquista di civiltà. Ma quanto la loro proclamazione corrispose alla loro concretizzazione è un interrogativo che si pose immediatamente dopo la codificazione borghese e non smette, ancora oggi, di assillarci. Ed a questo proposito ripercorreremo le tappe fondamentali dello sviluppo dei sistemi penali moderni attraverso la vicenda della nascita della prigione, strumento principe nell'arsenale sanzionatorio del diritto penale moderno e contemporaneo.

La vicenda della prigione è interessante poiché evidenzia come agli strumenti pensati dai riformatori illuministi si sia sovrapposta un'esperienza istituzionale scaturita dall'esigenza di governare gli sconvolgimenti sociali che i primitivi processi di accumulazione capitalistica comportavano. Istituzione pensata più per la gestione ed il "governo" di quelle masse d'individui investite da processi di "pauperizzazione" e "proletarizzazione", che per funzionare quale strumento sanzionatorio del diritto penale riformato.

Come vedremo, l'innesto della prigione (e delle logiche "poliziesche" da cui è sottesa) nel quadro teorico pensato dalla filosofia "classica" del diritto penale non sarà privo di effetti.

2.1: Sistema di controllo penale e fattori strutturali

In merito alla problematica dell'uguaglianza di fronte alla legge il richiamo alle pagine di Marx ed Engels, ai loro lavori sui "rapporti del diritto e dello stato con l'economia e con la società conflittualmente intesa" (2) appare quasi superfluo.

Pur se sparsi nell'intero corpus della loro opera, questi accenni rappresentano (oltre che uno dei primi esempi di sociologia del diritto) il primo esplicito tentativo di demistificare l'ideologia dell'eguaglianza di fronte alla legge.

Già in alcuni suoi scritti giovanili, Marx (3) si era cimentato in un'acuta dissacrazione del primo "dogma" su cui abbiamo visto, sulla scia di A. Baratta, fondarsi il mito dell'uguaglianza della legge panale. Dimostrando come, in una società conflittuale (divisa in classi), gli interessi dei settori dominanti riescano a trasformare in furto ciò che in un precedente ordine sociale rappresentava un diritto (4).

È questa, peraltro, un'anticipazione, attraverso dei riferimenti a vicende concrete, di quello che sarà il nocciolo teorico della matura visione dello stato moderno (borghese/capitalista) in Marx ed Engels, in base alla quale "il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese". Al pari di legge, morale e religione, che "sono altrettanti pregiudizi borghesi dietro i quali si nascondono altrettanti interessi borghesi" (5). Asserti, questi, fondati sull'assunto in base al quale "le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è, in pari tempo, la sua potenza spirituale dominante" (6).

Tuttavia, solo un anno dopo gli articoli sui furti di legna, nel 1843, lo stesso Marx (riconsiderando il pensiero hegeliano sul diritto pubblico) sarebbe stato in grado di esprimere una critica filosoficamente più elaborata all'idea di eguaglianza di fronte alla legge che le rivoluzioni borghesi avevano declamato.

Partendo da un'opposizione hegeliana, quella fra stato e società civile, avrebbe sottolineato la contraddizione di fondo da cui scaturiva l'irrazionalità stessa delle moderne società borghesi/capitalistiche. Se, come è vero, le rivoluzioni borghesi e le costituzioni moderne tendono a separare società civile e politica - sovvertendo, in questo, il regime feudale in cui "le determinazioni economico sociali e le determinazioni giuridico politiche coincidevano immediatamente" (7) e realizzando così i presupposti per una sfera "pubblica ed universale dove tutti sono uguali" (8) - è anche vero che nella sfera della società civile permangono tutte le disuguaglianze e le stratificazioni economiche.

Ecco che la condizione esistenziale stessa dell'individuo moderno è (al pari della società che abita) frantumata in una contraddizione: quella fra "bourgeois e citoyen, fra individuo empirico (diverso da tutti gli altri ed in perenne contrasto con essi) e «idealista dello stato» (cittadino uguale a tutti gli altri, congiunto con essi)" (9).

La condizione di "bellum omnium contra omnes" propria della società civile e la contraddizione che ne consegue rispetto alla società politica - la quale si presume organica e pacificata - non può, in Marx, essere superata nella sintesi "idealistica" operata dallo stato, che ingloba ogni contraddizione (come in Hegel). Se tali sono le contraddizioni non sarà certo lo stato, che da queste scaturisce nella visione di Marx, né la speculazione hegeliana a poter risolvere il "bellum", ma un movimento che rivoluzioni l'intima natura della società civile.

Sono già, quindi, tracciate nel giovane Marx le linee di sviluppo del suo futuro pensiero, ciò che porterà al comunismo ed ad una teoria ed una prassi rivoluzionarie. È già vivida l'immagine dello stato quale istanza che sorge a partire dai contrasti stessi della società civile, in cui dominano interesse privato ed istinti egoistici, "lo stato ha un solo vero contenuto, non il suo astratto egualitarismo e universalismo, bensì la società civile/borghese, e ha un solo compito, quello di garantirne il meccanismo di funzionamento e sviluppo" (10).

Molti anni dopo temi solo sfiorati negli articoli sulla "Gazzetta Renana" si svilupperanno in una lucida analisi sulla storia delle origini del capitale: nel XXIV capitolo della sua opera più imponente (Il Capitale), Marx, condurrà un discorso che è, insieme: analisi parallela dei processi storici di eversione dalla feudalità e di sviluppo della società moderna; studio dei processi di formazione del capitale (felicemente definiti di "accumulazione originaria", locuzione che è anche l'intitolazione del capitolo) e di pauperizzazione e "proletarizzazione" di una massa sempre crescente d'individui; verifica empirica degli assunti su cui fondava la sua teoria dello stato e la critica dell'ideologia borghese dell'uguaglianza di fronte alla legge.

Sciogliere i lacci feudali era si liberare gli individui, ma per creare degli "operai liberi, venditori della propria forza lavoro e quindi venditori di lavoro" (11). Quale sberleffo rappresenti tale libertà è tuttavia subito chiaro: essi sono, infatti, "liberi nel duplice senso che essi non fanno parte direttamente dei mezzi di produzione come gli schiavi, i servi della gleba ecc., né ad essi appartengono i mezzi di produzione, come al contadino coltivatore diretto ecc., anzi né sono liberi, privi, senza" (12).

Questa liberazione, la libertà declamata dagli illuministi, sa di beffa per la gran massa di contadini che si avviavano ad essere trasformati in mera forza lavoro, "il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati si presenta, da un lato, come la loro liberazione dalla servitù e dalla coercizione corporativa; e per i nostri storiografi borghesi esiste solo questo lato. Ma dall'altro lato questi neo-affrancati diventano venditori di sé stessi soltanto dopo essere stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie per la loro esistenza offerte dalle antiche istituzioni feudali" (13).

Il meccanismo della "pauperizzazione" "non è soltanto il prezzo sociale della nascita del capitalismo, ma anche uno dei suoi meccanismi interni, dal momento che, in quel modo di produzione, cresce una massa di proletarizzati, costretti a cercare le fonti di sussistenza nel lavoro salariato" (14), esso, come vedremo, riguarda in primo luogo le trasformazioni avvenute nel sistema sociale rurale, tra XVI e XVII secolo. La rilevanza della trasformazione del regime dei beni agrari è data dal fatto che in quest'epoca le società del tempo si presentano come società prevalentemente rurali (15).

Tuttavia nei centri urbani, che nel basso medioevo avevano conosciuto un significativo sviluppo, il problema del pauperismo e della proletarizzazione si presenta con toni altrettanto drammatici. In primo luogo è da rilevare la potente attrattiva che rappresentavano le città per i neo-pauperizzati, sia per le possibilità di trovare lavoro (magari anche saltuario) che durante tutto l'anno ci sono, che per le maggiori possibilità di trovare sostegni altrimenti, data dalla maggiore concentrazione di ricchezze. Già con l'avvio del processo di scioglimento dei seguiti feudali le città sono quindi costantemente sottoposte alla pressione di flussi migratori.

In secondo luogo analoghi processi di trasformazione in salariati subiscono le categorie artigiane, cui viene a mancare la protezione della struttura corporativa, in coincidenza con l'ingresso dei primi capitali nell'attività manifatturiera (accumulati con l'attività mercantile) e l'organizzazione di un processo produttivo cui partecipano singole botteghe artigiane con ognuna un ruolo ben specifico. Tale specializzazione accelera la perdita di autonomia del singolo artigiano e della sua bottega, trasformandolo progressivamente in un lavoratore salariato, ma è soprattutto il settore tessile (allora il più fiorente) a vedere un deciso incremento dell'utilizzo di manodopera salariata.

"L'origine vera e propria del pauperismo è in campagna (...) anche nella città, però, si verificano processi interni di pauperizzazione" (16) e proletarizzazione.

Il diritto penale della modernità nasce, più che nelle parole dei pensatori illuministi, proprio a causa dell'esigenza di gestire e governare tali complessi processi strutturali.

2.1.1: Marxismo e questione criminale

Il marxismo ha, quindi, già dimostrato ampiamente quanto i fattori strutturali, economici, avessero un ruolo nei processi di controllo sociale e come l'intero ordinamento giuridico rappresentasse una sovrastruttura ideologica che obliterava, con l'ideologia dell'uguaglianza formale, le sottostanti disuguaglianze sostanziali, contribuendo a strutturarle ulteriormente, "ben lungi dal sopprimere queste differenze di fatto, lo stato esiste piuttosto soltanto in quanto le presuppone" (17).

Come si diceva, lo stato non è, né potrebbe - se non nella metafisica hegeliana - essere la sintesi che elimina tutti i contrasti immanenti l'atomistica società civile. Lo stato, con le sue leggi ed i suoi giudici è, nella visione di Marx, "l'unico legame che (...) tiene insieme" i membri della società civile, rappresenta ciò che realmente fonda la società borghese: "la necessità naturale, il bisogno e l'interesse privato, la conservazione della (...) proprietà e della (...) persona egoistica" (18).

L'approccio marxista sposta, quindi, il baricentro dell'analisi sui fattori strutturali, segnalando come a partire da questi si riassesti tutto il meccanismo di controllo sociale; l'analisi e la critica della società borghese e delle forme giuridiche che l'accompagnano è, infatti, condotta evidenziando le determinanti economiche (struttura) a partire dalle quali scaturisce l'impalcatura giuridica dello stato moderno (sovrastruttura). E ciò, in linea di massima, è vero anche per quel che riguarda lo specifico del diritto penale.

Se pure il discorso che Marx conduce sullo strumento di controllo rappresentato dal diritto penale borghese è a tal punto frammentato nel più ampio corpus della sua immensa opera (19), sì da avere indotto qualcuno ad affermare che nella bibliografia marxista sono assenti"riflessioni sostanziali sulle istituzioni penali" (20), è anche vero che, nonostante queste tematiche non siano adeguatamente sviluppate in una specifica opera, gli spunti che il filosofo tedesco ha offerto sono serviti allo sviluppo di un filone di ricerca molto consistente e fecondo di "sociologia della pena" (21).

Espliciti riferimenti alla questione penale sono, comunque, rintracciabili in scritti quali La sacra famiglia, o in articoli pubblicati sul "New York Daily Tribune" (22), ma, ancora una volta, nel XXIV capitolo del capitale l'argomento è incidentalmente (se pur in maniera assolutamente penetrante) affrontato.

L'analisi delle istituzioni di controllo sociale penale (del loro funzionamento e sviluppo in parallelo con la nascita del capitale) è qui svolta con la classica impostazione "materialistica", i mutamenti nei bersagli del controllo penale sono così legati ai processi strutturali che, come già detto, l'intitolazione del capitolo definisce di "accumulazione originaria": l'alba del capitale.

Come segnala Dario Melossi è in quest'opera che la questione penale ed il correlativo fenomeno sociale della criminalità "viene affrontato a partire dal nucleo più generale della teoria marxiana" (23). Ed è nel quadro dell'analisi della nascita del capitalismo che Marx traccia, con chiarezza cristallina, quelle che saranno "le fondamentali linee di sviluppo della politica criminale (e sociale) borghese" (24).

È così che in parallelo con l'analisi dello sviluppo del "processo che crea il rapporto capitalistico" (25) - che è sostanzialmente un processo di "separazione del produttore dai mezzi di produzione" (26) - egli analizza le conseguenze, oltre che economiche, sociali di questo processo, nelle cui fasi "grandi masse di uomini vengono staccate improvvisamente e con la forza dai loro mezzi di sussistenza e gettate sul mercato del lavoro come proletariato eslege" (27).

Questo processo, come non manca di precisare Marx stesso, riguardò tutta l'Europa ma in tempi e con fasi e sfumature diverse (28); complessivamente, tuttavia, il fenomeno dell'"eversione dalla feudalità" - che rinnovò drasticamente il regime dei beni agrari (29)- riguardò i contadini di tutta l'Europa, i quali persero, più o meno all'improvviso, le condizioni che gli assicuravano una dignitosa sopravvivenza (tutti gli antichi diritti d'uso sulle terre ecclesiastiche e comunali).

Marx analizza questo processo guardando all'Inghilterra e considerando un arco di tempo che oscilla tra il XV secolo e tutto il XVIII, cui corrisposero due fasi: una prima in cui esso si "attuò come azione violenta individuale, contro la quale la legislazione combatté, invano, per centocinquant'anni" (30); una seconda in cui fu la "la legge stessa" a diventare "veicolo di rapina delle terre del popolo" (31). Questo fu "il progresso del XVIII secolo": l'attuazione pratica di un "colpo di stato parlamentare", come lo chiamò Marx, che consentì di "trasformare la proprietà comune in proprietà privata"; degnamente rappresentato dai "Bills for inclosures of commons" (la forma parlamentare del furto) altresì detti: "decreti di espropriazione del popolo" (32), giunti a coronamento di un processo iniziato sotto la forma della prevaricazione pura e semplice e già alimentato dall'esproprio dei beni ecclesiastici, a seguito della Riforma.

Questo complesso fenomeno strutturale, lucidamente analizzato nel "Capitale", si lega strettamente al diritto penale. Esso fu, infatti, inizialmente un processo violento che, istituzionalizzatosi, non smise tuttavia di utilizzare la violenza: si appoggiò infatti sullo strumentario offerto dalla giustizia penale - nient'altro che violenza istituzionalizzata.

Le pagine che abbiamo considerato sono forse uno dei migliori esempi di sociologia della pena che la storia del pensiero ricordi, è Marx stesso a dircelo: "qui prescindiamo dai motivi propulsori della rivoluzione agricola che hanno carattere economico: qui cerchiamo le sue leve violente" (33). E le sue leve violente furono l'imponente legislazione che colpì, in tutta Europa, l'ozio ed il vagabondaggio, costruendo le basi per la "nuova politica sociale" di governo della miseria (34).

L'analisi marxista evidenzia quindi il doppio filo che lega la nascita del capitalismo, i fenomeni di pauperismo e l'inaugurazione delle politiche repressivo/assistenziali che s'impronteranno in tutta Europa fra XVI e XVII secolo. In questo quadro due paiono i dati strutturali su cui la nuova politica sociale andrà ad agire, assecondandoli e cercando, nel contempo, di lenirne le conseguenze sociali più drammatiche:

  1. la creazione di un mercato libero della manodopera, con pauperizzazione e proletarizzazione di masse sempre crescenti di contadini ed artigiani, nato dalla progressiva distruzione del regime feudale dei beni agrari e delle corporazioni professionali.
  2. L'estrazione del più alto plusvalore possibile dal lavoro salariato, determinante in questa fase in cui il capitalismo in fasce deve "calcificare" bene la sua ossatura; ciò si espresse nei bassissimi livelli salariali che tennero ai limiti dell'indigenza grandi masse d'individui ed in concomitanza di epidemie e crisi alimentari causarono delle vere e proprie ecatombe (35).

"Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti feudali e per l'espropriazione violenta e a scatti, divenuti eslege, fossero assorbiti dalla manifattura al suo nascere con la stessa rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo. D'altra parte, neppure quegli uomini lanciati all'improvviso fuori dall'orbita abituale della loro vita potevano adattarsi con altrettanta rapidità alla disciplina della nuova situazione. Si trasformarono così, in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione delle circostanze. Alla fine del secolo XV e durante tutto il secolo XVI si ha perciò in tutta l'Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I padri dell'attuale classe operaia furono puniti, in un primo tempo, per la trasformazione in vagabondi e in miserabili che avevano subito. La legislazione li trattò come delinquenti «volontari» e partì dal presupposto che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle antiche condizioni non più esistenti" (36).

Questa la visione del diritto penale che Marx ci offre: ciò che in un dato ordine sociale viene designato quale reato e come tale perseguito, non dipende, in linea di massima da un suo disvalore intrinseco e percepibile in senso assoluto, bensì dalla relazione che il comportamento criminalizzato intrattiene con altri rapporti sociali fondamentali: quelli relativi al modo di produzione; "lo stato della nascente borghesia, la monarchia assoluta, crea ora, insieme al fatto del reato, il vagabondaggio, il reato stesso: il vagabondaggio come reato" (37).

Sono quindi i rapporti di produzione a determinare le forme di un ordinamento giuridico (al pari del condizionamento che esercitano su politica, morale, religione, filosofia) è a partire da essi che va compresa la società capitalistica e la possibilità di una tale comprensione è data dal metodo d'analisi implicato nella concezione "materialistica" della storia.

Tuttavia, il significato di questa visione non può essere compreso appieno se si dimentica che essa si enuclea nel quadro di una violenta critica alla metafisica idealistico-hegeliana - doppiamente bocciata per la sua scarsa fecondità nella comprensione della realtà ed i suoi esiti acritici - la quale offriva una visione delle formazioni sociali determinate in primo luogo, nel loro esistere ed evolversi, dalle idee, dalle forme di coscienza (filosofica, religiosa, morale).

Il rovesciamento "materialistico" consiste, appunto, nel porre al cuore di ogni formazione sociale la produzione materiale: cioè, da un lato, il rapporto dell'uomo con la natura, che è dato dalla misura in cui riesce a trarre da essa (assoggettandola) i mezzi per la sua sussistenza, esprimibile nel livello di evoluzione tecnologica di una data società. Dall'altro, un certo tipo di rapporti tra gli uomini, che si danno a partire dall'organizzazione dei modi di produzione.

La grande novità del materialismo è l'aver individuato questo stretto legame che intercorre fra rapporti materiali (uomo-natura) e rapporti sociali (uomo-uomo), l'"unità di economia e società" (38). Al mutare dei rapporti di primo tipo, infatti, vi sarà un inevitabile mutamento dei rapporti del secondo tipo, "i due aspetti sono strettamente e inscindibilmente connessi, poiché un certo rapporto con la natura, un certo modo di appropriarsela e di trasformarla, è al tempo stesso un certo complesso di rapporti fra gli uomini, una certa organizzazione fra loro, e viceversa" (39).

È così che le relazioni materiali, i modi di produzione, le tecnologie impiegate, arrivano a determinare la natura dei rapporti sociali corrispondenti. In tal maniera ciò che apparirebbe frutto di un processo tutto interno alla coscienza, trova le sue determinanti in fattori estrinseci ad essa, "partendo dalla produzione storicamente determinata e dalla società civile nella sua concreta articolazione, si tratta di spiegare le varie creazioni teoriche e le diverse forme della coscienza (religione, filosofia, morale, ecc.)" (40).

Si capisce quale importanza rivesta, in questa visione, il sovvertimento delle determinanti economiche di una data formazione sociale, piuttosto che l'attacco all'ideologia che la ricopre avvolgendola: "poiché le forme della coscienza, le ideologie ecc., non sono casuali e arbitrarie, ma prodotti necessari di una certa organizzazione della produzione e di certi rapporti sociali, esse non possono essere superate con la critica intellettuale ma solo «col rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti»" (41).

Si può, quindi, condividere l'opinione (42) secondo cui, nella prospettiva rivoluzionaria, fosse "strategicamente" più rilevante l'attacco diretto alla "radice" delle stratificazioni sociali. Come dicevamo, centrale in vista della riuscita della lotta di classe è realizzare un profondo rivolgimento delle fondamenta della società civile: l'eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Per usare la metafora impiegata da Gramsci, si potrebbe dire che una simile impostazione suggerisce una strategia assimilabile a quella delle guerre di movimento, in cui l'assalto al cuore delle fila nemiche è immediato e diretto.

2.1.2: Dalla società de "Il capitale" alla "società disciplinare"

Nell'analisi specifica del funzionamento del sistema penale però l'eccessiva rilevanza accordata, dalla dottrina marxista, ai fattori economici appare per certi versi un limite. La scarsa attenzione per l'elemento sovrastrutturale si risolve nell'idea che eliminati i presupposti strutturali che ne giustificavano l'esistenza, lo Stato (e con esso le sue leggi penali) sarebbe scomparso. Nella pacificata società comunista dove le disuguaglianze non esistono, non vi sarebbe stato spazio per i conflitti, né, tanto meno, per il diritto e lo Stato borghese, che ne determina l'esito sempre in favore della classe egemone. Una simile analisi può essere, infatti, tacciata di "olismo criminologico" (43) per la sua idea che, eliminato un determinato sistema economico, sarebbero scomparse immediatamente anche le ragioni di qualsiasi controllo sociale (44).

È tuttavia altrettanto chiaro quanto una simile lettura, rigidamente "materialistica", non renda in fondo giustizia alla complessità delle pagine marxiane.

L'analisi compiuta nel XXIV capitolo del "Capitale", infatti, ci illumina sugli aspetti "strutturali" su cui s'inseriva la "legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio", chiarendoci come la nascente borghesia non sdegnasse, in questa fase della sua storia (c.d. mercantilista), di utilizzare in modo diretto le leve statali per i suoi bisogni di valorizzazione. "Qui effettivamente il diritto penale può vantare grandi meriti nei confronti del capitale" (45), esso affianca alle misure che vietano le aggregazioni operaie e fissano dei rigidi tetti salariali, una legislazione terroristica contro ozio e vagabondaggio, la quale altro compito non ha se non quello di costringere gli individui al lavoro, privandoli di quella forza contrattuale di cui la scarsezza di manodopera, caratteristica del periodo, li dotava. La capacità di contrattare le condizioni della loro prestazione d'opera si trovò così stretta tra l'incudine dei tetti salariali imposti e il martello di una legge penale che non esitava a ricorrere a sanzioni corporali contro chi versasse in perdurante stato d'inoccupazione.

Tuttavia Marx non si limita a sottolineare la brutalità meramente repressiva dell'intervento dello Stato affianco al capitale nascente, ma - segnalando la nascita di un'insieme di costruzioni simboliche che porteranno alla stigmatizzazione quali delinquenti volontari dei cosiddetti oziosi e vagabondi ed all'avvio di un complesso processo di disciplinamento sociale - offre alcuni spunti la cui fecondità è dimostrata dal filone "neo-marxista" di sociologia della pena che si svilupperà a partire da alcuni accenni ivi contenuti (46).

La legislazione contro il vagabondaggio si doterà in breve tempo di uno strumentario diverso dai classici mezzi d'inflizione corporale: lo strumento dell'internamento. Il passaggio in Marx è solo fugacemente accennato (47), ma è chiaro il parallelo che il filosofo tedesco istituisce tra le case di lavoro, in cui si proponeva d'internare poveri e vagabondi, e la fabbrica. Essa pare allora poter assumere un ruolo ulteriore rispetto alla semplice repressione di ogni tentativo di rifiuto delle condizioni di lavoro imposte, può (modificando lentamente il suo arsenale sanzionatorio) costringere le masse neo-proletarizzate alla "disciplina (...) necessaria al sistema del lavoro salariato" (48), può renderle docili strumenti di sfruttamento. Marx intravede solamente il passaggio e, pur se non articola un discorso sull'evoluzione degli strumenti utilizzati contro ozio e vagabondaggio (dalle misure corporali alla casa di correzione/lavoro), percepisce sicuramente l'importanza della "casa di lavoro ideale" nella costruzione di "una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione" (49). Educata in primo luogo al del rispetto della disciplina di fabbrica, cioè dell'autorità padronale nel processo produttivo, da cui dipende la realizzazione delle aspettative di valorizzazione del capitale (50).

"Questa particolare disciplina che il sottoproletariato (ancora in larga parte solo futuro proletariato) deve apprendere, è la disciplina che regola il cuore stesso della società borghese: ma il cuore di questa società è l'accumulazione del capitale, cioè l'estrazione di plus-valore" (51).

Come detto questi spunti non sono specificamente approfonditi in Marx, ma hanno costituito la base di partenza per alcune analisi sull'evoluzione dei sistemi punitivi svoltesi nel quadro di una riconsiderazione del marxismo (52).

Così G. Rusche ed O. Kerchheimer, fedeli ai postulati del materialistici, svolgono un'analisi dell'evoluzione dei sistemi punitivi (segnatamente della nascita della prigione) attenta alle determinanti economiche, rifiutando di vedere le evoluzioni che la storia dei nostri sistemi penali ha conosciuto in termini di una storia delle idee o di una progressiva umanizzazione e razionalizzazione del sistema.

Secondo la loro prospettiva la penalità concretamente praticata in un dato sistema sociale - nei suoi mezzi e nelle sue funzioni effettive - è determinata in via principale dal modo di produzione e dai rapporti sociali fondamentali corrispondenti. Così: in società capitalistiche, caratterizzate da una marcata stratificazione sociale, la pena va ben oltre la finalità che solitamente le si attribuisce, la prevenzione e la repressione dei delitti. Essa, piuttosto, è una componente fondamentale delle strategie di governo della base della piramide sociale, uno strumento cardine nella gestione delle dinamiche sociali più dirompenti causate dagli sviluppi del sistema produttivo.

In particolare Rusche e Kerchheimer rintracciano la funzione fondamentale del sistema penale nella capacità che, nel corso della storia delle società capitaliste, ha avuto di regolare l'intensità dell'afflizione praticata in relazione alle esigenze del mercato del lavoro. In base al basilare principio della less eligibility il sistema penale articola il suo livello di afflizione nella gestione delle classi subalterne in relazione alle fluttuazioni della domanda e dell'offerta di lavoro sul mercato. Tanto più devalorizzato sarà il lavoro in un dato contesto sociale, quanto più affittivo dovrà essere l'intervento penale per rendere «maggiormente eleggibile» anche la più infima condizione lavorativa in stato di libertà rispetto al delitto. "Ogni sforzo per una riforma del trattamento del delinquente trova il proprio limite nella situazione dello strato proletario, socialmente significativo, più basso, che la società vuole trattenere dal commettere azioni criminali" (53).

Il valore di quest'interpretazione dei moderni meccanismi penali non è in discussione - e l'analisi storica che andremo svolgendo ce ne darà conto - tuttavia l'opera di Rusche e Kerchheimernon è esente da limiti, soprattutto quando, nel dare eccessivo rilievo ai fattori strutturali, sembra riprodurre un'analisi rozzamente materialistica. Certo il ruolo degli aspetti sovrastrutturali non è completamente taciuto - essi, infatti, non mancano di parlare del carcere moderno quale "strumento per addestrare nuove riserve al lavoro", per instillare una "piena sottomissione all'autorità" (54) e indurre i detenuti a "rassegnarsi a un'esistenza tranquilla, regolare e laboriosa" (55), offrendo così una visione della pena non meramente repressiva, ma idonea a modificare il carattere degli individui cui si applica - tuttavia il loro lavoro tende a legare meccanicamente le variazioni nella risposta istituzionale ai mutamenti delle condizioni economiche, trascurando "ingenuamente l'importanza delle forme ideologiche e politiche" (56), soprattutto nelle moderne democrazie di massa.

Il sistema di controllo sociale, come sottolineato, non potrebbe reggersi quale strumento di mantenimento di un ordine sociale fortemente squilibrato con il solo ausilio della mera coercizione, quasi che fossero riscontrabili pratiche di controllo penale esplicitamente arbitrarie e discriminatorie, soperchierie ancien regime pronte a sanzionare le aspettative di comportamento che il capitale nutre a seconda delle sue esigenze di valorizzazione. Certo non mancheranno nella storia dei nostri ordinamenti penali casi in cui le esigenze delle elite dominanti sono state esplicitamente sanzionate dalla costruzione giuridica borghese e lo abbiamo già visto, del resto, con la legislazione sul vagabondaggio. Per altri versi però, la coercizione pura e semplice si sarebbe con il tempo dimostrata alquanto inefficace quale strumento di esercizio del potere, tanto più nei moderni ordinamenti costituzionali in cui la lesione dei diritti individuali sarebbe balzata immediatamente agli occhi. La capacità di mantenere intatta la struttura sociale di classe è passata, piuttosto, attraverso altre - e più sofisticate - strategie e ciò è senza dubbio valso anche per il sistema penale, che per l'afflittività dei suoi strumenti sanzionatori pare lo strumento della coercizione per eccellenza.

Al centro dei mutamenti incorsi nei meccanismi punitivi occidentali, al pari di quanto non siano stati determinanti fattori quali le fluttuazioni di domanda e offerta sul mercato del lavoro - con le dinamiche sociali che scatenavano, ora assorbendo, ora espellendo, masse più o meno ampie d'individui - ed i bisogni di valorizzazione del capitale, va posto il tema della disciplina delle classi sociali subalterne e delle strutture simboliche che la sorreggono. È in questo quadro che va riletta la storia della nascita della prigione, una vicenda legata tanto ai processi di «accumulazione del capitale», quanto alla nascita dei meccanismi per «l'accumulazione degli gli uomini»: i meccanismi disciplinari.

Una simile prospettiva pone l'accento sul ruolo delle discipline e delle ideologie che le sorreggono, le quali non sono più mere illusioni, bensì componenti essenziali nella costruzione e nel mantenimento dell'ordine, nella "riproduzione delle condizioni di produzione" e in particolar modo, nella riproduzione (incessante creazione) della forza lavoro funzionale alle esigenze di valorizzazione del capitale (57). I luoghi e i mezzi grazie a cui avviene tale riproduzione (a parte il "salario", funzionale ad una riproduzione meramente materiale, oseremmo dire biologica, della forza lavoro) sono individuabili in ciò che Althusser chiama "Apparati Ideologici di Stato": famiglia, scuola, chiesa, esercito e, aggiungeremmo, prigioni.

E sicuramente, per restare nell'epoca storica considerata, le case di lavoro/correzione hanno adempiuto in pieno a tale ruolo, consentendo - come detto - un'enorme processo di disciplinamento delle plebi proletarizzate e quindi di produzione e riproduzione di una forza lavoro docile ed assoggettata.

Gli apparati ideologici, in quest'ottica, insegnano una disciplina, cioè il naturale rispetto del savoir faire consono al ruolo sociale ricoperto (nel caso delle plebi proletarie: il ruolo di "sfruttati") "ed è con l'acquisizione di alcuni savoir faire inculcati col sistema di massa dell'ideologia della classe dominante, che vengono in gran parte riprodotti i rapporti di produzione di una formazione sociale capitalistica, cioè i rapporti da sfruttati a sfruttatori e da sfruttatori a sfruttati" (58).

Intesa così, l'ideologia (e le discipline che sorregge) non è più solamente la falsa coscienza borghese che s'impadronisce delle masse a causa della loro condizione esistenziale alienata, non è più definita solo in senso "negativo" quale "rapporto immaginario degli individui con le proprie condizioni reali d'esistenza" (59); ma essa acquista una consistenza "positiva", si potrebbe direuna certa "materialità" (60).

Un'interpretazione così riduttiva del concetto d'ideologia era del resto già stata criticata da Gramsci, che l'attribuì ad un certo "materialismo volgare". Egli così schematizzava i momenti logici di tale surrettizia semplificazione del concetto marxiano: in primo luogo "si identifica l'ideologia come distinta dalla struttura e si afferma che non le ideologie mutano le strutture ma viceversa"; in secondo luogo "si afferma che una certa soluzione politica è «ideologica» cioè è insufficiente a mutare la struttura, mentre crede di poterla mutare, si afferma che è inutile, stupida, ecc."; in fine "si passa ad affermare che ogni ideologia è pura apparenza, inutile, stupida, ecc." (61).

Tali passaggi logici fanno perdere completamente di vista il ruolo delle ideologie nell'organizzazione e standardizzazione del comportamento umano: esse "formano il terreno in cui gli uomini si muovono", in cui agiscono, arrivando ad incidere con le loro azioni sulla realtà, producendola e riproducendola...Le ideologie non sono allora pure immaterialità, ma contribuiscono decisamente a creare e riprodurre concreti ordinamenti sociali. Contribuiscono in maniera forse fondamentale al processo di costruzione della realtà sociale.

L'esistenza materiale delle idee è iscritta negli atti, nelle pratiche dei soggetti che ne sono portatori. L'ideologia è nel soggetto e, per tramite di questo, assume una sua consistenza materiale.

Minore dipendenza dell'elemento sovrastrutturale rispetto alla struttura, o meglio, maggior consapevolezza degli effetti di ritorno che gli aspetti culturali, caratterizzanti una formazione sociale, riescono ad esercitare sulla sua struttura economica, sulla sua evoluzione, sul suo mantenimento. La "dialettica" struttura/soprastruttura è di centrale importanza per comprendere come si eserciti il potere nelle società moderne.

È, infatti, a partire da determinate condizioni socio economiche che gli individui producono "fioriture" superstrutturali, che creano delle ideologie ed esse riflettono, razionalizzandola e giustificandola, la posizione rispetto alla struttura economico-sociale degli individui che l'elaborano. In una formazione sociale estremamente stratificata è allora naturale che fioriscano diverse ideologie, esse, anche se manifestano la tendenza a porsi come universali, esprimono semplicemente un punto di vista sulla realtà. Come nel caso dell'ideologia dell'élite dominante in una data formazione sociale.

Tuttavia ogni fioritura superstrutturale, ogni ideologia, ha una portata prettamente "gnoseologica", "determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza" (62) dalla quale scaturisce una nuova concezione del mondo, un nuovo universo simbolico. Essendo l'agire umano orientato da queste costruzioni simboliche, che concretamente costituiscono la base a partire dalla quale interpretiamo il mondo, si può arrivare ad affermare che le ideologie determinano il campo della nostra esperienza.

In quest'ottica, asserire che, poiché riflettono un mero punto di vista sulla realtà, esse non siano in alcun rapporto, se non di dipendenza assoluta, con la struttura sociale limita notevolmente la possibilità di comprendere i processi di controllo sociale praticati nelle società moderne e contemporane. Ogni sovrastruttura è, infatti, idonea ad indirizzare il comportamento di masse più o meno ampie d'individui, i quali riprodurranno anche nella sfera dei rapporti materiali, la prospettiva a partire dalla quale intendono il mondo.

Il problema dell'egemonia di un gruppo sugli altri in cui sono stratificate le formazioni sociali capitalistiche si arricchisce notevolmente in quest'ottica: a partire dal dato strutturale economico (la diseguale allocazione delle risorse e dei mezzi di produzione) che costituisce un primo (determinante) elemento di egemonia su una classe sull'altra (costretta così a vendere la propria forza lavoro), il mantenimento di tale vantaggiosa struttura sociale passa attraverso la capacità della classe dominante di socializzare alla visione del mondo da essi espressa (che tenderà a razionalizzare l'ordine dato) anche le classi subalterne.

L'ideologia della classe dominante tende ad essere l'ideologia dominante, quanto più essa è in grado di prevenire o neutralizzare l'insorgere di visioni del mondo contrastanti, potenzialmente in grado di stravolgere l'ordine dato. Se la lotta per l'egemonia politico culturale (per imporre la propria visione del mondo, il proprio universo simbolico) è condotta con successo, la realtà, così com'è, anche per chi potrebbe essere portato, a causa delle sue condizioni materiali d'esistenza, a levare un'aspra critica del reale, diviene un fatto naturale...ineluttabile.

Il dominio materiale non è perpetuabile senza una concreta egemonia ideologica che lasci gli interventi coercitivi ai soli casi di individui o gruppi inassimilati o inassimilabili ideologicamente. Struttura e soprastruttura non sono concepibili nei termini di un dominio del primo elemento sul secondo (materialismo volgare) o viceversa (idealismo e derive solipsistiche della fenomenologia), ma formano un insieme strettamente correlato: "le forze materiali non sarebbero concepibili storicamente senza forma e le ideologie sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze materiali" (63).

Tale visione del problema dell'egemonia sarà in un certo senso sviluppata dai lavori di Michel Foucault sulle istituzioni disciplinari, viste come apparati per la socializzazione degli individui a determinate concezioni del mondo e come istanze di continua produzione di queste costruzioni simboliche.

Ad un primo sguardo, tuttavia, parrebbe quantomeno azzardato istituire un parallelo tra Foucault e gli sviluppi del marxismo. Il filosofo francese scrive, infatti, in un'epoca di crisi delle "grandi narrative" e, segnatamente, di reazione da parte di ampi strati della cultura all'egemonia del marxismo ortodosso (64); inoltre la sua critica s'inserisce in un quadro di pensiero debole, decostruttivo, rifiuta pertanto ogni pretesa di scientificità e ciò lo porta ad un categorico rigetto della pretesa positivista che si celava dietro il marxismo ed il suo concetto di "ideologia". Egli, infatti, ritiene tale concetto inutilizzabile poiché in rapporto dialettico con la presunzione di articolare un discorso autenticamente scientifico, in grado di predicare il "vero".

Pare tuttavia evidente come la nozione di ideologia cui reagì Foucault presenti parecchie affinità con quella espressa da quel "materialismo volgare" cui tante pagine dedicò Gramsci nei suoi Quaderni. Per l'italiano, infatti, il marxismo nasce come sistema filosofico consapevole delle contraddizioni del mondo, anzi esso è esattamente pensato per esprimere in forma compiuta, ideologica, queste stesse contraddizioni, in modo da renderle meglio percepibili agli individui che ne subiscono tutto il peso. Esso "afferma teoricamente che ogni «verità» creduta eterna e assoluta ha avuto origini pratiche ed ha rappresentato un valore «provvisorio» (storicità di ogni concezione del mondo e della vita)" (65). E non può, pertanto, non ampliare tale discorso a sé stesso, posto che scaturisce dall'esigenza di esprimere ed elaborare in una visione del mondo sufficientemente coerente le contraddizioni del reale, il cui superamento pratico renderebbe obsoleto lo stesso bagaglio di asserzioni del marxismo.

Questa assoluta mancanza della consapevolezza della "storicità" e "necessarietà" storica del marxismo ha prodotto degli effetti di non poco conto: esso è progressivamente diventato "un sistema dogmatico di verità assolute ed eterne; specialmente quando (...) è stato confuso col materialismo volgare, con la metafisica della materia, che non può non essere eterna e assoluta" (66).

Tali considerazioni stemperano, forse, le inconciliabilità fra approccio foucaultiano e marxista nello studio dei processi di controllo sociale: se ogni concezione del mondo è storicamente determinata e, correlativamente, una simile affermazione vale anche per tutto quello che passa per "oggettivo" in un dato universo simbolico, aldilà di ideologie storicamente determinate non pare possa esistere spazio per una conoscenza "oggettiva" e "universale" del mondo sociale.

Alla stessa stregua, in Foucault, oggetto e soggetto di conoscenza non si presentano quali realtà "a-storiche", "universali". Egli, infatti, non si pone il problema di costruire un discorso con pretese di oggettività, in opposizione ai "sogni", alle illusioni, alle false rappresentazioni ideologiche. Per il francese il problema è di valutare come si producano "effetti di verità" in una data formazione sociale. La sua attenzione è dunque concentrata sul problema del come, in un luogo ed in un tempo determinato si giunga ad una predicabilità del vero. È questo il senso più profondo delle sue analisi sulla nascita dell'episteme moderna (67).

A partire da questi presupposti, Foucault entra in polemica con il marxismo, soprattutto perché la sua tradizione ortodossa continuava a fornire un'immagine del potere meramente repressiva (che abbiamo indicato con la locuzione «schematismo giuridico»), mentre egli era più interessato ad evidenziare l'elemento tecnico-positivo (disciplinare) nei meccanismi di controllo sociale (68). Certamente però una corretta focalizzazione della dialettica struttura/soprastruttura avrebbe evitato al filosofo francese di riprodurre (anche se per reazione) le posizioni di un certo materialismo volgare. La teoria delle superstrutture si presenta, infatti, come un superamento positivo tanto di idealismo, che materialismo volgari, il suo valore risiede nell'essere "la traduzione in termini di storicismo realistico della concezione soggettiva della realtà" (69), che è appunto la prospettiva in cui Foucault si colloca.

Così è possibile leggere attraverso questa lente la critica che il filosofo francese muove alla dottrina marxista del diritto penale sviluppata dal giurista sovietico Evgenji Pašukanis. Se, infatti, la prigione è una tecnica punitiva in cui si può rintracciare un fondamento giuridico-economico che richiama il sinallagma contrattuale (70), in essa è individuabile anche un fondamento tecnico-disciplinare che è parte integrante della sua intima natura sin dalla prima istituzione internante che in evo moderno vide la luce in Europa.

"La prigione è naturale, com'è naturale nella nostra società l'uso del tempo per misurare gli scambi. Ma l'evidenza della prigione si fonda anche sul suo ruolo, supposto o preteso, di apparato per trasformare gli individui" (71).

Non semplicemente luogo di una contraddizione, fra momento del diritto (pena come retribuzione) e momento della disciplina (pena come esecuzione) (72), la prigione è infatti un'istituzione che non nasce nel grembo di un'ideologia egualitaria: "la sua radice è altrove: precisamente nel fatto che si chiede alla prigione di essere «utile», nel fatto che la privazione della libertà - questo prelevamento giuridico su di un bene ideale - ha dovuto, fin dall'inizio, esercitare un ruolo tecnico positivo, operare delle trasformazioni sugli individui" (73).

Essa è esisteva già nella pratica dell'internamento fin dal XVI secolo, e non è certo l'avvento delle forme giuridiche borghesi, degli schemi sinallagmatici del contratto quale scambio fra equivalenti ad aver reso pensabile e praticabile una penalità di reclusione. Il clima culturale in cui nacquero le codificazioni borghesi, insieme all'idea che la "nuova" società avesse finalmente assicurato a tutti il bene intangibile della libertà e che, in questa società, l'unica pena realmente "umana" ed egualitaria potesse essere solo la privazione della libertà, l'hanno forse ammantata del razionalismo giuridico borghese (74); ma l'imporsi della prigione è piuttosto dovuto al suo essere ben radicata in un'esperienza ormai pluri-secolare.

È così che Foucault può affermare: "la lunghezza della pena non deve misurare il valore di scambio dell'infrazione; deve adattarsi alla trasformazione utile del detenuto nel corso della condanna. Non un tempo misura ma un tempo finalizzato" (75). È l'aver messo in ombra l'aspetto tecnico-positivo del potere moderno che Foucault rimprovera al marxismo ortodosso, l'aver concentrato l'attenzione solo sui meccanismi giuridici della repressione.

A riguardo, ignaro della rilevanza dei saperi nei meccanismi di potere, bensì preda del più ingenuo entusiasmo positivista, il giurista sovietico Evgenji Pašukanis critica l'ingranaggio giuridico della repressione borghese per auspicare una rifondazione del diritto penale secondo i postulati delle scienze positive, anticipando nelle sue parole le aberrazioni di cui il diritto penale sovietico saprà fare sfoggio (76). Certo il concretizzarsi di una giustizia penale retributiva (almeno a parole, come vedremo) può sembrare uno dei portati della creazione di un'organizzazione sociale fondata sugli schemi sinallagmatici del diritto civile borghese e, in un certo senso, la vicenda della riforma penale può essere letta quale esempio di come determinate forme culturali sorte nella sfera dei rapporti sociali fondamentali, riescano a permeare anche altre sfere sociali. Tuttavia - a prescindere dal fatto che, come è stato giustamente sottolineato (77), l'idea della retribuzione per equivalente fu presente in tutti gli ordinamenti arcaici, sotto forma di jus talioniis nel codice di Hammurabi, nella Bibbia, nelle XII Tavole - non riconoscere quale profondo valore di garanzia sia rintracciabile nel principio retributivo porta, a nostro modesto parere, ad una visione strabica dell'effettivo funzionamento dei sistema penali nelle società capitalistiche. La loro estrema selettività, infatti, è dovuta proprio all'elusione del principio retributivo, con tutte le garanzie insite, che gli schemi disciplinari consentono.

Resta comunque invariato il valore dell'ipotesi di Rusche e Kerchheimer ed, in particolare, la loro interpretazione "materialistica" della storia dei sistemi penali moderni. Su questo piano, l'apporto foucaultiano allo studio della penalità moderna pare essere, più che in radicale antitesi con il lavoro dei due membri della "Scuola di Francoforte", uno sviluppo ulteriore di alcune loro ipotesi ancora embrionali.

Michel Foucault, come sappiamo, privilegia un'analisi che ha riguardo all'incidenza delle scienze umane nei processi di controllo sociale, cioè, per usare la terminologia marxista, a quello che potremmo definire un aspetto del profilo sovrastrutturale. Aspetto, peraltro, cui (a differenza di quanto non abbiano fatto Rusche e Kerchheimer) gli altri membri della "Scuola di Francoforte" davano parecchia rilevanza (78).

Noi proveremo a tenere in considerazione anche questo profilo ed, in particolare, descriveremo sommariamente l'emergere di quella che è chiamata «società disciplinare», in quanto sono proprio i meccanismi di potere insiti in questa particolare formazione sociale ad aver consentito quell'efficiente gestione dello strato proletario socialmente significativo cui si riferirono Rusche e Kerchheimer nella loro descrizione delle funzioni del sistema penale.

"La pena svolge un ruolo centrale nelle attività di controllo e all'interno delle politiche sociali che regolano, nel loro complesso, la condizione degli emarginati e tentano di gestire i settori a rischio della popolazione. Le misure penali vengono (...) pensate però non solo in base alle tipologie dei comportamenti criminali (...) ma soprattutto, a partire dai modi in cui la classe dominante percepisce il povero in termini di problema sociale, e dalle strategie adottate per il suo trattamento" (79).

2.2: La società disciplinare

Dobbiamo a questo punto tentare di precisare in cosa consista questa modalità di controllo sociale basata su meccanismi tecnico-positivi cui abbiamo ripetutamente fatto riferimento, cercare di rintracciarne le origini culturali, individuarne gli schemi operativi e, soprattutto, posto che avremo riguardo al nostro ordinamento penale, i segni della sua influenza su di esso, sin dalle origini del sistema di giustizia criminale dell'Italia unita.

Si farà in sostanza una breve storia della società disciplinare (80) (con un occhio di riguardo alla sua influenza sul nostro ordinamento giuridico), cioè di quella rete di sorveglianza che si regge non sull'astratta figura di un sovrano, ma coinvolge l'intero corpo sociale, realizzando, così, la base di un potere realmente efficace quale è quello che le società capitalistiche hanno saputo mettere in pratica. Fondato su una serie di relazioni infime, minute, molteplici, tutte situate nel sociale.

L'attenzione sarà rivolta al ruolo degli istituti penali in questo complesso disciplinare ed al loro riassestarsi sui canoni di questo modello di controllo, circostanza che offrirà l'occasione per sottolineare quanto la dimensione concreta (la sfera della sua effettività) del nostro sistema penale sia lontana dall'immagine che l'ideologia illuminista della codificazione ci ha tramandato, ponendoci su una linea già seguita dal Foucault sociologo della pena quando sottolinea l'esigenza di "analizzare i sistemi punitivi concreti, di studiarli come fenomeni sociali di cui non possono rendere conto la sola armatura giuridica della società, né le sue scelte etiche fondamentali" (81).

2.2.1: Istituzioni disciplinari

L'opera di Michel Foucault ha rappresentato un contributo di tale importanza per la sociologia della pena che si è arrivati a dire che "scrivere oggi sulla pena senza rifarsi a Foucault sarebbe come parlare d'inconscio senza considerare Freud" (82); anche se non è certo questo il luogo per ripercorrerel'intero suo contributo in quest'ambito, in tale sede ci limiteremo ad estrapolarne le linee teoriche essenziali e le riflessioni maggiormente rilevanti ai nostri fini.

In primo luogo preme sottolineare come la concezione del potere sulla quale abbiamo ripetutamente concentrato l'attenzione - inteso come un meccanismo che "opera attraverso gli individui non contro di essi, contribuendo a fabbricare quel soggetto che ne è, allo stesso tempo, il veicolo" (83) e non come una proprietà o qualcosa che alcuni possiedono a scapito di altri - possa darsi solo a partire da un presupposto metodologico fondamentale, in cui vi è forse anche un elemento di grande originalità dell'opera foucaultiana: a patto che si conduca un'analisi microfisica, tutta intenta all'osservazione delle singole e specifiche relazioni in cui si esplica il potere, tesa ad individuarne le meccaniche, gli ingranaggi minuti attraverso cui funziona.

"Quando penso alla meccanica del potere, penso alla sua forma d'esistenza capillare, al punto in cui il potere tocca il granello stesso degli individui, raggiunge il loro corpo, viene ad inserirsi nei loro gesti, i loro atteggiamenti, i loro discorsi, il loro apprendimento, la loro vita quotidiana" (84) un potere, insomma, che si esercita "nel corpo sociale" e non "al di sopra del corpo sociale" (85). Un potere che si esplica in micro-relazioni e si basa su un "bilanciamento asimmetrico di forze" (86) in cui la parte che prende il sopravvento trova il surplus di forza da opporre alla resistenza della controparte, nella capacità di oggettivarla, assoggettandola in un discorso che ne faccia un oggetto di sapere.

Come da più parti si è sostenuto (87), il valore di Sorvegliare e punire risiede, più che in un valido risultato dal punto di vista storiografico (secondo l'aspettativa che il sottotitolo dell'opera, Nascita della prigione, creava), negli strumenti per un'analitica del potere che essa offre. In particolare, in quest'opera capitale, è stato posto in evidenza quel legame fra potere e sapere in cui risiede tutta la forza e l'irresistibilità dei moderni meccanismi di controllo sociale.

Difficile sarebbe nell'opera del filosofo francese rintracciare linee di sviluppo nitide ed una chiara successione cronologica dei passaggi attraverso cui la prigione diviene il perno del sistema punitivo moderno. Egli, più che soffermarsi sulle vicende delle prime istituzioni internanti (88), eleva il carcere ad emblema del potere disciplinare, individuandone il meccanismo "ideal-tipico" di funzionamento nella metafora di un progetto di penitenziario che vide la luce al termine del XVIII secolo, per mano di Jeremy Bentham, uno dei più famosi esponenti dell'illuminismo anglosassone: il Panopticon (89).

Il soggetto preso in questo meccanismo di potere (così come quello all'interno della struttura progettata da Bentham) "è visto ma non vede; oggetto di una informazione, mai soggetto di una comunicazione" (90). Grazie a questo "ingranaggio" si creano, quindi, non solo le condizioni per un aumento esponenziale della capacità di sorveglianza ma anche le possibilità concrete per elaborare un sapere sugli individui cui il processo di controllo sociale si dovrebbe rivolgere.

Il meccanismo panoptico "può essere utilizzato (...) per modificare il comportamento, per addestrare o recuperare gli individui" (91), esso è "un luogo privilegiato per rendere possibile la sperimentazione sugli uomini e per analizzare con tutta certezza le trasformazioni che si possono operare su di loro" (92), è, in definitiva, un luogo per "tentare esperienze pedagogiche" (93), in quanto l'idea di essere costantemente sotto controllo alla lunga instillerà autocontrollo nei soggetti presi in carico dal meccanismo (94).

È un meccanismo di controllo che assume come bersaglio l'anima dei soggetti cui si rivolge, mentre rifugge le violente, inutili e dispendiose modalità di controllo dirette verso il corpo. O meglio, posto che nel sistema della giustizia criminale una, seppur "addolcita", forma d'afflizione si manterrà anche dopo l'intervento riformatore tra XVIII e XIX sec., prende in carico il corpo del condannato in quanto sede della sua anima.

Questi meccanismi evitano in linea di massima le modalità punitive e di controllo che "dominano il corpo dall'esterno, vale a dire usando la forza e la costrizione fisica per piegare gli individui" piuttosto essi "fanno si che gli individui ne interiorizzino i comandi, fabbricando un soggetto che risponde spontaneamente a ciò che è richiesto, senza dover impiegare alcuna forza esterna" (95). È l'anima, intesa come sede dei comportamenti, il bersaglio delle discipline.

L'opera di Bentham è la matura espressione di un'ideologia e di una pratica di intervento statale sulle questioni sociali diffusasi in tutta Europa a partire dal XVI secolo. Essa rappresenta, forse, l'anello di congiunzione fra l'esperienza delle prime istituzioni internanti e la prigione moderna, che i riformati ordinamenti giuridici del mondo occidentale si daranno a partire dalla fine del XVIII secolo. In essa il potere disciplinare è cristallizzato quasi in una forma pura, il progetto, infatti, è chiaramente scomponibile nei due principi che ne costituiscono l'anima: al principio della sorveglianza continua (principio ispettivo) si accompagna la convinzione che gli internati avrebbero dovuto essere impiegati in una qualche attività produttiva (principio produttivo) (96).

La vocazione produttivistica del progetto di Bentham era tuttavia un retaggio della ormai secolare esperienza delle case di lavoro/correzione, essa, nell'epoca in cui Bentham scriveva (fine XVIII), non poteva rivestire quel ruolo nel controllo del mercato del lavoro e nel sostegno del nascente capitalismo che riuscì a far decollare rapidamente, tra XVI e XVII secolo in Inghilterra e Olanda, bridenwelles e workhouses (97).

La funzione di calmiere del costo del lavoro, di controllo dei salari, che - almeno fino al XVII secolo - tali istituzioni rivestirono, fu sicuramente un fondamentale sostegno per il nascente capitalismo. Non è un caso, infatti, se tali istituzioni riuscirono a rivestire tale funzione in paesi come l'Inghilterra e l'Olanda, che, in epoca mercantilistica, accompagnano ad ampie possibilità di sviluppo manifatturiero una endemica carenza di forza lavoro dovuta ad un complessivo calo demografico.

L'aut aut fra lavoro libero alle condizioni imposte dai tetti salariali e lavoro forzato in un'istituzione d'internamento, fu certamente una leva importante per il sostegno delle nuove iniziative economiche ed è in questo quadro che la forma panopticon può essere letta correttamente quale istanza che "gioca un ruolo di amplificazione: se organizza il potere, se vuole renderlo più economico e più efficace, non è per il potere stesso, né per la salvezza immediata della società minacciata: si tratta di rendere più forti le forze sociali - aumentare la produzione, sviluppare l'economia, diffondere l'istruzione, elevare il livello della moralità pubblica; far crescere e moltiplicare" (98).

Tuttavia, aldilà di questa funzione - peraltro già chiaramente evidenziata dai lavori d'ispirazione marxista sul sistema penale - le istituzioni internanti, come già abbiamo sottolineato, continuarono la rivestire un ruolo disciplinare, anche se l'esplosione demografica ed il prodursi di una sovrappopolazione relativa le privarono della loro funzione quali calmieri del costo del lavoro. Il vertiginoso aumento del numero di braccia impiegabili come lavoratori salariati (probabilmente dovuto anche ad un'accelerazione complessiva dei processi di eversione dalla feudalità) tra XVII e XVIII secolo, porterà a ridurre la rilevanza produttivistica accordata al lavoro nelle istituzioni internanti, per relegarlo ad un mera funzione disciplinante ed intimidatrice.

Gli effetti sul mercato del lavoro non sono dati in questo caso dall'impiego di lavoro forzato da parte delle imprese manifatturiere e, poi, industriali, ma dallo sviluppo, fino all'estremo, del principio intimidativo (sin dall'inizio connaturato a queste istituzioni). La casa di lavoro diventa già sul finire del XVIII secolo una "deterrent workhouse"! "In una casa del genere, nessuno entrerà volontariamente; il lavoro, l'isolamento e la disciplina intimidiranno l'indolente ed il malvagio" (99).

È così che, progressivamente, in queste istituzioni "il lavoro che viene svolto, diventa in genere inutile, insignificante, pensato assai più per esigenze di disciplina e di ammaestramento che di rendimento produttivo" (100), è in questo che va sostanzialmente cercato il motivo del prevalere, nei concreti progetti ispirati al lavoro di Bentham, del principio ispettivo, dell'elemento di puro controllo, del progressivo deperimento della valenza produttiva del lavoro carcerario e la deriva della prigione verso una funzione meramente disciplinare.

La prigione moderna condensa in sé stessa tutte le esperienze d'internamento precedenti (con l'esclusione, come si è visto, della loro vocazione produttivistica), essa pertanto "preesiste alla sua utilizzazione sistematica nelle leggi penali" (101) moderne e, come lucidamente evidenziato, il suo porsi quale strumento di coercizione penale per eccellenza, fra XVIII e XIX secolo, segna, da un lato, una svolta nella giustizia penale "il suo accesso all'umanità" (102); dall'altro la colonizzazione di questa stessa penalità da parte dei meccanismi disciplinari che l'emergente borghesia andava incubando da qualche secolo. Questi ultimi, come detto, si affiancano ai processi di «accumulazione del capitale», quali meccanismi di «accumulazione degli uomini», idonei a controllarne la massa complessiva e renderli singolarmente individui "docili e utili".

Così, la storia delle bridenwelles, delle workhouses, dell'hopital général e di tutte le istituzioni analoghe, che non sono altro che le progenitrici della moderna prigione, può essere letta all'interno della dialettica fra l'esigenza di "riassorbire la disoccupazione, o almeno cancellarne le conseguenze sociali più vistose, e controllare le tariffe quando rischiano di diventare troppo elevate" (103). I meccanismi disciplinari sono uno strumento prezioso, infatti, nell'esplicarsi concreto delle strategie "governamentali", nella gestione "razionale" dei fenomeni di popolazione; del resto fu proprio l'esplodere a partire dal XVI secolo del problema del pauperismo a porre quale questione centrale la necessità del governare razionalmente i macro-fenomeni che avvengono a livello di popolazione.

Più in generale essi offrono un vasto spettro di livelli d'afflittività per mezzo dei quali far funzionare il principio della less eligibility: quanto più il valore del lavoro sarà inflazionato, tanto più l'internamento dei disoccupati sarà funzionale ad una loro mera neutralizzazione, che ad un effettivo sfruttamento economico. Nello specifico delle istituzioni internanti (e del corredo di meccanismi polizieschi che, come vedremo, le accompagna), infatti, il loro intervento assume fondamentale importanza proprio nel governo di quello che Marx indicò come "sedimento più basso della sovrappopolazione relativa" (104), la sfera di popolazione che viene a costituire le fila del sottoproletariato, alimentando il fenomeno del pauperismo.

Del resto, l'ossessione che rappresentò il fenomeno del pauperismo per le coscienze del tempo, fu dovuta all'ingresso nelle città di masse rurali neo-proletarizzate che i centri urbani di allora non furono in grado di assorbire, "le città, a cavallo tra il XV e il XVI secolo, non sono riuscite a creare «strutture di adattamento» capaci di disciplinare il massiccio afflusso di persone prive di qualifiche professionali e non abituate alla vita urbana" (105). Tali "strutture di adattamento" saranno le istituzioni internanti ed i meccanismi disciplinari, in quanto meccanismi funzionali al grande «accumulo di uomini» che la nascita del capitalismo e le rivoluzioni industriali avrebbero avviato.

Nella gestione di questi strati di popolazione (106), oltre alla evidente funzione intimidatrice, l'internamento è in grado di selezionare individui o gruppi di individui considerati poco adatti alla vita sociale, neutralizzando momentaneamente la minaccia all'ordine che essi rappresentano e, al contempo, di avviare un processo di disciplinamento che, se può in certi casi - quando cioè esistono le condizioni esterne, come nel caso delle case di lavoro centro-nord europee fra il XVI e il XVII secolo -portare addirittura ad uno sfruttamento produttivo del lavoro degli internati, è tendenzialmente finalizzato a preparare questi individui alla fatica, al lavoro ed al rispetto dell'ordine, in vista di un eventuale ritorno in libertà (107).

Così, come sottolinea Dario Melossi, i lavori praticati in queste istituzioni (come nel caso della Rasphuis fondata ad Amsterdam nel 1596, caratterizzata da un processo produttivo particolarmente faticoso), assumono una diversa valenza: realmente produttiva, nella fase mercantilistica, connotata dalla scarsezza di forza lavoro sul mercato e dal frequente utilizzo di lavoro forzato da parte del nascente capitalismo; intimidatrice, poiché la pesantezza del processo lavorativo e il fatto di essere rinchiusi, rendeva assolutamente preferibile un lavoro libero a qualsiasi condizione piuttosto che l'internamento; disciplinante, poiché in queste istituzioni si inculcava quella che stava per diventare la nuova etica dominante: l'etica del lavoro.

Lentamente, però, le case di lavoro iniziano a perdere la loro vocazione produttivistica, sviluppando al massimo l'aspetto intimidativo/disciplinante: da un lato, infatti, continuano a dare sostanza al principio della less eligibility, fungendo da spauracchio per quanti, all'esterno, versassero in uno stato d'inoccupazione; dall'altro, all'interno di queste istituzioni segreganti, si cominciano a predisporre gli strumenti ideologici per giustificare la disciplina "dentro la manifattura" (disciplina della nuova situazione diceva Marx), per rendere più docili le masse e aprire la via allo sfruttamento e ad un'estrazione di plusvalore priva di resistenze (108).

Si può forse comprendere, così, come mai il lavoro, al pari dell'isolamento, nei dibattiti sulla riforma penitenziaria nel XIX secolo è preso in considerazione quale "agente di trasformazione" (109). Come mai non sia più tanto la possibilità da parte del capitale di accedere ad un settore privilegiato del mercato del lavoro, il settore del lavoro forzato, che determina la centralità del lavoro carcerario in ogni progetto di riforma penitenziaria. Il capitale non ha più bisogno ormai delle leve statali per conseguire i suoi bisogni di valorizzazione, l'ideologia borghese può ormai celebrare il dogma del "lasciar fare", la "silenziosa coazione dei rapporti economici viene a sostituire la violenza statuale, è l'era del liberismo" (110).

In quest'epoca, infatti, "l'abbondanza di forza lavoro libera era tale che il lavoro forzato non adempiva più in alcun modo a quella funzione calmieratrice dei salari esterni che gli era stata propria nel periodo mercantilista. Ci si poteva permettere così di preoccuparsi della concorrenza che il lavoro in carcere faceva al lavoro libero e venire incontro alle proteste che contro di questo elevava la classe operaia" (111).

È in questo quadro che s'inseriscono i brani tratti da "l'Atelier" riportati da Foucault (112). Essi esprimono l'opposizione del mondo operaio verso il lavoro in carcere inteso in senso produttivo; ad essi fa da contr'altare una risposta istituzionale che chiarisce quale fosse la reale valenza che nel XIX sec. ormai si attribuiva al lavoro in carcere: "non è come attività di produzione che è intrinsecamente utile, ma attraverso gli effetti che genera nella meccanica umana, il lavoro è un principio di ordine e di regolarità" (113).

Sulla capacità del carcere di diventare un agente positivo di trasformazione si centreranno tutti i dibatti svoltisi attorno alla questione penitenziaria nell'Europa del XIX secolo, come in Francia: dove le prigioni furono, denunciate per lo stato di disordine e promiscuità in cui erano costretti a vivere i condannati ed accusate di favorire la corruzione, più che il ravvedimento, dei rei.

In questo clima due magistrati, Tocqueville e Beaumont, decisero (era il 1831) di compiere un viaggio negli Stati Uniti d'America, considerata come la patria del moderno penitenziario. In particolare lo sviluppo di un penitentiary system e la realizzazione completa della reclusione quale pena per eccellenza, furono di molto favorite negli states dalla presenza di un'associazione filantropica quacchera (la Philadelphia Society for the Alleviating Miseries of Pubblic Prisons) la quale riteneva che alla prigione non dovesse essere riservato uno scopo semplicemente intimidativo, ma che questa avrebbe potuto assumere un concreto ruolo emendativo, funzionando come luogo di recupero del condannato.

La "questione penitenziaria" si risolse nell'opposizione fra due modelli di carcerazione leggermente diversi ma non assolutamente contrapposti: il modello di Filadelfia ed il modello di Auburn, il primo impostato in modo da isolare costantemente (giorno e notte) i detenuti; il secondo con isolamento solo notturno e lavoro in comune di giorno (114).

Tocqueville si espresse per la prima volta nel 1838, quasi informalmente, a favore del modello filadelfiano e successivamente confermò la prima indicazione, nel 1843, con una poderosa relazione al parlamento parigino, in cui spiegava ai colleghi parlamentari le ragioni della scelta (115).

Indipendentemente dai precisi termini della questione (Tocqueville fece anche riferimento all'impossibilità di governare i detenuti se costretti al lavoro in comune, soprattutto in relazione alla necessità di far rispettare il silenzio, che avrebbe costretto all'impiego di numerose guardie) ci preme di sottolineare come la scelta del sistema filadelfiano sia stato soprattutto dovuta alla fiducia nella sua particolare capacità emendatrice: "ho visitato tutte le celle del penitenziario di Filadelfia; ho successivamente conversato con tutti quelli che vi sono rinchiusi, e vi posso assicurare che ho trovato lo spirito di questi uomini in uno stato più soddisfacente di quello di qualsiasi altra classe di condannati che io abbia mai incontrato. I loro pensieri erano seri e calmi, le loro parole semplici e ragionevoli. Ho notato che l'isolamento aveva dato una grande intensità ai sentimenti che più possono servire a moralizzare l'uomo" (116).

Come egli stesso chiarirà più oltre, l'isolamento fa soffrire l'anima; è a questa che bisogna guardare per recuperare il condannato, egli dovrà percepire le nequizie della sua colpa. L'isolamento, insomma, è "fra tutti i sistemi, quello che rende più possibile la riforma morale dei criminali, e che esercita sulla loro anima l'influenza più energica e salutare" (117).

Il dibattito sul sistema penitenziario era appunto la faticosa ricerca di una punizione in grado di emendare il reo, di una pena che riuscisse a renderlo cosciente delle colpe che la sua immoralità gli impediva di percepire, instillandogli il valore di una vita regolare e laboriosa. "Tu sarai costretto a guardare in te...la tua intelligenza, che tu hai degradato si sveglierà e ti condurrà all'espiazione" dice Rodolfo, protagonista dei "Misteri di Parigi" di E. Sue, quasi auspicando una pena in grado di salvare non l'uomo concreto ma la sua anima. Il brano è citato in un'opera di K. Marx (118) in cui si sottolinea come nel romanzo di Sue (ma il discorso è ovviamente estendibile alla cultura borghese del tempo) "si vuole legare la vendetta contro il delinquente con la espiazione e con la coscienza del peccato del delinquente, la pena corporale con la pena spirituale" (119). Il filosofo tedesco compie qui, con una felicissima intuizione, un parallelo fra la pena che (l'accecamento) uno dei protagonisti del romanzo è costretto a subire e la scelta dell'isolamento cellulare (modello Filadelfiano) verso cui sembrava protendere la maggior parte degli esperti penitenziaristi (primo fra tutti Tocqueville, cui Marx fa esplicito riferimento) (120), segnalando la deriva della penalità moderna che, pur pretendendo di essersi definitivamente separata da ogni riferimento a parametri morali nell'identificazione della devianza, continua ad essere strettamente collegata alla esperienze dei secoli passati, in cui s'internavano i poveri e disoccupati perché ritenuti, a causa del loro stato selvaggio e della loro immoralità nei costumi, potenziale pericolo e germe di corruzione per il buon ordine sociale (121).

Si diceva che i meccanismi disciplinari (di cui il carcere è emblema) coniugano un costante controllo ed una tecnologia per la produzione ed il governo di un'umanità consona ai bisogni della nascente società industriale. La merce forza lavoro va creata (incessante produzione e riproduzione) perché non esiste in natura, docile e pronta a lasciarsi consumare passivamente, senza opporre alcuna resistenza. A questo servirono le istituzioni disciplinari, con un ruolo di punta riservato a case di lavoro/correzione.

Essi appaiono, sin dal loro primo manifestarsi, percorse dalla costante dell'essere funzionali all'affermazione di un valore morale: l'etica del lavoro. "La prigione non è una fabbrica: è, bisogna che sia, una macchina di cui i detenuti-operai siano allo stesso tempo ingranaggi e prodotti" (122).

Il prodotto finale della macchina prigione è dunque un docile lavoratore salariato, pronto ad accettare senza remore le condizioni di lavoro e di vita che il capitale gl'impone in relazione ai suoi bisogni di valorizzazione, dotato del savoir fare consono al suo ruolo di sfruttato.

2.2.2: Il «grande internamento»

Le istituzioni internanti, sin dai loro albori nel XVI secolo, possono allora essere lette quali "fortezze dell'ordine morale" (123). Esse sono dotate di uno statuto etico: funzionali all'imposizione di una pedagogia dell'autocontrollo e del rispetto dell'autorità temporale, celebrano il lavoro quale rimedio all'abbandono morale e all'ozio.

Strumenti educativi, quindi, di primaria importanza nella nuova configurazione che l'ordine sociale andava prendendo: i grossi squilibri che il capitalismo determinava andavano giustificati (e ancor di più quando venne l'epoca dell'eguaglianza fra gli uomini) ed a questo ben si prestarono - nel quadro di una nuova concezione della miseria, nata nell'alveo della riforma protestante (presto fatta propria anche in ambienti cattolici) e di una nuova costruzione, sacralizzata, dell'autorità mondana - le istituzioni disciplinari.

In particolare, poi, sono proprio i soggetti svincolati dalle autorità feudali e gettati in uno stato di crescente miseria a dover essere disciplinati, educati alle nuove possibilità di sussistenza che gli si prospettano, modellati e trasformati da vagabondi e mendicanti in proletari. Gli individui espulsi progressivamente dalla terra e privati improvvisamente delle loro garanzie di sussistenza andavano trasformati in venditori della propria forza lavoro, educati alla "disciplina della nuova situazione", ai ritmi del lavoro nella manifattura (poi fabbrica) ed al nuovo stile di vita implicato.

Nello specifico di quello che è stato chiamato il «grande internamento» in cui abbiamo sicuramente, come detto, l'alba della penalità moderna, è interessante notare come esso abbia riguardato una varietà tale di individui che solo con molte difficoltà è possibile ricondurre ad un comune denominatore. Ma è chiaro che la sensibilità del tempo sentì l'esigenza di circoscrivere in uno spazio chiuso, insieme fisico e morale, determinati comportamenti, stili di vita, modi di essere e i soggetti che ne erano portatori. Quanto ciò fosse funzionale per rimarcare la costruzione del nuovo statuto etico della società non è da sottovalutare.

Certo le esigenze della produzione, lo si è detto, influirono almeno inizialmente sul decollo delle case di lavoro per poveri, ma la popolazione internata era alquanto variopinta e copriva una gamma umana che, dai piccoli criminali comuni, arrivava fino ai folli, passando per poveri, mendichi e vagabondi (124). Del resto è stato sottolineato come la loro vocazione produttivistica si spense al mutare delle condizioni economiche che la resero appetibile per il nascente capitale, ma non scomparve mai dalle finalità dichiarate di tali istituzioni quella di dar ricetto a poveri mendicanti e vagabondi di ogni sorta per educarli al lavoro.

L'urgenza che vide sbocciare in tutta Europa le istituzioni internanti, fu, come detto, quella di improntare un sistema di assistenza che contribuisse a lenire le conseguenze sociali dell'avvio dei processi di accumulazione originaria e, già nei primi decenni del XVI, alcune città iniziano autonomamente a prendere iniziative, volte ad un più stretto controllo delle masse di mendicanti, attraverso un censimento dei poveri ed i primi tentativi di chiuderli all'interno di un'istituzione.

Possiamo infatti leggere quest'esigenza (quella cioè di evitare che turbe di vagabondi e mendichi si aggirassero liberamente per campagne e città) fra le righe dei primi provvedimenti contro il vagabondaggio che Marx riporta. Tutto ciò sfocerà nei provvedimenti che, più o meno in contemporanea in tutta Europa, istituiranno un meccanismo di assistenza restrittiva per affrontare il problema del pauperismo.

La nozione «carità restrittiva» è il fondamento concettuale della riformata politica sociale, esso sottende ogni intervento di riforma dell'assistenza già a partire dai primi tentativi municipali e sarà adottata in pieno dalle politiche statali.

Molto sinteticamente potremmo dire che la nuova assistenza, a partire dalla distinzione di base fra poveri abili/inabili al lavoro, si fonda sui seguenti precetti fondamentali, che sono poi le concrete misure adottate nel tempo:

  1. Rifiuto dell'assistenza, se non attraverso la coazione al lavoro, dei poveri abili.
  2. Assistenza riservata ai soli poveri inabili, cui, qualora non fosse stato vietato di mendicare in pubblico, poteva essere concesso il permesso di chiedere l'elemosina per strada.
  3. Espulsione per i poveri forestieri, secondo il principio che ogni comunità avrebbe dovuto prendere in carico solo i poveri che le appartenevano (è questo un tratto caratteristico delle riforme dell'assistenza praticate a livello municipale)
  4. Severa repressione del vagabondaggio (125).

Tentativi di reclusione furono effettuati anche a livello municipale, ma è la politica statale ad inaugurare in modo massiccio e generalizzato l'utilizzo della prigione per poveri quale strumento di politica sociale. A seguito del grande internamento tanto l'assistenza che il lavoro coatto saranno assicurati previa reclusione in una istituzione internante, con correlativo assoluto divieto di pubblica mendicità e vagabondaggio (126).

L'editto reale per la fondazione dell'Hopital General afferma categoricamente qual è la sua finalità: "impedire la mendicità e l'ozio, sorgente di tutti i disordini" (127). Già molto prima, a partire dal 1530 in Inghilterra, l'autorità mondana inizia a porsi il problema di poveri e vagabondi, segnando l'avvio di un processo che, in breve tempo, vedrà la nascita della prima Poor Law e delle Bridewells. Analoga è la finalità della Rasp-huis olandese - e dei modelli ad essa ispirati - costituita affinché "tutti i vagabondi, malfattori, lazzaroni e i loro pari, potessero esser colà rinchiusi a mo' di pena e potessero venir occupati nel lavoro per quei periodi di tempo che i magistrati ritenessero convenienti considerando i loro reati o misfatti" (128).

Un coro unanime si levò in breve tempo per tutta l'Europa: andavano istituite "case" in cui dar ricetto a poveri e vagabondi, in cui questi potessero venir costretti al lavoro.

Certo il nascente capitalismo ne favorì lo sviluppo, attratto dalla possibilità di accedere ad una forza lavoro a bassissimo costo, ma il loro rapido espandersi in altere regioni capitalisticamente meno sviluppate e la lunga fortuna cui tali istituzioni saranno destinate, anche oltre la fase in cui assunsero una rilevanza realmente produttiva, sono circostanze che vanno spiegate altrimenti (129).

La vicenda va letta con tutta probabilità nel quadro dell'emergere, in contemporanea con l'avviarsi dei processi di accumulazione originaria e l'esplodere del problema del pauperismo, di una nuova sensibilità nei confronti dei problemi posti dalla miseria e dalla povertà; fenomeni che, oltre ad innescare gli enormi spostamenti di popolazione sull'asse campagna-città che contrassegneranno le società moderne sino ai giorni nostri, alimentarono l'inquietudine che l'aggirarsi al di fuori di ogni controllo per città e campagne di un numero sempre maggiore di vagabondi e mendicanti suscitava.

Nuova sensibilità che si esprime, come segnalato, nella distinzione fra poveri abili e poveri inabili al lavoro, e può essere compendiata nelle ragioni esposte da Carlo V a suffragio di un suo editto, emanato nel 1531, per affrontare il fenomeno nei Paesi Bassi: "l'esperienza insegna che, se si permette a tutti, senza distinzione, di mendicare e di chiedere aiuti, ne risultano molti errori e infrazioni, dato che costoro si dedicano allora all'ozio che è origine di ogni male, insieme ai loro figli abbandonano il mestiere o le occupazioni che potrebbero offrire loro i mezzi di sostentamento, e di conseguenza si dedicano ad una vita viziosa e malvagia, ed espongono le loro figlie alla povertà e alla sventura nonché a ogni depravazione e peccato; e benché siano giovani, forti e sani di corpo, con molta perfidia estorcono quello che dovrebbe essere diviso fra vecchi, malati, invalidi e coloro che si ritrovano in condizioni di estrema necessità" (130).

Nel mondo protestante il processo che svuotò la miseria del suo contenuto sacro ebbe inizio con un leggero anticipo rispetto al mondo cattolico, ed accompagnò alla nuova concezione, carica di disvalore, della povertà un parallelo e deciso processo di laicizzazione dell'assistenza ai poveri (131).

"In tutta l'Europa protestante si edificano queste fortezze dell'ordine morale nelle quali si insegna della religione ciò che è necessario alla tranquillità delle città" (132) e funzionale ai bisogni di valorizzazione del capitale. Dal momento in cui è lo stato, l'autorità mondana, ad assumersi il compito dell'assistenza, essa muta radicalmente significato nella percezione diffusa: "la nuova forma di sensibilità alla miseria (...) intrattiene l'uomo unicamente nei suoi doveri verso la società e indica nel miserabile, a un tempo, un effetto del disordine e un ostacolo all'ordine" (133). In questo contesto matura l'esigenza di sopprimere la povertà "sorgente di tutti i disordini" (134).

La povertà, dunque, "nel mondo della carità statalizzata diventerà compiacenza verso se stessi, e colpa verso il buon funzionamento dello stato. Essa scivola da un'esperienza religiosa che la santifica a una concezione morale che la condanna" (135).

Certo il processo che prese avvio nelle terre della Riforma fu particolarmente agevolato dall'aspra critica del concetto di carità cristiana che Lutero portò avanti, ma gli ambienti cattolici non restarono esenti dall'influenza della nuova visione della miseria. Anche se solo attraverso un percorso più tortuoso, sapranno anch'essi esprimere l'esigenza di distinguere fra "poveri buoni e cattivi, quelli di cristo e quelli del demonio" (136) senza che ne gli uni ne gli altri smentiscano l'importanza di un loro internamento: i primi benedicendo chi li accoglie e gli offre aiuto; i secondi maledicendo chi gli impedisce di continuare la loro vita sulla strada dell'ozio e del vizio.

È chiaro che una marcata laicizzazione dell'assistenza si ebbe soprattutto nei paesi protestanti, tuttavia anche in ambienti cattolici i precetti luterani secondo i quali si sarebbe dovuta eliminare la piaga della mendicità - assicurando assistenza solamente ai "meritevoli" e costringendo al lavoro gli altri, al contempo eliminando o vietando l'accesso alle città ai mendicanti forestieri - trovarono una certa eco.

In particolare nel mondo cattolico si apre, a partire dal XVI secolo, un dissidio interno, fra gli elementi ancora legati alla visione medioevale della povertà e della carità e quei settori del mondo cattolico disposti a rinnovare la concezione dell'assistenza ai poveri, in modo da renderla più adatta alle mutate esigenze ed alla mutata realtà, che annoverava il "pauperismo" fra i problemi più impellenti.

Lo testimonia l'esperienza della città Ypres, che, avviato un programma di riforma dell'assistenza in senso parzialmente restrittivo, si vide sollevare obiezioni di "eresia" da parte di ambienti cattolici ancora legati alla concezione sacra della povertà, che accusavano la nuova politica di mettere seriamente in questione l'imperativo cristiano di aiutare i poveri. La città richiese allora un parere ai teologi della Sorbona, i quali attestarono la conformità della riforma adottata dal municipio ai dettami della religione cattolica.

Tale importante precedente non resterà isolato, tutto il XVI sarà percorso da forti contrasti nel mondo cattolico su quest'argomento e ciò si riscontra nella polemica scoppiata in un paese cattolico come la Spagna, che, peraltro, aveva dato i natali all'autore del principale programma di riforma restrittiva dell'assistenza espresso dagli umanisti del XVI secolo: J. L. Vives.

A sancire l'adesione definitiva del mondo cattolico ai precetti dell'assistenza riformata è il Concilio di Trento, da cui scaturirono i dettami cui l'assistenza si sarebbe dovuta informare nei paesi cattolici: "la principale conseguenza dei decreti del concilio era da una parte l'attivazione dei poteri ecclesiastici e dall'altra la legittimazione cattolica del movimento di riforma dell'assistenza sociale" (137).

Così, se da un lato nei paesi cattolici la laicizzazione completa delle istituzioni d'assistenza avrebbe incontrato forti resistenze, dall'altro la nuova politica d'internamento trovò la sua sanzione di legittimità teologica anche nel mondo cattolico. A riguardo, peraltro, la stessa capitale del mondo cattolico, la Città Eterna, ebbe modo di inaugurare la sua politica repressiva nei confronti dei mendicanti con un rituale a metà strada tra il laico ed il sacro. In cui si sintetizzarono auspici divini ed esigenze di ordine pubblico tout court: la colossale processione dei mendicanti che, il 27 febbraio 1581, si avviavano verso l'appena istituito Ospedale Generale; "un corteo trionfale, uno strano trionfo barocco della carità cristiana" (138).

È chiaramente percepibile, in tutti questi dibattiti e tentativi di riforma dell'assistenza, il disvalore che s'inizia a legare all'ozio, esso è espressione della nuova etica del lavoro che rapidamente andava diffondendosi con l'emergere della classe che del valore della "laboriosità" si faceva portatrice. Già Marx aveva colto come le elite in testa al processo di accumulazione originaria e alla nascente industria percepissero il problema della povertà ed inoccupazione di una massa crescente d'individui quale portato di una sorta di degenerazione morale di questi strati sociali.

Così, se da un lato le istituzioni internanti si ponevano quali istituzioni di carità, votate a dar ricetto ai poveri, fornendogli di un vitto ed un alloggio, dall'altro lato il significato dell'internamento era reversibile nel senso di una "punizione morale della miseria" (139). Le nuove forme di assistenza erano dotate di uno statuto estremamente ambiguo, che costantemente sembrava farle scivolare verso la repressione pura e semplice.

Era comunque un "imperativo di lavoro" che si sentiva l'esigenza di affermare, lavoro inteso soprattutto quale principio d'ordine e di regolarità, in grado di piegare gli individui recalcitranti ad una vita ordinata. In questo senso l'internamento si pone (più che per la sua rilevanza produttivistica) come un affare di "police": perché in grado di piegare ai valori della nuova religione laica: la religione del lavoro.

"Il vagabondaggio e la mendicità violavano l'ordine interno della divisione dei ruoli sociali, creavano aree che sfuggivano alla «polizia», generavano inquietudini, incertezze e minacce per l'ordine pubblico. La mendicità si presentava come una violazione del precetto divino («in sudore vultus tui vesceris panem»), come una condizione contraria ai costumi cristiani, generatrice di empietà; come una violazione delle norme di convivenza sociale e dei principi di utilità pubblica, come elemento di pericolo sociale" (140).

Inculcare i valori di una vita laboriosa non poteva di certo bastare, era necessaria una nuova legittimazione per un'autorità che andava distruggendo il vecchio ordine (ed i correlativi metodi di produzione) a vantaggio di un nuovo ordine che apparentemente svincolava gli individui dai vecchi legami: occorreva imbrigliare i neo-proletarizzati con nuovi lacci, socializzarli all'autorità della nuova situazione (141).

Il crollo progressivo della struttura economico-sociale feudale e dell'universo simbolico che la legittimava, che tende a sortire effetti di "liberazione" per gli individui, corrispose alla creazione della nuova autorità nel mondo borghese: l'autorità del capitale nel processo produttivo.

Il complesso disciplinare - con il suo fulcro nel carcere moderno - che sorse, non a caso, nei suoi modelli di più avanzato sviluppo partire da zone di cultura protestante (cui, come visto, ci si rivolse nel XIX allorché in Europa continentale si tentò di approntare una riforma del sistema carcerario), servì appunto per socializzare gli individui a tale autorità, per inculcare "una naturale e spontanea tendenza del lavoratore ad assoggettarsi alla disciplina di fabbrica" (142), nel quadro di una concezione sacralizzata dell'autorità temporale che a questo disciplinamento, come visto, si prestò di buon grado.

Come segnalava H. Marcuse (143) nella dottrina protestante vi è una visione dell'autorità mondana idonea a delegittimare ogni voce di protesta popolare che osasse sollevarsi, in essa il potere sovrano appare una derivazione diretta dell'autorità del padre di famiglia. Quest'ultimo ha il preciso dovere di educare e guidare i propri figli; i quali, a loro volta, il dovere di tributare al padre la dovuta obbedienza, onorando così un'autorità che discende direttamente da Dio. Alla stessa maniera si articola, nel disegno divino, il rapporto signore/sudditi, dove il primo ha il potere/dovere di educare e guidare i secondi. Si capisce così come mai "il fatto che l'autorità sia malvagia e ingiusta non giustifica né il brigantaggio né la sedizione" (144). Nella concezione protestante, infatti, "la dipendenza e lo sfruttamento della maggior parte dell'umanità appare calata nel terreno «naturale» e divino della famiglia" (145), l'ordine esistente è frutto degli imperscrutabili disegni divini e le autorità mondane esigono che gli individui sappiano rispettarlo, così come il padre esige il tributo d'obbedienza che dai figli gli è dovuto.

Così come il padre educa al rispetto della sua autorità i figli e il signore lavora i suoi sudditi, anche il capitale dovrà addestrare al rispetto della sua particolare autorità, sovrano incontrastato del processo produttivo (146).

Di dipanano così le line di sviluppo di un complesso di meccanismi disciplinari che prendono in carico gli individui piegandoli e modellandoli secondo le esigenze dell'ordine costituito e nel rispetto dei postulati dell'universo simbolico, della concezione del mondo ad esso corrispondente. Meccanismi che hanno il loro terreno in una vasta gamma di istituzioni: partendo dalla famiglia, passando per le istituzioni educative e la chiesa (soprattutto nel mondo cattolico), la caserma, l'opificio, giungendo infine alla prigione, punta di diamante del sistema.

2.2.3: Normalizzazione

"La casa d'internamento nell'età classica rappresenta il simbolo più ricco di quella «police» che si concepiva essa stessa come l'equivalente civile della religione per l'edificazione di una società perfetta" (147); funzione importante, certo, ma oltre a questa funzione essa articola lo spazio fisico a partire dal quale si dà la possibilità di un sapere sugli individui. In queste istituzioni verrà "scoperta" la follia, nelle stesse - e più poi nella prigione moderna - la costante osservazione cui erano sottoposti questi individui da riformare consentirà di porre la questione di una scienza del crimine.

Nella sua genealogia (148) dell'episteme moderna Michel Foucault paga qui forse il più alto tributo alle sue ascendenze fenomenologiche: indicandoci gli spazi istituzionali a partire dai quali si è data la possibilità di tenere sotto costante osservazione e controllo, mossi da un'aspirazione pedagogica, una massa più o meno numerosa d'individui, egli non ha fatto altro che segnalarci come la scienza nasca a partire da esigenze concrete, nella pratica reale di tutti i giorni, a stretto contatto con i problemi di governo della realtà.

Ha denunciato e ribaltato, in sostanza, la stessa "limitazione positivistica" cui Husserl imputava il fatto che nelle nostre società si tenda a spiegare e leggere la realtà attraverso le categorie della scienza, pretendendo che i suoi postulati possano vantare una qualche "neutralità" rispetto ai "fatti" da spiegare.

L'oggetto cui le scienze umane e sociali pretendono di applicarsi (come Foucault chiarisce nel suo Storia della follia (149), a proposito di ciò che attualmente inquadriamo sotto la nozione di malattia mentale) non preesiste alla scienza stessa, né, tanto meno, può dirsi che l'esperienza sociale che ha portato all'internamento più o meno generalizzato dei folli, insieme ad oziosi e vagabondi, abbia percepito, anche se solo in maniera abbozzata, l'"asocialità" che in quegli individui la formalizzazione delle scienze positive avrebbe poi preteso di dimostrare.

"Bisognerebbe così supporre una specie di ortogenesi che andrebbe dall'esperienza sociale alla conoscenza scientifica" (150), piuttosto pare si possa dire che le società del tempo presero a circoscrivere, isolandole, forme di comportamento e stili di vita in una maniera o in un'altra non confacenti al nuovo statuto etico morale che l'occidente stava dandosi.

Le scienze umane fioriranno sul terreno di questa "separazione" e si affretteranno a distinguere i rispettivi ambiti, insorgendo di fronte alla promiscuità con cui, nelle istituzioni sorte dalla riforma dell'assistenza nel XVI secolo, si confondevano folli, piccoli criminali, semplici corrigendi, orfanelli o vagabondi.

Quest'insieme di personaggi formava l'universo indistinto della sragione (151), su cui avremo modo a breve di ritornare; adesso ci preme piuttosto sottolineare la diversità di prospettiva a partire dalla quale Foucault utilizza la "cassetta degli attrezzi" fenomenologica: egli infatti svolge la sua analisi della nascita dell'episteme moderna con intenti eminentemente critici, ed in questo supera l'epochè husserliana.

Non è, infatti, in vista dell'approdo ad una più rigorosa fondazione scientifica della filosofia, che Foucault mette tra parentesi il reale rinunciando all'atteggiamento ingenuo che lo reifica, bensì tutta la sua opera può essere considerata un invito "a smarrire le proprie certezze per cominciare a sapere come e fino a che punto sarebbe possibile pensare in modo diverso" (152).

Inoltre, come si è detto, l'influenza di Nietzche porta il filosofo francese ad evidenziare come le scienze umane nascano a partire da esigenze di governo e di domino, dando così una dimensione più concreta all'asserto - di per sé sovversivo, anche se apparentemente dogmatico - che la scienza sia la scaturigine di un istinto appropriativo, di una volontà di potenza. Foucault, infatti, con la sua genealogia tende ad evidenziare come e quanto "il sapere dell'uomo si intreccia con la costruzione e il controllo degli esseri sociali" (153).

È nelle istituzioni disciplinari, quindi, che si manifesta il primo nodo che lega (nell'opera foucaultiana) sapere e potere: istituzioni improntate ad esigenze di "police", funzionali al mantenimento di un determinato ordine, all'incasellamento di masse più o meno ampie d'individui, scopriranno al loro interno la vocazione ad elaborare un complesso di scienze del comportamento umano.

La metafora panoptica è idonea ad esplicare come le esigenze organizzative di queste istituzioni (che siano votate alla cura di malati o folli, all'educazione di giovani o alla correzione dei "discoli", alla organizzazione di un battaglione o alla produzione di merci, al controllo di poveri e mendicanti o alla punizione di criminali) implicassero una costante osservazione degli individui presi in carico. È a partire dalla possibilità di tenere sotto costante osservazione i soggetti che l'occasione di elaborare una scienza degli individui si offre.

"Nello stesso tempo sorveglianza e osservazione, sicurezza e sapere, individualizzazione e totalizzazione, isolamento e trasparenza" (154), il principio panoptico consente la costruzione di una conoscenza dettagliata degli individui presi in carico dal meccanismo e le tecniche penitenziarie elaborate nel XIX rifletteranno bene quest'esigenza mossa dall'origine pedagogica delle istituzioni internanti. Si pensi al caso della riforma penitenziaria del 1841 in Francia, che rendeva obbligatorio il sistema del "resoconto morale: bollettino individuale di modello uniforme per tutte le prigioni e sul quale il direttore, il guardiano in capo, il cappellano, l'istitutore sono chiamati a inscrivere le loro osservazioni su ciascun detenuto" (155).

La ricerca della migliore tecnica penitenziaria, attraverso una conoscenza degli "oggetti" su cui si deve incidere per operare delle trasformazioni, per produrre l'individuo richiesto dallo statuto etico morale dell'istituzione in questione (guarito o rinsavito; educato o rieducato; o, come nel caso di altre istituzioni disciplinari, il buon soldato, lo scolaro modello ovvero l'operaio docile, laborioso e onesto), per imporre il parametro di "normalità" di volta in volta preso a modello, era conseguita attraverso un meccanismo su cui le discipline possono vantare in senso assoluto il loro diritto d'autore: lapratica dell'esame.

Costituito da tutte quelle "piccole tecniche di annotazione, registrazione, costituzione di dossiers, di messa in colonna e in quadro che ci sono familiari", esso è stato un meccanismo fondamentale delle discipline che si praticavano nelle caserme, negli ospedali, nei collegi, negli opifici ed, insieme, una pratica istituzionale a partire dalla quale si è concretamente prodotto l'accumulo di saperi che concretamente ha "permesso lo sbocco epistemologico delle scienze dell'individuo" (156).

"Controllo normalizzatore (...) sorveglianza che permette di qualificare, classificare, punire" (157), istanza che, mentre consente di esercitare un controllo nel senso canonico del termine, permette di oggettivare il suo bersaglio, di formare, attraverso la continua visibilità del suo oggetto, un sapere in merito alle sue capacità o attitudini.

In questo vi è il tratto peculiare della penalità moderna, che, nata a partire dall'esperienza delle antiche istituzioni internanti ne erediterà la vocazione pedagogica, sviluppando una tecnica penitenziaria che, in misura sempre maggiore, potenzierà un'attitudine all'osservazione dei suoi clienti. Si arriverà così a sostituire al condannato il delinquente, individuo i cui tratti peculiari, le ragioni della sua profonda diversità, sono suscettibili di conoscenza.

È in particolare "l'introduzione del «biografico»" (158), la diffusione e l'affinamento della pratica di esaminare gli internati, a rendere quello che era il continente della sragione e del vizio, un paese popolato di personaggi diversi, come il folle o il delinquente. Man mano che la vocazione pedagogica delle istituzioni internanti si sviluppa, si viene a creare, attraverso la ricerca delle ragioni su cui riposa il comportamento riprovato, un ulteriore personaggio che affianca il mero trasgressore. Personaggio dotato di tutte le caratteristiche che rendono normale, in un certo senso "necessitata" la trasgressione stessa. A questo personaggio cerca di risalire l'osservazione del delinquente, essa è il continuo ed incessante tentativo di produrre il doppione criminologico del trasgressore.

L'osservazione "deve risalire non solo alle circostanze, ma alle cause del crimine; cercarle nella storia della sua vita, dal triplo punto di vista della organizzazione, della posizione sociale e dell'educazione, per conoscere e constatare le pericolose tendenze della prima, le incresciose disposizioni della seconda, ed i cattivi antecedenti della terza" (159).

La storia delle istituzioni internati è, quindi, la storia della continua ricerca delle affinità che legano l'autore al suo crimine, affinità che il linguaggio criminologico moderno può tradurre in nozioni antropologiche, psichiatriche, psicologiche, sociologiche, che il linguaggio dell'epoca classica (fino ancora alla metà del XIX secolo, lo abbiamo appena visto con Lucas, ma anche prima con A. de Tocqueville ed il critico Marx de La sacra famiglia) traduceva in nozioni moralistiche. Una storia che ha però il suo unico esito nel mettere "in atto una conoscenza «positiva» dei delinquenti e delle loro specie, assai differente dalla qualificazione giuridica dei delitti e delle loro circostanze" (160).

Individuando tutta una serie di "colpe senza infrazione o (...) difetti senza legalità" (161) che costituiscono il dato a partire dal quale è possibile valutare se e quanto "l'individuo assomigliava già al proprio crimine prima di averlo commesso" (162). Ogni visione sostanzialista della devianza offre gli strumenti concettuali per orientare e diversificare il trattamento penitenziario, o, al limite (e questo è il caso dei meccanismi penal-polizieschi su cui avremo modo di soffermarci), intervenire anche prima che la natura intimamente deviata di un individuo si esplichi in una vera e propria trasgressione.

Ecco l'essenza del potere di normalizzazione: potere limitrofo alla pratica giudiziaria, che non colpisce infrazioni di una legge penale, ma, attraverso il ricorso (e, aggiungeremmo, anche la capacità di creare) ad altri campi di conoscenza, sanziona le irregolarità rispetto ad un paradigma di normalità da questi stabilito: potere che non è né medico ne giudiziario, che non si rivolge esclusivamente né al malato né al criminale, ma collegando le due figure nell'idea di anormalità, assume quale bersaglio del suo intervento l'ibrida figura (a metà strada fra il malato ed il criminale) dell'individuo pericoloso (163). Tale potere si è sviluppato all'interno delle istituzioni internanti proprio perché funzionale all'instaurazione di un rapporto pedagogico fra l'internato ed il suo carceriere.

Mezzo avulso dalla pratica penale l'internamento ha colpito, sin dalla sua nascita, non vere e proprie infrazioni della normativa penale. La reclusione "è, infatti, nata altrove che nell'ordinamento penale e si è formata per altre ragioni" (164), assieme alla deportazione, alla pena delle galere, al bagno penale ed al bando, ha avuto di mira il controllo di mendicanti, vagabondi, oziosi, è stata "almeno un modo negativo di controllare la loro collocazione rispetto all'apparato di produzione agricolo o manifatturiero; un modo di agire sul flusso di popolazione, un modo che tiene conto delle necessità della produzione e insieme del mercato del lavoro" (165). Ed ha avuto riguardo non, come detto, ad infrazioni della legge penale, bensì a condotte irregolari, stili di vita marginali, pratiche sessuali devianti, dissenso politico ed in generale a tutte quelle manifestazioni quotidiane di intemperanza causa di disordine e fastidio nelle comunità locali, religiose, professionali.

Così, ai suoi albori, "la reclusione non interviene tanto in nome della legge quanto in nome dell'ordine e della regolarità. L'irregolare, l'agitato, il pericoloso, l'infame sono le sue vittime privilegiate. Mentre la penalità punisce l'infrazione, la reclusione, per parte sua, sanziona il disordine" (166).

Il potere che le istituzioni disciplinari iniziano a costruire ha come bersaglio gli antecedenti infraliminari della penalità, si applica a quella che potremmo definire una sorta di infrapenalità.

Come segnala Dario Melossi (167), sin dalla loro nascita esse si inserirono ad un livello intermedio nel ventaglio di strumenti penali che le monarchie del tempo possedevano. Non si rivolsero, infatti, agli autori di veri e propri delitti (anche se non è raro trovare uno accanto all'altro in queste istituzioni: piccoli criminali, vagabondi, mendicanti, prostitute, folli), bensì individuarono una ben precisa categoria di individui, criminalizzandola per il suo stesso modo d'essere. Il "tipo criminologico" che isolavano e perseguivano tali istituzioni era soprattutto colui che, perse le antiche possibilità di sussistenza, vagava per le città ora elemosinando, ora riuscendo a trovare impieghi occasionali, ora incrociando la delinquenza comune, ora finendo nel novero di quanti alimentarono le violente rivolte popolari che presero a scuotere l'Europa moderna. Un individuo reso, dalla sua disaffezione per una vita onesta e laboriosa, una costante minaccia da neutralizzare o al limite, se possibile, da abituare alla disciplina necessaria al lavoro.

Non è un caso che piccoli criminali e semplici vagabondi fossero spesso assimilati, tanto nell'immaginario collettivo che nelle stanze degli ospedali o delle case di lavoro. L'infrazione del primo è solo il manifestarsi dei sintomi che il secondo già presenta, senza che si siano espressi in una trasgressione. Gli uni criminali conclamati, gli altri criminali in potenza, si trovano sottoposti allo stesso trattamento pedagogico-normalizzante.

Il modello correzionale di giustizia penale potrà darsi anche a partire dalla nascita di questo nuovo campo di conoscenze, in cui s'iniziano ad elaborare tutta una semiologia della tendenza a delinquere (tecniche per operare delle vere e proprie prognosi sul futuro comportamento dei soggetti) e pratiche correttive concrete, in cui si ripone una vera e propria fede terapeutica.

"Il crimine ha una sua natura e il criminale è un essere naturale caratterizzato, al livello della propria natura, dalla sua criminalità" (168), la natura di un diverso, di chi non è in grado di stare in società perché ineducato a comprenderne e rispettarne i precetti, una natura barbara e mostruosa (169), cui però è possibile ovviare con l'educazione, la disciplina, la terapia; o, al limite, attraverso la neutralizzazione pura e semplice.

Sono queste le basi ideologiche su cui si articolerà la pratica penale nelle società capitalistiche e grazie alle quali si è resa sempre sostanzialmente accettabile la selettività del sistema. L'efficiente utilizzo del sistema penale nel governo delle classi subalterne è stato, infatti, possibile soprattutto grazie alla creazione di una certa immagine della povertà e della miseria, grazie alla sua oggettivazione nel concetto di delinquenza. Dall'evo moderno in poi ozio, vagabondaggio, disoccupazione, divengono nell'immaginario collettivo la premessa di ogni delitto.

2.2.4: La società disciplinare

Segnalataci la così poco nobile origine delle scienze umane, la disciplina, MichelFoucault evidenzia un'altro passaggio fondamentale per lo sviluppo delle nostre società alle soglie dell'evo moderno: l'estensione dei meccanismi disciplinari a tutto il corpo sociale.

Quest'estensione, attraverso cui si costituirà quella che è stata chiamata la società disciplinare, basata anch'essa su un principio di sorveglianza generalizzata, andrà di pari passo con la "statizzazione dei meccanismi disciplinari" (170). Con la creazione, cioè, di un grande apparato poliziesco centralizzato, "un apparato che deve essere coestensivo all'intero corpo sociale e non solamente per i limiti estremi che raggiunge, ma per la minuzia dei dettagli che prende in carico. Il potere poliziesco deve vertere su tutto" (171).

Un apparato cui si chiederà di essere in grado di registrare tutto ciò che succede, di operare "un'incessante osservazione che deve essere cumulata in una serie di rapporti e di registri" in cui saranno annotate "condotte, attitudini, virtualità, sospetti - una permanente presa in carico del comportamento degli individui" (172).

Il discorso sulla polizia è rilevante in quanto consente di fugare un equivoco che quanto abbiamo detto potrebbe determinare, sembrerebbe, infatti, che nella centralizzazione dell'apparato di polizia rientri dalla finestra ciò che stiamo provando a fare uscire attraverso la porta: la figura del sovrano. Tuttavia è ben presente allo stesso Foucault come quest'apparato oltre che rispondere "alle volontà immediate del re (o in generale degli organi centrali di governo) è suscettibile di rispondere alle sollecitazioni dal basso" (173). La polizia, storicamente (174), assunse quasi da subito questa funzione disciplinare: "funzione complessa perché unisce il potere assoluto del sovrano alle più piccole istanze di potere disseminate nella società; perché, tra le differenti istituzioni disciplinari chiuse (fabbriche, esercito, scuole), tende una rete intermedia agente là dove quelle non possono intervenire, disciplinando gli spazi non disciplinari: essa li ricopre, li collega fra loro, li garantisce con la sua forza armata: disciplina interstiziale e meta disciplina" (175).

Ecco quindi come i meccanismi disciplinari si estendono aldilà delle istituzioni chiuse all'interno delle quali sorsero, facendo presa, attraverso la rete di sorveglianza che l'apparato poliziesco crea - coinvolgendo anche istanze locali - su tutto il corpo sociale. Ecco che si può "dunque parlare, nell'insieme, di formazione di una società disciplinare in quel movimento che va dalle discipline chiuse (...) fino al meccanismo indefinitamente generalizzabile del panoptismo" (176). In tale processo indubbiamente un ruolo centrale ha avuto la polizia.

Quest'istituzione, cui siamo soliti attribuire la tipica funzione di reprimere i delitti (braccio armato della legge e dei giudici, che di quella sono bocca), è molto di più che una mera istanza repressiva, essa, già molto tempo prima di quello che consideriamo l'evo moderno, viene ad assumere dei compiti molto vasti che ne fanno uno dei meccanismi fondamentali dell'arte di governo. "La legge reprime, la norma regola, la sicurezza previene, l'amministrazione assiste e tutela. La polizia è un po' di tutto ciò insieme" (177) e viene ad assumere un ruolo centrale nei processi di controllo sociale.

Se infatti lungo il corso dell'alto medioevo, in concomitanza con il diradarsi del tessuto urbano (178) il suo ruolo appare ridursi, fino al punto - nella fase di vigenza del diritto germanico - di confondersi con l'iniziativa privata (al pari di quanto accadeva in campo strettamente penale, con accuse private e contese giudiziarie basate sul duello e l'ordalia (179), in cui erano i rapporti di forza a determinare l'esito della disputa e non la pretesa di accedere ad un qualche verità), dato che sono i privati in quest'epoca a svolgere gran parte dell'attività di vigilanza e prevenzione in vista della tutela relativa a sé ed ai propri beni (180). Sarà nelle città-stato basso medievali che la polizia incomincerà ad assumere un ruolo essenziale, "la città con i suoi problemi di sicurezza e di ordine di convivenza e di moralità, di organizzazione, approvvigionamento, igiene, rappresentò un terreno ideale per la nascita di una polizia diversa, che si svilupperà in un rapporto del tutto inedito con l'insieme degli apparati di giustizia, divenendo strumento essenziale nelle politiche penali degli stati moderni" (181).

L'attitudine al controllo generalizzato di quest'istituzione sorge in concomitanza con il porsi di quello che abbiamo individuato come il «problema della popolazione» ed il nascere di una vera e propria arte di governo (ciò che Foucault chiama governamentalità), intesa al complessivo potenziamento delle risorse dello stato; inclusa l'esigenza di ordinare e disciplinare le masse di individui che si concentrano negli agglomerati urbani (182).

La polizia si pone come meccanismo fondamentale per l'armonizzazione della compagine sociale, per un suo sapiente governo e disciplinamento. Ma essa va ben oltre l'espletamento di semplici funzioni relative alla sicurezza della popolazione (repressione - al limite prevenzione - dei crimini), per arrivare ad assurgere a meccanismo attraverso cui perseguire anche il benessere della stessa (controllo igienico sanitario, approvvigionamento, controllo dei mercati urbani, sorveglianza dei costumi e delle condotte) (183).

L'elaborazione di una nuova "ratio" di governo, ciò che Michel Foucault chiamò potere "governamentale", è parallela allo specificarsi ed allo strutturarsi del concetto di "polizia". Concetto, però, dotato al tempo di una sfera semantica più ampia dell'odierna (oggi la polizia è intesa quale istituzione o funzione ben specifica nell'ambito degli apparati o delle funzioni statali), secondo un'accezione che rimandava ad una specifica tecnica di governo, più che ad un suo mero strumento (184).

Potremmo a riguardo prendere a prestito un'espressione di un pubblicista del XVII secolo (185) che definisce in un senso molto ampio il concetto di polizia asserendo che "il vero oggetto della polizia è l'uomo" e ad analoghe considerazioni giunge l'autore del Traitè de la police (186) quando afferma che la polizia si occupa del vivente. In ogni caso la polizia costituisce l'anello di congiunzione fra meccanismi disciplinari veri e propri e tecniche governamentali: essa sintonizza i meccanismi di funzionamento dei primi sulle onde di frequenza dei secondi. Funzionalizza il potere disciplinare alle esigenze di governo complessivo della popolazione.

L'affermazione potrà sembrare apodittica, si pensi dunque alle vaste funzioni che alla polizia sono attribuite: "la polizia si prende cura del bene dell'anima (grazie alla religione e alla moralità), del bene del corpo (alimentazione, salute, vestiario, alloggio) e della ricchezza (industria, commercio, manodopera)" (187). Essa è ciò che congiunge i meccanismi anatomo-disciplinari, che agiscono sul singolo individuo, agli interventi effettuati a livello di popolazione. Costituisce in sostanza l'anello di trasmissione fra i due livelli del potere biopolitico, governo delle cose e governo degli uomini.

Ciò è esposto con cristallina chiarezza anche nel più importante dei trattati sulla "polizia", scritto nel XVIII secolo da Von Justi (188), nel quale sono indicati gli ambiti specifici dell'attività di polizia: essa si occupa tanto delle «cose», quali il territorio, le materie prime, i prodotti manifatturieri e la loro circolazione, la moneta; che degli «uomini», presi in carico sia dal punto di vista della loro condotta morale, della loro capacità lavorativa e della loro onestà, che sotto il profilo dei loro rapporti con le «cose» su indicate: cioè i problemi implicati dalla consistenza complessiva della popolazione rispetto alle risorse ed all'apparato produttivo, dal tipo d'insediamento e dagli spostamenti di popolazione sul territorio, oltre che dalla sua salute complessiva.

Ma la polizia stessa, in quanto sorveglianza generalizzata e relativa all'infinitamente piccolo della vita sociale, "intrattiene un certo rapporto (di impulso, sollecitazione, e promozione) con la conoscenza e con tutta una serie di saperi molteplici" (189), sulla cui base si strutturerà, potenziandosi e rilegittimandosi incessantemente.

Essa è, quindi, anche uno strumento prezioso per moltiplicare la presa conoscitiva del potere statale sull'oggetto del suo governo: è uno dei principali fattori di razionalizzazione dell'arte di governo.

Lo strutturarsi della «società disciplinare» è una svolta nei processi di controllo sociale che ha avuto una notevole influenza sulla teoria e la pratica penale delle nostre società, anche se la sfera penale, come si è visto e si vedrà più in dettaglio, non può essere considerata il luogo esclusivo dei meccanismi disciplinari né, tanto meno, l'istanza di controllo a partire dalla quale tale svolta si è prodotta.

In ogni caso la nascita di un sapere criminologico (a livello di teoria) e il sorgere di istituti votati al "trattamento" dell'individuo criminale (a livello di pratica), sono due conseguenze di non poco conto dovute allo sviluppo di tali progetti di ortopedia sociale. La stessa estensione dei meccanismi disciplinari per tutto il corpo sociale, operata attraverso l'istituzione poliziesca (molto importante per un primo accumulo di saperi sulla popolazione) ci segnala come il controllo degli individui inizi a svolgersi molto prima della effettiva lesione di una qualsiasi norma penale (attraverso il meccanismo repressivo). Esso interviene preventivamente sulla loro stessa esistenza, prendendola in carico sotto tutti gli aspetti, disciplinandola già prima che il crimine possa prodursi: scuola, esercito, fabbrica, come tecniche non penali; mentre tutto un campionario più o meno vasto di mezzi penal-polizieschi si articola per funzionare nei confronti dei soggetti sfuggiti a tale rete di sorveglianza: stranieri, vagabondi, mendicanti, prostitute e per il controllo degli spazi pubblici che si collocano fra le varie istituzioni chiuse: mercati, strade, piazze.

È in questo contesto disciplinare più ampio, fatto di molteplici istituzioni e meccanismi di sorveglianza, che si inserisce la sfera penale e, come vedremo, anche il diritto penale riformato non cesserà di svolgere la sua ben precisa funzione nel complesso disciplinare messo in campo dalle società capitalistiche.

L'idea che un modello di giustizia penale correzionale si sia potuto dare a partire dall'opera teorica dei pensatori "positivisti" è infatti sostanzialmente fuorviante (190), l'emergere di una scuola positiva in diritto penale, più che una svolta in senso assolutamente antilluminista, costituisce lo sviluppo di prassi punitive ormai secolari, oltre che di alcuni elementi che il pensiero illuminista già conteneva in embrione, elementi che ne fanno una corrente di pensiero dai due volti: uno libertario, l'altro oppressivo.

2.3: Illuminismo penale ed eguaglianza di status

Il sistema penale uscito dalla riforma illuminista coopterà la reclusione quale castigo per eccellenza e sarà caratterizzato in diversi punti da istituti che si richiamano direttamente alle precedenti prassi di polizia, le quali, attraverso lo strumento dell'internamento, colpivano tutta una serie di comportamenti, genericamente, inquadrabili in quella che abbiamo definito sfera dell'infrapenalità. Comportamenti socialmente riprovati, ma non consistenti in vere e proprie infrazioni della legge penale: condotte di vita, azioni, modi di essere considerati di per sé espressione di un pericolo - se non altro per i principi di disordine che si riteneva portassero all'interno della comunità.

Soprattutto sarà la nascita di un "sapere individualizzante" (191) a determinare una decisa svolta nel meccanismo punitivo - cui già i riformatori avevano imposto una torsione in senso utilitarista e general-preventivo, nel rifiuto del vendicativo potere monarchico - realizzando uno spostamento al termine della quale sarà "non tanto il delitto commesso (...) ma la virtualità del pericolo che si nasconde in un individuo" (192) ad interessare l'intervento penale.

Tale torsione apre la via ad una tecnica punitiva che sconfina nella pretesa terapeutica e curativa, in cui l'intervento penale si adatta al criminale, alle sue caratteristiche ed al livello di pericolosità che esso presenta. Inizia a comparire ciò che, a seguito di una maggiore formalizzazione delle scienze criminologiche, verrà a costituire il modello correzionale di sistema penale.

Tuttavia, nelle parole dei riformatori, la prigione, quando non è assolutamente squalificata come ritorno alla barbarie ancien regime (193), non è ancora la pena per eccellenza. Piuttosto essa è specificamente deputata al controllo di una particolare categoria di soggetti.

Montesquieu, arrivò in proposito a distinguere vari tipi di pena a seconda dei tipi di delitto, specificati in altrettante categorie in relazione al bene giuridico leso: la religione, i costumi, la tranquillità e la sicurezza. Così: "la pena dei sacrilegi, perché sia tratta dalla natura della cosa, deve consistere nella privazione di tutti i vantaggi che offre la religione: l'espulsione dai templi, la privazione della società dei fedeli, per un certo tempo o per sempre, la fuga dalla loro presenza, le esecrazioni, le detestazioni, le scomuniche". Le pene previste per i "delitti contro i costumi (...) vale a dire la lesione dei regolamenti sul modo con cui è lecito godere dei piaceri derivanti dall'uso dei sensi e dall'unione dei corpi", saranno "la privazione dei vantaggi che la società ha attribuito alla purezza dei costumi, le multe, la vergogna, la necessità di nascondersi, l'infamia pubblica, l'espulsione dalla città e dalla società, infine, tutte le pene che sono di spettanza della giurisdizione correzionale". Valide sanzioni per i delitti che "offendono la tranquillità dei cittadini" saranno invece "la prigione, l'esilio, le correzioni e altre pene che richiamano gli spiriti inquieti e li fanno rientrare nell'ordine stabilito". In fine, per l'ultima categoria di delitti, la più grave, contro la sicurezza dei cittadini, vi saranno i supplizi: "una specie di taglione, per cui la società rifiuta la sicurezza a un cittadino che ne ha privato, o ha voluto privarne un altro" (194). La prigione, come si può notare, è sanzione per contenere e disciplinare gli "spiriti inquieti" ad essa, però, si affiancano altre tipologie sanzionatorie, il cui catalogo è vario e, peraltro, non sono ancora scomparsi i supplizi.

Più che nelle parole dei riformatori la sua origine è, dunque, da rintracciare in una lunga esperienza pratica che viene dall'esistenza di luoghi chiusi in cui internare gli individui recalcitranti ad una buona condotta, "l'idea di una penalità che cerca di correggere imprigionando è un'idea poliziesca, nata parallelamente alla giustizia, al di fuori della giustizia, in una pratica di controlli sociali o in un sistema di scambi fra la domanda del gruppo e l'esercizio del potere" (195). Da questa pratica extra-penale, poliziesca, avrà origine il sistema punitivo del XIX secolo; anche se non è possibile tacere della vasta opera di riforma che l'elaborazione di quella che è ormai considerata la «filosofia classica» del diritto penale consentì.

Rispetto al modello di sistema penale pensato dagli illuministi, tuttavia, le divaricazioni saranno numerose e soprattutto si assisterà allo svuotamento sistematico del diritto penale del fatto a favore di un diritto penale dell'autore. Tale processo però, se è vero che si avvia da un lato sul terreno della tecnica penitenziaria, dall'altro lato è anche accompagnato ed assecondato ulteriormente dalle implicazioni che una concezione sostanzialista del crimine presenta rispetto alle norme penali sostanziali e processuali.

L'analisi di Michel Foucault a riguardo limita il suo sguardo al ruolo delle circostanze attenuanti o della perizia psichiatrica (196) nell'inquinare il rigido ragionamento retribuzionista che dovrebbe informare (a partire dall'illuminismo) la pratica penale. Ma (prescindendo dal considerare la questione delle circostanze del reato) se la perizia psichiatrica è fra i canali d'ingresso principali dei saperi sull'individuo nel processo penale, è anche vero che diversi altri istituti sono in grado di far penetrare nozioni criminologiche di vario genere nel funzionamento del sistema penale e di favorire - più in generale - quella torsione del sistema in senso sostanzialista, il cui esito estremo sono le forme di diritto penale dell'autore.

Ciò è vero per tutta la c.d. «fase esecutiva» della pena, che, oltre ad essere il terreno su cui sono prolificati i saperi sul crimine, è anche un momento nel meccanismo del sistema punitivo in cui lo stesso "giudicato penale" può essere rimesso in questione a partire da un giudizio sulla persona espresso da tutta una serie di "tecnici" del trattamento penitenziario. Ma lo è altrettanto per quella che, nell'ottica dei riformatori illuministi, avrebbe dovuto essere la «fase commisurativa» della pena, poiché l'utilizzo di forme di tutela ante-ultra delictum consente di intervenire sull'individuo indipendentemente da un fatto di reato, sulla base di considerazioni "personologiche" che guardano al suo modo di essere piuttosto che alle sue azioni.

Si tratta, come accennammo, di quell'insieme d'istituti e di prassi inquisitorio/poliziesche su cui, ben aldilà dell'esplicitazione di un programma scientificamente fondato di riforma del diritto penale in senso correzionale, si è concretamente fondata la pratica penale anche negli «Stati Costituzionali» sorti a partire dal XIX secolo. Tali istituti rappresentano l'anello di congiunzione fra le antiche e le moderne prassi disciplinari, queste ultime comunemente (quanto erroneamente) imputate al formarsi di saperi sul crimine maggiormente formalizzati (197). Tuttavia per una migliore comprensione delle loro logiche di funzionamento e delle ragioni che ne hanno determinato l'esistenza in (apparente) antitesi con i postulati dell'illuminismo penale, è opportuno procedere nell'analisi partendo da molto lontano.

2.3.1: Aporie del contrattualismo moderno

Siamo propensi a pensare all'illuminismo - e quanto ciò sia dovuto a scolastiche rappresentazioni si è detto - come ad una corrente di pensiero sottesa da un'antropologia indeterministica, basata su un'idea di uomo quale essere dotato di libero arbitrio, mentre imputiamo alla nascita di un pensiero positivista - anche e soprattutto in chiave antilluminista - lo sviluppo di una concezione antropologica deterministica e, conseguentemente, delle pratiche correzionali in materia penale-criminale.

La filosofia politica del XVIII sec. aveva indubbiamente - costruendo questa figura di individuo membro consapevole e razionale di un contratto sociale, uguale ai suoi simili in quanto dotato di uguali diritti naturali ed inviolabili (ciò che, nella teoria giuridica, si trasforma in capacità d'agire e capacità giuridica) - opposto l'uomo a misura del potere di punire che pretendesse di essere legittimo. Già Michel Foucault, tuttavia, aveva dimostrato quanto l'umanizzazione delle pene determinata dalla comparsa di quest'idea di uomo, rispetto ai meccanismi sanzionatori ancien regime, fondati sul vendicativo strapotere monarchico, fosse piuttosto funzionale ad un complesso riassestarsi della tecnologia punitiva nelle società uscite dalla rivoluzione borghese, una nuova economia politica della pena insomma.

Non è questo il luogo per verificare l'attendibilità delle idee del filosofo francese, né per stabilire in che misura tale umanizzazione - e più in generale tutta la riforma penale - fosse funzionale ad una pena più efficace, economica, in ultima analisi utile (198). Ed a riguardo sarebbe peraltro sufficiente rammentare le parole di Bentham a proposito dell'«inutilità» (e non dell'«inumanità») della pena di morte: egli sostenne infatti che la pena capitale fosse ingiustificabile in quanto "non è convertibile in profitto" e che, inoltre, rappresentasse "una perdita, una spesa in ciò che forma la forza e la ricchezza di una nazione, il numero degli uomini" (199).

Adesso preme piuttosto valutare se effettivamente sia sottesa al pensiero illuminista l'idea di un uomo razionale e dotato di libero arbitrio e se, in tale rappresentazione, quel pensiero fosse realmente egalitario, secondo le sue professioni di fede.

Lo stesso Foucault in un primo momento ammise che "in quest'epoca di Lumi non è come tema di un sapere positivo che l'uomo viene opposto alla barbarie dei supplizi, ma come limite al diritto: frontiera legittima del potere di punire" (200). Per poi, parallelamente, dimostrare (contemporaneamente al discorso - cui abbiamo accennato - sullo sviluppo delle strategie disciplinari con le loro tecniche di asservimento e i loro dispositivi pedagogico normalizzanti) quale astrazione fosse quell'idea di uomo: "si dice spesso che il modello di una società che abbia come elementi costitutivi gli individui è presa a prestito dalle forme giuridiche astratte del contratto e dello scambio. La società mercantile si sarebbe presentata come un'associazione contrattuale di soggetti giuridici isolati. Forse. La teoria politica dei secoli XVII e XVIII sembra in effetti ubbidire spesso a questo schema. Ma non bisogna dimenticare che nella stessa epoca è esistita una tecnica per costituire effettivamente gli individui come elementi correlativi di un potere e di un sapere. L'individuo è senza dubbio l'atomo fittizio di una rappresentazione ideologica della società, ma è anche una realtà fabbricata da quella tecnologia specifica del potere che si chiama disciplina" (201).

Che il potere iniziasse ad atteggiarsi a produttore di campi di oggetti, articolando diversamente dalla semplice interdizione le sue strategie, legandole alla produzione di saperi ed a strategie di normalizzazione, è già stato sottolineato. Ciò che preme evidenziare adesso è come nelle parole prese in prestito da M. Foucault sia tutta evidente nel pensiero illuminista una sorta di "duplicità" (202): il suo essere fondato, da un lato su una teoria contrattuale in base alla quale individui razionali e consapevoli si sottomettono, in forza di un accordo reciproco, ad un'autorità la quale - in quanto costituita dalle porzioni di libertà che ogni singolo ha ceduto (il "deposito", come lo chiama Beccaria) - non può non perseguire la felicità ed il benessere di tutti; dall'altro lato, invece, sull'idea che la rottura di tale accordo fondativo non possa che essere un gesto estremamente irrazionale, dovuto alla "debolezza" di uomini incapaci di cogliere i vantaggi dell'essere "in" società, del rispettare il patto sociale (203).

Lo stesso Herbert Marcuse nei suoi studi su L'autorità e la famiglia (204) analizzando il contributo a riguardo dell'esponente più maturo dell'illuminismo, I. Kant, sottolineava il medesimo paradosso evidenziando come una corrente di pensiero, che la tradizionale storiografia del pensiero filosofico vorrebbe campione delle libertà civili, possa contenere al suo interno una "dottrina dell'autorità di fatto incondizionata dei governanti mondani" quasi una "secolarizzazione dell'ubbiddienza cristiana" (205). Più in generale l'Autore evidenziava come Kant avesse affrontato il problema del rapporto fra l'autorità e la libertà, rilevando come la prima, che pure è frutto di un libero accordo fra gli individui, avesse "interesse a disciplinare l'uomo trattandolo in modo autoritario (...) interesse in cui è in gioco, di fatto, la sua stessa, intera esistenza (...) Kant ha indicato la religione come strumento di questo disciplinamento, come necessità della costituzione civile, affinché ciò che non può essere ottenuto con la costrizione esterna, sia raggiunto con quella interna (della coscienza); affinché la disposizione morale degli uomini sia utilizzata politicamente dai legislatori" (206).

Conciliare l'innata libertà dell'uomo con le esigenze dell'autorità sociale sarà possibile solo attraverso un processo, che per Kant è l'illuminismo stesso, di "uscita dell'uomo da uno stato di minorità di cui è egli stesso responsabile" (207).

Perché un'autentica libertà abbia a realizzarsi, dunque, necessitano dei pedagoghi e una pedagogia. Posto, infatti, che "la costrizione non può essere imposta all'individuo dall'esterno, e che la limitazione della libertà deve essere una autolimitazione - l'illibertà, infatti, deve essere volontaria" (208) - bisognerà elaborare un complesso di tecniche per instillare tale capacità di autocontrollo nel profondo delle coscienze dei consociati.

La lesione del patto, la violazione di una norma posta da un'autorità così costituita, oltre ad essere "la via verso un divorante abisso senza ritorno, verso la distruzione dell'esistenza sociale in generale" (209), è espressione di quello stato di minorità da cui i Lumi sono in grado di sollevare gli individui. Infrangere quest'accordo è andare contro sé stessi, poiché, in tutte le idee illuministe del contratto, l'autorità cui ci si oppone è espressione anche della volontà e dell'interesse di chi la viola.

Ecco forse il paradosso del pensiero illuminista (ed insieme la sua duplicità), un pensiero che mentre consacra il valore universale della ragione umana nella società fondata attraverso il contratto di uomini liberi ed uguali, nasconde dietro una formula astratta l'irrazionalità delle concrete società del tempo, percorse da forti disuguaglianze.

Rousseau è forse tipico in questo: da un lato un'opera come Discorso sull'origine dell'ineguaglianza, in cui vi è la celebre denuncia della proprietà privata come fattore di disuguaglianze e di divaricazione rispetto al modello di società proprio dello stato di natura, in cui ogni uomo è uguale al suo simile. Dall'altro lato l'altrettanto celebre teoria del contratto sociale, in base alla quale ogni individuo si sottoporrà ad una volontà generale, unica ed autentica espressione di ragione, la quale governerà gli individui realizzando la loro autentica libertà.

C'è in questo il paradosso di un'autorità che aspira a non essere eterodirezione, ma veicolo di un'autentica libertà, mentre si risolve nell'esatto contrario. Sembrerebbe infatti che, attraverso il patto, l'uomo ritorni al suo primitivo stato di natura, in cui ognuno era libero ed uguale ai suoi simili, invero questa libertà non sarà la libertà di assecondare i propri istinti, "il patto (...) non deve garantire l'uomo di natura, ma strapparlo a questo stato (...) e farne un essere nuovo, un essere sociale" (210). La società così costituita e l'uomo "sociale" che essa porta con sé, non potranno che essere razionali: la prima frutto di un libero accordo ed il secondo figlio della ragione stessa, della sua capacità di modellare una siffatta umanità.

C'è quindi una sorta di vocazione pedagogica nella ragione illuminista, che definendo sé stessa nel patto sociale e nell'ordine che ne è espressione, indica al contempo il suo opposto, sragione, in tutti i comportamenti lesivi dell'ordine costituito. Questa vocazione dei "lumi", della conoscenza, della ragione, si sarebbero meglio specificati in un'insieme di scienze positive. Il mostro (211) sarebbe stato educato alla vita civile.

Passa attraverso l'educazione (o al limine neutralizzazione) di ogni singolo individuo incline per sua "natura" a infrangere il patto sociale, la capacità di prevenire il manifestarsi di quella che per gli illuministi è "l'altra grande figura del mostro" politico (accanto al despota): "il mostro popolare, che rompe il patto sociale dal basso" (212). Il problema che costituiva l'aver proclamato l'eguaglianza formale di tutti i cittadini, scardinando le vecchie strutture dell'ancien regime, era proprio quello di costruire quest'uomo che fosse in grado di rendersi parte del contratto sociale, era quello di costruire il nuovo soggetto politico, il cytoyen, "un uomo razionale, libero ed uguale ai suoi simili" (213). A tale operazione sarebbe servito un discorso in grado di costituire l'uomo come oggetto, oltre che soggetto, di sé stesso; sarebbe servito un ulteriore sviluppo di quell'insieme di istituzioni disciplinari che si andavano abbozzando sin dall'epoca classica ed il discorso delle scienze umane, che avrebbe dato loro nuova linfa ed un fondamento «razionale».

Nelle teorie illuministe, dunque, l'individuo è da un lato scaturigine dell'autorità - fonte e limite della stessa; dall'altro lato però l'autorità si arroga il diritto di forgiare l'individuo idoneo alla vita all'interno del patto, di costruire il "tipo umano" idoneo alla vita in società.

Che le basi per la costruzione di una più solida rete disciplinare si siano date proprio in coincidenza con la nascita, prima solo teorica, e poi anche pratica delle moderne democrazie, è solo un apparente paradosso. Il meccanismo disciplinare è, infatti, perfettamente consono ai sistemi democratici. L'esigenza di creare il soggetto politico che potesse rendersi parte del contratto, senza infrangerlo (quel soggetto razionale ed in grado di autocontrollarsi, come dicevamo) è l'esigenza di assoggettare in maniera più penetrante gli individui, mettendo in campo strategie che non si risolvano nella pura e semplice interdizione. Così si può ragionevolmente sostenere che un regime autoritario sia più propenso ad un tipo di controllo sociale che faccia presa sui corpi dei cittadini, mentre un regime democratico, basandosi sul principio della partecipazione del singolo alla vita pubblica, troverà più funzionali alle sue esigenze strumenti di controllo che facciano presa sulle anime dei cittadini. Essi, come sappiamo, sono estremamente più pervasivi proprio perché basati "sul suggerimento di motivi dell'azione, piuttosto che su censure dell'agire" (214).

L'egualitarismo illuminista svapora al cospetto della sua vocazione pedagogica, quest'esigenza di produrre un individuo con un livello di razionalità sufficiente ad autogovernarsi si risolve nell'opposto dell'eguaglianza, "Bentham, Beccaria e gli altri autori del liberalismo, sostengono i diritti di libertà per tutti, si, però per tutti coloro che sono degni di goderli, che se li meritano, che sono all'altezza di quel soggetto razionale che solo può essere protagonista del contratto sociale" (215).

Già all'epoca, a ben vedere, l'individuo razionale aveva caratteristiche ben precise: maschio, adulto, bianco, proprietario. E ciò è di tutta evidenza se si pensa ai diritti politici (216) ed a come questi (salvo una breve parentesi durante il Terrore (217)) non furono estesi a tutti i cittadini francesi, secondo l'universalismo egualitario che connotava le idee illuministe. Al contrario, infatti, la cittadinanza politica fu attributo di un individuo ben particolare, il cittadino proprietario, cioè il cittadino che, impegnato in attività economiche produttive (in quanto doveva amministrare i beni in sua proprietà), si riteneva unico soggetto veramente interessato e idoneo all'amministrazione della cosa pubblica. Questa distinzione fra due gradi diversi di cittadinanza, una dotata anche dei diritti politici l'altra provvista solo dei diritti civili, riflette l'idea che fosse possibile distinguere gli individui fra chi era dotato della razionalità sufficiente per partecipare alla vita politica e chi non lo era (218).

Tuttavia, nel campo del diritto penale, l'idea che vi fosse una categoria di individui irrazionali ed, in quanto tali, dotati di un grado minore di libero arbitrio, offriva, come detto, solide basi su cui fondare i progetti di ortopedia sociale. È così che Michel Foucault può arrivare a dire che "i Lumi che hanno scoperto le libertà, hanno anche inventato le discipline" (219), evidenziando come il sottoprodotto, la facciata nascosta, del formalismo delle idee contrattuali sia stato il regime di sorveglianza generalizzata implicato dal panoptismo, ciò che consente al potere, formalmente limitato nelle teorie illuministe, di funzionare effettivamente rendendo vani quei limiti che gli si ergevano contro, primo fra tutti il limite dell'uguaglianza di fronte alla legge.

A riguardo sinistre suonano le parole di Cesare Beccaria "il più sicuro ma più difficil mezzo per prevenire i delitti si è di perfezionare l'educazione" (220), come non rintracciare in esse il monito per un legislatore illuminato, il quale deve tener presente che il semplice "comando (...) non ottiene che una simulata e momentanea ubbidienza" (221).

Sembra quasi che lo stato di diritto, in embrione contenuto nelle idee del pensiero illuminista, si risolva, nell'apertura verso le discipline che quella stessa tradizione culturale opera, in un sistema che funziona, nella sua pratica effettiva, secondo un meccanismo che è un "contro-diritto" (222).

Come - nel tentativo di individuare con maggiore precisione le diverse sfumature semantiche rintracciabili nel concetto di libertà - ha suggerito Isaiah Berlin (223), oltre ai classici concetti di libertà negativa e positiva, esiste un'esigenza di liberazione ulteriore. Esigenza che "è qualcosa di simile alla libertà, ma non è proprio la libertà" (224) e che consiste nel bisogno di liberarsi dal paternalismo, dalla pretesa di qualsiasi autorità, per quanto illuminata, di guidarci come sottocategorie di essere umani, "il paternalismo, infatti, è dispotico non perché sia più oppressivo della pura tirannide, brutale e non illuminata, (...) ma perché è un insulto alla concezione che ho di me stesso come essere umano, deciso a formare la mia vita seguendo i miei propri fini (non necessariamente razionali né benevoli) e soprattutto con un titolo ad essere riconosciuto dagli altri come tale" (225).

Nel pensiero illuminista, in pensatori come Beccaria o Bentham, di cui conserviamo l'immagine di autori liberali, c'è una spiccata tendenza al paternalismo. Tendenza che in campo penale si risolve nella visione del criminale come essere in qualche maniera "minorato", da elevare attraverso l'educazione, il trattamento, la disciplina, al livello di un'autentica umanità.

"Questa è la degradazione che combatto: non sono alla ricerca dell'uguaglianza di diritti giuridici né della libertà di fare ciò che voglio (per quanto possa desiderare anche questo), ma della condizione in cui possa sentire di essere, perché così sono considerato, un agente responsabile la cui volontà è presa in considerazione perché ho titoli per esserlo, anche se sono attaccato e perseguitato per essere ciò che sono o perché scelgo come scelgo" (226).

C'è una profonda ambiguità nello sguardo che gli illuministi volgono verso le masse popolari, masse che come vedremo nel XIX secolo saranno inquadrate nella nozione di «classi pericolose», anche se non è certo lecito parlare dell'illuminismo come una corrente di pensiero coerente ed univoca. Nella sola Italia profonde sono le differenze riscontrabili, ad esempio, fra un Cesare Beccaria - che viveva e operava in una città come Milano, in cui esistevano avviate imprese manifatturiere e dunque tutti i problemi sociali che uno sviluppo proto-industriale iniziava a porre alle élite del XVIII sec. - ed un Francesco Maria Pagano - che scrisse da un osservatorio come Napoli, affetto, come tutto il Regno delle due Sicilie, dai problemi sociali posti da una realtà rurale in cui persistevano tenacemente strutture sociali di stampo feudale cui faceva da contr'altare l'assenza di un adeguato sviluppo manifatturiero - il primo più attento alle esigenze di governare e disciplinare le masse, il secondo più sensibile al problema di una loro reale emancipazione (227).

Logico che certi atteggiamenti nei confronti delle masse balzino agli occhi in misura maggiore considerando l'opera di un autore come Beccaria, che tutto sommato ebbe di fronte una realtà sociale simile a pensatori come Bentham, che dei meccanismi disciplinari teorizzò la forma pura: il Panopticon (228).

Se già nell'opera che è considerata, forse non a torto, il compendio del pensiero illuminista in materia penale, Beccaria lascia trasparire nel suo impianto teorico alcune crepe attraverso cui s'intravedono quelle classi pericolose da disciplinare ed educare, spostando l'attenzione su altri suoi lavori scaturiti da ben precise esigenze pratiche (229), queste crepe si trasformano in vere e proprie aperture verso un sistema preventivo di controllo della criminalità.

In particolare in una Consulta del 1790 Sulla Polizia (230), Beccaria si è impegnato a dimostrare come con "il nuovo regolamento di Polizia" si otterrà un miglior conseguimento del "bene della civile società" (231) e ciò grazie alla "vigilanza dell'ufficio medesimo nel prevenire" la commissione di crimini, capacità di vigilanza aumentata sia in ragione dell'incremento numerico degli addetti, che per l'"essersi abolite le bettole sorgenti del vizio e delle scostumatezze della gioventù malinclinata" (232).

Beccarla, poi, continua sottolineando la novità dell'istituito "ruolo di tutte le persone abitanti in questa città, dal quale esattamente risulta il nome, cognome, età, patria, condizione, impiego, e condotta". Evidenziando che "incomparabile è il vantaggio che ne deriva da questa operazione per chi è destinato alla prevenzione dei delitti" e rileva inoltre come il più efficiente meccanismo di registrazione dei forestieri che alloggiano nelle osterie o locande cittadine, combinato con le registrazioni operate dalle guardie di Polizia preposte al controllo delle porte della città, offra la possibilità "di scoprire quelli che per qualche indiretto fine vorrebbero di nascosto introdursi in città, o allontanarsi dalla medesima all'insaputa di che veglia per il buon ordine e per la pubblica sicurezza". Precisa che la nuova organizzazione dell'Ufficio è maggiormente efficace in quanto prima "non poteva con quella celerità ed esattezza prevenire i giornalieri piccoli inconvenienti che accadevano nei sei distretti della città, né dare quelle istantanee provvidenze che sono d'obice ai mali maggiori, nelle private famiglie fra padre e figlio, marito e moglie, fra un cittadino e un altro"; mentre la rinnovata organizzazione distribuisce un Commissario per ogni distretto della città e consente che questi svolga una continua vigilanza, in specie durante le ore notturne, con ronde continue, per strada, nei "pubblici alberghi ed i luoghi sospetti onde attrappare le persone equivoche ed impedire gli inconvenienti".

Non manca, infine, di sottolineare come resti esiguo il numero di "guardie" a disposizione in relazione alle esigenze di una città come Milano, in cui vi è un gran numero di "alberghi, osterie e trattorie a pubblico comodo", non nascondendo che sarebbe opportuno limitare il rilascio di licenze a riguardo in quanto "colla scarsezza delle guardie mancherebbero i mezzi di vegliare colla necessaria assiduità sopra siffatti luoghi pubblici nei quali frequentano gli oziosi e malinclinati cittadini".

Queste parole (233) sono sottese dalla ben precisa immagine di quali si riteneva fossero i luoghi della criminalità ed i suoi principali protagonisti: mailinclinati, equivoci, frequentatori di bettole, oziosi a piede libero e con licenza di infestare le vie cittadine. A riguardo non si nasconde un moto d'orgoglio nel sottolineare come "in occasione delle passate guerre pochissimi furono gli oziosi e rei di piccoli delitti che furono dai tribunali di giustizia forzati al militare servizio; all'opposto nel presente sistema e dall'Intendenze Politiche e più poi Dall'Ufficio di Polizia furono raccolti molti soggetti dello Stato che vivevano nell'ozio e nei vizi e furono consegnati al militare".

Lo stesso, poi, chiamato ad esprimere un parere su quale fossero le sanzioni più idonee per i delitti politici (234) (che, è bene ricordarlo, nel lessico di Beccaria sono le contravvenzioni di polizia) sottolineò lucidamente come "i delitti politici essendo piuttosto colpe, e trasgressioni, che veri delitti, debbono considerarsi come azioni che preparano l'uomo a divenire veramente delinquente e criminoso, degno della pubblica infamia, (...) dunque debbono essere puniti con quei mezzi, che sono li più efficaci per correggere e trattenere un cittadino" (235). Nel sanzionare questi piccoli difetti nella condotta di vita, che tuttavia non concretizzano infrazione della legge criminale, si deve avere riguardo alla correzione del cittadino malinclinato e, inoltre, "avere moltissimo riguardo alla condizione delle persone, perché il bastone, che può correggere il facchino, avvilisce ed annienta un nobile, un onesto negoziante, e qualunque civile persona" (236).

Questo è un saggio del paternalismo che informava l'azione concreta delle agenzie poliziesche e penali del tempo allorché si trattasse di gestire e governare le classi subalterne. In proposito Cesare Beccaria non potrebbe essere più esplicito, "la nazione milanese è docile, ubbidiente, niente facinorosa (...) ma è pigra e si avvilisce facilmente. Ha bisogno di incoraggiamento, d'una migliore educazione, a cui veramente tendono le paterne sovrane provvidenze" (237).

L'ufficio di Polizia descritto da Beccaria non è poi così lontano dall'idea di polizia quale meta-disciplina incastrata nel complesso panoptico avuta da Michel Foucault. La società disciplinare, si diceva, viene dalle pratiche, nasce in esse, le teorie (i saperi sul crimine) arriveranno dopo, quando i meccanismi di messa in quadro (l'inquietante "anagrafe" cui si riferisce Beccaria è solo uno dei tanti disseminati fra scuole, eserciti, case di correzione, opifici) saranno percepiti come un'inesauribile fonte di conoscenza sul comportamento umano e si inizieranno a formalizzare delle vere e proprie scienze a riguardo.

Più in generale, però, per l'economia complessiva dei meccanismi di potere, le scienze umane e sociali rappresentano senza dubbio una scoperta rilevante, esse rendono il potere maggiormente insidioso e meno visibile, neutralizzando gli argini appena eretti nei suoi confronti. Grazie allo sviluppo delle discipline il potere non si fonderà più solo sull'urto violento della coercizione, ma poggerà in gran parte su una strategia sottile di assoggettamento basata un'oggettivazione che non lascia scampo. L'opposizione vero/falso (238) a partire dalla quale si riassestano i processi di controllo sociale (soprattutto penale) rappresenta infatti un'insidia maggiore della mera repressione (basata sull'opposizione lecito/illecito), in quanto costituisce la "meno avvertita procedura di esclusione e di controllo che delimita gli spazi della nostra esperienza" (239).

Condotte irregolari, modi di essere verranno progressivamente patologizzati, il deviante farà la sua comparsa, soggetto anormale, irriducibilmente votato al delitto, apparentemente lontano parente del peccatore, del malinclinato, in cui l'inquisitore non faticava a rintracciare i segni del Maligno stesso. Si produrrà, in sostanza, una singolare inversione: il sistema penale pensato a cavallo fra XVIII e XIX secolo, informato ai canoni del "modello di giustizia" (240) (grazie anche all'auspicata rigida separazione fra diritto e morale) navigherà alla deriva di meccanismi disciplinari, fino ad incastrarsi definitivamente in un complesso panoptico, snaturandosi completamente. Alla confusione fra diritto e morale seguirà quella fra diritto e natura, con "la restaurazione di un sostanzialismo laico, che prende il posto del sostanzialismo giusnaturalistico premoderno, ma che torna a identificare il malum in se nella persona deviante: in ossequio non più alla vecchia morale religiosa e ultraterrena, ma alle leggi evolutive e selettive dell'organismo sociale" (241).

2.3.2: Cognitivismo penale

L'affermazione dei diritti civili, con l'enorme bagaglio di garanzie che in campo penale si porta dietro, non può essere certo oggetto di un esproprio ai danni dei riformatori del XVIII sec. La vasta opera di tutti gli autori che, convenzionalmente, inquadriamo sotto l'etichetta di illuminismo penale, fu sicuramente un contributo teorico che, aspirando a rifondare "laicamente" l'autorità, secolarizzandola nel concetto di contratto, arrivava, in materia penale, ad una concezione autenticamente giuspositivista e convenzionalista del delitto, in cui diritto e morale venivano distinti con fermezza ed il diritto penale trovava la sua giustificazione nel fine utilitaristico del perseguimento del benessere comune (la massima felicità divisa per il maggior numero affermava Beccaria) (242).

Vale la pena di soffermarci brevemente sulle implicazioni di una simile dottrina, anche per poterne apprezzare il valore e comprendere meglio quanto siano da essa distanti i caratteri assunti concretamente dal sistema penale italiano, sin dall'inizio della sua storia. Ci pare infatti che all'enorme contributo del pensiero illuminista in materia penale - l'aver delineato i tratti di un sistema penale razionale, democratico, rispettoso dei diritti individuali, costruito secondo lo schema del modello di giustizia e teso, quindi, al perseguimento di fatti criminali - abbia corrisposto una pratica penale concreta molto più simile ai meccanismi disciplinari, polizieschi, su cui ci siamo soffermati, i quali tendono ad adottare strategie d'intervento preventive, guardando più all'individuo criminale che ad un atto criminale.

L'argomento verrà, per maggiore chiarezza, scomposto secondo quelli che sono i due livelli dell'intervento penale:

  1. criminalizzazione primaria, cioè il campo della previsione astratta delle fattispecie penali: la legge; alla quale si riferiscono le cosiddette garanzie penali;
  2. criminalizzazione secondaria, che riguarda, invece, il settore dell'accertamento e della repressione dei crimini commessi: il processo penale; al quale si riferiscono le cosiddette garanzie processuali.

Solo successivamente si passeranno ad analizzare, brevemente, i tratti che il sistema penale ha assunto nell'Italia unita e dei processi di controllo sociale che su di esso si sono fondati. Analisi che avrà riguardo, come più volte anticipato, all'essere del diritto penale italiano, e sarà un'indagine tanto di tipo storico (in questa prima parte e nel primo capitolo della seconda) che sociologico (nel terzo capitolo della seconda parte, in cui esporremo i risultati di un'indagine empirica da noi condotta).

Il discorso che condurremo adesso è funzionale, comunque, a rintracciare gli elementi teorici validi per la costruzione di un sistema penale minimo (243), un sistema, cioè, in cui il potere punitivo sia massimamente limitato alla - ed assiologicamente fondato sulla - certezza (pur sempre approssimativa) che nessun innocente resti vittima dell'intervento penale, a costo dell'incertezza che anche qualche persona colpevole possa restare impunita. In opposizione ad un sistema penale massimo, fondato a sua volta sulla pretesa di raggiungere la certezza che ogni colpevole venga perseguito, a costo dell'incertezza che anche qualche innocente possa incorrere in una sanzione penale. Elementi che in nessun'altra corrente di pensiero al di fuori dell'illuminismo penale - pur con tutte le differenze fra i suoi vari esponenti e le ambiguità insite a quel pensiero stesso - sono stati maggiormente approssimati, anche se spesso si risolsero in mere petizioni di principio.

Le garanzie penali e processuali (su cui ci soffermeremo) rappresentano argini di fondamentale importanza poiché vincolano il giudice ad un'attività il più possibile cognitiva, sui fatti contestati, e ricognitiva, in merito alla possibilità di far rientrare il fatto nella previsione normativa. Esse tutelano, quindi, la libertà individuale assurgendo contemporaneamente a fondamento epistemologico del sistema penale. Sono al contempo, dunque, garanzie oggettive, di verità, e garanzie soggettive, di libertà.

La distinzione fra le due classiche partizioni in cui è scomponibile l'attività del giudice, espressa dalle formule quaestio facti e quaestio juris, individua le due operazioni attraverso cui si perviene a quello che, praticamente da sempre (244), è considerato lo scopo dell'ufficio di giudice: l'accertamento di una verità (245).

La quaestio juris consta sostanzialmente di un'operazione deduttiva, la quaestio facti, viceversa, è un'operazione induttiva. Alla prima si riferiscono le garanzie penali, alla seconda le garanzie processuali, le une e le altre si pongono come meccanismi idonei a minimizzare il potere d'interpretazione normativa e di verificazione fattuale del giudice, assicurando, entro certi limiti, che le sue pronunzie siano fondate su criteri di verità e non su parametri di opportunità. Che, in sostanza, l'attività del giudice sia attività il più possibile cognitiva e non dispositiva.

Realizzare appieno la figura di giudice rigidamente vincolato a queste due operazioni fu già un obbiettivo degli illuministi, basti un riferimento alle celebri pagine di Montesquieu (246) in cui si teorizza la separazione fra i poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) configurando l'ufficio del giudice come un potere nullo, cioè interamente dedito ad un'attività conoscitiva (in fatto ed in diritto), bocca della legge e privo di qualsiasi discrezionalità nel suo operare (ciò che connota gli altri due poteri, i quali agiscono in base a parametri di opportunità). Oppure alle altrettanto celebri parole di Beccaria, il quale afferma che "in ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto: la (premessa) maggiore dev'essere la legge generale, la (premessa) minore l'azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena. Quando il giudice sia costretto o voglia fare anche soli due sillogismi, si apre la porta all'incertezza" (247).

Inutile dire che tutto il movimento di pensiero illuminista fu pervaso dall'idea di costringere l'ufficio giudiziario ad una esatta applicazione delle leggi ed, in particolare, fu centrale l'idea che la maggiore chiarezza delle norme penali avrebbe definitivamente vincolato il giudice all'accertamento di un fatto, eliminando quello che era considerato un potere di riscriverle continuamente: la possibilità d'interpretazione, dovuta alla cattiva formulazione o caotica ed incoerente stratificazione di leggi penali (248).

Ma se, entro certi limiti, la certezza che il giudice si attenga ad una stretta applicazione della legge ai fatti accertati - attuando un'operazione strettamente cognitivista (informata a parametri di verità) e non decisionista (informata a parametri di opportunità), in cui non ci sia spazio per l'interpretazione ed egli sia vincolato all'accertamento di fatti empirici - non è mai pienamente raggiungibile - e, concretamente, gli stessi sistemi penali frutto delle idee riformatrici si limitarono ad una vaga approssimazione del loro presupposti teorici - ciò non può indurci a screditare l'idea di certezza che intendiamo porre (sulla scia di Luigi Ferrajoli) come parametro di legittimazione del sistema. In ogni caso, infatti, un'analisi relativa all'essere del diritto penale non può giungere a screditare il dover essere dello stesso, a patto di non voler incorrere - secondo il precetto di Hume - in una fallacia naturalistica.

L'analisi storico-sociologica evidenzia le ineffettività dei principi, ma non può screditarne la stessa valenza (come accade nelle dottrine abolizioniste, che pretendono di delegittimare un'idea filosofica attraverso la critica di concreti ordinamenti penali (249)).

Posto che assiologicamente il diritto panale può essere giustificato se, ed in quanto, conforme ai principi di un diritto penale minimo, intesi quali massima limitazione del potere punitivo, l'analisi descrittiva servirà ad evidenziare gli strappi nei confronti di quei principi attraverso "l'analisi empirica dei concreti ordinamenti penali - delle loro leggi e soprattutto delle loro prassi - come base della loro giustificazione ovvero della loro legittimazione, l'una e l'altra a posteriori" (250), giammai a priori.

Una simile analisi, che afferisce esattamente al campo d'indagine della «criminologia critica», evita d'altra parte anche la tentazione di legittimare in astratto un concreto ordinamento penale (incorrendo, come tutte le dottrine idealiste del diritto, in una fallacia normativistica, la quale legittima l'essere del diritto sulla base del dover essere che lo sottende) evidenziando ogni smagliatura nei principi suddetti. Smagliature attraverso cui, sempre, s'insinua il rischio che anche qualche innocente resti vittima dell'intervento penale. In tale fallacia s'incorre appunto ogni qual volta si cede acriticamente all'ideologia dell'uguaglianza di fronte alla legge penale, la quale, più che un dato acquisito una volta per tutte, appare un obbiettivo in gran parte ancora da conquistare.

garanzie penali (verificabilità). L'idea della separazione del diritto dalla morale, cioè il rifiuto di una concezione del crimine come un male in sé, ontologica, la quale si risolve in incriminazioni quia peccatum, fu ribadita da tutti i riformatori con l'affermazione di un principio in base al quale il delitto non avrebbe dovuto ricalcare i precetti di alcuna morale, essendo tale quia prohibitum. Oltre ad essere una prima, ancora generica, formulazione del principio di legalità "questo principio richiede che l'immoralità possa essere assunta come una condizione necessaria, ma mai come una condizione da sola sufficiente a giustificare politicamente l'intervento coercitivo dello stato nella vita dei cittadini" (251), imponendo di rintracciare altrove la giustificazione della proibizione.

L'idea della separazione del diritto dalla morale pone, dunque, in tutta evidenza la necessità di una nuova legittimazione esterna, assiologia, del sistema penale: la pena non sarebbe stata più legittimabile in sé, in senso assoluto, come "castigo", "corrispettivo", "reazione", "riparazione" o "retribuzione" fine a sé stessa, né, tanto meno, quale strumento per "emendare" il condannato. Essa è il mezzo per la prevenzione dei futuri delitti attraverso la minaccia di una sanzione (252).

In quest'ottica la dottrina dell'illuminismo penale è una dottrina della giustificazione utilitarista del sistema penale, le cui proibizioni saranno accettabili solo se tutelino beni giuridici determinati e l'azione criminosa si risolva in una lesione di un diritto altrui e non di una qualche regola morale (offensività); i cui giudizi dovranno vertere rigorosamente su fatti empirici verificabili essendo perseguibili solo le azioni e non gli stati di coscienza o i modi di essere (materialità) (253); la cui pena non dovrà tendere, vendicativamente, a ripristinare l'ordine o l'autorità lesa dal delitto per mezzo di spropositate rivalse sul corpo del condannato; né potrà pretendere di conseguire alcuna emenda o trasformazione morale del condannato "lo stato come non ha il diritto di costringere i cittadini a non essere malvagi ma solo di impedire che essi si nuocciano fra loro, neppure ha il diritto di alterare - rieducare, redimere, recuperare, risocializzare o simili - la personalità dei rei" (254).

Sarà quindi questa funzione general-preventiva - impedire attraverso la minaccia di un male futuri reati - lo scopo della sanzione ed, in questo quadro, l'idea che il suo incidere nella sfera dell'individuo debba limitarsi allo stretto necessario (necessarietà) (255) assurge a criterio legittimante l'intervento penale. L'idea retributiva passa qui in secondo piano, ma non perde il suo valore di garanzia, attenendo infatti al quando della pena e non al suo perché, essa impone che l'intervento penale sia sempre posteriore alla commissione di un reato, giammai preventivo (nulla poena sine crimine) (256).

Quest'idea di diritto penale, assolutamente convenzionalista - nel suo stabilire una netta scissione del diritto, espressione di un accordo fra eguali, dalla morale o dalla natura; inversa rispetto al paradigma sostanzialista, in cui il delitto è un male in sé prima ancora che un atto antigiuridico, esprimendo l'immoralità o l'anormalità dell'individuo che se ne rende protagonista (257) - rappresenta un valore cui effettivamente si è solo aspirato. Essa impone, per la giustificazione del sistema penale, che questo persegua solo episodi empiricamente verificabili, concretamente e materialmente prodottisi nella realtà, imputabili all'individuo agente e recanti un effettivo e percepibile danno nei confronti di uno o più individui (258).

Tali garanzie si risolvono in precetti epistemologici in base ai quali è, in una certa misura, assicurata la verificabilità empirica del disposto delle leggi penali, ciò perché impongono che le norme penali siano strutturate come norme regolative, cioè disciplinanti un comportamento concreto, imponendone il divieto o l'obbligo; non costitutive, ovvero norme che determinano effetti giuridici non mediati dal verificarsi (o meno) di un dato comportamento, bensì direttamente ricollegati ad uno status soggettivo, "le norme penali costitutive, infatti, non vietano ma immediatamente puniscono; o, se si vuole, non vietano di agire ma vietano di essere" (259).

In questa visione i principi di offensività e materialità (260), rappresentano delle condizioni necessarie per la realizzazione del principio di uguaglianza di fronte alla legge penale, imponendo precise regole semantiche di costruzione delle fattispecie penali, evitano che si vengano a creare differenziazioni di status giuridico fra gli individui. Il divieto o l'obbligo di un'azione sono precetti che si rivolgono indistintamente a tutti i soggetti, "la regolatività delle norme penali infatti è una condizione della loro generalità e quindi un presupposto dell'uguaglianza penale" oltre che "un presupposto indispensabile della tutela della dignità dell'uomo" (261).

Tali principi, come accennato, rappresentano anche degli argini nei confronti di concezioni sostanzialistiche del delitto quale male in sé. Essi, se autenticamente realizzati in una corretta semantica legislativa, realizzano il principio di stretta legalità che è appunto "una specifica tecnica legislativa diretta a precludere, in quanto arbitrarie e discriminatorie, le convenzioni penali non riferite a fatti ma direttamente a persone" (262), contribuendo in maniera decisiva a costruire un diritto penale informato ad una "concezione al tempo stesso nominalista ed empiristica della devianza punibile, che rimanda alle sole azioni tassativamente denotate dalla legge escludendo ogni configurazione ontologica o comunque extra-legale" (263).

Il nominalismo di tale concezione della devianza mantiene ferma l'idea che il crimine non abbia altra sostanza se non politica, essendo espressione di una convenzione o di un'imposizione (quindi sempre frutto di una volontà: auctoritas, non veritas facit legem). Mentre il suo rigido empirismo impone che esso consti di azioni materialmente ed empiricamente verificabili, concretamente offensive per i diritti di qualcuno e non in figure legali costruite sulla base di un paradigma soggettivo, di status o d'autore.

Streghe, eretici, ebrei, sovversivi, nemici del popolo, oziosi, vagabondi, proclivi a delinquere, dediti a traffici illeciti, pericolosi...il campionario delle figure soggettive variamente criminalizzate nel corso della storia della cultura e della pratica penale occidentale è disparato. Tuttavia esse sono accumunate (oltre dall'essere figure giuridiche costruite secondo schemi costitutivi) dal fatto di poggiarsi su concezioni ontologiche della "devianza criminale in quanto di per sé immorale o antisociale" (264).

In questa visione sostanzialista del crimine (tanto una concezione «moralistica» che una «naturalistica», infatti, rintracciano la sostanza criminale al di fuori della mera antigiuridicità di un fatto), è più l'autore, che la contingente espressione della sua malvagità o anormalità rappresentata dal fatto di reato, ad interessare l'intervento penale.

Il sostanzialismo penale è espressione di una confusione fra diritto e morale/natura che svaluta completamente il valore definitorio della legge penale, la portata di alcune affermazioni illuministe era tale da poter spezzare definitivamente questo legame, riservando all'organo legislativo, organo politico per eccellenza in sistemi democratici, la competenza ad individuare la devianza punibile (principio di legalità in senso "lato") secondo i precisi criteri imposti dai principi di offensività, materialità, colpevolezza (principio di legalità in senso "stretto"), evitando, così, la ricomparsa di figure legali astratte disciplinanti status e non comportamenti (265). Ciò, come avremo modo di sottolineare, non si è storicamente verificato.

Azione, evento, colpevolezza, gli elementi costitutivi del reato si pongono, come detto, quali criteri la cui presenza legittima la proibizione penale, ma soprattutto come criteri per realizzare una corretta epistemologia cognitivista. Il principio di "stretta" legalità, che li ingloba, si pone infatti come una regola di semantica del linguaggio legale, in base alla quale: i termini usati dalla legge devono essere denotativi di fatti empirici ben determinati e, pertanto, la loro connotazione dev'essere operata con precisione e senza il ricorso ad elementi vaghi o valutativi; si debbono limitare al massimo le antinomie semantiche, cioè che lo stesso concetto giuridico sia connotato altrimenti in maniera contraddittoria o diversa in un'altra norma.

Atteggiamenti interiori, caratteristiche dei soggetti, parametri morali, sono tutti elementi non precisamente connotabili, a causa dei quali la possibilità di denotare un fatto o soggetto come criminale non è più legata ad alcun riferimento empirico posto dalla legge penale, risiedendo piuttosto nel potere del giudice di concretizzare nel caso singolo gli elementi scarsamente determinati nella fattispecie, operando quel "terzo sillogismo" contro cui si espresse Cesare Beccaria.

È questo il potere di denotazione (266) del giudice, cioè la possibilità che una non corretta semantica legislativa gli offre di integrare i contenuti della fattispecie, allargandone o restringendone la portata per adattarla a fatti o persone che si trova a giudicare. Individuare questi spazi di discrezionalità in cui sono circostanze extralegali a determinare la portata di una legge penale è fondamentale perché segnala tutti i settori dell'ordinamento in cui il giudice non è chiamato ad operare verificazioni bensì valutazioni. Mancando un fatto empirico da verificare, manca inevitabilmente la verificabilità stessa delle asserzioni giudiziarie.

Ciò si verifica con maggiore frequenza nei sistemi sottesi, in tutto o in parte non importa, da concezioni sostanzialiste della devianza punibile. Come si è evidenziato, in questi casi la sostanza criminale risiede soprattutto in parametri extralegali quali possono essere una morale, un precetto teologico, un sapere scientifico o di senso comune, un'ideologia. Ma, cosa ancor più grave, a tali concezioni della devianza è sempre accompagnato l'utilizzo di fattispecie penali costitutive, in base alle quali il giudice è chiamato a valutare inclinazioni o attitudini, immorali, eretiche, anormali, dell'imputato, in aperta lesione dell'idea dell'uguaglianza innanzi alla legge penale e dell'idea che si debba essere giudicati per ciò che si è fatto, non per ciò che si è.

garanzie processuali (verificazione). Il discorso sin qui svolto a proposito delle garanzie penali - cioè quell'insieme di limiti posti al legislatore penale oltre che a garanzia dell'individuo, a garanzia del carattere cognitivista del sistema penale - ci ha consentito di individuare una regola semantica di costruzione delle fattispecie penali idonea ad imporre che esse perseguano fatti concreti ed empiricamente verificabili. La tassatività penale assicura pertanto che i fatti penalmente perseguiti siano, in astratto, verificabili. Altro discorso è poi se questi risultino, in concreto, verificati.

La verificazione dei presupposti per l'applicazione della pena è l'attività che viene svolta nella c.d. fase di criminalizzazione secondaria, in cui i precetti astrattamente previsti dal legislatore trovano applicazione al caso singolo. La «stretta» legalità (tassatività) delle fattispecie penali, attenendo alla primaria individuazione dei fatti criminali ed imponendo i canoni semantici di costruzione delle fattispecie su cui ci siamo soffermati, è un requisito necessario ma non ancora sufficiente per realizzare un sistema penale cognitivista. Essa, infatti, pur essendone il presupposto indefettibile, non assicura, di per sé, che il giudice arrivi a condannare solo dopo avere verificato i presupposti in fatto e diritto che legittimerebbero la pronunzia.

Se le garanzie penali assicurano la verificabilità empirica di ciò che dalla legge è definito criminale, le garanzie processuali tendono ad imporre al giudice una concreta verificazione dei presupposti della condanna. Ciò che le prime assicurano in astratto, verificabilità, le seconde realizzano in concreto, verificazione. Ciò che toccano le garanzie processuali, regolandolo e vincolandolo in relazione a ben precise esigenze epistemologiche, è il potere di verificazione fattualedel giudice (267), che, assieme al potere di denotazione giuridica su ci siamo già soffermati, costituisce il fulcro della funzione giudiziaria.

Montesquieu ha teorizzato un potere giudiziario "nullo", cioè privo di alcuna discrezionalità o capacità valutativa, ma limitato all'accertamento dei fatti ed alla ricognizione delle leggi applicabili. In linea di massima quest'idea ci delinea la figura di un giudice penale l'autorità e legittimità delle cui pronunzie risiede nel loro valore di verità, nel loro essere rigidamente fondate su un'accertamento (veritas, non auctoritas, facit judicium). Le garanzie processuali servono, appunto, se non a realizzare pienamente l'ideale del giudice «bocca della legge», perlomeno ad approssimarlo, sono quindi, insieme alle garanzie penali, oltre che garanzie di libertà, anche garanzie di verità (268). Contribuendo come detto alla fondazione, insieme, assiologica ed epistemologica del sistema penale.

Alla stessa stregua in cui la storia della cultura penalistica è pervasa dalla dicotomia fra concezione convenzionalista e sostanzialista del reato, con la relativa oscillazione sul piano delle garanzie penali, specularmente si potrebbe guardare la cultura e la pratica processual-penalista come un'oscillazione fra due estremi: da una parte un giudizio senza verità, decisionistico; dall'altra un giudizio senza autorità, cognitivistico. I giudizi penali tendono all'accertamento di una verità e, come detto, nella verità trovano anche la loro legittimazione, la storia del processo penale è tuttavia insolubilmente legata a quella dei modelli di diritto penale, in quanto ad ogni diversa concezione della devianza punibile corrisponde tendenzialmente una diversa pratica processuale.

Sarà infatti diversa la verità cui si pretenderà di accedere a seconda che il sistema penale sia sotteso da una concezione sostanzialista o convenzionalista della devianza punibile. Nel primo caso, infatti, vi è sempre "la pretesa di contrapporre, al modello penale strettamente legalistico e convenzionale, una fondazione razionale e cognitiva di tipo metagiuridico e oggettivo - morale, o naturale, o materiale, o sociale, o altrimenti ontologico - della definizione in astratto della devianza" (269), cui, conseguentemente, si accompagna la pretesa del giudice di conseguire tale verità sostanziale, assoluta, che, non limitata da alcun fatto definito legalmente, induce ad estendere l'indagine fino a prendere in carico l'intera esistenza di un individuoed ogni elemento raccolto sul suo conto, indipendentemente dal metodo con cui lo si è ottenuto, sarà untile ai fini della decisione finale.

A concezioni sostanzialiste corrisponde, quindi, un meccanismo processuale dai più o meno marcati caratteri inquisitori, in cui vi è un'assoluta fiducia nelle capacità del giudice di pervenire ad una siffatta verità sostanziale, alla cui attività di ricerca non vanno posti limiti di alcun genere, anche perché è prima di tutto la legge penale stessa, non vincolandolo all'accertamento di alcuno specifico fatto, ad imporgli di scavare nelle esistenze individuali senza limite di sorta. Tale connessione fra modelli di diritto e di processo penale non è, peraltro, semplicemente teorica ma anche storica, come dimostra la torsione inquisitoria del processo romano e del processo canonico medievale, prodotta dai crimina laesae maiestatis, nel primo caso, e dai delitti di eresia, nel secondo (270).

"È evidente che questa pretesa verità sostanziale, essendo perseguita al di fuori di regole e controlli e soprattutto di un'esatta predeterminazione empirica delle ipotesi di indagine, decade a giudizio di valore, di fatto largamente arbitrario" (271), inverte in sostanza la massima su cui si fonda un giudizio penale rispettoso dei diritti individuali, legittimando un processo penale senza verità: auctoritas, non veritas facit iudicium. O meglio, sostituisce alla limitata verità cui aspira un sistema penale convenzionalista e cognitivista (l'accertamento di un fatto antigiuridico) verità sostanziali extragiuridiche, assolutamente indeterminabili se non con il ricorso a parametri soggettivi, morali o ad ulteriori saperi (quali la teologia - come nel Sant'Uffizio - o le moderne scienze umane - nei sistemi penali basati sul concetto di pericolosità).

Viceversa si può riconsiderare il processo penale che tendenzialmente corrisponde a concezioni convenzionaliste della devianza criminale, come un processo teso all'accertamento di una verità formale, relativa ai soli fatti individuati dalla previsione normativa; "questa verità non pretende di essere La verità; non è conseguibile mediante indagini inquisitorie estranee all'oggetto processuale; è di per sé condizionata al rispetto delle procedure e delle garanzie di difesa" (272).

L'inquisitore non tollera che alcun limite venga opposto alla sua attività di ricerca del vero, esso pretende di poter accedere ad una verità assoluta, "alla bulimia inquisitoria riesce congeniale un sapere onnivoro" (273). Al contrario un modello penale convenzionalista già impone di limitare l'indagine ai concreti fatti denotati penalmente dal disposto legislativo ed, in secondo luogo, ad esso corrisponde in linea di massima un modello processuale accusatorio, intendendo con questa definizione "ogni sistema processuale che configura il giudice come un soggetto passivo rigidamente separato dalle parti, e il giudizio come una contesa paritetica, iniziata dall'accusa cui compete l'onere della prova, ingaggiata con la difesa mediante un contraddittorio pubblico ed orale e risolta dal giudice sulla base del suo libero convincimento" (274).

Tale idea di processo penale fu riaffermata in evo moderno dai riformatori illuministi ed, in particolare, i momenti cruciali in cui tali principi processuali prevalsero a scapito dell'impostazione inquisitoria si ebbero durante la rivoluzione francese. Tra il 1789 ed il 1791, infatti, la costituente smantellò la vecchia procedura, abrogando l'ordonnance criminelle del 1670 (275), e realizzò un modello processuale il quale, a dire il vero, proveniva da una lontana tradizione che non aveva mai cessato di esercitare la sua influenza nei paesi anglosassoni, piuttosto che essere frutto di un'originale elaborazione da parte dei riformatori (276).

La fecondità di un tale modello di accertamento delle verità fattuali è testimoniata dal fatto che a distanza di molto tempo l'epistemologia contemporanea ritorni a parlare di verità nel senso di verità approssimativa, o come accostamento, avvicinamento, alla verità oggettiva, sempre passibile di smentite (277). In questi termini è possibile asserire la verità di una qualsiasi affermazione in merito ad un fatto del passato solo se essa è dotata di un sufficiente potere esplicativo e le prove addotte a suffragio resistono a tutte le contro prove eccepite.

Se infatti la verità delle inferenze induttive non è mai predicabile in assoluto, risulta chiaro che qualsiasi conclusione cui si può giungere sarà accettabile a scapito di un'altra solo in base a criteri soggettivi. Per ovviare a tale situazione necessitano dei criteri di decisione in base ai quali poter stabilire la minor o maggior plausibilità di un'inferenza rispetto ad un'altra. Tale è lo schema nomologico-deduttivo in base al quale è possibile parlare di verità di un'ipotesi qualora essa sia stata sottoposta a procedure di verificazione e falsificazione, risultando, alla fine, coerente (perché ipotesi con il maggior numero di conferme) e rispondente ad un criterio di accettabilità giustificata (in quanto ipotesi che resiste al maggior numero di smentite).

Il processo accusatorio, con le corrispondenti garanzie processuali, è appunto idoneo a riprodurre nell'ambito proprio dell'indagine giudiziaria un meccanismo di accertamento della verità fondato su questi canoni epistemologici (278). La verità di un'ipotesi accusatoria non è mai completamente dimostrabile, come accade per i generali processi induttivi, tale ipotesi sarà semplicemente confermabile o infirmabile. Non ci saranno a riguardo prove sufficienti (com'erano le prove legali), bensì prove necessarie: tutte le prove e controprove possibili a determinare coerenza ed accettabilità giustificata di un'ipotesi.

Al superamento del sistema basato sulle prove legali corrispose la creazione di un meccanismo processuale in cui è il libero convincimento del giudice a determinare l'esito della vicenda giudiziaria, conformemente all'assunto in base al quale la verità delle induzioni non è mai predicabile in assoluto e irrazionale sarebbe la legge che pretendesse di dotarle di una tale caratteristica. Tuttavia è certamente vero che le prove legali, assolutamente irrazionali se considerate quali prove sufficienti per una condanna indipendentemente da un convincimento del giudice, assumono un certo valore di garanzia se viste come prove anche necessarie per condannare, in mancanza delle quali, indipendentemente dal convincimento, non potrà darsi condanna.

Il dibattito sull'eliminazione della prove legali fu infatti parecchio vivace in ragione di tale intrinseca funzione garantista che esse avrebbero potuto assumere qualora fossero state considerate come prove necessarie (prove legali negative), non sufficienti (prove legali positive), per una condanna (279). Le perplessità, infatti, provenivano dalla considerazione che da un lato "è intollerabile la condanna fondata sul calcolo probatorio-legale quando chi giudica non sia persuaso; ma sarebbe d'altra parte micidiale il sistema dove tutto dipendesse da stati mentali a base emotiva, variabili secondo le teste ed esposti a mille influssi" (280).

La soluzione che prevalse fu una definitiva sanzione del principio dell'intime conviction come unico ed assoluto criterio di soluzione della "quaestio facti". Furono infatti lasciate cadere (281) le proposte di combinare i due canoni (intimo convincimento e prove legali negative) in "formule eclettiche" di cui si fecero sostenitori pensatori quali Filangeri, Robespierre, Romagnosi, Carmignani fino agli esponenti della cosiddetta Scuola Classica (282).

"Bene o male, quel formalismo legalistico imponeva dei limiti. Insomma l'intime conviction può anche nuocere" (283) ed in concreto esso corre sempre il rischio di risolversi in una formula vuota. Se non è accompagnato da una fondazione epistemologica (in assenza di prove legali necessarie) del concetto di prova adeguata, cosa potrà fondare tale convincimento? Quante e quali prove saranno necessarie e sufficienti? Esso si è quindi concretizzato in un "grossolano principio potestativo idoneo a legittimare l'arbitrio dei giudici" (284) costruendo un vero e proprio tabù in merito alla possibilità di regolare o limitare i procedimenti giudiziari di induzione fattuale.

Un tale vuoto, cioè la mancanza di una valida fondazione epistemologica dell'induzione giudiziaria, può essere superato considerando il valore epistemologico delle garanzie processuali idonee a costruire un processo accusatorio, in cui lo scontro di prove e contro prove è istituzionalizzato dal contraddittorio fra le parti processuali.

Si riproduce così nel contesto istituzionale del giudizio penale una struttura triadica in cui due soggetti processuali diversi e contrapposti, accusa e difesa, si scontrano innanzi ad un giudice terzo ed imparziale. Così: l'accusa produce fatti o dati probatori che avallino un'ipotesi; la difesa infirma tali ipotesi contraddicendola con controprove incompatibili con l'ipotesi accusatoria perché compatibili con ipotesi alternative, che l'accusa ha, a sua volta, compito d'infirmare; il giudice accoglie l'ipotesi accusatoria solo se essa si accorda con tutte le prove e resiste a tutte le contro prove ed a sua volta smentisce tutte le contro ipotesi. Il processo accusatorio è appunto l'istituzionalizzazione del conflitto fra due verità contrapposte e le garanzie processuali sono nient'altro che la sanzione di tali principi epistemologici.

È pertanto possibile distinguere fra una giurisdizionalità in senso "lato" che, conformemente alla massima "nulla poena, nullum crimen, nulla culpa, sine judicio" (285), impone in primo luogo il rispetto di alcune, preliminari, importantissime garanzie, quali l'habeas corpus: cioè l'immunità del cittadino da interventi arbitrari sulla sua libertà personale; la riserva di giurisdizione: cioè il divieto di intervenire nella sfera individuale se non a seguito di legale giudizio; la presunzione d'innocenza: in base alla quale nessuno, prima di un legale giudizio, può essere trattato come fosse colpevole e quindi subire limitazioni della propria libertà personale. Tali principi sono già contenuti in un testo parecchio risalente nel tempo quale la Magna Charta (1215), tuttavia, a parte la presunzione d'innocenza (286), non sono ancora incompatibili con un sistema inquisitorio, "la giurisdizionalità in senso lato, infatti, è richiesta da qualunque tipo di processo, sia accusatorio che inquisitorio" (287).

È, invece, il principio di giurisdizionalità in senso "stretto" ad imporre la forma accusatoria del processo penale, il suo significato è ben condensato nella formula "nullum iudicium sine accusatione, sine probatione, sine defensione" (288), che sintetizza, consacrandole quali principi giuridici, le esigenze epistemologiche che abbiamo individuato. Le garanzie processuali servono, insomma, a costruire un sistema in cui siano assicurate: la necessità della prova o verificazione; la possibilità della controprova o confutazione; l'imparziale e motivata decisione sulla verità processuale. Tali garanzie sono rappresentate da un'insieme di principi diversi, sintetizzabili nelle seguenti formule: presunzione d'innocenza; separazione tra giudice ed accusa; onere della prova a carico dell'accusa; diritto alla difesa.

A parte il primo, tali principi assicurano una struttura triadica al processo penale, mentre, all'opposto il processo inquisitorio, con la sua tendenziale fiducia nella capacità del giudice inquisitore di pervenire ad una verità sostanziale, si basava su un rapporto unilaterale-verticale: inquisitore inquisito. La relazione triangolare, fra due parti in contraddittorio ed un terzo soggetto super partes con il compito di dirimere la disputa, assicura che il processo sia fondato su un'epistemologia falsificazionista, in cui la verità è concepita quale risultato di una controversia fra argomenti contrapposti, conseguita attraverso continue prove e smentite.

A queste garanzie, di natura epistemologica (289), devono tuttavia far seguito altre garanzie (290), idonee ad assicurare che effettivamente le esigenze epistemologiche abbiano a realizzarsi, esse sono sintetizzabili nei seguenti principi: pubblicità; oralità; legalità del processo; motivazione delle pronunzie.

A conclusione del discorso si possono individuare - a parte l'habeas corpus e il principio di separazione fra il giudice e l'accusa, che sono, rispettivamente, garanzia per una giurisdizionalità in quanto tale (o "lata") e regola ordinamentale attenente alla precostituzione di un giudice terzo ed imparziale - un insieme di garanzie procedurali che assicurino un processo penale in cui: l'imputato sia al corrente delle accuse mossegli e delle fonti di prova a riguardo ed abbia la possibilità, in un pubblico contraddittorio, di contrastare l'accusa opponendo contro-prove; il giudice decida la vicenda solo in base alle prove formatesi in sua presenza ed in contraddittorio fra le parti (291), motivando la pronunzia in base alle prove e controprove addotte.

In particolare, posto che al giudice è imposto l'obbligo di pronunziarsi, egli condannerà l'imputato solo se, come detto, l'ipotesi accusatoria sia coerente e giustificatamente accettabile, cioè sia l'ipotesi con maggiori prove a suffragio, che resiste a tutte le contro-prove e smentisce tutte le contro ipotesi; stante l'onere della prova in capo all'accusa, infatti, essa ha il compito di smentire anche ogni contro-ipotesi addotta dalla difesa, in caso contrario la norma di chiusura in dubio pro reo risolverà la vicenda.

Un sistema informato alla certezza che nessun innocente resti vittima dell'intervento punitivo, infatti, non consente condanne sulla base di un'ipotesi, seppur adeguatamente provata, che non smentisce ogni contro-ipotesi ed il persistere del dubbio sarà risolto con un meccanismo autoritativo che, per quanto epistemologicamente ingiustificabile, è idoneo a minimizzare il rischio di condanne ingiuste.

Note

1. Ampiamente a riguardo cfr.: G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, cit., p. 37.

2. R. Treves, Sociologia del diritto, cit., p. 69.

3. In una serie di articoli che comparvero alla fine del 1842 sulla Rheinische Zeitun: "Dibattiti sulla legge contro i furti di legna".

4. È il caso della raccolta di legna secca caduta dagli alberi (diritto di legnatico), secolare diritto d'uso nel regime feudale dei beni agrari.

5. Marx, Engels, Manifesto del partito comunista, Roma/Bari, 1999, p. 8.

6. Marx, Engels, L'ideologia tedesca, Roma, 2000.

7. G. Bedeschi, Marx (introduzione a), Roma-Bari, 1994, p. 11.

8. Ibidem.

9. Ivi, p. 12.

10. Ivi, p. 28.

11. K. Marx, Il capitale. Critica dell'economia politica, Torino, 1975, p. 880.

12. Ibidem.

13. Ivi, p. 5.

14. B. Geremek, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Roma/Bari, 1995, p. 111.

15. In tutta Europa nel XVI secolo la popolazione urbana non era rappresentata che da un decimo del totale; nazioni come l'Inghilterra o la Francia avevano, rispettivamente, il 30% ed il 16% della popolazione urbanizzata. Cfr.: B. Geremek, La pietà e la forca, cit., p. 112.

16. B. Geremek, La pietà e la forca, cit., p. 116.

17. K. Marx, La questione ebraica, Roma, 2000, p. 14.

18. Ibidem.

19. Per una disamina del pensiero di Marx sulla pena cfr.: D. Melossi, Criminologia e marxismo: alle origini della questione penale nella società de «Il Capitale», in: La questione criminale, 1975, nº 1, p. 319 e ss.

20. D. Garland, Pena e società moderna, Milano, 1999, p. 124.

21. A riguardo cfr.: D. Garland, Pena e società moderna, cit., p. 123 e ss.

22. Sul primo avremo modo di soffermarci, quanto agli interventi di Marx sul quotidiano newyorkese ci riferiamo in particolare ad uno scritto intitolato Popolazione, criminalità e pauperismo (in: K. Marx, F. Engels, Opere, XVI, Roma, 1972, p. 491 e ss.) del 1859, in cui il filosofo tedesco, esponendo diversi dati statistici sulla popolazione inglese, giunge a formulare alcune considerazioni parecchio illuminanti per comprendere quale sia la sua visione del diritto penale: "le violazioni della legge sono per lo più effetto di fattori economici che sfuggono al controllo del legislatore, ma (...) dipende in certa misura dalle istituzioni sociali marchiare come crimini o come semplici infrazioni certe violazioni delle sue norme. Questa differenza di denominazione, ben lungi dall'essere irrilevante, decide del destino di migliaia di uomini e del clima morale d'una società. La legge stessa può non solo punire i crimini, ma crearli, e la legge dei giuristi di professione molto spesso agisce in questo senso".

23. D. Melossi, Criminologia e marxismo: alle origini della questione penale nella società de «Il Capitale», cit., p. 319.

24. Ibidem.

25. K. Marx, Il capitale, cit., p. 881.

26. Ibidem.

27. Ivi, p. 882.

28. Per l'Italia il discorso sarà accennato più avanti, basti qui il riferimento al fatto che una seria accelerazione del processo di accumulazione originaria si è avuta (soprattutto per quello che riguarda il meridione) solo a seguito dell'unità, nella seconda metà del XIX secolo.

29. Ampiamente a riguardo cfr.: G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, cit., p. 188 e ss.

30. K. Marx, Il capitale, cit., p. 892; a riguardo l'autore ci chiarisce il perché dell'inefficacia di tali provvedimenti: ciò facendo un riferimento agli Essays, civil and moral, di F. Bacone, nei quali si commenta con favore un provvedimento di Enrico VII (siamo nel 1489), perché impediva l'usurpazione delle terre comuni consentendo di "far crescere i sudditi di ricchezza sufficiente e di condizione non servile, e di mantenere l'aratro in mano di proprietari non di mercenari". Per Marx, invece, "quel che chiedeva il sistema capitalistico era una condizione servile della massa del popolo; la trasformazione di questa in mercenari, e la trasformazione dei suoi mezzi di lavoro in capitale" (Ivi, p. 887).

31. Ivi, p. 892.

32. Ibidem

33. Ivi, p. 890.

34. Cfr.: B. Geremek, La pietà e la forca, cit., p. 123 e ss. A riguardo cfr. anche: M. Ciacci, V. Gualandi, La costruzione sociale della devianza, Bologna, 1977.

35. B. Geremek, La pietà e la forca, cit., p. 123 e ss.

36. K. Marx, Il capitale, p. 903.

37. D. Melossi, Criminologia e marxismo: alle origini della questione penale nella società de «Il Capitale», cit., p. 323.

38. G. Bedeschi, Marx (introduzione a), cit., p. 75.

39. Ivi, p. 74.

40. Ivi, p. 83/84; così specificano Marx ed Engels in un passo della loro Ideologia tedesca: "sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese" (brano cit. in: G. Bedeschi, op. cit., p. 80).

41. Ivi, p. 84.

42. D. Garland, Pena e società moderna, cit., p. 127.

43. In questo senso cfr.: L. Ferrajoli, D. Zolo, Marxismo e questione criminale, in: La questione criminale, nº 1, 1977; cfr. anche: N. Bobbio, Lettera su marxismo e questione criminale, in: La questione criminale, 1977, 1, p. 425 e ss.

44. Cfr.: anche D. Melossi, Lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 25 e ss. La storia, peraltro, ha ampiamente dimostrato come un moto rivoluzionario possa in concreto prescindere dall'abbattimento delle forme e degli apparati statali, arrivando, piuttosto ad appropriarsene, piegandole ai fini del mantenimento dell'ordine rivoluzionario (perdonateci l'ossimoro). Ogni rivoluzione è una codificazione diversa delle relazioni di potere e le rivoluzioni potranno essere tante quante saranno le diverse codificazioni che potranno darsi, così come una codificazione esplicitamente sovversiva può lasciare intatte le basi per il funzionamento degli apparati di stato preesistenti (M. Foucault, Microfisica del potere, cit.; L. Althusser, Ideologia e apparati ideologici di stato, in: Critica Marxista, 1970, 8 (5), p. 23 e ss.).

45. D. Melossi, Criminologia e marxismo: alle origini della questione penale nella società de «Il Capitale», cit., p. 325.

46. A riguardo cfr.: D. Garland, Pena e società moderna, cit., p. 123 e ss.

47. Cfr.: D. Melossi, Criminologia e marxismo: alle origini della questione penale nella società de «Il Capitale», cit., p. 326 e ss.

48. K. Marx, Il capitale, cit., p. 906.

49. Ivi, p. 907; a riguardo cfr. anche: D. Melossi, Criminologia e marxismo: alle origini della questione penale nella società de «Il Capitale», cit., p. 326.

50. Cfr.: D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario, Bologna, 1982; D. Melossi, Oltre il panopticon, in "La questione criminale", nº 4, 1980.

51. D. Melossi, Criminologia e marxismo: alle origini della questione penale nella società de «Il Capitale», cit., p. 327.

52. In questo filone di ricerca assurgono a ruolo di "classico" tanto l'opera di G. Rusche, O. Kirchheimer, Pena e struttura sociale, Bologna, 1978; che il lavoro di D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit.

53. G. Rusche, O. Kirchheimer, Pena e struttura sociale, cit., p. 524.

54. Ivi, p. 125.

55. Ivi, p. 184.

56. D. Garland, pena e società moderna, cit., p. 151.

57. L. Althusser, Ideologia e apparati ideologici di stato, in "Critica Marxista", 1970, 8 (5), p. 23 e ss.

58. Ivi, p. 44.

59. Ivi, p. 48.

60. Ivi, p. 50.

61. A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, cit., p. 57.

62. A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, cit., p. 46.

63. Ivi, p. 58.

64. D. Melossi, Theories of social control and the State between american and european shores, in: C. Sumner, The Blackwell companion to criminology; O. Marzocca, Introduzione, in: M. Foucault, Biopolitica e liberalismo, Milano, 2001, p. 10/11; in questo senso vedi anche D. Garland, Pena e società moderna, cit., p. 176. Fondamentali a riguardo sono ovviamente gli scritti contenuti in: M. Foucault, Microfisica del potere, Torino, 1977.

65. A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, cit., p. 111.

66. Ibidem.

67. Cfr: M. Donnelly, Foucault's Genealogy of the Human Sciences, in: Economy and Society, 1982, vol. 11, p. 363 e ss.; S. Catucci, Foucault (introduzione a), cit.

68. Cfr.: O. Marzocca, Introduzione, in: M. Foucault, Biopolitica e liberalismo, cit.

69. A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, cit., p. 166.

70. "La privazione della libertà per un arco di tempo stabilito preventivamente nelle sentenze del tribunale, rappresenta la forma caratteristica attraverso la quale il diritto penale moderno, cioè il diritto penale borghese, mette in pratica il principio della retribuzione equivalente" (Pašukanis E.B., La teoria generale del diritto e il marxismo, in: U. Cerroni, (a cura di), Teorie sovietiche del diritto, Milano, 1964, p. 230).

71. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 253.

72. D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 244.

73. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 271.

74. Cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 386.

75. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 267; in senso parzialmente contrario cfr.: D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 85 e ss.

76. L. Ferrajoli, D. Zolo, Marxismo e questione criminale, cit.; cfr. anche: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 254, 262; a riguardo si è arrivato"a contestare il carattere uguale e astratto della legge penale e la determinazione giudiziaria della pena in misura certa e definitiva (non aggravabile dopo la condanna), nonché a raccomandarne la sostituzione con tecniche indeterminate di difesa sociale a carattere terapeutico o pedagogico" (Ivi, p. 390); cfr.: Pašukanis E.B., La teoria generale del diritto e il marxismo, cit., p. 214 e ss. Ad esiti simili sul piano della dottrina penale porterà l'opera di E. Ferri, che A. Gramsci inquadrava fra i "loriani" cioè "quello strato di intellettuali positivisti che si occuparono della questione operaia e che erano più o meno convinti di approfondire e rivedere e superare la filosofia della praxis" (Quaderni dal carcere. Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, cit., p. 217).

77. Cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 384, 390.

78. D. Garland, Pena e società moderna, cit., p. 129.

79. Ivi, p. 174.

80. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, 1976, p. 228.

81. Ivi, p. 27.

82. S. Cohen, cit. in: D. Garland, Pena e società moderna, cit., p. 176.

83. Ivi, p. 181.

84. M. Foucault, Microfisica del potere, Torino, 1977, p. 121.

85. Ibidem.

86. D. Garland, Pena e società moderna, cit., p. 181.

87. Cfr.: D. Garland, Pena e società moderna, cit., p. 176 e ss; M. Sbriccoli, La storia il diritto la prigione. Appunti per una discussione sull'opera di Michel Foucault, in:La questione criminale, 1977, 3, p. 407 e ss.; D. Melossi, Appendice alla seconda edizione:alcune riflessioni sulla letteratura più recente, in: D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 249 e ss.; G. Neppi Modona, Presentazione, in D. Melossi, M. Pavarini, op. cit., p. 7 e ss.

88. Vicende che iniziano - ad un livello nazionale - con la nascita delle Bridewells inglesi, le quali, già nella metà del XVI secolo, sostituirono le misure corporali per vagabondi e mendicanti; e proseguono in terra olandese nel 1596 con la nascita della "Rasp-huis" che servì da modello per altre esperienze in Germania (in particolare nella zona della Lega Ansaetica) e in Svizzera avviatesi a partire dal XVII secolo. La Francia (su cui Foucault aveva già concentrato le sue attenzioni molto tempo prima di pubblicare Sorvegliare e punire: nel II capitolo della parte prima del suo Storia della follia nell'età classica) seguirà poi con l'istituzione nel 1656 a Parigi, dell'Hopital general, esteso nel 1676 a tutta la monarchia ed anche in altri paesi cattolici come Spagna ed Italia si avranno analoghi interventi di riforma in senso "restrittivo" dell'assistenza.

Tuttavia è da segnalare come già a partire dai "decisivi anni Venti del XVI secolo" le città europee si trovassero a dover fronteggiare un vertiginoso aumento degli indigenti, dovuto al sovrapporsi di una forte crisi alimentare ai processi di pauperizzazione già avviati. In questo quadro diverse città presero coscienza drammaticamente del problema rappresentato dai poveri ed avviarono diversi tentativi (a livello municipale) di riformare il meccanismo dell'assistenza. Queste esperienze serviranno da base per le riforme successive operate dalle autorità nazionali, ma, soprattutto ci indicano il terreno su cui, all'epoca, si prese coscienza del problema del pauperismo: ciò avvenne, infatti, per esigenze legate a problemi di ordine pubblico, data la paura che suscitavano folle di mendicanti che si aggiravano per le vie della città, sempre sul punto di scatenare tumulti. Per non parlare della paura del "morbo", cui la povertà era costantemente associata nell'immaginario collettivo (cfr.: B. Geremek, La pietà e la forca, cit., p. 123 e ss.).

89. L'edificio pensato da Bentham constava di due cilindri concentrici: quello esterno, in cui si sarebbero trovate le celle per gli internati, aveva aperture rivolte verso il cilindro interno, dal quale i sorveglianti avrebbero avuto modo di tenere costantemente sotto controllo (da apposite aperture che consentivano di vedere ma non di essere visti) i reclusi. In particolare lo stesso frontespizio del volume esplicitava l'estrema fungibilità del progetto benthamita: "«PANOPTICON»; or, the inspection-house:containing the idea of a new principle of construction applicable to any sort of establishment, in which persons of any description are to be kept under inspection; and in particular to penitentiary-houses, prisons, houses of industry, work-houses, poor-houses, manufactories, mad-houses, lazarettos, hospitals, and schools." (il brano è riportato in D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 69).

90. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 218.

91. Ivi, p. 222.

92. Ibidem

93. Ibidem.

94. In questo senso cfr.: D. Melossi, Oltre il panopticon, cit.

95. D. Garland, Pena e società moderna, cit., p. 180.

96. D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 67 e ss.; espressione di ciò è il fatto che, pochi anni dopo il suo progetto originario, lo stesso Bentham preveda l'allargamento dell'unità cellulare singola fino a quattro posti. Modifica dettata forse dall'esigenza di rendere praticabile un processo produttivo che richiedesse l'impiego contemporaneo di più persone (Ivi, p. 69).

97. Per l'analisi della loro nascita e della loro evoluzione nell'arco di tempo considerato (ed oltre) cfr.: D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 31 e ss.; cfr. anche: B. Geremek, La pietà e la forca, cit., p. 227 e ss.

98. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 226.

99. V. F. Piven, R. A. Cloward, Regulating the Poor, brano cit. in D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 63.

100. D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 64.

101. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 251.

102. Ibidem.

103. M. Foucault, Storia della follia nell'età classica, Milano, 2001, p. 74.

104. K. Marx, Il Capitale, cit., p. 793.

105. B. Geremek, La pietà e la forca, cit., p. 124.

106. Che Marx distingue in "persone capaci di lavorare", cioè i disoccupati; "orfani e figli di poveri"; e "gente finita male, incanaglita, incapace di lavorare", non esitando a definire il pauperismo "astrazione fatta da vagabondi, delinquenti, prostitute" (K. Marx, Il Capitale, cit., p. 793).

107. "L'essenza della casa di correzione stava nel fatto che essa combinava in sé i principi ispiratori dell'ospizio per poveri, della casa di lavoro e dell'istituzione penale, unificati nello scopo di rendere socialmente utile una forza lavoro ribelle (...) Si sperava che, attraverso l'addestramento forzato dentro l'istituzione, i detenuti avrebbero assunto costumi industriosi e appreso, allo stesso tempo, una istruzione professionale, in modo che, una volta liberi, sarebbero andati volontariamente ad ingrossare il mercato delle braccia" (G. Rusche, O. Kirchheimer, Pena e struttura sociale, cit., p. 97).

108. D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 31 e ss.

109. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 262.

110. D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 62.

111. Ivi, p. 66/67.

112. Sorvegliare e punire, cit., p. 263 e ss.

113. Ivi, p. 264.

114. Cfr.: a riguardo M. Pavarini, I nuovi confini della penalità, cit., p. 19 e ss.

115. La prima volta si espresse in una lettera diretta ad un amico (Langlois, che gli chiedeva un parere scritto), lettera che fu poi pubblicata in diverse riviste; nel secondo caso si trattava di una presa di posizione ufficiale. Entrambi i testi sono contenuti in: A. de Tocqueville, Scritti, note e discorsi politici, Torino, 1994, p. 136 e ss.

116. Ivi, p. 139.

117. Ivi, p. 150.

118. La sacra famiglia, in "Marx-Engels, Opere", Vol. IV, VIII, p. 198 e ss.

119. Ivi, p. 199.

120. "L'idea della pena, che Rodolfo applica nell'accecamento del maestro di scuola, questo isolamento dell'uomo nella sua anima e dal mondo esterno, il collegamento della pena giuridica con la tortura teologica, hanno la loro esecuzione più decisa nel sistema del carcere cellulare" (ivi, p. 207, 208).

121. "La pena profana deve essere nello stesso tempo un mezzo cristiano-morale di educazione (...) questa teoria penale che collega la giurisprudenza con la teologia (...) non è altro che la teoria penale della chiesa cattolica" (ivi, p. 199).

122. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 265.

123. M. Foucault, Storia della follia nell'età classica, cit., p. 80.

124. Cfr.: M.Foucault, Storia della follia, cit.; D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit.

125. Cfr.: D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 33 e ss.; B. Geremek, La pietà e la forca, cit.

126. Cfr.: B. Geremek, La pietà e la forca, cit., p. 217 e ss.

127. "Editto reale per la fondazione dell'Hopital general per la reclusione dei poveri mendicanti della città e dei sobborghi di Parigi", in: M.Foucault, Storia della follia, cit., appendice, p. 461.

128. Brano cit. in D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 40.

129. È del resto emblematico il caso della Francia o delle penisole italiana ed iberica, in cui l'Hopital general e le istituzioni simili non raggiunsero mai la capacità produttiva che fu delle istituzioni omologhe in Inghilterra, Olanda e nella zona dell'Europa centrale (a parte casi circoscritti di particolare sviluppo manifatturiero come Lione, in Francia e la Lombardia in Italia, dove in entrambi i casi era fiorente l'industria tessile). Tuttavia l'atto che istituì l'ospedale non mancava di fare riferimento all'esigenza di mettere al lavoro gli internati: "...vogliamo e ordiniamo che i Poveri mendicanti, validi e invalidi, di ambo i sessi, siano messi in un ospizio per essere impiegati nelle opere, manifatture e altri lavori, secondo le loro capacità..." ("Editto reale per la fondazione dell'Hopital general per la reclusione dei poveri mendicanti della città e dei sobborghi di Parigi", in: M.Foucault, Storia della follia, cit., appendice, p. 462); ed infatti si ricorse spesso all'utilizzo del lavoro forzato per i lavori pubblici in tutti i paesi che non presentavano le condizioni di sviluppo tali da consentire che i reclusi fossero inseriti in un processo produttivo di tipo manifatturiero e proto-capitalistico (cfr. a riguardo: B. Geremek, La pietà e la forca, cit.).

130. Brano cit. in: B. Geremek, La pietà e la forca, cit., p. 150.

131. A riguardo cfr.: M.Foucault, Storia della follia, cit., p. 61 e ss.; D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 50 e ss.; B. Geremek, La pietà e la forca, cit.

132. M.Foucault, Storia della follia, cit., p. 80.

133. Ivi, p. 61.

134. Al pari della carità, che l'alimenta. Non a caso l'editto che istituisce l'hopital statuisce che: è fatto "divieto e proibizione a tutte le persone di qualunque posizione o qualità siano di dare l'elemosina di propria mano ai mendicanti per le strade e i luoghi sopra menzionati (s'intendono i luoghi in cui era fatto il correlativo divieto di mendicare: "nella città e nei sobborghi di Parigi, sia nelle chiese sia alle loro porte, come pure alle porte delle case e per le strade, né in nessun altro luogo pubblicamente o in segreto") quale che sia il motivo di compassione, stringente necessità o qualunque altro pretesto, sotto pena di quattro parisis di ammenda da devolversi a profitto dell'Hopital" ("Editto reale per la fondazione dell'Hopital general per la reclusione dei poveri mendicanti della città e dei sobborghi di Parigi", in: M.Foucault, Storia della follia, cit., appendice, p. 463).

135. M.Foucault, Storia della follia, cit., p. 63.

136. Ivi, p. 65.

137. B. Geremek, La pietà e la forca, cit., p. 220.

138. Ivi, p. 224.

139. M.Foucault, Storia della follia, cit., p. 64.

140. B. Geremek, La pietà e la forca, cit., p. 220.

141. D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 49 e ss.

142. Ivi, p. 50.

143. H. Marcuse, L'autorità e la famiglia, Torino, 1970, p. 46 e ss.; in questo senso cfr. anche: D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 50/51.

144. M. Lutero, brano cit. in H. Marcuse, L'autorità e la famiglia, cit., p. 33. Non si dimentichi, però, che ben precise ragioni storiche mossero un uomo come Lutero, che ebbe il coraggio di sfidare l'autorità della Chiesa Cattolica, a legittimare in via assoluta con la sua dottrina l'autorità temporale dei principi. Egli, infatti, poté condurre il suo attacco al potere temporale della Chiesa, solo perché dovutamente appoggiato dai principi di Sassonia. Si capisce, dunque, come non potesse godere delle sue simpatie chi, come gli eresiarchi anabattisti che nella prima metà del XVI sec. guidarono sanguinose rivolte contadine, metteva in questione l'autorità tout court, fosse essa rappresentata dal potere dei vescovi o dei principi. A riguardo la sua condanna delle rivolte fu ferma ed inamovibile.

145. Ivi, p. 49.

146. Ivi, p. 105 e ss.; D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit.

147. M. Foucault, Storia della follia nell'età classica, cit., p. 81.

148. La "genealogia" foucaultiana consiste in una ricostruzione della storia che sappia "mantenere quel che è accaduto nella dispersione che gli è propria" (M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in: Microfisica del potere, cit., p. 35), che vada alla ricerca delle origini - intese come "provenienza" - dei processi storici e ne sappia seguire gli sviluppi rifiutando un'idea metafisica della storia e del progresso. In questo senso un dato fenomeno "emerge" attraverso un gioco complesso di fattori non riducibili in una visione totalizzante della storia, così come l'emergere di un modello correzionale in diritto penale non è un processo univoco e del tutto cosciente (cfr.: S. Catucci, Foucault (introduzione a), cit., 82 e ss.) come non si può negare che, dietro il volto demoniaco dei meccanismi disciplinari, spesso si celassero intenti autenticamente filantropici.

149. cit., p. 83 e ss.

150. Ivi, p. 84.

151. Ivi, p. 87.

152. S. Catucci, Foucault (introduzione a), cit., p. 5.

153. A. Dal Lago, Foucault: dire la verità del potere, in: M. Foucault, Poteri, saperi, strategie. Archivio Foucault II, Milano, 1997, p. 19.

154. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 272.

155. Ivi, p. 274.

156. Ivi, p. 208.

157. Ivi, p. 202, 20l.

158. Ivi, p. 276.

159. Lucas, De la réforme des prisons, cit. in: M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 276.

160. Ivi, p. 278.

161. M Foucault, Gli anormali. Corso al College de France, Milano, 2000, lezione del 8.01.1975, p. 28.

162. Ibidem.

163. M Foucault, Gli anormali. Corso al College de France, cit., lezione del 8.01.1975, p. 32; lezione del 15.01.1975, p. 46; cfr. anche: Id., La volontà di sapere, cit., p. 80; Id., Sorvegliare e punire, cit., p. 276.

164. M. Foucault, La società punitiva, in: I corsi al College de France. I Résumés, cit., p. 34.

165. Ivi, p. 34, 35; cfr. anche: M. Sbriccoli, Polizia (diritto intermedio), in "Enciclopedia del diritto", XXXIV, 1985, p. 116, dove si sottolinea come il problema di tali soggetti genericamente definibili marginali, veniva affrontato "nell'ottica poliziesca dell'allontanare e del rinchiudere".

166. M. Foucault, La società punitiva, in: I corsi al College de France. I Résumés, cit., p. 35.

167. Carcere e fabbrica, cit., p. 40.

168. M Foucault, Gli anormali. Corso al College de France, cit., lezione del: 29.01.1975, p. 86.

169. M Foucault, Gli anormali. Corso al College de France, cit., lezione del: 29.01.1975, p. 87; come vedremo a tale visione notevoli apporti concettuali saranno offerti anche dal "contrattualismo" moderno.

170. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 232.

171. Ivi, p. 232/233.

172. Ivi, p. 233.

173. Ivi, p. 234.

174. Cfr.: a riguardo tutto il discorso condotto da Foucault a proposito delle Lettres de cachet, cioè quelle denuncie provenienti da gente comune, dalle famiglie stesse, o dai notabili locali, dai curati di parrocchia, con le quali si richiedeva l'internamento di qualcuno a causa della sua cattiva condotta o particolare indisciplina (Ivi, p. 234), esse infatti prendevano di mira non veri e propri delitti, bensì comportamenti genericamente immorali: "sregolatezza, adulterio, sodomia, ubriachezza"; "condotte religiose giudicate pericolose e dissidenti"; e vennero spesso utilizzate per i primi casi di "conflitto di lavoro" (M. Foucault, La verità e le forme giuridiche, in Archivio Foucault vol. 2, Milano, 1997, p. 144).

175. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 234.

176. Ivi, p. 235.

177. A. Fontana, Dall'oggetto polizia al piano di guerra, in: aut/aut, 167/168, 1978, p. 32.

178. M. Sbriccoli, Polizia (diritto intermedio), in: Enciclopedia del diritto, XXXIV, 1985, p. 111.

179. A riguardo: M. Foucault, La verità e le forme giuridiche, in Archivio Foucault vol. 2, Milano, 1997, p. 116 e ss.; F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1999, p. 17 e ss.

180. M. Sbriccoli, Polizia (diritto intermedio), cit., p. 113.

181. Ibidem. Il caso delle città stato basso medievali, nelle quali si poteva già riscontra un embrione di struttura sociale moderna, è particolarmente significativo: esse, infatti, iniziavano già al tempo a saggiare gli effetti del pauperismo e conobbero, in tutta la sua drammaticità, la Peste Nera (cfr.: B. Geremek, La pietà e la forca, cit.); in particolare è proprio l'occasione offerta dal diffondersi del morbo a costringere le autorità del tempo a mettere in pratica un incasellamento poliziesco dell'intera popolazione, le esigenze d'igiene e di prevenzione del contagio impongono infatti di improntare la forma più compiuta di meccanismo disciplinare applicato ad un'intera comunità (cfr.: M. Foucault, Gli anormali. Corso al College de France, cit., lezione del: 15.01.1975, p. 47 e ss.).

182. In questo senso cfr. i lavori contenuti in: aut/aut, 167/168, 1978.

183. M. Sbriccoli, Polizia (diritto intermedio), cit., p. 115; A. Fontana, Dall'oggetto polizia al piano di guerra, cit., p. 34. Molto indicative sono a riguardo le materie dei regolamenti di polizia già alla fine del medioevo: Polizia della sicurezza; dei costumi; del commercio; dei mestieri; dei viveri; della salute e della pulizia; della costruzione di edifici; del fuoco; delle foreste e della caccia; della mendici (cfr.: P. Pasquino, Theatrum politicum. La genealogia del capitale - la "polizia" e lo stato di prosperità, in "aut aut" cit., p. 54).

184. M. Foucault, Omnes et singulatim, in: Biopolitica e liberalismo, cit., p. 127 e ss.

185. Turquet de Ma yerne, cit. in: M. Foucault, Omnes et singulatim, in: Biopolitica e liberalismo, cit., p. 135 e ss.

186. De Lamare, cit. in: M. Foucault, Omnes et singulatim, in: Biopolitica e liberalismo, cit., p. 138 e ss.

187. M. Foucault, Omnes et singulatim, in: Biopolitica e liberalismo, cit., p. 140.

188. Elementi di polizia, cit. in: M. Foucault, Omnes et singulatim, in: Biopolitica e liberalismo, cit., p. 141.

189. A. Fontana, Dall'oggetto polizia al piano di guerra, cit., p. 37.

190. In questo senso cfr.: M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, in: Storia d'Italia, Annalen.12, La criminalità, Torino, 1997, p. 487 e ss.; e P. Beirne, L'invenzione della criminologia: la "scienza dell'uomo" in "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria, in: Dei delitti e delle pene, 4, 1994. Tale lettura storiografica delle evoluzioni del pensiero penalistico è praticamente indiscussa e dominante. In merito basterà citare il contributo di due autorevolissimi autori: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 251 e ss., in cui l'emergere delle idee correzionali è visto come un aspetto di una più ampia svolta antilluminista, che vedeva la cultura liberale piegarsi verso posizioni conservatrici e A. Baratta, Introduzione alla sociologia giuridico-penale, cit., p. 29 e ss., in cui la criminologia positivista è contrapposta alla scuola classica di diritto penale, secondo la tradizionale partizione. A riguardo cfr. anche: F. Tagliarini, Pericolosità, in: Enciclopedia del diritto, vol. xxxiii, 1983, il quale riproduce sostanzialmente la classica partizione tra scuole, anche se non dimentica certe ambiguità del pensiero illuminista italiano e soprattutto lombardo, sul punto cfr. infra.

191. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 138.

192. Ibidem.

193. Ivi, p. 124. La prigione era in fondo un meccanismo extragiudiziario, disposto su provvedimento del potere esecutivo, come nel caso delle Lettres de cachet. Cfr. anche: G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, cit., p. 415.

194. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, Milano, 1997, vol. I, XII, 4, p. 343 e ss. Questa particolare visione del principio retributivo ispirata all'idea che "il trionfo della libertà si ha quando le leggi penali traggono la pena dalla natura particolare del delitto", fu assolutamente dominante presso tutti i pensatori illuministi. F. M. Pagano (cfr.: Principj del codice penale, Roma, 2000, p. 92 e ss.) distinse in proposito fra un principio di proporzione «qualitativa» ed un principio di proporzione «quantitativa», riprendendo anch'egli la fortunata formula di Montesquieu "or essendo la pena la perdita di un dritto per un dritto violato, egli è palese, che la pena perché sia giusta, corrisponder debba al delitto, sia per qualità, come per la quantità: vale a dire, che quel dritto, il quale si sia violato, debbiasi perdere, e tanto di quel dritto, quanto se ne sia violato negli altri". Analogamente si espresse C. Beccaria (cfr.: Dei delitti e delle pene, Milano, 1987, xix, p. 47), ma anche J. Bentham, I. Kant, G. W. F. Hegel, tutti richiamandosi all'antico jus talioniis, più che agli astratti schemi del sinallagma contrattuale cristallizzato nelle codificazioni civilistiche borghesi (cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 384).

195. M. Foucault, La verità e le forme giuridiche, in: Archivio Foucault vol. II, Milano, 1997, p. 145. Dell'utilizzazione del meccanismo dell'internamento, a prescindere dell'esperienza maturata a partire dal xvi sec. con le prigioni per poveri, piccoli criminali e vagabondi, si hanno notizie sin dall'epoca romana, durante la quale, peraltro, erano previste condanne temporanee o perpetue ai lavori forzati c.d. damnatio ad metalla (cfr. a riguardo: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 387; F. M. Pagano, Principj del codice penale, cit., p. 96). L'internamento era inoltre da tempo conosciuto dal diritto penale canonico, nel quale riproduceva in maniera estrema l'esperienza monastica dell'isolamento. Per altro verso, nel diritto criminale vero e proprio, l'internamento era esclusivamente utilizzato in attesa di giudizio (secondo la massima ulpianea: "carcer enim ad continiendos homines, non ad puniendos haberi debet"), per evitare che l'imputato potesse sottrarsi alla pena (ovviamente corporale) e, soprattutto, per avere sempre a disposizione l'individuo dal quale, per mezzo dei "ferri" inquisitori, sarebbe sgorgata la verità sui fatti (cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 387; D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit.).

196. Cfr.: M. Foucault, Gli anormali. Corso al College de France, cit., lezione del 8.01.1975.

197. A parere di Lugi Ferrajoli (cfr.: Diritto e ragione, cit., p. 488), infatti, è grazie alla "rottura con la tradizione illuministica" che "prendono corpo i progetti politici di controllo sociale".

198. Sulle teorie illuministe come teorie utilitariste, cioè di giustificazione relativa della pena: in vista di uno scopo, per tutti, cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 239 e ss. Bastino, in ogni caso, i brani seguenti, tratti dall'opera di un caposcuola dell'illuminismo penale, C. Beccaria: "ogni pena che non derivi dall'assoluta necessità, dice il grande Montesquieu, è tirannica; proposizione che si può rendere più generale così: ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall'assoluta necessità è tirannico. Ecco dunque sopra di che è fondato il diritto del sovrano di punire i delitti: sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari" (Dei delitti e delle pene, cit., p. 11.). "È evidente che il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso (...) il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuoverne altri dal farne uguali" (Ivi, p. 29). E ancora: "uno dei più gran freni ai delitti non è la crudeltà delle pene, ma l'infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere un utile virtù, dev'essere accompagnata da una dolce legislazione. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile unito colla speranza dell'impunità" (Ivi, p. 57). Infine: "è meglio prevenire i delitti che punirli. Questo è il fine principale d'ogni buona legislazione" (Ivi, p. 90).

199. J. Bentham, Théorie des peines, cit. in: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 439.

200. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 80.

201. Ivi, p. 212.

202. Cfr. anche: D. Melossi, Lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 106.

203. P. Beirne ne L'invenzione della criminologia: la "scienza dell'uomo" in "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria, cit. si sofferma su diversi brani dell'opera di Beccaria evidenziando come sia spesso sottesa al suo discorso l'immagine delle classi pericolose, cioè di una moltitudine di individui in una maniera o in un'altra inevitabilmente votati al delitto o, comunque "inclini ad un disperato ritorno nel primo stato di natura", esseri la cui debole natura rende più propensi "all'oscuro e misterioso entusiasmo che alla chiara e tranquilla ragione" (C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., p. 27).

204. Torino, 1970.

205. H. Marcuse, L'autorità e la famiglia, cit., p. 52.

206. Ivi, p. 53.

207. H. Marcuse trae il brano dallo scritto Che cos'è l'illuminismo?, del 1784; identica citazione si rintraccia in D. Melossi, lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 114, che richiama anche le parole successive con cui Kant specifica che "minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro" (I. Kant, Che cos'è l'illuminismo?, in: Che cos'è l'illuminismo, i testi e la genealogia del concetto, a cura di A. Tagliapietra, Milano, 1997, p. 16).

208. H. Marcuse, L'autorità e la famiglia, cit., p. 57.

209. Ivi, p. 63.

210. A. Izzo, Storia del pensiero sociologico, Bologna, 1991, p.

211. M. Foucault, Gli anormali. Corso al College de France, cit., lezione del: 29.01.1975, p. 87.

212. Ivi, p. 94.

213. G. Dalmasso, La società medico- politica, Milano, 1980, p. 16.

214. D. Melossi, Lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 66.

215. Ivi, p. 64.

216. Cioè il diritto di eleggere e farsi eleggere in assemblee parlamentari rappresentative, i diritti di elettorato attivo e passivo.

217. F. Belvisi, Cittadinanza, in A. Barbera, Le basi filosofiche del costituzionalismo, Roma-Bari, 1997, p. 117 e ss. Analogo discorso può essere fatto per lo Stato italiano, le cui leggi elettorali dall'unità sino al 1880 concedevano l'elettorato attivo ad una percentuale di popolazione che oscillava tra 1,90% e 2,20%; percentuale che, a seguito della riforma avviata a partire dal 1882, oscillò fra il 6,60% ed il 9,40%, per poi sfondare la soglia del 23,20% solo a seguito della sanzione del suffragio universale maschile, dal 1912 in poi (cfr. a riguardo: E. Ragionieri, La storia politica e sociale. Lo stato nuovo, in: Storia d'Italia, vol. 4***, Dall'unità ad oggi, Torino, 1972).

218. Distinzione che si ripropone nel pensiero kantiano, dove homo oeconomicus e homo politucus coincidono alla stessa maniera in cui, nella lingua tedesca, il termine borghese (burger) corrisponde al termine cittadino (staatburger).

219. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 242.

220. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., p. 95.

221. Ibidem.

222. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 243.

223. Due concetti di libertà, Milano, 1989.

224. Ivi, p. 59.

225. Ivi, p. 58.

226. Ivi, p. 56.

227. Cfr.: F. Tagliarini, Pericolosità, cit.

228. È da dire, incidentalmente, che, a parte l'opera di Bentham, le matrici dell'illuminismo inglese manifestavano più esplicitamente rispetto ai loro omologhi lombardi la tendenza ad individuare concretamente soggetti pericolosi per la tranquillità pubblica. Giovanni Tarello (cfr.: Storia della cultura giuridica moderna, cit., p. 393) a proposito delle "poco luminose origini dell'illuminismo inglese" accenna all'opera di alcuni criminalisti come Butler, Hutceson, Fielding, sottolineando la loro tendenza ad identificare nella povertà la causa del crimine e di ogni attentato alla tranquillità dei cittadini, identificando la funzione delle leggi penali nel mantenere intatto l'assetto sociale esistente, con le relative posizioni vantaggiose.

Essi identificavano il criminale, che in opere come Dei delitti e delle pene tendeva ad astrarsi in una figura d'individuo privo di alcuna qualifica di status giuridico, in "in una figura di uomo assai meno generale ed anzi particolare, caratterizzato dall'appartenenza ad un gruppo economico, cioè il povero" (Ivi, p. 414), arrivando ad esplicitare una più ampia funzione preventiva del diritto penale nei confronti di tutti questi potenziali turbatori dell'ordine e progetti di disciplinamento della realtà basati sull'idea che all'intervento penale si accompagnino "educazione, istruzione, disciplina" (Ivi, p. 406).

229. Beccaria fu, oltre che un economista, anche un consigliere dell'amministrazione di Milano: a partire dal 1771 ebbe inizialmente un posto nel Supremo Consiglio di Economia Pubblica, in seguito - passando per altri organi in cui, attraverso varie riforme, si articolò negli anni l'amministrazione della Lombardia austriaca - nel 1789 assunse funzioni presso il II dipartimento del Consiglio di Governo, trattante: "il Codice politico; le questioni giurisdizionali coi tribunali di giustizia e i corpi politici; i processi politici, penali e multe politiche; la Polizia; le licenze d'armi e di caccia; la sanità; le vettovaglie; l'annona; l'ergastolo di Pizzighettone; la Casa di correzione" (C. Beccaria, Opere, vol.II, Firenze, 1958, p. 4). In relazione a questi vari incarichi di governo scrisse diverse consulte (contenute nel vol. cit.).

230. Ivi, p. 697 e ss.

231. Ivi, p. 697.

232. Ivi, p. 698.

233. Le quali sembrano dettate dall'esigenza di dimostrare l'efficienza di un'istituzione che, evidentemente, aveva suscitato proteste per il modo in cui esercitava le sue funzioni, a riguardo, infatti, Beccaria conclude che il rigido protocollo che i funzionari di Polizia sono chiamati a rispettare è costantemente verificato dal Ministro Plenipotenziario e da egli stesso. Specificando, infine, come, a maggiore garanzia del corretto operato di quest'ufficio "si è avuto mira di impiegare nel medesimo persone non già della classe comune degli uomini, ma molto civili ed anche nobili".

234. Cfr.: C. Beccaria, Brevi riflessioni intorno al codice generale sopra i delitti e le pene, per ciò che riguarda i delitti politici, in: Opere, vol.II, Firenze, 1958, p. 711 e ss.

235. Ivi, p. 712.

236. Ivi, p. 714.

237. Ivi, p. 716.

238. La quale forse non ha mai abbandonato la pratica penale, a verità morali o teologiche saranno adesso sostituite altre verità, quelle scientifiche, da cui non siamo riusciti, ancora oggi, a liberare il campo della pratica penale.

239. S. Catucci, Foucault (introduzione a), cit., p. 86.

240. M. Pavarini, I nuovi confini della penalità. Introduzione alla sociologia della pena., Bologna, 1994, p. 133.

241. L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 490.

242. L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., per la dottrina della separazione fra diritto e morale cfr.: p. 203 e ss.; in merito all'utilitarismo illuminista cfr.: p. 245 e ss.; cfr. anche: G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, cit., p. 383.

243. L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 80 e ss.

244. A dire il vero non in tutta la storia del mondo occidentale la funzione giudiziaria è stata concepita con questo scopo: durante tutta la fase di vigenza del diritto germanico, in corrispondenza del processo di disgregazione delle autorità centrali di governo che ha caratterizzato l'alto medioevo, non si può dire che esistesse una funzione giurisdizionale, nel senso in cui l'intendiamo oggi, come attività tesa all'accertamento di una qualche verità, in diritto o in fatto. Piuttosto il sistema germanico era connotato dal carattere privato delle questioni penali, in cui non vi era crimine bensì il torto subito da qualcuno. L'offeso avrebbe così sfidato il presunto offensore, ma non in vista dell'accertamento della lesione, bensì attraverso vere e proprie dispute in cui si sarebbe appurata la forza dei contendenti, non l'eventuale verità delle loro affermazioni (M. Foucault, La verità e le forme giuridiche, in Archivio Foucault vol. 2, cit., p. 113 e ss.).

In tale sistema di prove, duelli, giuramenti, ordalie (come anche accordi, dato il carattere privato della disputa) non è un'inchiesta, la ricerca della verità, a determinare la soluzione della disputa, bensì i rapporti di forza. Vale maggiormente la dicotomia vittoria/sconfitta, piuttosto che quella vero/falso; "l'accusato esce indenne con una performance bene eseguita; non interessa cosa fosse accaduto (...) simili meccanismi ignorano fatto e diritto" (F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1991, p. 17).

245. È appena il caso di rilevare che la verità cui aspira il giudice dovrebbe essere la prova circa l'essersi verificato o meno un fatto empirico e non, come nel caso delle scienze umane e sociali, la prova delle ragioni che muovono l'agire individuale e sociale degli uomini. L'indagine giudiziaria è dunque assimilabile (ovviamente solo se fondata sui requisiti che andremo illustrando) quanto a metodi d'indagine e fondamenti epistemologici alle scienze naturali. Queste ultime godono di un fondamento epistemologico più solido rispetto alle scienze umane che, come già ebbe modo di sottolineare Michel Foucault, si pongono in una posizione di mezzo fra scienze naturali e scienze filosofiche, ciò che "conferisce alla loro localizzazione nel campo epistemologico la sua irrudicibile precarietà, che le fa apparire, a un tempo, pericolose e in pericolo" (M. Foucault, Le parole e le cose, Milano, 1970, p. 372).

246. Lo spirito delle leggi, cit., XI, 6, p. 309 e ss.

247. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., iv, p. 15.

248. Secondo l'assunto che "dalla bontà delle leggi penali dipende principalmente la libertà del cittadino" (Montesquieu, op. cit., XII, 2, p. 342).

249. A riguardo cfr. anche: M. Pavarini, Il sistema della giustizia penale tra riduzionismo ed abolizionismo, in: Dei delitti e delle pene, 3, 1985.

250. L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 339.

251. Ivi, p. 207. "Può essere che l'uomo nasconda nei recessi del suo pensiero o covi segretamente un peccato, del quale né giudice, né testimonio, né alcun altro ha la possibilità di accorgersi; mentre il delitto è un peccato che consiste in un atto contrario alla legge, del quale l'autore può essere accusato, per poi venire trascinato in giudizio, ove il giudice lo condannerà o assolverà in base alle testimonianze" scrive a riguardo T. Hobbes nel suo Leviatano (cit. in: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 228) screditando definitivamente la confusione fra diritto e teologia.

252. Tale concezione della sanzione penale è comunemente definita: general-preventiva, cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 239.

253. Il principio di materialità implica il «stretta» legalità, poiché esso impone di perseguire, attraverso proibizione e giudizio, solo fatti empiricamente verificabili, risolvendosi in una ben precisa esigenza epistemologica: che le proibizioni (e i relativi giudizi) si attengano a prendere in considerazione fatti tassativamente determinati, omettendo (attraverso una corretta semantica legislativa) di costruire le fattispecie penali con l'utilizzo di termini vaghi (la cui portata connotativa è male specificata impedendo di determinare correttamente ciò che il termine denota) o valutativi (in cui, al contrario, alcuna precisa connotazione del termine non è possibile, essendo rimessa all'insindacabile giudizio di chi applica la norma, stabilendo in concreto a cosa essa si possa, o meno, riferire); Ivi, p. 94 e ss.

254. Ivi, p. 208.

255. "Tutte le pene che non sono richieste dalla necessità sono tiranniche" aveva modo di affermare Montesqiueu (Lo spirito delle leggi, cit., XIX, 14, p. 473), offrendo lo spunto per un'analoga considerazione anche a Beccaria (cfr. il brano riportato alla nota 198). Tuttavia l'utilitarismo illuminista si presentava ambiguamente connotato come utilitarismo ex parte principis, informato cioè al criterio della "massima utilità possibile da assicurare alla maggioranza formata da non devianti" (L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 248); quest'ambivalenza è esplicita in Beccaria dove "i motivi sensibili che bastassero a distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell'antico caos le leggi della società" (Dei delitti e delle pene, cit., p. 11) - cioè le pene, le quali sono legittime, solo se limitate allo stretto necessario: fu, infatti, "la necessità che costrinse gli uomini a cedere parte della propria libertà: egli è adunque certo che ciascuno non né vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzione possibile, quella sola che basti a indurre gli altri a difenderlo. L'aggregato di queste minime porzioni possibili forma il diritto di punire; tutto il di più è abuso e non giustizia, è fatto, ma non già diritto." (Ivi, p. 12) - tendono a realizzare "la massima felicità divisa nel maggior numero" (Ivi, p. 8).

Un'esigenza, quindi, che non si pone immediatamente come limite all'intervento punitivo. Se la necessarietà delle pene è vista nell'esigenza di difesa sociale attraverso la minaccia della sanzione, l'utilitarismo degenera in una dottrina in grado di imporre solo un limite minimo all'intervento punitivo (al di sotto del quale non si dà efficacia), mentre apre la via al progressivo inasprirsi delle sanzioni penali, all'inseguimento di quella chimerica efficacia (L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 325 e ss.).

In questo senso riteniamo di poter aderire all'idea di utilitarismo penale riformato, così come tracciata da L. Ferrajoli (Ivi, p. 314 e ss.), perché in grado di porre un limite massimo (limite che appare genericamente accennato già in alcuni illuministi, come nei passi di Montesquieu e Beccaria già citati, ma non sviluppato appieno) oltre il quale la sanzione penale risulti delegittimata. Tale utilitarismo ex parte populi impone al diritto penale di intervenire attraverso "la minima sofferenza necessaria da infliggere alla minoranza formata dai devianti" e tale necessarietà è vista unicamente nell'esigenza di proteggere il reo da spropositate ed "informali" reazioni vendicative da parte dei privati.

256. Cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 242.

257. Ivi, p. 5 e ss.

258. Anche nel caso in cui si arretri la soglia di punibilità fino al semplice prodursi di un pericolo per il bene tutelato (come nel tentativo o nei reati c.d. "di pericolo"), esso deve essere riscontrabile in precise e concrete circostanze fattuali che diano preciso rilievo ad "atti oggettivamente idonei" a recare un danno.

259. Ivi, p. 510, cfr. anche la definizione contenuta a p. 45.

260. Con il naturale corollario del principio di responsabilità personale, in base al quale si può essere chiamati a rispondere delle lesioni causate con le proprie azioni nei limiti in cui si sia agito colpevolmente.

261. Ivi, p. 510, 511.

262. Ivi, p. 7.

263. Ibidem.

264. Ivi, p. 14.

265. Oltre ad impedire che i comportamenti disciplinati trovassero al di fuori della lesione causata il loro disvalore, magari in qualche vaga ed indeterminabile definitivamente regola morale.

266. Ivi, p. 94 e ss.

267. Ivi, p. 107.

268. Ivi, p. 19.

269. Ivi, p. 17.

270. Ivi, p. 577; F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 17 e ss.; lo sviluppo di un modello inquisitorio è pertanto anche storicamente coinciso con la comparsa di fattispecie penali vagamente connotate, dove non è più un concreto torto subito da alcuno (si ricordi che il carattere privato delle accuse caratterizzava sia il processo nella Grecia antica che nella Roma repubblicana e, caduto l'impero, durante la fase germanica; in proposito cfr. anche: M. Foucault, La verità e le forme giuridiche, in Archivio Foucault vol. 2, cit.) ad interessare l'attività processuale, ma incerti valori della cui determinazione il giudice è arbitro incontrastato (come nel caso della cognitio extra ordinem per i delicta pubblica e specialmente di laesae maiestatis, nella Roma imperiale; o nel processo ecclesiastico che, a partire dal Concilio di Verona nel 1184 e poi quello lateranense nel 1215, si prefiggeva di estirpare mali quali l'eresia, il sacrilegio, la bestemmia, la stregoneria, la bigamia e l'adulterio). In proposito Montesquieu aveva già avuto modo di segnalare che "bisogna essere cautissimi quando si procede contro la stregoneria e l'eresia (...) siccome l'accusa di questi fatti non si basa direttamente sulle azioni di un cittadino, ma piuttosto dell'idea che ci si è fatta del suo carattere" (Lo spirito delle leggi cit., XII, 5, p. 345) così come segnalava che "le leggi della Cina stabiliscono che chiunque manchi di rispetto all'imperatore debba essere punito con la morte. Siccome non precisano cosa sia questa mancanza di rispetto, tutto può offrire un pretesto per togliere la vita a chi si vuole, e sterminare la famiglia che si vuole" (Ivi, XII, 7, p. 348) anche se, com'è ovvio, non c'era bisogno di far riferimento a paesi così lontani per vedere in opera i delitti di lesa maestà.

271. L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 17.

272. Ivi, p. 18.

273. F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 586.

274. L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 576.

275. Ivi, p. 115; F. Cordero, procedura penale, cit., p. 38 e ss.

276. I principi accusatori hanno infatti un'ascendenza nella tradizione retorica e topica sviluppata già nella Grecia classica e nella Roma repubblicana, ripresa in epoca medievale dalla cultura giuridica tra IX e XIII secolo prima di essere interrotta dal rivolgimento inquisitorio (L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 116).

In particolare questa secolare tradizione si fondava sul principio del processo inteso quale disputatio fra argomenti contrapposti (visione sicuramente favorita dall'allora carattere privato dell'azione penale) articolato secondo un meccanismo che tenda ad assicurarne il funzionamento per confirmationes e refutationes, in cui lo scontro paritetico fra opposte ragioni è considerato fecondo ed utile in vista del conseguimento della prova dei fatti. Prova intesa, comunque, come argumentum, cioè relativa alla "sfera del probabile, o dell'opinabile, o del verosimile" (Ivi, p. 116) ed in quanto tale sempre smentibile da argomenti contrapposti, giammai assoluta. Questa tradizione si mantenne intatta nella law of evidence inglese e, attraverso l'esempio che questa pratica processuale rappresentò per i pensatori illuministi, si ripresentò in Europa continentale durante la rivoluzione Francese.

277. Ivi, p. 23 e ss., 120 e ss. in cui viene citata l'opera di K.R. Popper, C. G. Hempel, P. Oppenheim e si fa riferimento allo schema nomologico-deduttivo della spiegazione causale.

278. Ed, obbiettivamente, esso rappresentò il superamento di un meccanismo processuale assolutamente irrazionale in ragione dei salti logici cui costringeva il sistema delle prove legali (ivi, p. 111e ss., ove si evidenzia come le prove legali trasformino un'induzione in deduzione mascherata). L'inquisizione, infatti, se, come segnala M. Foucault (nel suo La verità e le forme giuridiche, in Archivio Foucault vol. 2, cit.; in questo senso cfr. anche F. Cordero, Procedura penale, cit.) si pose inizialmente quale tecnica di accertamento della verità, mirando ad una verità storica a differenza delle pratiche magico-ordaliche in cui la controversia era risolta da uno scontro, una messa alla prova dei contendenti, che nulla aveva a che fare con la ricerca della verità, subì in seguito il lento svilupparsi di una vera e propria "matematica probatoria" che vincolava rigidamente l'attività del giudice aldilà del conseguimento di una presunta verità storica. Venne infatti creato un complesso sistema di prove, semi-prove, quarti di prova, occasionalmente utilizzabili ad torturam, ovvero ai fini della condanna (come la convergente testimonianza di due testi non ricusati dall'imputato; cfr.: F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 587; o la confessione, in qualsiasi modo estorta; cfr.: M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p 41 e ss.).

Tale sistema, come segnalato da L. Ferrajoli (cfr.: Diritto e ragione, cit., p. 114), nei suoi successivi sviluppi in cui venne elaborata questa complessa lista di prove legali, appare molto vicino all'antico sistema germanico (il quale, fra l'altro, viene associato in ragione della sua natura di contesa fra eguali al modello accusatorio), "anche le prove magiche al pari delle prove legali, sono infatti prove formali, nel senso che escludono l'indagine e la libera valutazione del giudice surrogandole con un giudizio infallibile e superiore, divino nel primo caso e legale nel secondo" (ivi, p. 114, 115). Si pensi poi al caso della tortura ove i residui magici del giudizio di Dio sono tutti evidenti nel fatto che il torturato resistendo ottiene l'assoluzione, ma non in quanto ne sia stata provata l'innocenza, bensì perché nella lotta contro il suo torturatore è prevalso. Cfr. a riguardo M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 44, 45, che accosta esplicitamente tali metodi inquisitori ai giudizi magico-ordalici e F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 24., che sottolinea come alla sua prima apparizione nota la pratica della tortura non fosse assolutamente distinta dalle ordalie.

279. Cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 126, 127; F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 588 e ss. "Le leggi che fanno perire un uomo in base alla deposizione di un solo testimone sono fatali alla libertà. La ragione ne esige due, perché un testimone che afferma e un accusato che nega creano una differenza, e ci vuole un terzo per deciderla"; con queste parole Montesquieu (Lo spirito delle leggi, cit., XII, 3, p. 342), sottolineava il valore che può assumere una prova legale negativa; viceversa in Beccaria si ritrovano ancora accenni alle prove legali positive: le prove perfette "che escludono la possibilità che un tale non sia reo" (Dei delitti e delle pene, cit., XIV, p. 32).

280. F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 588.

281. Salvo le eccezioni cui fa riferimento L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 127.

282. Cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 127; F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 592.

283. F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 591.

284. L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 118.

285. Ivi, p. 548.

286. "Munito d'arnesi virtualmente irresistibili l'inquisitore lavora i pazienti come vuole; nel suo quadro culturale pessimistico l'animale umano nasce colpevole: essendo infetto il mondo, basta scavare in un punto qualunque ed affiora il male" (F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 24), tali arnesi irresistibili erano rappresentati degnamente dalla pratica della tortura cui abbiamo accennato. Cesare Beccaria scrisse a riguardo parole di fuoco nel XVI capitolo del suo famoso trattato, intitolato, appunto, Della tortura: "un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può toglierli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch'egli abbia violati i patti con quali le fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la potestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente?" (Dei delitti e delle pene, cit., p. 36).

287. L. Ferrajoli, Diritto e ragione cit., p. 548.

288. Ibidem.

289. O primarie; ivi, p. 621.

290. Di secondo livello, o secondarie; ibidem.

291. Il valore del principio di oralità è anche questo: assicurare che ogni audizione in merito ai fatti avvenga innanzi al giudice con la presenza della difesa, posto che la scrittura, dominante in processi segreti quali gl'inquisitori, è un veicolo di trasmissione del sapere che tende ad alterare le informazioni attraverso la mediazione del verbalizzante; inoltre, più in generale, pubblicità ed oralità implicano che la prova si formi in pubblico (com'era nell'antica agorà greca o nel foro romano) lontano dalle chiuse stanze degli inquisitori, evitando a priori il rischio di coartazioni del testimone o alterazioni della sua deposizione.