ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

3: Società disciplinare e «classi pericolose» nell'Italia del XIX secolo

Giuseppe Campesi, 2009

L'impianto teorico elaborato dai pensatori illuministi (ovviamente senza la coerenza che due secoli di ulteriore meditazione hanno saputo fornirgli) si è concretizzato solo parzialmente nei sistemi penali del XIX sec. Chiaramente numerose furono le innovazioni e, sovente, quanto mai opportune; tuttavia altrettanto frequenti furono i segni di una continuità con le antiche pratiche punitive.

Già si è accennato alla curiosa vicenda della reclusione: misura sostanzialmente extragiudiziale, retaggio di pratiche arbitrarie e poliziesche in perfetto stile ancien regime (1), si ritroverà - nonostante nelle parole dei pensatori illuministi non fosse stata concepita come «la» sanzione - ad essere il principale strumento dell'arsenale sanzionatorio in dotazione ai nostri sistemi penali.

Quel processo che è stato chiamato «grande internamento» non mancò, come detto, di riguardare anche la penisola italiana e sulle strutture di questa particolare esperienza istituzionale tra XVIII e XIX secolo si costruirà anche il nostro sistema penitenziario. In tutta Italia, infatti, ancora alla fine del XVIII sec. si può osservare la presenza di queste istituzioni deputate al governo della miseria, anche se a partire dalla fine del XVIII secolo gli atteggiamenti verso il mondo della povertà e dell'emarginazione cominciavano come visto a mutare. Nella coscienza borghese, si faceva strada la consapevolezza dell'ineluttabilità del fenomeno ed i programmi pedagogici di eliminazione del pauperismo per mezzo di una coazione al lavoro si dileguavano nella meno ambiziosa esigenza di limitarsi a controllare e governare il fenomeno.

Come segnalò Marx, l'economia politica classica prese coscienza del fatto che "l'accumulazione di ricchezza ad uno dei poli è (...) al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto" (2) ed il problema della miseria divenne quello di contenerne al massimo i costi sociali, non più offrendo lavoro a chi ne fosse privo, anche se nel chiuso di una casa di lavoro, ma punendo severamente lo stato d'indigenza.

Con lo scivolamento di una - se pur ambigua - forma di assistenza sociale verso una esplicita pratica repressiva, si compie definitivamente la trasformazione della casa per poveri in una prigione vera e propria, con funzione intimidativo-disciplinante e la definitiva perdita di ogni sua vocazione produttivista.

Tutto il processo, cui abbiamo accennato con estrema sintesi, porterà - come sappiamo - alla riforma in senso ancora più restrittivo dell'assistenza ai poveri. Tale svolta si in Inghilterra esprimerà nella nuova Poor Law e nella creazione della "casa di lavoro terroristica", ma, più in generale, tutta l'Europa si avvierà sulla medesima strada inasprendo il regime d'internamento in modo che "la vita nella casa di lavoro offrisse, sotto ogni aspetto, a cominciare ovviamente dal tenore di vita, meno di quanto fosse possibile realizzare al lavoratore libero del più infimo strato sociale" (3), secondo il principio della less eligibility.

Del resto l'esplosione demografica ed il prodursi di un nutrito contingente di popolazione in eccedenza rendevano completamente obsoleti i vecchi strumenti con cui il capitale nascente perseguiva i suoi bisogni di valorizzazione (segnatamente il lavoro forzato inteso in senso produttivo), tanto più che, secondo gli insegnamenti di Malthus, si andava diffondendo l'opinione che il vecchio sistema d'assistenza favorisse l'ozio e consentisse la sopravvivenza di una massa d'indigenti moralmente depravata nei cui confronti ogni riguardo appariva assolutamente fuori luogo.

La gestione del problema rappresentato dalle masse di poveri inizia quindi a porsi come una questione di ordine pubblico puro e semplice, mentre nell'apprezzamento collettivo lo scivolamento del significato della miseria avviatosi in epoca classica si struttura definitivamente. La povertà non è più un semplice status economico-sociale, essa diviene sintomo di deficienza morale e l processo avviatosi con la riforma in senso restrittivo dell'assistenza ai poveri si cristallizza nell'esplicita criminalizzazione dello stato d'indigenz.

In questo periodo, infatti, quando si afferma di voler eliminare il pauperismo non s'intende di voler eliminare l'esistenza della povertà tout court (che è addirittura assunta quale indice della ricchezza delle nazioni (4)), bensì si esprime l'intenzione di eliminare tutto un'insieme di elementi che fanno del pauperismo un "abitus" morale piuttosto che una condizione socio-economica (5). La povertà prende ad essere assimilata al delitto (6), è ciò si esprime nel progressivo inasprimento del trattamento riservato agli indigenti, sempre più equiparati ai delinquenti tout court.

È sugli aspetti deteriori di questa condizione sociale che s'intende agire, è sugli elementi che determinano la degradazione morale di questi individui che si cerca di far presa e non sulle cause strutturali del fenomeno. Come insegna Sismondi: "non è affatto l'uguaglianza delle condizioni, ma la felicità in tutte le condizioni che il legislatore deve darsi come fine" (7).

Non è più la povertà in sé a consistere in una minaccia per l'ordine sociale, ma le particolari "abitudini fisiche e morali" (8) che la contraddistinguono:

  1. Mobilità: la quale è in aperta contraddizione con le esigenze di fissazione territoriale e di concentrazione della popolazione laddove necessiti. Il vagabondaggio diviene definitivamente l'archetipo del disordine sociale.
  2. Promiscuità: che, oltre a determinare un aumento di difficoltà nel controllo di queste masse d'individui, che restano nell'indistinto, rende molto complesso ogni controllo demografico sulla popolazione da parte del potere pubblico.
  3. Indipendenza: che è sintomo di libertinaggio e disordine morale, poiché impedisce che questi individui siano in grado di condurre una vita onesta e di risparmio, accedendo magari ad una qualche proprietà.
  4. Ignoranza ed insubordinazione: cioè la barbarie e la brutalità allo stato puro, da cui consegue l'ignoranza dei propri doveri e, appunto, l'insofferenza alle regole (9).

Per ovviare a tali aspetti deteriori della povertà era considerata questione determinante l'"educazione" di queste masse immorali e, nella politica delle nazioni del XIX secolo, misure "repressive" ed "educative" troveranno la loro sintesi perfetta nel penitenziario, punto estremo di tutto il complesso disciplinare che gli stati moderni progressivamente costruiranno, vera e propria «porta d'ingresso» all'interno di quel contratto sociale così svantaggioso per le masse subalterne (10). Ma, come già segnalato, non è solo nelle istituzioni chiuse che i meccanismi disciplinari si esplicano.

Si è accennato, infatti, al ruolo dell'istituzione poliziesca nei meccanismi disciplinari, al suo effetto di generalizzazione della sorveglianza, al suo ruolo «infraliminare» di istituzione deputata all'estensione della disciplina al di fuori degli spazi disciplinari chiusi. Funzione che essa concretamente assumeva già prima delle riforme e delle codificazioni, in pieno ancien regime. Funzione cui sarà con maggiore insistenza chiamata a partire dall'evo moderno nel quadro della generale riforma del sistema penale che si è espressa nelle codificazioni borghesi.

A riguardo non è certo possibile individuare precise scansioni temporali, né, tanto meno, quando si parla di riforma penale si fa riferimento ad un colossale ed univoco processo codificazione legislativa conforme ai postulati della dottrina illuminista. L'evoluzione dei singoli ordinamenti giuridici fu, infatti, frammenta e con le sue peculiarità in ogni regione d'Europa in cui prese avvio (11). Sarà pertanto opportuno concentrare l'analisi sull'Italia e, nella fattispecie, saremo costretti a cominciare prendendo in considerazione l'evoluzione dell'ordinamento giuridico che verrà poi esteso, realizzatane l'unità, all'intera penisola: quello del regno di Sardegna.

Seguirà, pertanto, un'analisi delle normative di polizia nell'Italia della seconda metà del XIX secolo, del loro ruolo nel sistema penale italiano e nei meccanismi complessivi di controllo sociale messi in campo dalla giovane monarchia costituzionale. Avremo così l'occasione di individuare l'origine dei meccanismi disciplinari dell'Italia unita, le loro matrici storiche e, inoltre, la possibilità di fare un riferimento alle concrete problematiche che si da subito tali istituti presero in carico, ai processi sociali che investirono...alla complessa realtà che contribuirono (forse in maniera decisiva) a governare.

3.1: Il sistema preventivo. Poteri di polizia nell'Italia del XIX secolo

Il movimento verso la codificazione, anche costituzionale, non mancò d'investire la Penisola, regione che poteva fregiarsi dei natali di alcuni fra i più insigni studiosi della materia penale. Ma esso, nel suo concretizzarsi, assunse meno il volto egualitario dello stato di diritto, per tingersi dei tratti polizieschi che connotano i meccanismi disciplinari.

Come sappiamo, il sistema penale poté continuare a svolgere il suo fondamentale ruolo di governo della marginalità sociale grazie allo sviluppo dei meccanismi disciplinari. Essi consentirono che società profondamente squilibrate e stratificate socialmente potessero continuare ad esistere con il sostanziale consenso dei consociati; o, perlomeno, permisero di stemperare le conseguenze sociali più immediate e dirompenti di una così marcata stratificazione sociale.

Una suggestiva ipotesi storiografica, del resto, vede nel passaggio fra Antico regime ed evo moderno più che la piena realizzazione di una uguaglianza fra gli individui, il semplice abbattimento della barriera che separava la borghesia dai ceti privilegiati nell'antico regime (12). Secondo quest'ipotesi, infatti, rispetto alle masse sterminate che popolavano la base della piramide sociale una reale emancipazione politica e sociale restò a lungo puramente chimerica, nonostante la storiografia corrente ritenga, al contrario, che la svolta illuminista abbia, scardinando la secolare struttura feudale, realizzato l'emancipazione di tutte le classi non privilegiate nel vecchio sistema cetuale. Tale emancipazione si sarebbe accompagnata alla proclamazione dei diritti individuali e della correlativa eguaglianza degli individui di fronte alla legge, soprattutto penale.

Come sappiamo, una simile interpretazione storiografica è, già sul piano teorico, quantomeno problematica da sostenere. La teoria marxista da un lato ed una breve considerazione di quella che è stata chiamata «dialettica dell'illuminismo», dall'altro, sono state eloquenti in proposito: tutto è sembrato dirci che, pur con la scomparsa della servitù della gleba, i regimi democratici non abbiano annullato affatto le antiche barriere che separavano ceti privilegiati - cui si era nel frattempo aggiunta la borghesia, sostituendo a pretestuose differenziazioni di sangue differenziazioni per censo - e classi subalterne.

Un'analisi storica verrebbe, sul punto, a suffragare tali perplessità. Negli ordinamenti giuridici del XIX sec., infatti, persistettero senza sostanziali mutamenti le antiche prassi extragiudiziali per mezzo delle quali, sin dal XVI sec., si era cercato di governare il fenomeno del pauperismo e di disciplinare le masse neo-proletarizzate e ciò evidenzia come il sistema penale riformato non abbia perso la sua fondamentale funzione di governo e disciplina delle classi povere. L'immensa mole di normative poliziesche di cui si dotò infatti è lì a testimoniarci come potesse persistere, in regimi costituzionali che formalmente sancivano l'eguaglianza degli individui innanzi alla legge, una pratica penale basata su meccanismi disciplinari e discriminatori.

Accennando allo sviluppo dell'ufficio di Polizia nel corso della storia delle nostre società, si erano enucleate un insieme di funzioni e attribuzioni che, progressivamente, vennero a caratterizzare l'attività del suddetto come preordinata "al buon governo della città, a fine di mantenerla sicura e tranquilla" (13). Sottolineando, in proposito, che la polizia attiene al benessere complessivo della società e viene a farsi carico di una serie di attribuzioni non esattamente relative alla classica funzione di repressione degli illeciti.

Ai nostri fini è adesso interessante osservare più da vicino la funzione preventiva che, secondo una risalente partizione (14), si può considerare (insieme all'attività repressiva) afferente alle funzioni di Pubblica Sicurezza propriamente dette. Mentre tutto quell'insieme di attribuzioni relative, genericamente, al buon governo ed al benessere della società, rientrano nella più ampia nozione di Polizia.

La Pubblica Sicurezza, dunque, "mira alla tutela dell'ordine pubblico, provvedendo a garantire i diritti dei privati, a rimuovere gli ostacoli che ne possono impedire il libero esercizio, a preservare lo Stato da qualunque sorta di attentati" (15) ed è funzione che tradizionalmente si svolge anche attraverso un intervento preventivo - antecedente cioè la commissione di un vero e proprio illecito - che abbia riguardo a tutta una serie di comportamenti (o individui) qualificati dall'essere considerati fonte di pericolo e principio di disordine per la società.

Il sistema preventivo, cioè l'insieme di misure di polizia in grado di agire nella sfera individuale a prescindere dall'accertamento di un fatto di reato, è sistema che, come accennato, affonda le sue radici negli istituti di antico regime: pene straordinarie colpivano i sospetti di reati per i quali mancasse una prova, meccanismi di internamento forzoso investivano indigenti o soggetti che manifestavano particolari irregolarità nella condotta. Ma, a prescindere dalle categorie del sospetto (che pure un rilevantissimo ruolo avranno nei moderni sistemi preventivi), interessante è la vicenda storica dei provvedimenti volti a colpire una particolare categoria di soggetti devianti: quella degli oziosi e vagabondi, cui è peraltro dedicato il primo provvedimento in materia successivo all'emanazione di una carta costituzionale, quindi inserito in un contesto ordinamentale sostanzialmente moderno, per avere accolto e riconosciuto costituzionalmente le libertà individuali (16).

La storia della disciplina relativa all'ozio ed al vagabondaggio (di cui abbiamo seguito sommariamente l'evolversi nel corso dei secoli a partire dal XVI) è interessante perché - oltre a costituire il primo nucleo di misure di sicurezza nell'accezione odierna del termine - fu, non a caso, la prima figura soggettiva del diritto di polizia dell'Italia moderna (17).

Come sappiamo le prime norme di polizia, che colpiscono l'ozio, il vagabondaggio e la mendicità si rintracciano molto indietro nel tempo e corrispondono al tentativo avviato a partire dal XVI secolo di eliminare - o perlomeno regolare - il fenomeno della pauperismo. Esse sono il tratto più caratteristico del parallelo avviarsi dei processi di «accumulazione di capitale» e «accumulazione di uomini», l'aspetto più rappresentativo degli sconvolgimenti sociali che la nascita delle moderne società capitalistiche determinò e del parallelo tentativo di governarli e disciplinarli.

Nel solo Regno Sabaudo già a partire dal XV secolo esistevano disposizioni che colpivano, con provvedimenti preventivi personali, situazioni soggettive, condizioni di vita o il semplice sospetto di un reato commesso (18) e vi sarà, poi, un susseguirsi di provvedimenti che "intervengono indifferentemente contro oziosi, vagabondi, zingari, questuanti forestieri, sospetti di furto, residenti o forestieri senza reddito o professione certi" (19).

Il particolare controllo cui questa vasta schiera di soggetti marginali - popolazione fluttuante e sostanzialmente ai margini del mercato del lavoro - veniva sottoposta, si svolse sin dall'inizio attraverso mezzi schiettamente polizieschi, quali espulsione o bando; provvedimenti comminati, in perfetto stile ancien regime, in ragione di un mero status soggettivo. Ben presto, tuttavia, alla logica dell'allontanare farà seguito la logica del rinchiudere: tutto il centro-nord Italia (compreso il Piemonte) conoscerà infatti un processo di riforma dell'assistenza ai poveri in tutto analogo a quello che abbiamo visto svolgersi nelle altre regioni d'Europa (20).

Alla stessa stregua ancora nel XVIII sec. il Piemonte di Vittorio Amedeo II cercherà di affinare la sua politica sociale, promulgando le Istruzioni e regole degli Ospizi generali per i poveri, così come la Lombardia austriaca vedeva istituire l'Ergastolo e la Casa di correzione, alla cui direzione, come visto, fu preposto anche Cesare Beccaria.

Tutte queste riforme s'inserivano perfettamente nel solco dell'ambigua concezione filantropica in base alla quale il povero "è visto come belva feroce di cui si deve, con il lavoro e l'obbedienza, trattenere gli istinti" (21). Visione che si esprimerà perfettamente nella vocazione pedagogica che abbiamo visto essere propria del pensiero illuminista.

Questo lungo processo avviatosi nel XVI secolo avrebbe trasformato delle figure soggettive pensate per interventi polizieschi, extragiudiziari, in vere e proprie fattispecie di reato: reati di status che resisteranno al trapasso fra vecchi e nuovi ordinamenti giuridici. Tali figure, investite dal processo di codificazione, come tali saranno ancora previste nei codici napoleonici di inizio XIX secolo e, più tardi, dal codice sardo del 1859 ed italiano del 1865 (22). È questo un non trascurabile segno di continuità con il passato. Come sottolinea (forse senza esagerare) Michel Foucault nel passaggio fra ancien regime ed evo moderno "la natura delle infrazioni definite dal codice non è in sostanza cambiata" (23) anche se, ed il filosofo francese non manca di sottolinearlo, scomparirono più o meno repentinamente, i reati religiosi.

Le stesse categorie soggettive sono, come si è detto, oggetto di una legislazione di polizia che si andrà, a partire dal 1852, sempre più estendendo, perfezionando il suo arsenale ed ampliando le figure soggettive di pericolosità, nonostante il contrasto con le garanzie ed i diritti sanciti già nel 1848, per mezzo dello Statuto, fosse stato da subito evidente alle coscienze autenticamente liberali.

L'intervento normativo nel 1852, del resto, fu mosso anche dall'esigenza di armonizzare l'ordinamento di polizia ai dettami dello Statuto ed, effettivamente, l'esigenza di contemperare garanzie individuali ed efficienza assicurata da certi provvedimenti assunti direttamente dall'autorità amministrativa nella tutela dell'ordine pubblico, è presente nei dibattiti successivi all'introduzione dello Statuto (24).

Il risultato di tali remore di natura garantistica si vide nel coinvolgimento del giudice nell'attività preventiva svolta dall'autorità di P.S. (25). Anche se il "giudice del mandamento", cui fu affidata la competenza in materia di provvedimenti di polizia, non era completamente indipendente dall'esecutivo; né, all'epoca, il potere giudiziario poteva definirsi quel terzo potere auspicato da Montesquieu (26).

Il dibattito sulle libertà statutarie e sulle limitazioni delle stesse da parte dell'autorità di P.S., seppure da subito molto vivace, fu forse maggiormente concentrato su alcune particolari libertà, quale quella di stampa. La pubblicistica del tempo spese maggiori parole, infatti, occupandosi di tale libertà e della relativa possibilità da parte dell'autorità amministrativa di apportarvi limitazioni, piuttosto che della libertà dei ceti marginali investiti dall'urto dei provvedimenti penal-polizieschi a loro rivolti. Del resto questi stessi soggetti entro certi limiti non avrebbero probabilmente saputo apprezzare troppo le libertà per cui gli «spiriti democratici» del tempo lottavano aspramente (27).

A ben vedere la relazione al parlamento subalpino del ministro Galgagno che proponeva l'approvazione di un disegno di legge (destinato poi a diventare il provvedimento del 1852) in materia di Pubblica Sicurezza, giustificava le limitazioni in via preventivo-amministrativa (anche se come abbiamo visto l'atto di sottomissione è emanato da un magistrato) delle libertà individuali, attraverso la rilevanza particolare che assumevano ai suoi occhi (e non doveva essere opinione isolata al tempo) le condotte, gli stili di vita, che si andavano a colpire. Evidenziando con le sue parole la diffusa idea che vi fossero categorie di soggetti verso cui i riguardi garantistici non andavano esagerati, soggetti (come abbiamo avuto modo di sottolineare più volte) costituenti una categoria a parte, non degna delle libertà appena sancite: "l'ozioso e il vagabondo possono considerarsi in permanente reato, frodano la società della parte che da ogni cittadino le si deve, e non si può concepire come possano, privi quali sono di mezzi, esistere senza supporre una continua sequela di truffe, di ladronecci e simili (...) se propongo una disposizione eccezionale egli è perché qui si tratta di un delitto eccezionale. Il quale, come ho già detto, è occasione e fonte di tutti gli altri reati e crimini...Essendo origine di tutti gli altri, richiede per speciale considerazione che siano forniti al governo i mezzi necessari per reprimerli rigorosamente (...) All'ozioso e vagabondo già indurito per lunga abitudine nel vizio vuolsi provvedere con pene adeguate che, rendendolo intanto impotente al malaffare, giovino a richiamarlo sul retto sentiero" (28). A questa categoria di cittadini abbandonati al vizio è dunque necessario riservare un particolare trattamento che, pur lesivo delle libertà appena sancite, si giustifica per le particolari caratteristiche dei soggetti che colpisce e perché idoneo alla prevenzione dei delitti futuri. A riguardo, infatti, non si hanno remore nell'indicare in questi equivoci soggetti la causa di ogni pericolo per la "civile società".

Con la legge del 1852 la via maestra è tracciata ed il provvedimento organico in materia di P.S., che il ministro Galgagno non riuscì a varare, si avrà due anni più tardi, nel 1854 (c.d. Legge Di San Martino-Rattazzi) allo scadere del periodo di vigenza previsto per la precedente legge di polizia.

Questo provvedimento, a parte la maggiore estensione (29), presenta alcune significative novità. A prescindere dal mutamento del termine "sottomissione" in "ammonizione", che non cambia la sostanza dell'istituto, tre ci paiono le novità rilevanti nella specifica materia di pubblica sicurezza: in primo luogo l'eliminazione dell'intervento dell'amministrazione comunale nella compilazione della lista di sospetti ladri di campagna (30), che sarebbe stata affidata alle denunce dell'autorità amministrativa. In secondo luogo (anticipazione di discipline ancora più stringenti che il futuro prossimo dell'ordinamento sabaudo conoscerà) la previsione della "consegna dei dipendenti", cioè l'obbligo del datore di lavoro di compilare una lista dei suoi dipendenti, una vera e propria schedatura degli operaiche si aggiunge all'obbligo analogo previsto per gli inquilini. La relazione parlamentare a riguardo significativamente dirà: "l'autorità politica prescrisse la consegna per parte dei capi di fabbrica dei loro operai, che in tal modo si avrà sott'occhio l'ozioso e il vagabondo per poterlo denunciare" (31) evidenziando come nell'opinione borghese, classi lavoratrici e classi pericolose non fossero al tempo poi troppo distinte. In ultimo vi è l'introduzione di un'ulteriore fattispecie di sospetto, relativa alla "presunzione di furti notturni", in base alla quale chiunque trasporti nottetempo mercanzie non potendo dare contezza di sé, può essere arrestato e poi rimesso all'autorità giudiziaria (32).

Cinque anni più tardi la materia viene riscritta da un nuovo (e più organico (33)) testo normativo (legge Rattazzi, 1859), emanato in occasione di poteri speciali conferiti al governo e quindi non sottoposto al vaglio parlamentare. Questa legge sarà inoltre destinata a costituire la prima normativa di P.S. dell'Italia unita, una volta che, nel 1865, ne verrà disposta l'estensione a tutto il territorio, senza radicali stravolgimenti della disciplina (34).

Spiccano, rispetto alla disciplina del 1854, l'introduzione - affianco del già visto obbligo di "consegna dei dipendenti" - del "libretto di lavoro" (35) per i lavoratori subordinati (con un sensibile aumento della pressione del controllo poliziesco sulla vita delle classi lavoratrici) accompagnato dalla previsione dell'obbligo, in capo all'Autorità di pubblica sicurezza, di tentare, nelle controversie fra datore di lavoro e dipendente, una conciliazione, prima di adire il giudice (36); e l'estensione del meccanismo dell'ammonizione anche ad altri soggetti rispetto ad oziosi, vagabondi, sospetti ladri di campagna, mendicanti validi, quali i soggetti sospettati di essere "grassatori, ladri, truffatori, borsaioli e ricettatori" (37).

Complessivamente, quindi, la discrezionalità dell'Autorità di P.S. nell'iniziare il procedimento di ammonizione risultava estesa, attraverso un sostanziale aumento delle ipotesi di sospetto; le maglie della rete del controllo poliziesco si stringe sulle classi popolari, che in questo scorcio di XIX sec. paiono, grazie alle stringenti discipline sul "libretto operaio" e sulla "consegna dei dipendenti", sottoposte ad una vera e propria «tutela poliziesca e padronale»; la protezione della proprietà privata, infine, viene enormemente rafforzata attraverso la possibilità di un ampio ricorso a strumenti preventivi.

Come detto la disciplina del 1859 costituì la base della successiva normativa unitaria di polizia (38): la legge 20.03.1865 allegato B. Quest'ultima ricalcava sostanzialmente la precedente, ma apportava alcune innovazioni parecchio significative per la storia del nostro diritto di polizia. Novità in parte provenienti da una particolare esperienza istituzionale.

Il 1863 è l'anno in cui vengono approvati provvedimenti eccezionali per la repressione del brigantaggio nelle province meridionali (c.d. legge Pica 15.08.1863 nº 1409 (39)). Il fenomeno, ad unità appena realizzata, fu percepito come istanza immediatamente sovversiva, in grado di mettere seriamente in pericolo l'unità stessa e, pertanto, la risposta istituzionale fu estremamente energica. Tuttavia il contorno di leggi eccezionali che recò con sé avrebbe caratterizzato in maniera indelebile il nostro ordinamento, inaugurando quella deleteria tradizione che vede il nostro sistema penale trarre i suoi caratteri più peculiari da eccezionali esperienze istituzionali. La legge eccezionale del 1863 (reiterata, peraltro, in relazione ad altre «emergenze» (40)) introdusse, infatti, un istituto del tutto nuovo (41) per il nostro ordinamento: il domicilio coatto.

Fratello maggiore del confino di polizia e del, più giovane, obbligo di soggiorno, il domicilio coatto è così disciplinato nel 1863: "il governo avrà inoltre facoltà di assegnare per un tempo non maggiore di un anno il domicilio coatto agli oziosi e vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del codice penale, nonché ai camorristi e sospetti manutengoli, dietro parere di una giunta, composta del prefetto, del presidente del tribunale, del procuratore del re e di due consiglieri provinciali" (42).

Nato per esigenze del tutto eccezionali, l'istituto troverà con il provvedimento in materia di P.S. del 1865 cittadinanza fra le misure ordinarie di polizia, ponendosi come agile meccanismo di controllo sociale nei confronti delle classiche categorie di soggetti esposte al controllo poliziesco (43). D'altra parte, però, scompaiono l'obbligo del libretto operaio (reso adesso facoltativo, anche se non scompare l'obbligo della "consegna di dipendenti") e l'obbligo, per l'Autorità di P.S., di adoperarsi per tentare una conciliazione nelle controversie di lavoro.

Se nel 1865 lo strumentario di polizia si arricchisce di un nuovo istituto, nel 1871 viene ulteriormente allargata la categoria dei soggetti cui tali provvedimenti si rivolgono, viene infatti modificato l'art. 105 della legge del 1865, che nella sua nuova formulazione reciterà: "saranno a cura dell'autorità di Pubblica sicurezza denunciati gli individui sospetti come grassatori, ladri, truffatori, borsaioli, ricettatori, manutengoli, camorristi, maffiosi, contrabbandieri, accoltellatori e tutti gli altri diffamati per crimini o per delitti contro le persone e la proprietà" (44).

Le figure soggettive di pericolosità che abbiamo visto comparire nel 1852, sono, dopo quasi venti anni, estese con un vertiginoso aumento delle fattispecie di sospetto. L'intervento preventivo è quindi strumento duttile, in grado di colpire le diverse manifestazioni di pericolosità prima ancora che queste possano concretizzarsi in un reato e paiono del tutto assenti, nei governi succedutisi alla guida del Regno, remore o perplessità di natura garantistica: "signori con tutti questi ragionamenti sulla teoria si manca assolutamente allo scopo della legge" ribatteva Galgagno - nel 1851 nelle aule del parlamento subalpino - a chi eccepiva, riferendosi ai «principi del diritto penale», l'inconciliabilità con lo statuto delle misure che si andavano proponendo (45). La prevenzione è una dura necessità!

Incidentalmente è interessante notare quale rilevanza venga ad assumere il ruolo della comunità locale nel processo preventivo: nonostante l'eliminazione dell'esplicito ruolo dei consigli comunali nella compilazione della lista dei "sospetti ladri", la realtà locale continua ad avere un ruolo fondamentale nel funzionamento del meccanismo poliziesco. I "diffamati", infatti, saranno pur sempre denunciati a cura dell'Autorità di P.S., ma questa, nel risolversi in tal senso, potrà basarsi sulla «pubblica voce», concetto che altro non esprime se non l'idea di giudizio sociale di cui l'Autorità deve tener sempre conto nell'agire. Come sappiamo del resto, la polizia unisce il potere centrale alle singole istanze di potere locali, diffuse nel corpo sociale e, nella definizione del suo campo d'azione, pesano in eguale misura le indicazioni che provengono dall'alto, quanto quelle provenienti dal basso.

In ogni caso l'aumento delle categorie soggettive prese in considerazione è certamente riconducibile alla mutata realtà che investe la legge del 1865 rispetto a quella del 1852, pensata per il solo regno di Sardegna, "non è solo la legislazione in materia che è venuta estendendosi, è anche la società a cui questa si rivolge che si presenta ben più complessa e difficile" (46).

Lo strumentario di polizia resterà sostanzialmente invariato fino al 1889 (quando si ebbe un nuovo intervento organico ad opera del Crispi, contemporaneo all'emanazione del nuovo codice penale), ma subirà nel 1876 un ristretto intervento normativo: si stabilirà, infatti, che la commissione incaricata di valutare l'opportunità del domicilio coatto "non prefigge la durata del domicilio obbligatorio, la quale potrà essere abbreviata secondo le prove di ravvedimento che sarà per dare il condannato nel luogo assegnatogli".

La modifica - che sicuramente amplia la discrezionalità dell'Autorità che commina la misura, consentendole di modularne a piacimento la durata - è rilevante soprattutto perché è il sintomo di un mutato clima culturale, che, come vedremo, fornirà questi provvedimenti di una nuova legittimazione, neutralizzando il coro di critiche che sollevavano presso settori autenticamente liberali dell'opinione pubblica (47).

Nel febbraio 1888 F. Crispi presenta un disegno di legge che sarà destinato a diventare la L. 30.06.1889 nº 6144, nuovo Teso Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza (da ora T.U.P.S.) e che un giudizio di allora definisce una legge le cui "disposizioni sono improntate a quella maggiore libertà che era possibile" (48).

Lo stesso Ministro proponente nel presentare il suo progetto in parlamento afferma di voler "circondare di garanzie, l'ammonizione per escludere in quanto è moralmente e materialmente possibile il sospetto" (49) e, in merito al domicilio coatto, che "anche nel promuovere e nel risolvere questo provvedimento il sospetto deve avere la più piccola parte, l'arbitrio nessuna" (50).

Tuttavia non tutte le proposte in senso garantistico contenute nel progetto crispino otterranno il vaglio parlamentare (segnatamente del Senato), fra tutte forse la più rilevante (51) era la prevista pubblicità del "processo di ammonizione" con possibilità del contraddittorio, la quale verrà bollata dal senato, che riscriverà: "il Presidente spiegherà all'imputato".

Nel ripresentare alla Camera il testo come modificato dal Senato Crispi affermerà: "del resto vi hanno ragioni dalle quali apparisce evidente la inopportunità di far palesi colla pubblicità di un giudizio denunzie che spesso possono non essere fondate e che non essendo sufficienti a giustificare una pronuncia di ammonizione, non è giusto che siano divulgate con danno manifesto di colui che ne fu oggetto" (52), lasciando intendere di accettare la modifica soprattutto perché a favore dell'imputato

Le figure soggettive resteranno sostanzialmente identiche: oziosi e vagabondi "non provveduti dei mezzi di sussistenza", diffamati, per i quali è adesso richiesto qualche requisito in più rispetto alla semplice «pubblica voce», sono infatti necessarie due o più sentenze di non luogo a procedere per prescrizione dell'azione penale o di assoluzione per non provata reità.

"Cioè, per essere sottoposti all'ammonizione: 1) non bisogna aver commesso alcun reato; 2) bisogna essere indicato dalla voce pubblica come possibile autore di un delitto; 3) due sentenze, anche di assoluzione, costituiscono titolo sufficiente perché la voce pubblica si trasformi in una prova di reità" (53).

Anche il domicilio coatto subirà delle lievi restrizioni: occorreranno infatti l'esser già un soggetto ammonito o sottoposto alla sorveglianza speciale ed, in più, l'aver già riportato due successive condanne per: violazione dell'ammonizione o delle disposizioni relative alla sorveglianza speciale; delitti contro la persona o la proprietà; violenza o resistenza all'Autorità; o una di queste condanne combinate insieme (54).

Si assiste ad un lieve aumento dei requisiti richiesti, insomma, ma sostanzialmente il t.u.p.s. varato dalla sinistra ricalca i precedenti provvedimenti dovuti ai governi di destra, ridando nuova linfa a misure di polizia (come il domicilio coatto) nate per esigenze del tutto eccezionali, "anche qui la cosa più notevole è la capacità (tutta italiana) di chiamare riforma la contro-riforma; rivoluzione, quella che non è che una restaurazione o una contro-rivoluzione" (55). Vecchi arnesi polizieschi si troveranno rilegittimati dall'idea di essere stati sottoposti a maggiori garanzie.

Nel 1894 verranno poi, dallo stesso Crispi, apportate significative modifiche al t.u.p.s., cambiamenti comunque nel pieno rispetto della tradizione di questi istituti: nel clima di lotta alle associazioni anarchiche riprende vigore l'originaria natura del domicilio coatto, esso, come già nella stagione dell'emergenza "brigantaggio", torna ad essere strumento prezioso per il controllo degli avversari politici. La legge 19.07.1894 nº 316, infatti, estende la possibilità di inviare a domicilio coatto per un tempo non superiore i tre anni "coloro che abbiano manifestato proposito di commettere vie di fatto contro gli ordinamenti statali" (56), allargando così nuovamente i presupposti della misura, che nel 1889 si erano, in maniera un po' "timida", resi più stringenti.

3.2: Lineamenti di un «Codice dei birbanti»

Con il 1889, dunque, si ha un testo organico di P.S. che sarà destinato a durare a lungo (fino al 1926, anno in cui la materia verrà riscritta), in ogni caso alcune di quelle che saranno peculiari caratteristiche del nostro sistema penale sono definitivamente tracciate.

Nello stesso anno in cui Crispi varava il suo t.u.p.s. assumeva vigore il nuovo codice penale, il c.d. codice Zanardelli, considerato espressione di quei principi e dei postulati che dalle parole degli illuministi discendono sino all'opera degli esponenti della scuola c.d. "Classica" di diritto penale ed in genere sono patrimonio di tutta la cultura autenticamente liberale.

Espressione di questo pensiero penalistico d'impronta liberale, il codice "al momento del suo avvento ha praticamente costretto il Paese a misurarsi con un livello di civiltà penale più elevato di quello che la società nel suo complesso sapeva esprimere" (57). Esso rappresentò realmente un salto di qualità per il nostro ordinamento: eliminò la pena di morte; sancì definitivamente il principio di stretta legalità, espungendo dal codice le fattispecie di sospetto o costruite secondo il canone delle "norme penali costitutive"; ribadì la presunzione d'innocenza; regolò con canoni maggiormente garantisti concorso di persone e delitto tentato; pose a fondamento della punibilità l'imputabilità, definendo con precisione i criteri per l'imputazione soggettiva del reato...Rappresentò, insomma, una matura realizzazione di tutte le garanzie penali idonee alla costruzione di un diritto penale rispettoso delle libertà individuali.

Parallelamente si compiva un analogo percorso in senso "garantista" nel campo della procedura criminale: la spinta al moderato riformismo (accelerata a seguito della concessione dello Statuto) che connotava il Regno di Sardegna si espresse, in questo settore normativo, con un codice di procedura criminale già negli anni 1847-48.

Il Piemonte, tornato in pieno ancien regime a seguito della restaurazione (in materia penale furono addirittura riattivati la tortura e i supplizi), si avviava lentamente ad una modernizzazione delle sue istituzioni ed espressione di questo clima fu il codice concesso da Carlo Alberto, matrice, peraltro, dei successivi codici italiani.

Tuttavia i postulati del sistema accusatorio non resistettero alla breve esperienza della rivoluzione francese: nella stessa Francia il codice del 1795 e più tardi poi il codice Napoleonico del 1808 concretizzeranno il c.d. processo "misto": miscuglio dei caratteri di due modelli processuali diversi ed antitetici (inquisitorio-accusatorio), in una macchina processuale dall'indole eclettica (58). Sostanzialmente priva di contraddittorio, scritta e segreta, una prima fase in cui si va alla ricerca di elementi per sostenere un'accusa; dibattimentale, con un orale e pubblico contraddittorio fra le parti la seconda fase, in cui dovrebbe formarsi la prova dei fatti.

Il sistema «bifasico» non poteva certo considerarsi espressione del pensiero illuminista e liberale: pur non smentendo in senso assoluto i principi accusatori a favore dei quali, in Francia, si era smantellata la vecchia ordonnance criminalle, li metteva seriamente in questione quando sostituiva alle conoscenze prodottesi pubblicamente ed oralmente, nel rispetto del contraddittorio, la documentazione scritta prodotta in segreto dall'accusa nel corso delle indagini (59).

Se pure scomparirono le meccaniche probatorie che i vecchi sistemi inquisitori avevano tramandato, l'intime convinction (come già segnalammo), in assenza di una solida epistemologia dell'induzione giudiziaria, si risolse in un criterio potestativo di soluzione delle vicende penali, svuotandosi di ogni significato. Sicuramente il sistema bifasico diede avvio ed alimento alla metastasi: in un processo in cui tutti i documenti prodotti dall'istruttoria segreta dell'accusa sono praticamente utilizzabili, la convinzione morale del giudice non ha ostacoli di sorta nel fondarsi e giustificarsi sulla base della documentazione d'accusa; le "verità" cui si è pervenuto nel segreto delle stanze degli inquisitori continuano ad avere un ruolo tutt'altro che marginale, la fase istruttoria schiaccia con l'invadenza delle sue "carte" l'oralità del dibattimento e la formazione della prova arretra il suo baricentro verso un momento processuale privo di contraddittori.

Queste storture furono proprie del codice Piemontese del 1847-48 e del 1859 (che pure introdurrà l'istituto della giuria - prima previsto per i soli reati di stampa), dei quali l'ultimo verrà esteso all'Italia nel 1865. Ma, anche in questo codice, non cambierà sostanzialmente il rapporto fra le due fasi processuali e quale peso le "carte" d'accusa riuscissero ancora ad avere è evidente se si pensa al fatto che non fossero previste incompatibilità (tranne che in Assise) per il giudice che avesse già concorso all'istruzione o al rinvio a giudizio, il quale può tranquillamente partecipare al dibattimento (60).

Non furono dunque portati alle estreme conseguenze i principi accusatori che il pensiero illuminista e liberale propugnava (61) (il processo misto caratterizzerà a lungo il nostro sistema processual-penale: riproducendosi tanto nel codice del 1913 - che pure accentuò alcuni aspetti di garanzia - e, poi, nel codice del 1930, un "mostro" che sopravviverà per oltre quaranta anni al regime che lo partorì) ma complessivamente si può ritenere che, in Italia, un lento movimento verso la definitiva acquisizione quali principi fondamentali delle garanzie penali e processuali comunque si svolse.

Al momento dell'emanazione del t.u.p.s. crispino, dunque, vigevano in Italia un codice penale espressione autentica dell'illuminismo penale ed un codice di procedura che, pur con le gravi storture di cui si è detto, conosceva dibattimento, giuria, intime convinction e sanciva (sia pur formalmente come si vedrà) il principio della presunzione d'innocenza. Legalità e giurisdizionalità in linea di massima erano assicurati.

Tuttavia l'eliminazione delle fattispecie di sospetto o di status dal codice penale (fattispecie che suscitavano il rossore della dottrina liberale) non corrispose ad una loro eliminazione tout court dal sistema. Bensì ad una loro relegazione nei suoi «piani bassi», dove non albergano le garanzie ordinarie ed il controllo sociale si svolge per mezzo dell'agire amministrativo (62).

Le strategie preventive di controllo sociale dopo più di un secolo hanno percorso a ritroso la strada che le aveva, dalla prassi straordinaria di polizia ancien regime, portate a trovare una collocazione nei codici penali sotto forma di reati contravvanzionali: nel 1889 sono definitivamente eliminate dal nuovo codice e relegate nel t.u.p.s. "con l'intento di salvaguardare la purezza formale del sistema, sfruttando, però, al tempo stesso, un nuovo ambito operativo - le misure di polizia appunto - libero dalle pastoie dei principi di garanzia e di libertà del cittadino, che consentisse di controllare e reprimere con efficacia non minore le più diffuse - e quindi temute - forme di marginalità ed esclusione sociale, nonché di opposizione politica" (63).

Possiamo dire, quindi, che in quest'anno il sistema di polizia - cui fino adora si sovrapponevano anche previsioni penali - assume in via esclusiva una "funzione di governo delle classi pericolose" (64).

L'intervento preventivo sui «disturbers», sui pericolosi, sui sospetti, costituirà come già in passato una tecnica controllo sociale tutt'altro che marginale anche nei meccanismi del nostro sistema penale e varrà a distinguere un duplice livello di legalità al suo interno o, come si è detto: un codice per «galantuomini» ed uno per «birbanti» (65).

Il dualismo si sostanzia nella dicotomia codice liberale/leggi di P.S., queste ultime rigidamente strutturate secondo i parametri delle norme penali costitutive o delle fattispecie di sospetto, che, come detto, sono la negazione stessa del principio d'uguaglianza ed agiscono in via preventivo/amministrativa bersgliando, in funzione di prevenzione-speciale ante delictum, soggetti pericolosi o sospetti. In questi casi, pur essendo formalmente di un giudice la competenza a valutare i presupposti della misura di polizia, l'attività decisoria non è nemmeno approssimabile all'attività giurisdizionale: qui il giudice esprime un giudizio sulla persona e non su un fatto, vaglia la sua condotta di vita complessiva con una discrezionalità tutta amministrativa, che è agire in fatto - in base a criteri di opportunità - non in diritto - in base a criteri di verificazione empirica.

La scelta di politica criminale sottesa alla rigida separazione fra due filières punitive - una con un elevato tasso di garanzie, che porta direttamente alla detenzione; l'altra di bassissimo profilo sul piano delle garanzie, rivolta ad «individui criminali», quindi idonea ad arretrare la soglia dell'intervento istituzionale sulle libertà individuali molto prima del verificarsi di un reato e del tutto indipendentemente da questo, con l'utilizzo del carcere solo in seconda battuta quale conseguenza della contravvenzione agli obblighi previsti dalla misura di polizia - evidenzia una sostanziale volontà di eludere i lacci in cui il garantismo penale-processuale avrebbe imbrigliato la lotta a certi tipi di criminalità. E, più in generale, ci segnala con inequivocabile precisione per mezzo di quale settore dell'ordinamento giuridico il sistema sociale dell'Italia unita praticasse la fondamentale funzione di governo delle classi povere. Ancora nel XIX sec. esse sono sottoposte ad uno stringente controllo poliziesco disciplinare ed in ragione della loro supposta pericolosità sono escluse dall'accesso alle garanzie previste nel sotto-sistema penale ordinario.

L'efficacia dei meccanismi preventivi non è da sottovalutare. Se pure rinunciano ad un intervento diretto attraverso la reclusione (anche se un soggiorno forzato a Lampedusa o Lipari poteva non essere da meno), l'insieme di prescrizioni connesse all'adozione di un provvedimento di polizia come l'ammonizione, può essere stringente a tal punto da rendere impossibile al soggetto colpito l'evitare la contravvenzione. Il giudice disponente poteva, per esempio, ordinare "all'ozioso e vagabondo di darsi in un termine conveniente al lavoro, di fissare stabilmente la propria dimora facendola conoscere nel termine stesso alla locale Autorità di P.S. che dovrà pure essere preventivamente avvisata se la dimora sia per essere abbandonata o mutata. Dovrà inoltre l'ammonito non associarsi a persone pregiudicate, non ritirarsi la sera più tardi e non uscire al mattino prima dell'ora prescritta, di non trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole o case di prostituzione" (66).

Come si può notare si spazia da precetti generalmente morali, quasi dei comandamenti, come quello di non frequentare "osterie, bettole o case di prostituzione", a prescrizioni che impongono un inquadramento disciplinare all'"ozioso e vagabondo". È di tutta evidenza, peraltro, quale funzione potesse esercitare rispetto al mercato del lavoro l'imposizione dell'obbligo di darsi una stabile occupazione, quali che fossero condizioni di lavoro e remunerazione. Perfettamente sintetizzate in tali prescrizioni sono le funzioni dei meccanismi penal-disciplinari: rendere «maggiormente elegibile» una qualsiasi posizione lavorativa rispetto allo status di "ozioso e vagabondo" ed educare le classi povere alla disciplina che si confà ad un cittadino onesto e laborioso, costringendole ad accettare il proprio status sociale subalterno.

Nel complesso le misure di polizia rappresentano uno strumento di controllo sociale assai duttile, che, tuttavia, innesca una vera e propria spirale dell'emarginazione che ha, in ogni caso, un unico effetto: trasformare i soggetti bollati come pericolosi dall'intervento poliziesco, in delinquenti patentati. Le misure di polizia hanno, infatti, un elevato indotto di criminalizzazione indiretta, a causa delle vessatorie prescrizioni che le accompagnano il loro esito è comunque il carcere (67).

È in epoca liberale, quindi - e proprio in parallelo con lo sviluppo di codici progressivamente più attenti alle libertà individuali - che si cristallizzano le misure di polizia, vero e proprio "codice dei birbanti"; misure "destinate prevalentemente ai ceti poveri ed emarginati - sottoproletari, prostitute, vagabondi, oziosi, disoccupati, sottoccupati, immigrati e simili" (68) oltre che anarchici, sovversivi, socialisti, repubblicani, briganti, maffiosi.

Come segnala un'autorevole dottrina tali provvedimenti di polizia circoscrivono un settore penal-poliziesco del controllo sociale, individuano un sotto-sistema penale di polizia (69), che si affianca ad un sotto-sistema penale ordinario, e creano una macchina di controllo sociale a "due tempi": da una parte il codice, regno del diritto e delle garanzie; dall'altra il testo di Pubblica Sicurezza, regno del "non diritto" e della disciplina.

Il settore penal-poliziesco è fondato su un paradigma soggettivistico della devianza, esso interviene, infatti, sul modo di essere stesso degli individui, i suoi provvedimenti sanzionano l'autore, non un ipotetico fatto materialmente prodottosi; colpiscono quell'ampia serie di comportamenti e stili di vita che avevamo indicato con la locuzione di «sfera dell'infrapenalità» e più in generale afferiscono agli stili di vita dei soggetti variamente marginali, nel solco di una secolare tradizione che criminalizza il disordine morale, le irregolarità nella condotta di vita e, più in generale, la povertà e la disoccupazione tout court. Esso è un ambito in cui: la polizia opera con funzioni para-giudiziarie, quando è chiamata a emanare provvedimenti che incidono direttamente sulla libertà individuale dei soggetti colpiti. E la magistratura opera con funzioni para-poliziesche, quando è chiamata a pronunzie che si fondano non sull'accertamento di un fatto di reato, bensì su un carattere peculiare del soggetto.

Tuttavia rientrano a pieno titolo in tale «complesso poliziesco», nell'epoca che stiamo considerando, oltre all'insieme di normative di P.S. che abbiamo visto, alcuni istituti del diritto processuale penale, ciò che oggi definiamo provvedimenti cautelari: cattura ed arresto in flagranza.

La cattura immediata di un soggetto semplicemente accusato di un reato, è istituto che viola in maniera evidente il principio di presunzione d'innocenza, richiamando direttamente una pratica spiccatamente inquisitoria e come tale fu infatti percepito da gran parte della cultura illuminista e liberale (70). Malgrado queste prese di posizione però essa non scomparve mai dal nostro sistema processuale penale e, al suo cospetto, la stessa cultura liberare arretrò vistosamente, sostenendone la "dura necessità" (71).

Tuttavia si tratta di un istituto formalmente votato ad una funzione di «cautela endoprocessuale» (ed entro questi limiti, a parte il sorprendente giudizio di Francesco Carrara, fu giustificato dalla cultura illuminista e liberale) che avrebbe, nel corso della travagliata storia del nostro sistema penale, assunto una funzione di vera e propria «cripto-pena», funzionando quale sanzione anticipata, ma, soprattutto, quale surrettizia misura di difesa sociale applicabile a particolari categorie di soggetti. La disciplina del XIX sec., del resto, lascia già intravedere gli sviluppi futuri.

Nel codice del 1847-48 (sul punto parecchio ancien regime) il mandato di cattura non aveva alcun presupposto, era sostanzialmente un provvedimento automatico e tale situazione persisterà sino al primo codice del Regno d'Italia, cioè fino al 1865, anno in cui viene limitato da una serie di presupposti: per i reati puniti con pena superiore ai tre anni è reso solo facoltativo, tranne che per la particolare categoria di soggetti costituita dagli "oziosi, vagabondi, mendicanti e altre persone sospette perché diffamate per crimini o delitti o già condannati a pene criminali", nel qual caso è obbligatorio. Per i reati puniti con pena inferiore ai tre anni, il mandato è addirittura escluso, non così per i soliti noti, per i quali la facoltà di utilizzarlo è mantenuta.

Fino al codice del 1913 peraltro non vi sarebbe stata traccia di termini massimi di carcerazione preventiva, né, tanto meno, dell'esigenza che il mandato fosse accompagnato da «sufficienti indizi» a carico dell'accusato (72). Gli stessi Procuratori del Re, infatti, nei loro discorsi inaugurali degli anni giudiziari non mancarono di soffermarsi sull'utilizzazione dell'istituto, premurandosi di sottolineare che i casi in cui la carcerazione preventiva si è protratta più a lungo sono stati determinati dalle particolari complessità che le indagini presentavano e rilevando (con quella che sembra una presa di coscienza dell'attentato alle libertà individuali che quest'istituto rappresenta) che sarebbe necessario computare nella pena da eseguire, a seguito della eventuale condanna, il tempo trascorso in carcerazione preventiva, o, perlomeno, di indennizzare l'imputato poi assolto che l'avesse subita (73).

Con il nuovo codice la disciplina sotto il profilo delle garanzie migliora: presupposto indefettibile della misura sono adesso i «sufficienti indizi» di reità e il fatto di essere accusati per un reato punito con una pena, non più semplicemente superiore ai tre anni di reclusione, bensì non inferiore nel minimo a tre anni. La cattura rimase sostanzialmente un provvedimento facoltativo, tranne per quanti fossero già sottoposti a misura di polizia, o risultassero privi di domicilio o residenza fissa o recidivi reiterati o specifici. Certamente però la novità più significativa fu l'introduzione, per la sola fase istruttoria, dei termini di durata massima della misura: nei casi peggiori, per i soli reati più gravi e per gli imputati rispetto ai quali la cattura fosse obbligatoria, si poteva giungere con tutte le proroghe possibili fino ad un massimo di un anno di custodia preventiva.

Affianco ai «poteri cautelari», però, esistevano anche i cosiddetti «poteri pre-cautelari», che consistevano, in sostanza, in una facoltà d'arresto concessa all'autorità di pubblica sicurezza. Si tratta dei casi di "arresto in flagranza" (o "quasi flagranza") di reato, poteri che nei codici post-unitari sono, nel caso in cui si tratti dei soliti autori tipo, estesi ben oltre il semplice stato di quasi flagranza. Secondo il codice del 1865 l'autorità amministrativa, qualora si tratti di vagabondi, mendicanti, vigilati speciali e tutte le persone indicate nelle leggi di Pubblica Sicurezza, ha il potere di arrestare l'individuo "sorpreso in flagrante reato o denunciato per clamore pubblico", allorché "sovra essi cada qualche indizio che abbiano commesso il reato". Com'è evidente «qualche indizio» è locuzione vuota, "de facto basta lo stigma" (74). Ai sensi del codice del 1913, invece, cadrà il riferimento al «clamore pubblico», mentre verrà aggiunta la dizione "oziosi", al novero dei soggetti arrestabili sulla base di "qualche indizio".

Quest'insieme di provvedimenti preventivi (praeter delictum nel caso delle misure di polizia, ante iudicium nel caso dei mandati di cattura e dei provvedimenti d'arresto) appaiono già in epoca liberale rivolti al "conseguimento di obbiettivi politicamente desiderabili attraverso la compressione di diritti, prerogative e garanzie" (75) e, forse, in una prospettiva più generale, al mantenimento di quella separazione, di quella «frontiera», che divideva ancora i ceti privilegiati (proprietari) dalle classi subalterne, oltre che ad un loro rigido disciplinameto (76).

Essi sono in ogni caso diretti alle stesse categorie di persone (nel caso del mandato di cattura è significativo che resti automatico proprio nel caso dei soliti "autori tipo") ed esprimono l'opinione che il legislatore del tempo nutriva di tali soggetti: non degni di un trattamento ordinario, essi vanno strettamente controllati, la loro esistenza va presa in carico e riportata sui giusti binari o, perlomeno, la loro pericolosità va neutralizzata. Le misure di polizia altro non sono che un tassello, un ingranaggio dei meccanismi disciplinari che, sul finire del XIX sec., otterranno una nuova copertura ideologica grazie allo sviluppo di un'insieme di saperi sul crimine. Rappresentano gli strumenti attraverso cui recuperare all'incasellamento disciplinare i soggetti per un motivo o per un altro sfuggiti alle maglie delle istituzioni chiuse, le scuole, le caserme, le fabbriche.

"Storicamente, il processo per cui la borghesia è divenuta nel corso del secolo XVIII la classe politicamente dominante si è riparato dietro la messa a punto di un quadro giuridico esplicito, codificato, formalmente egalitario, e attraverso l'organizzazione di un regime parlamentare e rappresentativo. Ma lo sviluppo e la generalizzazione dei procedimenti disciplinari hanno costituito l'altro versante, oscuro, di quei processi. La forma giuridica generale che garantiva un sistema di diritti uguali in linea di principio, era sottesa da meccanismi minuziosi, quotidiani, fisici, da tutti quei sistemi di micropotere, essenzialmente inegalitari e dissimmetrici, costituiti dalle discipline" (77).

Meccanismi improntati ad una sostanziale discriminazione, come in ogni sistema penale in cui si fornisca una sostanza "ontologica" alla devianza, preventivamente individuabile (indipendentemente dal suo manifestarsi) in un carattere "immorale", "vizioso", "barbaro", "sovversivo", "anormale", "pericoloso", del soggetto preso in carico dal meccanismo di controllo.

Una considerazione complessiva del sotto-sistema penale di polizia in epoca liberale evidenzia il suo ruolo nei meccanismi di controllo sociale: sanzionando le irregolarità nella condotta di vita esso si fece espressione di una regolarità, strumento di conservazione di un ordine essenzialmente borghese, preservandolo da ogni sorta di attacco, fosse esso un attacco esplicito - di natura quindi politica - o implicito - insito nelle non regolari e laboriose condotte di vita di tanti soggetti ai margini della società.

Sinteticamente sono così riassumibili le funzioni assunte dal sotto-sistema poliziesco: severa protezione della proprietà privata; disciplinamento dei ceti più poveri; repressione del dissenso politico radicale (78).

3.3: Il controllo sociale nell'Italia liberale

Il sistema poliziesco, dunque, prese in carico e contribuì a disciplinare quella particolare categoria di soggetti costituita dalle persone a vario titolo ritenute pericolose, sufficientemente diverse da non meritare le libertà e le garanzie sancite dallo statuto (come lasciava intendere il ministro Galgagno già nel 1851.)

Ma da chi era composto quest'insieme d'individui in grado di attentare all'ordine, di minacciare seriamente i diritti della "civile" società? Quale cancerosa popolazione si celava dietro i termini "ozioso" e "vagabondo", o "diffamato" e "sospetto", tale da rappresentare, agli occhi di Galgagno, un valido motivo per la richiesta di fornire poteri eccezionali al governo, onde estirpare la mala pianta?

Sull'onda dei profondi sconvolgimenti sociali che l'Europa conobbe nel corso del XIX secolo si affacciava, come accennammo all'inizio del lavoro, sulla scena politica un nuovo soggetto, costituito dalla massa d'individui che subirono sulla propria pelle il passaggio al nuovo sistema di produzione, ritrovandosi "proletarizzati", cioè privati delle antiche possibilità di sussistenza e costretti a vendere la propria forza lavoro come meri salariati. Queste masse, che sino alla Rivoluzione Francese avevano in un certo senso subito l'opera dei governi e le scelte politiche, senza potervi mai incidere, si apprestavano adesso ad acquisire una maggiore coscienza della propria condizione; "il grande risveglio della Rivoluzione francese aveva insegnato che il popolo non deve limitarsi a sopportare docilmente le ingiustizie" (79), aveva insegnato che questo è in grado di farsi protagonista attivo della storia arrivando a sovvertire regimi.

Il crollo del regime feudale, sbloccando le forze sociali, diede avvio ad uno sviluppo della produzione sino ad allora sconosciuto nel mondo occidentale. Le due rivoluzioni industriali (delle quali, la seconda coinvolse direttamente anche l'Italia) ed il nuovo regime della proprietà agraria mutarono radicalmente le condizioni di vita per una gran massa d'individui e posero le basi, sin dall'avvio di questo processo, di quella che sarebbe diventata la "questione sociale".

Come segnala Michel Foucault (80), anche le esigenze di controllo sociale mutarono di pari passo con questi processi: i nuovi diritti borghesi esigevano, infatti, di essere protetti da quell'enorme massa di individui che, da un lato - nelle campagne - perdevano le possibilità di sussistenza assicurate in passato da secoli di tolleranza nei confronti di pratiche illegali o cristallizzatesi, addirittura, in veri e propri diritti d'uso, avviando un esodo di proporzioni inaudite; dall'altro si andavano ammassando, a seguito di imponenti migrazioni interne (dalla campagna verso le città) negli agglomerati urbani, attratti dallo sviluppo della manifattura prima e dell'industria poi, provvisti di un'unica ricchezza: la loro capacità lavorativa.

Vi era, insomma, il pericolo di "un nuovo illegalismo popolare" (81) e tale pericolo si concretizzava immediatamente in tutta una serie di comportamenti in un certo senso considerabili una reazione al nuovo ordine giuridico e sociale: "è proprio contro il nuovo regime della proprietà fondiaria (...) che si è sviluppato un il legalismo contadino (...); è contro il nuovo regime dello sfruttamento legale del lavoro che si sviluppano gli il legalismi operai dell'inizio del secolo XIX" (82).

La resistenza opposta al nuovo ordine si è quindi espressa attraverso varie forme d'illegalismo: dagli episodi isolati alle forme di vero e proprio "brigantaggio politico" nelle campagne, al "vagabondaggio operaio" (83), cioè il rifiuto degli orari e della disciplina di fabbrica da parte di quanti preferivano (o erano costretti ad) una vita "alla giornata", incrociando, occasionalmente, delinquenza comune e sovversione.

In Italia tali problemi esplosero in tutta la loro drammaticità nella seconda metà del XIX secolo, quando, con l'unità, il nostro paese si inserì progressivamente nel novero dei paesi industrializzati, accelerando il passaggio alle nuove forme di produzione.

Da subito però, particolarmente drammatica risultò la situazione nelle zone rurali, ove il processo di eversione dalla feudalità stava lentamente sostituendo, come sappiamo, al vecchio feudatario il proprietario unico. In Italia il processo si svolse senza che l'antico ceto "baronale" scomparisse a favore di una proprietà fondiaria più frazionata, l'antica aristocrazia terriera riuscì infatti a conservare sotto forma di proprietà le terre su cui anticamente esercitava i diritti feudali. Tale processo creò progressivamente una borghesia agraria che, al pari della vecchia aristocrazia terriera, fu, soprattutto nel Mezzogiorno, prevalentemente intenta al parassitario sfruttamento della rendita fondiaria. Galantuomini vecchi e nuovi riuscirono lungo il corso del XIX secolo ad accaparrarsi le terre demaniali ed i possedimenti ecclesiastici, aggravando in maniera rilevante le condizioni delle plebi contadine (costituenti il 90% della popolazione meridionale) "che videro recintate le nuove proprietà e soppressi gli usi civici, vale a dire tutti i secolari diritti d'uso, quali far pascolare le pecore, il raccogliere legna o erba (diritti di pascolo, legnatico, erbatico)" (84). Il processo di accaparramento delle terre nelle mani di una sempre più influente borghesia agraria non si arrestò nemmenocon il sorgere del Regno d'Italia, che quasi subito si apprestò (anche per far fronte ad esigenze di bilancio) alla liquidazione delle terre ulteriormente espropriate alla chiesa (c.d. Asse ecclesiastico). Non vi fu infatti alcuna concreta possibilità per i contadini meridionali di acquisire una qualche proprietà fondiaria, che al contrario continuò ad accumularsi nelle mani della solita borghesia agraria. La quale, assunto il completo controllo delle amministrazioni locali, provvide ad accaparrarsi anche ciò che restava del demanio e delle terre comunali.

Come segnalava un cronista del tempo (era il 1898 e la "questione meridionale" era da tempo esplosa in tutta la sua drammaticità), E. Ciccotti: "il nuovo feudatario si chiama sindaco, la sua corte si chiama giunta municipale, i suoi bravi si chiamano consiglieri, guardie campestri e così via" (85).

Il persistere di una struttura sociale ancora sostanzialmente feudale (la feudalità era scomparsa semplicemente sulla carta, persisteva infatti sotto forma di latifondo!) creò una situazione sociale a dir poco esplosiva che impose un deciso potenziamento del controllo poliziesco nei confronti della massa d'individui che s'aggirava, nullatenente, per le campagne, esplodendo, di tanto in tanto, in violente e sanguinose rivolte.

Se, da un lato, certamente drammatica era la situazione delle campagne italiane (86), dall'altro altrettanto urgente era l'esigenza di governare le città, di organizzare l'enorme afflusso di persone, da informe e brulicante massa qual'era, in una nuova entità: una forza lavoro disciplinata (87).

Le classi dirigenti che avevano condotto il processo di unificazione nazionale (88) presero coscienza da subito della necessità di conoscere la realtà del nuovo regno per poter pianificare al meglio le strategie di governo, sorse infatti quasi immediatamente un Ufficio centrale di statistica e prolificarono immediatamente le inchieste sulla situazione economico sociale del paese. Del resto il ventennio tra il 1860 ed il 1880 avrebbe posto le classi dirigenti italiane di fronte alla necessità di affrontare con una certa programmazione la «questione sociale» e di prevenire il diffondersi di una nuova, pericolosissima, malattia fra i ceti popolari: il socialismo. Già nel 1878, Pasquale Villari, nelle sue Lettere meridionali, scriveva a proposito della necessità di "sollevare le classi inferiori, che in alcune province d'Italia stanno in una condizione vergognosa per un popolo civile" sottolineando come questo fosse ormai "divenuto un dovere supremo nell'interesse dei ricchi e dei poveri (...) fra poco potremmo veder sorgere pericoli a cui nessuno pensa...Dobbiamo pensarci noi prima che ci pensino le moltitudini" (89).

Le elite dirigenti non esageravano nel ritenere prossima la diffusione di quelle idee nuove, lo "spettro" del comunismo che Marx vedeva aggirarsi per l'Europa produceva già nel 1870 l'esperienza della Comune parigina, vicenda che ebbe una certa risonanza anche in Italia. Tuttavia ci sarebbe voluto ancora qualche tempo affinché le masse urbane e rurali italiane sposassero le nuove idee abbandonando le tradizionali forme di ribellione pre-moderne e pre-politiche.

Nelle città, peraltro, il passaggio da forme di ribellione (pre-politiche) individuale (sotto forma di delitti comuni) o collettive (sotto forma di quelle rivolte urbane che, dal XVI al XIX secolo, spesso conobbero i principali centri urbani europei) - che caratterizzavano il modo di reagire al pauperismo ed alla precarietà dell'esistenza negli agglomerati urbani preindustriali ed industriali (90) - si è avuto con un certo anticipo rispetto alle campagne, dove il brigantaggio (che era l'equivalente rurale delle forme di ribellione cittadine) anche quando si espresse in forma particolarmente diffusa (fino ad assurgere al rango di vera e propria rivolta contadina - come nelle province meridionali all'indomani dell'unità) mantenne sempre un carattere tutto sommato pre-politico (91).

Se infatti l'organizzazione di un movimento operaio e bracciantile agricolo elimina quel carattere spontaneo e disorganizzato che è forse anche la causa del destino fallimentare cui furono sempre condannati tali reazioni di massa (ovviamente nel caso in cui la ribellione si esprima sotto forme individuali, slegate le une dalle altre, essa viene automaticamente interpretata quale mera manifestazione di criminalità, agevolando notevolmente la costruzione di stereotipi che annullano in tutto e per tutto il significato politico-sociale di certi comportamenti), a ciò si arrivò prima nelle città e nelle campagne del nord Italia, dove già a partire dal 1880 si davano le prime organizzazioni dei lavoratori e la maggiore facilità nelle comunicazioni (a dispetto dell'isolato - sia geograficamente che a causa dell'analfabetismo diffuso - meridione) favoriva il diffondersi delle idee nuove (si ricordi che la prima traduzione completa de Il Capitale è del 1886, mentre Il Manifesto esce in Italia per la prima volta nel 1888) (92). Il meridione dovette invece attendere il 1890 ed il movimento dei fasci siciliani per avere le prime organizzazioni di lavoratori ben strutturate ed organizzate (93).

La criminalità dei ceti marginali (o le forme di ribellione di massa che spesso si scatenavano) si inseriva quindi in un orizzonte ben preciso, si poneva come un aspetto stesso del ben più generale problema delle condizioni di vita delle masse e della loro pretesa di partecipare più attivamente alla vita politica delle nazioni, di rendersi arbitri dei loro destini. Il tutto creava un insieme indistinto in cui non era facile discernere le rivendicazioni politiche dalla delinquenza tout court.

In questa complessa fase storica si colloca la grande paura delle masse ed il porsi degli il legalismi popolari sul piano più generale della questione sociale (anche se nella prima metà del XIX è ancora azzardato parlare di una cosciente lotta di classe) ha fatto si che, "malgrado la dispersione, essi siano stati sufficientemente precisi da servire come supporto alla grande paura nei confronti di una plebe che si ritiene barbara, immorale e fuori legge" (94).

Si capisce quale importanza potesse assumere agli occhi delle elite del tempo (si pensi all'Italia, che vide sin dal 1860 esplodere il brigantaggio e conobbe decenni di aspro conflitto sociale) la questione di improntare validi strumenti di controllo sociale. La storia del controllo sociale in questa delicata fase è la storia dell'assestarsi in Italia di quell'insieme complesso di meccanismi tesi al disciplinamento della classe lavoratrice ed alla normalizzazione delle condotte delle masse neo-proletarizzate (95). Meccanismi che, nell'insieme, verranno a cristallizzare definitivamente quella che Foucault ha definito "società disciplinare"...Il sofisticato strumento di controllo sociale delle società capitalistiche.

All'indomani dell'unità - prima con le destre, la cui politica economico-finanziaria fu sciagurata per il mezzogiorno, e poi con le sinistre - quelle che abbiamo segnalato come inadeguatezze ed errori di prospettiva del Partito d'Azione si risolsero in una definitiva chiusura da parte della classe dirigente di fronte alle aspettative delle classi sociali emergenti e nel definitivo strutturarsi del c.d. blocco industriale-agrario, sulla cui base s'imperniò tutta la politica italiana ed ai cui interessi venne piegata l'intera azione di governo (96).

In questa fase storica (1860-1914) le strategie di controllo sociale oscillano, a seconda dei momenti di maggiore o minore crisi sociale, fra quelli che abbiamo identificato come i "due poli" dei meccanismi disciplinari: integrazione-neutralizzazione.

Le strategie del primo tipo, che puntano sull'integrazione all'interno dell'ordine sociale di masse più o meno ampie di individui (sicuramente più complesse da realizzare) e che potremmo, con terminologia gramsciana, definire polo "educativo" delle strategie di controllo sociale, furono di centrale importanza anche perché l'unità consegnò alle classi dirigenti un paese culturalmente e linguisticamente tutt'altro che omogeneo (eccezion fatta per le ristrette elite intellettuali). Su questo terreno, inoltre, si combatté un'aspra battaglia per sottrarre alle strutture ecclesiastiche la loro secolare egemonia nell'educazione di base delle masse.

Fondamentale fu a riguardo la capacità di creare un ceto "intellettuale" medio in grado di sottrarre quest'importante funzione alle parrocchie, che tendevano una fittissima rete su tutto il territorio italiano. La creazione di una piccola borghesia intellettuale (che andò a ricoprire i ruoli impiegatizi di medio/basso livello) venne ad inserire fra le classi proprietarie e le masse operaie e bracciantili una "classe cuscinetto" in grado di socializzare all'ordine esistente i ceti più svantaggiati (97), assumendo così un'importantissima funzione «moralizzatrice».

Questo tipo d'intellettuale non agisce propriamente sul terreno della società civile, poiché è un funzionario statale ed è inserito in una rigida struttura burocratica, ma - anche se non ha la capacità, che hanno altre figure intellettuali, di mobilitare le forze sociali "facendo opinione", costruendo cioè un "consenso" attorno a questioni dalla portata tanto generale quanto specifica - il tipo d'intellettuale rappresentato dal funzionario pubblico ha comunque l'esigenza di giustificare e razionalizzare l'ordine sociale che i poteri (eventualmente anche esplicitamente coercitivi) attribuitigli in ragione del suo rapporto con l'amministrazione pubblica contribuiscono a strutturare.

In ogni caso anche la tendenza al moderato riformismo e l'apertura verso forme di politica sociale non più esclusivamente delegate agli strumenti penali e polizieschi (che in ogni caso fu sempre calato dall'alto) che connotò i governi succedutisi alla guida del Regno dal 1900 in poi (la c.d. fase "giolittiana") ed il parziale riconoscimento delle associazioni dei lavoratori (riconoscimento da cui furono tuttavia escluse le analoghe organizzazioni meridionali), può essere letta come strategia volta all'integrazione nel gioco politico delle forze sociali emergenti, in modo da neutralizzarne le spinte più apertamente rivoluzionarie (98).

Tuttavia anche in questa fase in cui la classe dirigente sembrò aprirsi maggiormente di fronte alle rivendicazioni popolari (anche perché a seguito delle riforme elettorali la loro rappresentanza in parlamento andava progressivamente aumentando) le strategie "integrative" furono costantemente accompagnate dal ricorso a mezzi schiettamente neutralizzativi (il polo "repressivo" degli strumenti di controllo sociale, anche se, come vedremo più nello specifico, l'utilizzo della mera forza non è slegata dalla costruzione di una complessa egemonia politico-culturale che sappia razionalizzare quelli che - soprattutto in un ordinamento fondato su dei principi costituzionali d'impronta liberale - potrebbero apparire interventi arbitrari) rappresentati dall'arsenale poliziesco di cui, come visto, sin dall'inizio si dotò il Regno e culminanti, in casi di estrema necessità, nella proclamazione degli stati d'assedio e nella totale sospensione delle garanzie statutarie.

Se ciò è vero per tutta la seconda metà del XIX secolo - che si chiuse peraltro con l'ennesima proclamazione di stati d'assedio e la repressione in un bagno di sangue delle proteste popolari; cui fece seguito un tentativo di colpo di mano ad opera dei settori più retrivi della borghesia italiana degnamente rappresentati nel ministero Pelloux (99) - in cui più esplicito fu il ricorso alle misure di polizia, non si può certo asserire che, con il tentativo di svolta in senso moderatamente democratico avviato da Giolitti a partire dal 1900, l'importanza dello strumentario di polizia nelle strategie di controllo sociale diminuì. A prescindere dal fatto, già segnalato, che il riformismo di giolittiano non si estese al sud - dove ai problemi sollevati dalle masse bracciantili si continuò a rispondere con strategie meramente poliziesche - si può affermare che, da sempre, nel complesso disciplinare i meccanismi neutralizzativi si pongono all'estremo di una scala progressiva che va dalle strategie puramente integrative fino al carcere, cui sono destinati gli individui ritenuti inassimilabili - rispetto ai quali meccanismi di normalizzazione più soft non vengono tentati o si rivelano fallimentari.

In ogni caso, come vedremo, tanto le strategie più soft (votate all'integrazione-educazione), quanto le strategie più hard (votate alla neutralizzazione-repressione) si appoggiano su saperi più o meno complessi e formalizzati; sull'idea, in breve, che esistano delle classi d'individui che, a causa delle loro particolari condizioni (morali, biologiche, psicologiche, sociali), rappresentano un pericolo per l'ordine sociale, una minaccia da eliminare.

A riguardo le strategie che puntano sull'integrazione implicano certamente un dispendio di risorse maggiore, essendo in un certo senso strategie a lungo termine, esse tendono inoltre ad essere utilizzate o auspicate in fasi del ciclo economico in cui esistono ampie possibilità di assorbire mano d'opera da parte del sistema produttivo. Inoltre, secondo l'ormai classica interpretazione di G. Rusche e O. Kirchheimer (100), in coincidenza con un miglioramento complessivo del livello di vita anche il livello di afflittività penale può essere corrispondentemente deflezionato, senza pericolo per l'efficacia deterrente del sistema. Viceversa, le strategie neutralizzative, agendo a breve termine, rappresentano sicuramente dei meccanismi meno dispendiosi ed, essendo affidati prevalentemente agli organismi di pubblica sicurezza, anche immediatamente più efficaci. Inoltre, tendenzialmente paiono entrare in campo allorché le possibilità di assorbire nel ciclo produttivo la popolazione in eccedenza diminuiscono, cosicché questa tende ad essere controllata attraverso una serie di misure tese ad annullare i costi sociali della contingenza economica. D'altro canto, in fasi in cui il livello di vita subisce un significativo abbassamento, l'efficacia deterrente dell'intervento penale rischia di perdersi se al mutamento strutturale non fa seguito un aumento dell'afflittività della sanzione penale.

Tali ipotesi teoriche trovano del resto in una precisa rispondenza nei tassi di carcerizzazione che presentava l'Italia post unitaria: fra i più elevati d'Europa sul finire del XIX sec. (101), scemeranno lentamente e progressivamente nel corso del primo ventennio del XX sec., quando (senza peraltro dimenticare il ruolo dell'emigrazione di massa nell'alleggerire il peso demografico delle popolazioni contadine) si aprirà la fase di moderato riformismo dell'epoca giolittiana ed il decollo industriale del sistema economico italiano (102).

Il rapporto esistente fra le oscillazioni nell'andamento del sistema economico ed il ricorso ad uno dei "poli" disciplinari piuttosto che all'altro, è mediato dall'influenza di complessi fattori culturali che contribuiscono a determinare l'universo simbolico in cui determinati problemi sociali vengono inquadrati e dibattuti dall'opinione pubblica.

Infatti è più la percezione che i settori egemonici della società, e quindi in grado di dirigere i processi di controllo sociale, hanno di determinati problemi, piuttosto che la loro effettiva consistenza, a determinare la strategia adottata. Come siamo andati sostenendo sin dall'inizio del nostro lavoro, è sempre un complesso intreccio di rapporti fra la struttura economica e la soprastruttura culturale a determinare gli indirizzi di controllo sociale (103). Così, come cercheremo di dimostrare, fu soprattutto l'immagine che le elite egemoni offrirono delle masse popolari a determinare il deciso ricorso agli strumenti polizieschi ed alla dura repressione, impedendo di leggere correttamente il messaggio che comportamenti come il brigantaggio o le rivolte urbane, ancora in maniera confusa e pre-politica, esprimevano.

In questa chiave vanno lette le strategie di risposta che lo Stato liberale adottò rispetto a fenomeni come il brigantaggio nelle province meridionali, o le oscillazioni della risposta istituzionale che si ebbero fra la fase crispina e giolittiana (e ancora, nello stesso periodo giolittiano, rispetto alle proteste dei braccianti meridionali e quelle di operai e braccianti settentrionali) (104).

La realtà che esprimevano questi complessi fenomeni sociali venne costruita dalle elite dirigenti ora come sintomo di una barbarie cui rispondere con strategie poliziesche (ed a tale costruzione concettuale un decisivo apporto, come vedremo, diede la cultura positivista), ora come problematiche rispetto alle quali sarebbe stato opportuno aprirsi in vista di un certo riformismo (anche se sostanzialmente calato dall'alto e pensato, più che per dare effettiva soluzione alle aspirazioni delle masse, onde evitare l'inasprirsi dei conflitti sociali), innovando le politiche sociali.

Analizzeremo adesso la complessa costruzione concettuale attraverso la quale per tutto il periodo liberale gli interventi polizieschi furono razionalizzati e giustificati agli occhi dell'opinione pubblica, costruzione in cui ritroveremo quella che abbiamo chiamato immagine sociale dominante della criminalità. Lo stereotipo criminale cui sempre si appoggiano i sistemi penali improntati ad un paradigma "sostanzialista" e "selettivamente" orientati nella loro azione concreta al governo delle «classi pericolose».

3.4: Le «classi pericolose» per la società

Per tutto il XIX secolo le masse si offrono agli occhi della borghesia e delle elite dirigenti sotto un particolare angolo di visuale: affamate dalla miseria, dilaniate dalle malattie, pericolosamente proclivi alla sedizione, ridotte dalle loro stesse elementari esigenze allo stato selvaggio ed alla depravazione morale, "selvaggi lo sono i lavoratori per la precarietà della loro esistenza, «principale caratteristica che rende il povero simile al selvaggio. La vita del ploretariato dell'industria, come quella del selvaggio, è alla mercé del caso e dei capricci della sorte: oggi buona caccia e salario, domani niente preda e disoccupazione, oggi abbondanza domani carestia»" (105).

Queste parole, spese avendo riguardo alla Parigi di inizio ottocento, esprimono il sentimento di coloro che vedevano una città in continua e vertiginosa espansione demografica, quasi fosse cinta d'assedio da una popolazione nemica, diversa. L'opera di L. Chevalier ci ha infatti descritto una città in pieno "terremoto" sociale: "l'incremento demografico di Parigi durante la prima metà del XIX secolo è il fatto più importante della storia sociale della capitale, in primo luogo per il ritmo assunto da quest'aumento, e secondariamente per il mutamento delle caratteristiche demografiche della popolazione: sovrappopolazione da un lato, popolazione nuova dall'altro" (106). Ovviamente fenomeni dalla simile portata non sfuggono alla percezione dei contemporanei e si riflettono nella visione che essi ne esprimono, la descrizione delle classi popolari parigine si tinge, infatti, di tratti quasi razziali: "questi immigrati, estranei al costume e alle leggi della comunità, sono sempre più miserabili, barbari, selvaggi e nomadi" (107).

È ben viva quindi nella borghesia parigina l'immagine di una "popolazione fluttuante", nomade, una "gran massa umana che, superando costantemente le sue possibilità occupazionali, viene accantonata come materiale di riserva". Esercito di vagabondi e cenciaioli. Armata del disordine. "È fra questa popolazione, molto più numerosa di quanto non si creda, che si reclutano i poveri, questi pericolosi nemici della nostra civiltà" scriveva Buret, interpretando probabilmente un'opinione diffusa al tempo.

Le classi popolari parigine sono costantemente descritte attraverso i connotati della loro diversità, diversità sociale, economica, biologica (di fronte alla malattia): ad una passeggiata nei quartieri popolari, scrive ancora Buret, "la miseria vi si presenterà sotto un così orrido aspetto da ispirarvi più disgusto che pietà, e da indurvi a considerarla come il meritato castigo di un delitto".

Ma è diversità anche morale: la miseria induce al vizio ed al degrado, "per il selvaggio, una sbornia è la suprema felicità; per il miserabile delle grandi città è una passione invincibile, un piacere cui è incapace di rinunciare e a cui è pronto a sacrificare tutto, anche la salute e la vita" (108).

Tutte queste considerazioni ben corrispondono al sintetico schema con cui avevamo riassunto quella che era - nel XIX secolo - l'opinione borghese rispetto alla miseria: mobilità, promiscuità, indipendenza, ignoranza ed insubordinazione. Tali caratteristiche hanno reso il pauperismo agli occhi delle elite dominanti quanto di più minaccioso potesse esistere per l'ordine sociale, tanto da sottoporlo, come visto, ad una severa repressione. La povertà e la miseria delle masse brulicanti che affollavano i grandi agglomerati urbani, così come l'indigenza in cui versava il ceto bracciantile, erano nella coscienza borghese il sintomo di una profonda degenerazione morale del popolo e l'archetipo del disordine sociale.

È certo però che a suscitare simili inquietudini nelle coscienze borghesi non fossero semplicemente i mendicanti veri e propri, del resto l'esplosione demografica di molte città europee nel XIX non fu esclusivamente alimentata da un flusso di accattoni e cenciaioli, bensì, come è evidente, da ingenti spostamenti di manodopera che partivano dalle campagne per cercare migliori condizioni di vita in città. Si trattava quindi di una massa di lavoratori spesso in condizioni di vita precarie, senza un'occupazione fissa, costretti a vivere di espedienti, cui ovviamente si univa un esercito di vagabondi e disoccupati.

Non è quindi facile in questa fase distinguere - nella coscienza borghese - le nuove classi lavoratrici che affollano, sempre in misura maggiore, Parigi (come tutte le città europee), dalle classi pericolose. L'insieme forma un tutto indistinto, con continui scambi fra una categoria e l'altra. Entrambe le categorie sono inoltre accomunate dalla loro diversità morale e sociale, dagli identici impellenti bisogni (la sussistenza) e dalla rivolta, che le vede protagoniste l'una affianco all'altra (109).

Non è un caso se un autore del tempo, D. Stern, scrisse della crisi del 1848 asserendo che dipese "dall'eccessivo aumento di un ampio settore delle classi popolari, che, per una serie di circostanze in certo senso inevitabili, aveva finito col dar vita ad una classe separata, quasi una nazione nella nazione, e che la gente aveva preso ad indicare con un nome nuovo: il proletariato industriale" (110).

In questa fase il termine «proletariato» non ha ancora il significato attuale, non si riferisce cioè ad una categoria di soggetti accomunati, oltre che dalla condizione socio economica, dalla precisa coscienza del loro status e dal perseguimento di una comune strategia politica. Esso è piuttosto intriso di connotazioni semantiche che rimandano alla condizione di un nomade, di un barbaro, di un selvaggio, più che ad una caratteristica professionale, economica o politica. Lo stesso Fregier, attento osservatore della fenomenologia umana dei bassifondi parigini e padre della nozione di classi pericolose, chiamerà infatti «proletari» il vagabondo ed il cenciaiolo, inserendoli nella categoria delle classi pericolose per la società.

Indipendentemente dalle vicende semantiche del termine «proletario» (che pure avrà un gran destino) è interessante notare come, nelle descrizioni borghesi, si faccia in ogni caso riferimento ad una popolazione nomade e instabile, indicando in questa «plebaglia» la responsabile dei disordini del 48: "è la plebaglia, e non il popolo, che noi vogliamo eliminare; questa plebaglia eterogenea questo branco di cui s'ignora la famiglia e il domicilio, così instabili da essere inafferrabili e incapaci di creare un ricovero decente per le loro famiglie. È questa plebaglia che la legge si propone di espellere" (111).

Vi è in sostanza un inscindibile legame tra flussi di manodopera in movimento dalla campagna verso la città, sviluppo capitalistico e controllo disciplinare. Le esigenze di controllo sociale che assillavano le moderne città industriali erano appunto quelle implicate dalla necessità di governare e gestire tale enorme processo di «accumulazione degli uomini». Un'esigenza che si espresse nell'impellente necessità di "conoscere" quest'universo umano che affollava i quartieri popolari e si concretizzò, su di un piano - per così dire - teorico, in opere come quelle di Buret o Fregier e, su di un piano pratico, nella nascita di tutta una serie di strumenti per schedare e controllare con più precisione le classi pericolose e, più in generale, tutta la classe lavoratrice: casellario penale, schedari di polizia, ma anche obbligo di "consegna dei dipendenti" a carico dei datori di lavoro e degli "inquilini" a carico dei locatori (112).

Le città italiane conobbero fenomeni analoghi e le elite dirigenti furono pervase dalla stessa paura nei confronti delle "classi criminali" ed ovviamente nei loro confronti si cercarono da subito gli strumenti di contrasto idonei. I provvedimenti di polizia che abbiamo descritto nel loro evolversi riprodussero, in un ordinamento costituzionale, norme dal contenuto sostanzialmente discriminatorio pensate per soggetti che si vedevano assolutamente "diversi". A riguardo le remore e le obiezioni di natura liberale furono superate - come visto - sulla base di fruste esigenze di difesa sociale.

La minaccia che rappresentavano tali soggetti risiedeva nella loro intrinseca immoralità - di soggetti induriti nel vizio parlava Galgagno - nell'incapacità di condurre un'esistenza stabile, regolare e onesta. Le classi subalterne furono immediatamente sottoposte ad uno stretto controllo di polizia in grado di assicurarne il governo nel persistere delle loro condizioni sociali svantaggiate.

Abbiamo del resto già visto la stringente legislazione sugli oziosi e vagabondi, che colpiva chi non avesse una stabile dimora o un lavoro; le fattispecie di sospetto sui ladri di campagna; la minuziosa normativa rivolta agli operai che fino al 1865 saranno soggetti all'obbligo di libretto, disciplina che determinava una loro totale dipendenza dai datori di lavoro e dalla polizia; le ampie categorie di sospetto, nonché gli ampi poteri di schedatura attribuiti all'Autorità di Pubblica Sicurezza; un ampio florilegio di strumenti di controllo sulle classi popolari che ben si adattava al governo di soggetti nei cui confronti le elite dirigenti nutrivano un atteggiamento profondamente paternalistico.

Un'opera di moralizzazione avrebbe dovuto investire tali popolazioni di barbari! Ed, a tal fine, un ruolo fondamentale assunse l'opera dei funzionari di Pubblica Sicurezza cui fu, come visto, affidato il compito di controllare strettamente - e sotto ogni profilo - la vita delle classi popolari.

Quest'istituzione, di cui abbiamo già segnalato l'ampio ventaglio di attribuzioni, si pone infatti come punto di congiunzione fra il polo "educativo" ed il polo "repressivo" degli strumenti di controllo sociale, nodo cruciale nei meccanismi disciplinari. Nell'Italia liberale, peraltro, la tendenza all'accentramento delle funzioni di governo diede ancora maggiore rilevanza a un'istituzione che, nella figura del Prefetto, rappresentò lo strumento attraverso cui si riuscì a realizzare una capillare diramazione delle funzioni esecutive su tutto il territorio dello Stato (113).

Per le popolazioni appena annesse i funzionari di Pubblica Sicurezza (insieme ai maestri elementari ed agli esattori delle tasse) spesso rappresentarono l'unico contatto con il nuovo Stato, si capisce, pertanto, quale importanza essi potessero avere nell'effettivo funzionamento dei meccanismi di controllo sociale: al pari dei maestri di scuola, essi vennero a costituire parte rilevante di quella "classe cuscinetto" fondamentale per il mantenimento di un ordine sociale pesantemente polarizzato a favore di ristrette elite (114). In questo quadro sarebbe centrale capire quale fosse l'opinione che gli alti funzionari di P.S. ebbero circa la loro funzione, anche perché era attraverso di essi che si formavano i quadri inferiori (115).

Si scoprirebbe così che la visione di una polizia che fosse in grado di promuovere anche questa moralizzazione, impedendo dissolutezze e vita irregolare nelle masse popolari, era ben presente ai più alti funzionari di P.S. Afferma infatti il Bolis: "la polizia non è soltanto un'istituzione creata per la tutela dell'ordine e per la persecuzione dei malfattori, ma è una vera magistratura con scopo eminentemente sociale e umanitario, essendo chiamata per la natura delle molteplici sue attribuzioni a proteggere il cittadino, a cooperare al miglioramento dei costumi, a vegliare sulla morale pubblica, a procurare finalmente di ricondurre al sentimento dei propri doveri coloro che ne fossero distolti" (116).

Già accennavamo al fatto che, sin dal suo nascere e svilupparsi come uno degli strumenti più importanti di governo, la polizia prende ad occuparsi di condotte che vengono a costituire quella sfera che abbiamo chiamato dell'«infrapenalità»; una sfera di comportamenti afferenti più all'irregolarità - dovuti a viziose abitudini o a scarsezza intellettuale - che ineluttabilmente conducono al crimine e - nell'opinione borghese - ne costituiscono l'anticamera. Queste parole evidenziano come fosse tutt'altro che assente, nell'opinione dei funzionari di allora, l'idea della sostanza disciplinare e normalizzatrice dell'apparato poliziesco.

La polizia assume, nelle parole e nell'opinione delle classi dirigenti del tempo, la funzione di tutelareun ordine che è insieme giuridico e morale, e ciò non manca di riflettersi sui funzionari di polizia del tempo, che appaiono (al pari della legislazione che sono chiamati ad applicare) "conservatori (...) dell'unità raggiunta, dell'ordine sociale in atto, elitari, nutriti di pessimismo moralistico nei confronti delle masse, che sono emotive, agitate da passioni, e che pertanto hanno bisogno della loro azione benefica" (117).

"Percorrete i luoghi dove si giudica, si imprigiona, si uccide...Ovunque un fatto ci colpisce; ovunque vedete due classi ben distinte di uomini, e di questi gli uni si incontrano sempre sui seggi degli accusatori e dei giudici e gli altri sui banchi dei prevenuti e degli accusati", afferma il grande esperto in scienze penitenziarie Lucas (118), "il che si spiega col fatto che questi ultimi, per difetto di risorse o di educazione, non sanno «rimanere nei limiti della probità legale»" (119).

Gli atteggiamenti pessimistici nei confronti delle masse furono propri di tutta la borghesia del tempo e pertanto non poterono non riguardare anche quelle persone che sedevano sui seggi degli "accusatori o dei giudici" per usare l'espressione di Lucas, anch'essi - com'è ovvio - di estrazione borghese. Una rapida disamina delle relazioni effettuate dai P.M. italiani all'apertura degli anni giudiziari è più che sufficiente a riguardo, quando si trattava di individuare quali fossero le cause della delinquenza il coro era sostanzialmente unanime. Come scrivevano nel 1879 i redattori della Rivista Penale (120): "generalmente si lamenta il difetto di coltura, di moralità, di prosperità, di operosità, di disciplina; e si suggerisce quindi che sia maggiormente diffusa la istruzione non iscompagnata da morale religiosa educazione, che sia sollevata la miseria, favorito lo sviluppo economico..." (121).

Così si fa riferimento ora all'alcolismo (soprattutto per i delitti di sangue, per i quali non manca anche il riferimento all'indole delle popolazioni di alcune province) ora alla miseria ed alla mancanza di lavoro (per quel che riguarda i reati contro il patrimonio (122)) anche se progressivamente viene segnalato quale fattore criminogeno, più che la miseria in sé e per sé, il tentativo di elevare il proprio status sociale...Così si esprimeva a riguardo il p.g. di Ancona: "oh quanti giovani, quanti belli ingegni ho visto sedere sulla scranna dei rei (...) eran giovani di modeste famiglie, i quali anziché seguire le orme dei propri genitori, avevano voluto elevarsi (...) meglio se si fossero accontentati del pane guadagnato col sudore propria fronte nei luoghi nativi e sulle proprie terre" (123).

Si torna poi a fare riferimento al problema della cattiva educazione ed allo scarso rispetto nei confronti delle istituzioni, quando si tratta di spiegare i reati di oltraggio a P.U. Si fa inoltre riferimento alla necessità di una maggiore istruzione, anche se negli anni si diffonde il timore che la stessa istruzione possa ispirare sentimenti sovversivi, "in numerosi casi infatti fra le cause della criminalità viene indicato il diffondersi dell'internazionalismo e delle dottrine che tendono a sovvertire l'ordine costituito e, con particolare successo fra le classi meno abbienti ed istruite, a propugnare l'abolizione della proprietà privata" (124).

Spessissimo si sottolineano poi l'ozio ed il vagabondaggio, "semenzaio di tutti i maggiori reati", e l'assenza di un'ordinata e stabile vita familiare, in cui è visto uno dei più grandi freni al delitto. Sono numerosissimi inoltre gli accenni al ruolo criminogeno del carcere, secondo quella che era una ricorrente critica a quest'istituzione, considerata, a dispetto della sua originaria vocazione emendatrice, una vera e propria scuola di criminalità; ciò ci evidenzia, del resto, come, anche in Italia, fosse ben presente la percezione di quello che Foucault ha chiamato "scacco del carcere".

C'è anche da dire, infine, che non manca chi si esprime in favore di una più severa applicazione del principio della less eligibility: queste parole proferiva nel 1885 il p.g. di S. Maria Capua Vetere (e la sua non era opinione isolata) "quando si pensa alla vita di un operaio costretto a dodici o quindici ore dell'assiduo, monotono, stupefacente lavoro di un grande opificio; quando si pensa alla vita del contadino curvo sulla zolla arsa dal sole di agosto, si può domandare se non debbono loro sembrare assai dolci quei venti o trenta giorni di riposo, con un pane e un tetto sicuro, che rappresentano legalmente la pena, ma che sono in realtà il premio al delitto" (125).

3.4.1: Nasce un nuovo sostanzialismo penale

Tutta la normativa di polizia fu insomma pensata per esigenze di normalizzazione e disciplinamento delle masse neo-proletarizzate ed i problemi e le perplessità che suscitarono questi istituti furono, come detto, neutralizzati con il riferimento all'esigenza di controllare il pericolo che tali individui rappresentavano; con "un'articolata costruzione ideologica la cui finalità pratica era proprio quella di negare l'origine strettamente classista del problema, per imputarla, invece, ad una mancanza o carenza di valori etico-sociali" (126). In questo quadro un passaggio significativo può essere visto in una innovazione avvenuta nel 1876: la nascita dell'istituto della libertà condizionale per il soggetto inviato al domicilio coatto che avesse dato prova di ravvedimento. La novità diede, infatti, linfa alle giustificazioni correnti di queste misure, che sempre maggiori critiche iniziavano a suscitare (127).

La dichiarata finalità emendativo-rieducativa, oltre a rappresentare un'evidente mistificazione (ciò è di tutta evidenza se si pensa a come fossero già evidenti le storture criminogene del sistema carcerario), anticipava un radicale mutamento di clima.

Il nascente positivismo criminologico sarà, infatti, in grado di fornire nuove legittimazioni a tali istituti, i quali, sotto il velo della pretesa avalutatività delle scienze positive, arriveranno a permeare della loro logica preventiva e sostanzialista anche altri settori del sistema penale. "La difesa degli interessi di classe, che (...) ha sempre condizionato la lotta nei confronti del socialmente pericoloso, riuscì in questo modo a giustificarsi e legittimarsi politicamente come lotta al biologicamente pericoloso, frantumando in questo modo l'utopistica concezione illuminista-borghese di una società di uomini uguali" (128), nel passaggio tra la fine del XVIII secolo e la fine del XIX ai residui del sostanzialismo ancien regime che si avevano nella visione della crimine quale espressione di «immoralità» venne sostituito un nuovo - e più efficace - sostanzialismo, che si appoggiò sull'idea che la criminalità fosse espressione di «anomalie» biologiche.

Se, come abbiamo sottolineato, sono presenti accenni nel pensiero illuminista che lasciano presagire lo sviluppo in campo penale di dottrine correzionali, manca completamente - se si eccettua il riferimento a quella sorta di "minorità" che sembra connotare le classi popolari - in questa dottrina alcuna specifica e dettagliata considerazione delle cause del crimine, alla stessa maniera in cui - come si diceva all'inizio di questo lavoro - manca ancora la piena consapevolezza di potere studiare il comportamento umano nelle sue relazioni con la struttura biologica o psichica dell'individuo o con l'ambiente sociale che lo circonda (129).

Non sono ancora nate le scienze umane e sociali nella prima metà del secolo XIX ed il crimine è ancora, in linea di massima, un fatto giuridico, non un fatto umano o sociale; non vi è praticamente alcuna considerazione per le sue cause ed esso è sostanzialmente considerato un'azione cui può essere chiamato a rispondere moralmente - in quanto atto volontario - il suo autore.

L'emergere di un approccio determinista insieme alla nascita delle scienze umane e sociali trasformerà, invece, l'azione in comportamento (130), sostituendo alle valutazioni sulla responsabilità morale del soggetto agente, il riferimento alla responsabilità legale dell'individuo, il quale è chiamato a rispondere del suo status di «pericoloso» (131).

La svolta positivista (132) si ebbe nel 1876, quando Cesare Lombroso pubblicò per la prima volta il suo L'uomo delinquente, opera che bene o male "fece storia" (133). Il fascino che riuscirà ad esercitare l'opera del medico legale sarà dato anche dal clima di entusiasmo «scientista» che, per mezzo di una rozza equiparazione di scienze naturali e scienze umane e sociali, innesterà in Italia, radicando la convinzione che i saperi politico-sociali avrebbero, sull'altare della "scienza positiva", dimesso definitivamente i loro abiti ideologici (134). Il contagio fu rapidissimo, soprattutto nel campo delle scienze criminali sino ad allora esclusivo appannaggio di filosofi e giuristi: appena cinque anni dopo la prima edizione dell'uomo delinquente c'è, infatti, chi propone un radicale rinnovamento della scienza penalistica fondato sui postulati delle nuove scienze "positive" sul crimine (135).

Il rinnovamento culturale che il diffondersi delle idee positiviste determinò in Italia produsse una nuova concettualizzazione della realtà di concrete disuguaglianze che caratterizzavano la società del tempo, una nuova e più efficace obliterazione della dissimmetria di classe: in base al nuovo positivismo criminologico "la diversità (follia, delinquenza, povertà) è quindi l'effetto di una inferiorità storico-biologica - è devianza naturale - come lo stato primitivo o animale" (136).

La prassi invalsa - dovuta al tenace persistere del sostanzialismo penale anche a seguito delle codificazioni borghesi e della svolta illuminista - di servirsi "della politica penale come politica sociale, sacrificando lo strumento tecnico dell'imputazione di responsabilità a scelte di ordine politico-sociale" (137), resa evidente dal complesso sistema di normative di polizia che caratterizzò immediatamente il sistema penale dell'Italia unita, fu, così, scientificamente giustificata aldilà e ben oltre i semplici parametri moralistici: la selettività del sistema penale è ormai interamente iscritta in ragioni di diversità biologica.

La storiografia corrente, come segnalammo, pone tradizionalmente in radicale antitesi fra di loro le due scuole di diritto penale, la (c.d.) "Positiva" e la (c.d.) "Classica", ma, come dimostra ampiamente M. Sbriccoli (138), la bufera dottrinale che si è abbattuta - ad opera di E, Ferri - sull'Italia a partire dal 1881, fu in gran parte dovuta agli aspri toni di una polemicache cadeva nel periodo in cui si stava svolgendo un ampio dibattito scientifico attorno alla questione della riforma del diritto penale (che si avrà, come detto, con il "Codice Zanardelli").

Come abbiamo visto, infatti, l'impostazione preventiva del sistema penale e la categoria della "pericolosità" appartenevano già ad un senso comune piuttosto diffuso tra la gente e gli scienziati. Prova ne sia il fatto che il sistema penale liberale era dotato già da tempo di un ricco strumentario di meccanismi preventivi, polizieschi, che colpivano soggetti ritenuti una minaccia per l'ordine pubblico, appunto: pericolosi (139).

Il clima culturale positivistico fornirà indubbiamente una nuova sostanza al concetto di "pericolosità", il quale, tuttavia, risultava già ben radicato nella nostra pratica penale (sostanza che sarà in un primo momento biologica e, solo successivamente, con l'ulteriore sviluppo delle scienze criminologiche, anche psicologica e sociologica); "non è, dunque, necessario invocare i positivisti ogni volta che appare, sia pure in trasparenza, la pericolosità dei soggetti" (140).

L'indiscutibile novità rintracciabile nella nascita di una "scuola positiva" fu quella di avere teorizzato un esplicito progetto di riforma del diritto penale basato sull'idea dello studio e della classificazione dei criminali, dotato di un arsenale di misure elastiche, in grado di tener conto del livello di pericolosità del soggetto, non limitando il settore della prevenzione ai soli "piani bassi" del sistema.

Tuttavia, a prescindere dal sotto-sistema poliziesco (di cui abbiamo già evidenziato la propensione a prendere in carico la "pericolosità dei soggetti") uno sguardo sullo stesso codice del 1889 ne evidenzierebbe alcuni tratti riconducibili a una matrice positivista (141).

Non è il caso, però, di parlare di istituti "presi" al positivismo quando il codice Zanardelli si mostra attento all'esigenza di "emendare" il condannato (che, peraltro, non è ancora "curare" o "rieducare" (142)); o enuclea un embrione del principio di gradualità nell'esecuzione della pena, offrendo la possibilità, al detenuto che abbia dato prova di buona condotta, di scontare la restante metà della pena outdoor, in stabilimenti penitenziari, agricoli o industriali; o prevede una discreta varietà di pene alternative al carcere; né, tanto meno, quando dà rilevanza alla recidiva, trattandola severamente.

La rilevanza accordata alla recidiva risale, peraltro, molto più indietro nel tempo rispetto all'avvento del positivismo, il quale tuttavia ne fece certamente uno dei suoi concetti cardine (143). Se da un lato è vero che presso alcuni pensatori illuministi essa si trova pesantemente screditata e smascherata nella sua essenza discriminatoria e stigmatizzante, di istituto afferente al canone delle "norme penali costitutive" (144), è altrettanto vero che non è possibile attribuire interamente all'opera dei positivisti la rilevanza attualmente accordata alla condizione di recidivo.

Già la cultura liberale (e le norme che ne furono espressione) dava una discreta rilevanza alla condizione di recidivo ed, a prescindere dal codice penale, abbiamo già segnalato quale importanza avessero nel funzionamento dei meccanismi polizieschi lo status di pregiudicato e, più in generale, l'insieme di schedari di polizia creati nel XIX secolo (145). Non si può pertanto ritenere il concetto di "recidiva" un'invenzione positivista, ma, come nel caso della "pericolosità", essa è da ritenere una categoria concettuale propria di un senso comune abbastanza diffuso socialmente, adottata poi dal discorso positivista.

In definitiva l'autentica novità positivista risiede nella «medicalizzazione» del concetto di pericolosità, il quale esisteva già in uno spazio semantico relativo alla sfera dell'immoralità. Anche se c'è da sottolineare come non mancarono alcuni esponenti del positivismo criminologico di muovere critiche agli istituti polizieschi.

Come segnala F. Gianniti (146), infatti, lo stesso Enrico Ferri - che, nonostante non avesse mai rinnegato certi approcci "antropologici" e "patologizzanti", sembrò per certi versi aprire con la tematica dei «sostitutivi penali» una via autenticamente sociologica e critica nella scienza penale-criminale (147) - definì il domicilio coatto "una specie di tumore maligno". Se Ferri, da un lato, si dimostra parecchio sensibile alle cause sociali di fenomeni quali il vagabondaggio (auspicando che la prevenzione a riguardo si operi attraverso mezzi non penali, rimovendo le determinanti economiche del fenomeno) arrivando fino al punto di affermare che gli istituti di polizia, per la loro natura spesso vessatoria delle libertà individuali, impediscono che il soggetto colpito torni sulla retta via - "i giudici e gli avvocati lo sanno benissimo; e sanno che con questi falsi meccanismi sociali si dà ragione a Tommaso Moro di dire: «che fate voi, se non dei ladri, per avere il gusto di imprigionarli»" (148), dall'altro lato, però, altri esponenti della stessa scuola non mancheranno, come vedremo, di rintracciarele radici biologiche della diversità dei vagabondi e degli oziosi, restringendo la critica delle misure di polizia al fatto che esse non fossero realmente rieducative, ma si limitassero ad uno mero contenimento dei soggetti colpiti dai provvedimenti: "Le norme di vita che s'impongono al vigilato speciale sono le medesime indicate per l'ammonito (...) ora noi crediamo che tutti i vincoli (...) imposti al vigilato siano rigori inutili e dannosi perché spingono, data la loro severità, all'esasperazione chi vi è sottoposto, che sente di non poter evitare, per quanto faccia, di cadere in contravvenzione alla legge (...) si continua su tutti i toni, da tutti i pulpiti a predicare che bisogna riabilitare i condannati e non solo non si fa gran cosa per praticare ed attuare la massima altamente morale, ma si mantengono disposizioni di legge che sembrano fatte apposta per rendere impossibile la redenzione di quanti escono dal carcere avendo scontato il debito con la società (...) quindi urge la istituzione di case di lavoro, di colonie agricole, l'inizio di lavori di bonifiche, di dissodamento e prosciugamento di zone malariche dalle quali opere si possa trarre elemento di sicurezza pei consociati, di educazione e redenzione per i colpiti dalla legge, di utilità per tutti" (149).

Interpretare la "Scuola Positiva" come un tutto coerente è quantomeno complesso. Come altrettanto complesso è separare i loro apporti teorici dal contesto sociale in relazione al quale furono pensati. Lo stesso Enrico Ferri potrà avallare le teorie che un discepolo dei criminologi positivisti, Niceforo, avanzerà per spiegare la particolare conflittualità delle masse contadine meridionali, nonostante fossero in aperta antitesi con le opinioni da lui stesso espresse in relazione agli analoghi episodi di conflittualità manifestatisi nelle campagne padane (150). C'è, infatti una enorme discrepanza fra il giovane avvocato difensore dei braccianti agricoli nel mantovano, che sembra riprodurre nella sua arringa difensiva gli argomenti attraverso cui i giornali operai e popolari Francesi ribattevano alla criminalizzazione delle classi lavoratrici; e l'antropologo che, avallando le idee del giovane discepolo, non esita ad imputare a fattori di inferiorità biologica le analoghe proteste dei braccianti meridionali. Come spiegare se non per mezzo degli opposti sentimenti di vicinanza/lontananza che Enrico Ferri poté nutrire nei confronti delle masse contadine: così lontane, diverse ed incomprensibili la masse meridionali, le cui intemperanze non poterono sembrare altro che frutto di una diversità biologica; cosi prossime, invece, le masse padane, nei cui confronti il Ferri nutre profondi sentimenti di vicinanza, che "è una vicinanza geografica, culturale, politica" (151).

Nella sostanza, però, la "nuova scuola" altro non fece se non sviluppare, sullo slancio della nuova concettualizzazione, istituti che la nostra pratica penale relegava ai piani bassi del sistema, nella normativa di P.S. Sulla solida base rappresentata dalle misure di polizia fioriranno, infatti, gli istituti "correzionali". Criteri per una nuova - "scientifica" - discriminazione degli esseri umani si facevano strada nella cultura occidentale, prendendo il posto degli aspetti maggiormente "elitari" della cultura liberale e borghese e sostanziando con nuovi fondamenti concettuali un'aspirazione pedagogica mai sopita.

3.4.2: La funzione del «romanzo antropologico»

Senza dubbio, quindi, quando si cerca la corrente di pensiero che più influì sulla cultura penalistica, determinando il sorgere di espliciti progetti per riorganizzare l'intero sistema penale, non si può non pensare all'antropologia criminale di Lombroso ed al lavoro di chi ne ha trasposto i postulati sul piano della scienza del diritto penale.

Il pensiero di Cesare Lombroso era tutto centrato sulle idee evoluzioniste di Darwin e sul concetto di atavismo, ed arrivava a spiegare il comportamento criminale sul presupposto che il delinquente fosse un soggetto fermo ad un livello inferiore della scala evolutiva, una specie dei essere sub-umano.

In Lombroso vi è quindi la presunzione, attraverso lo studio dei fattori biologici del crimine, di poter individuare il delinquente nato, presunzione che lo porta ad affermare che molti "dei caratteri che presentano gli uomini selvaggi, le razze colorate, ricorrono spessissimo nei delinquenti nati" (152), anche se il suo rigido biologismo fu messo in crisi ripetutamente dalle critiche che quasi subito gli furono mosse - circostanza che indusse lo stesso Lombroso a rivedere (nelle varie riedizioni della sua opera principale) la sua teoria, aprendo la sua ipotesi eziologia ad altri fattori, quali quelli sociali. Ma ancora più interessante adesso è notare come il positivismo criminologico lombrosiano, sviluppato nei suoi ultimi riferimenti ad altri fattori eziologici (quali quelli psicologici o sociali) fu ripreso e trasposto in una teoria giuridico-penale da E. Ferri (cui - come detto - si deve il nome che venne dato a questa corrente di penalisti "Scuola Positiva") (153).

L'idea fondamentale del delinquente come individuo anormale o addirittura inadatto alla vita sociale, quindi profondamente pericoloso per la società stessa, presente nel pensiero di Lombroso, è qui ripresa, con sfumature eziologiche diverse e come accennato con una maggiore attenzione alle determinanti sociali, ma sostanzialmente confermata. La novità apportata dall'opera di E. Ferri risiede piuttosto nelle specifiche proposte in materia di politica criminale che propugnò, arrivando a progettare un codice penale interamente fondato sul concetto di pericolosità e basato sull'utilizzo di "misure igienico-preventive, terapeutico-repressive, chirurgico-eliminative" (154).

Tornando momentaneamente agli oziosi ed ai vagabondi, sarà interessante notare come si siano sostituite, con l'avvento del positivismo, alle considerazioni sulla diversità morale di questi soggetti, considerazioni sulla loro diversità biologica e naturale. Considerazioni che, peraltro, lo stesso Enrico Ferri non ricusò mai.

In uno scritto del 1915, M. Rèbora (155), imbevuto di cultura (e velleità) positivista, riusciva a distinguere diverse classi di vagabondo ed ozioso: vi erano infatti i vagabondi di città ed i vagabondi di campagna; ma in ogni caso essi, nelle loro varie categorie, "formano un mondo a sé stante (...) un esercito sterminato nel quale le reclute destinate alla delinquenza si addestrano e si preparano al triste cimento".

Tali soggetti sono distinguibili per un'innata incapacità di darsi una stabile dimora, una naturale propensione al vagabondaggio: vagabondi per tendenza (ben distinti peraltro dai vagabondi per necessità). "Il vagabondaggio infatti nel senso più esatto della parola ha origine non tanto da condizioni economiche o sociali che pure hanno la loro importanza, quanto da condizioni ataviche individuali, da forme generative, da predisposizioni somatiche".

Essi, pertanto, "sono per predisposizione organica sulla quale opera l'ambiente, spinti alla mendicità, condotti alla frode, posti, per la loro ripugnanza ad un lavoro organizzato, stabile non di rado nella necessità di ricorrere al delitto: di qui la loro pericolosità". Ma, ancora di più, essi sono legati al mondo della delinquenza perché è carattere tipico dell'"uomo delinquente" "amare l'ozio ed i facili piaceri (...) come c'insegna Lombroso" (156). Per ovviare a queste deficienze organiche non vi sarà che una soluzione: la terapia o l'eliminazione.

Il diritto penale è così definitivamente pensato e preordinato al trattamento della pericolosità dei soggetti, entro certi limiti il reato è una manifestazione contingente di una pericolosità che è altrimenti individuabile in un carattere peculiare dell'autore.

Due brani tratti da alcune fra le opere più rappresentative di questa corrente del pensiero penalista, saranno forse più eloquenti (157): "entrare in uno stabilimento per i condannati, scrive Ferri, produrrà, quando i dati scientifici sulla genesi del delitto saranno diventati comune coscienza, gli stessi sentimenti che sono determinati dalla vista di uno stabilimento di pazzi o di malati comuni"; "è un principio biologico, scrive invece Garofalo, che l'individuo scomparisca quando le sue imperfezioni gli impediscono di sopportare l'azione dell'ambiente. La differenza fra ordine biologico e ordine morale è che la selezione nel primo ha luogo spontaneamente con la morte degli individui disadattati, mentre nel secondo caso l'individuo, essendo fisicamente atto alla vita, e non potendo vivere fuori dell'ambiente sociale a cui pure esso non è adatto, la selezione deve avvenire artificialmente, cioè per opera del potere sociale che operi ciò che nell'ordine biologico è operato dalla natura. Lo scopo dell'eliminazione è la conservazione dell'organismo sociale, con l'estirpazione dei membri disadatti."

Patologia sociale o patologia individuale, classi o individui criminali, il discorso sul problema del delitto è così definitivamente espropriato alla filosofia ed alla teoria giuridica. Le varie antropologie, psicologie o sociologie criminali sorte dall'entusiasmo positivista da questo momento in poi permeeranno dei loro postulati la pratica penale.

"Scuola positiva" in Italia, "Programma di Maburgo" in Germania, "New penology" negli Stati Uniti (158), sistematizzano definitivamente, arrivando a tracciare le linee di una precisa politica criminale, quegli elementi che avevamo già individuato in embrione nel pensiero illuminista e concretizzati nella pratica penale e poliziesca dell'Italia liberale, auspicando una completa riconversione del sistema penale su un paradigma che abbia riguardo maggiormente all'autore dell'atto criminale, piuttosto che all'atto in sé considerato.

Tuttavia - a prescindere dalla definitiva torsione "sostanzialista" data ai sistemi penali - ai fini del nostro discorso, è interessante rilevare come l'avvento di un positivismo criminologico abbia dato nuova linfa agli stereotipi attraverso cui veniva giustificata la selettività dei sistemi penali borghesi, consentendogli di svolgere con un consenso tutto sommato diffuso, la loro classica funzione di governo e disciplinamento delle classi subalterne.

Abbiamo segnalato in generale quale sia il ruolo degli stereotipi criminali nell'esercizio e nel mantenimento del potere e come questi abbiano svolto un ruolo fondamentale nella struttura di classe delle società capitalistiche occidentali, il discorso vale a maggior ragione per il periodo storico che stiamo prendendo in considerazione: in cui - per concentrarsi sul caso italiano - al definitivo strutturasi di un sistema di produzione capitalista, si accompagna un ampio ricorso allo strumento poliziesco (oltre che il sorgere dei primi stereotipi criminali fondati su una pretesa scientificità, frutto di complesse costruzioni teoretiche).

Lo stereotipo criminale ottocentesco non può essere considerato il riflesso concettuale di una realtà in cui fosse effettivamente possibile distinguere classi pericolose e classi laboriose. Esso è piuttosto il risultato della visione parziale, ideologica, offerta dalla classe allora egemone, la quale tendeva a descrivere come "pericoloso" lo strato di popolazione che si dimostrasse meno disposto ad accettare passivamente lo stato di estrema deprivazione in cui versava.

Questa più o meno complessa costruzione concettuale (che per buona parte del XIX secolo resterà ancora ad uno stadio "non-teoretico" e poco formalizzato, corrispondendo alle risalenti descrizioni di una plebe barbara, immorale e fuori legge) si è inoltre - da sempre - prestata ad una ben precisa utilizzazione politica. Secondo la lezione foucaultiana, per cui è possibile individuare con precisione la funzione del concetto di delinquenza, inteso quale oggetto specifico di tutto un campo di conoscenza (159).

Sono in qualche maniera distinguibili, infatti, le funzioni che lo stereotipo criminale assume nelle società capitalistiche. Effetti individuabili intermini di riproduzione tanto ideologica che materiale della realtà sociale (160):

  1. innanzitutto è individuabile una funzione di managment, grazie alla quale lo stereotipoconsente di tematizzare in termini di "delinquenza", di immoralità, o di anormalità, questioni la cui radice sarebbe piuttosto da rintracciare in altri fattori (come nel caso del pauperismo e del vagabondaggio, ridotti da questioni economico-sociali a questioni di mera criminalità e di diversità morale o biologica) spostando in maniera decisiva i termini del dibattito pubblico su certi aspetti di problematicità sociale. In secondo luogo, canalizzando verso capri espiatori di comodo tutte le tensioni sociali e la maggior parte delle aspirazioni frustrate delle classi subalterne, evita che si determini un'unione, sul terreno delle aspirazioni e delle rivendicazioni politiche, fra proletariato e sottoproletariato e che le forme di ribellismo sottoproletario possano rappresentare un polo d'attrazione anche per i settori delle classi subalterne più disposte ad accettare il proprio status sociale. Quest'ultima funzione dello stereotipo criminale è agevolata dal fatto di non essere una costruzione concettuale interamente calata dall'alto, posto che la maggior parte dei crimini commessi da soggetti appartenenti alla classi subalterne hanno come vittime soggetti che appartengono allo stesso livello sociale dei loro autori (161).
  2. In secondo luogo è possibile individuare una funzione di legittimazione dello stereotipo criminale, che è data dalla suo essere funzionale alla conservazione le realtà sociale esistente. Da un lato, infatti, ogni stereotipo ha un ruolo fondamentale nella riproduzione della struttura materiale della realtà sociale, poiché un'immagine stereotipata del crimine che riflette quella di soggetti appartenenti a strati sociali svantaggiati (poco importa adesso il livello di formalizzazione di tale costruzione simbolica), fa in modo che l'azione sociale delle agenzie penali (che ha sempre effetti devastanti sullo status sociale del soggetto colpito), basandosi su di essa, riproduca le condizioni materiali di deprivazione ed emarginazione, aumentando e strutturando ulteriormente, la distanza sociale cittadini inclusi e classi subalterne. Dall'altro ogni stereotipo criminale offre un decisivo contributo nella riproduzione ideologica della realtà sociale. Ogni processo di criminalizzazione, infatti, aumentando la distanza sociale fra "criminalizzati" e "criminalizzanti", ha la funzione di coalizzare questi ultimi per mezzo di una continua ridefinizione dei confini del patto sociale. Grazie all'individuazione di un «nemico pubblico» (che nel caso della criminalità proletaria e sotto-proletaria è il mostro che infrange il patto sociale dal basso) sovrappone un'esclusione simbolica alla pesante esclusione materiale che certe categorie sociali subiscono.

Così lo stereotipo criminale che si viene a costruire nella seconda metà del XIX secolo attorno ad un paradigma scientifico com'era quello offerto dal darwinismo e dall'evoluzionismo, non perse i precisi contorni di classe che lo caratterizzarono durante tutta la prima metà del XIX secolo. Esso continuò, infatti, a colpire proprio quelle classi sociali completamente subalterne ed - ancora - escluse da ogni processo decisionale (il suffragio universale è esperienza del XX secolo). Si rivolse, in pratica a quelle categorie di persone che - come abbiamo visto - nell'opinione delle classi egemoni (borghesia agraria-industriale), venivano completamente inferiorizzate quali sottocategorie di esseri umani. Il concetto di "atavismo" ben si prestò a tale operazione: esso pare infatti ritagliato per rimarcare su un piano biologico differenze di classe, diversità "espressioni di un ambiente e di una condizione umana che l'evoluzione della specie ed il progresso sociale hanno ormai relegato in una subalternità perenne la cui unica soluzione appare la progressiva eliminazione per assorbimento o per estinzione" (162).

Tali stereotipi colpivano principalmente le forme di criminalità proprie dei ceti subalterni e, a prescindere dalle loro manifestazioni urbane, è particolarmente emblematica la concettualizzazione che le classi egemoni riuscirono ad imporre dei fenomeni di conflittualità rurale ed in particolare della sua forma principale: il brigantaggio.

In questa vicenda ritroviamo esattamente sintetizzate, infatti, tutte le caratteristiche e le funzioni che abbiamo attribuito allo stereotipo criminale, con la peculiarità data dal fatto che, a seguito dell'unità d'Italia, una vasta esplosione del fenomeno del brigantaggio si ebbe prevalentemente nelle province meridionali, circostanza che sovrappose ai toni classisti - che già connotavano gli stereotipi criminali - toni esplicitamente razziali. Tutti i movimenti di rivolta che coinvolsero le masse contadine meridionali (dal brigantaggio del 1860-65, ai Fasci siciliani a partire dal 1890) esprimevano, come detto, aspirazioni interamente politico sociali, esse, nel quadro dell'insoluta questione agraria, erano la reazione del mondo contadino alla miseria ed allo sfruttamento.

Era del resto esplosa da tempo, anche per l'opera di eminenti studiosi (c.d. "meridionalisti liberali"), la questione meridionale, che, già dal 1870, aveva distrutto il mito risorgimentale dell'Italia "una" e unita, per sostituirvi la fredda consapevolezza dell'esistenza di "due italie" economico-sociali (163).

È ormai un classico della storiografia l'interpretazione delle ricorrenti (e reiterate) rivolte contadine nel quadro del grave contesto economico-sociale che connotava il Mezzogiorno d'Italia (164), ma era chiaro già ai più avveduti pubblicisti del tempo come l'endemico ribellismo contadino fosse dovuto al persistere (sotto la forma, ben più rigida, della proprietà assoluta) del latifondo d'ascendenza feudale: come sottolineava nel 1898 E. Ciccotti, ai contadini "di tanto in tanto la pazienza scappa; si accendono non si sa come, si rivoltano, tentano di mettere a fuoco la casa municipale, finché il tumulto si esaurisce nella sua stessa foga improvvisa; e le teste più calde vanno in prigione o al domicilio coatto e gli altri tornano ad accosciarsi col guaiolare sempre più fievole e lontano del cane battuto che torna all'obbedienza" (165). Represse nel sangue le ripetute rivolte, ai contadini meridionali non rimase che l'emigrazione quale forma alternativa di protesta sociale (qualcuno parlò anche di "rivoluzione passiva") "doloroso e rabbioso addio ai paesi della fame, della miseria e delle oppressioni" (166).

Tuttavia è proprio alla svolta di fine secolo (in coincidenza con la, già sottolineata, recrudescenza del conflitto sociale e della reazione da parte delle elite dirigenti) che il positivismo antropologico irrompe, con la sicumera di chi è convinto di sgombrare il campo da ogni pregiudizio ed ogni ideologia, nel dibattito sulla questione meridionale.

Giovanissimo discepolo di Lombroso e Ferri, Niceforo si rese autore di una "trilogia" sulla questione meridionale (167) che sconvolse (rielaborando analisi lombrosiane) i termini del dibattito "imboccando la scorciatoia dell'interpretazione razziale delle due Italie e dell'inferiorità del Mezzogiorno" (168).

La questione meridionale diveniva la questione dell'inferiorità e della degenerazione di una "razza maledetta" (come avrebbe scritto, in risposta polemica ai nuovi "scienziati", N. Colajanni, ferreo oppositore del "romanzo antropologico"), la razza mediterranea: indisciplinata, oziosa, individualista e con scarso senso sociale. Popolo "sudicio" e superstizioso, sempre pronto a farsi eccitare dalle facili passioni e proclive alla sedizione. Ma anche, allorché prende la via delle Americhe, irrequieto, insoddisfatto, inappagabile.

Tutte queste riflessioni - che peraltro, anche i questo caso, trasformano antichi e risalenti stereotipi in un dato "naturale", scientifico - giustificano l'idea che nel governo delle masse meridionali le remore di natura liberale siano assolutamente fuori luogo: "occorrono due governi diversi per le due Italie: da una parte - al sud - il regime governativo deve tender a civilizzare e a togliere dalle mani di autonomie locali inadatte al self governement le redini di amministrazioni libere alle quali non sono mature; dall'altra - al nord - concedere ampie libertà di evoluzione e di azione autonoma. Alla guisa che l'individuo, finché è bimbo, ha bisogno di guida e di maestro, ma quando ha raggiunto il suo pieno sviluppo, la più ampia libertà è condizione di miglioramento e di azione sana e proficua, così le società ancora bimbe e primitive hanno bisogno dell'azione energica e qualche volta dittatoriale di chi le strappi dalle tenebre, mentre le società evolute, sviluppate, per contro, hanno la necessità della più grande libertà e della più sana autonomia" (169).

L'irruzione del positivismo antropologico serve insomma a legittimare scientificamente quella che era già da tempo l'opinione della borghesia agraria meridionale, che nei confronti delle masse contadine nutriva sentimenti di scarsissima fiducia (170), offrendo ulteriori e più validi elementi per giustificare la continua sospensione delle garanzie statutarie ad opera dei reiterati stati d'assedio e del massiccio utilizzo di misure poliziesche attraverso cui si fece fronte ai problemi di ordine pubblico posti dalle masse meridionali.

Come scrive M. L. Salvatori, l'opera di Niceforo "fu il migliore servigio reso al domino di classe in Italia, in quanto diede una giustificazione scientifica allo sfruttamento dei contadini meridionali da parte del blocco agrario-industriale, col suo dimostrare eloquentemente che l'umanità si divide in forti e deboli, con tutte le conseguenze che derivano da siffatta teorizzazione" (171).

Del resto, come abbiamo segnalato, l'antropologia criminale diede nuova linfa agli stereotipi che criminalizzavano in blocco le masse popolari, influenzando progressivamente l'attività di magistrati, di funzionari di polizia, essa "forniva, insomma, spiegazioni di comodo alla politica di controllo e di repressione nei confronti dei ceti popolari" (172). Era insomma una teoria scientifica che inglobava in un universo simbolico nuovo, offerto da un volgare darwinismo, il classico sguardo paternalistico attraverso cui le elite di sempre guardano i ceti subalterni. Dando una giustificazione scientifica ai sentimenti di "distanza" ed "alterità" con cui le classi elevate guardavano le masse. Tutto ciò si estremizza quando lo sguardo di una elite si rivolge verso popoli di province lontane e diverse, com'era il Mezzogiorno rispetto al Piemonte che l'annetteva. Illuminanti sono a riguardo le considerazioni svolte da D. Melossi: "se si pensa alla parabola di Lombroso, che scopre la sua teoria analizzando il cranio del brigante Vilella che aveva partecipato al brigantaggio meridionale subito dopo l'acquisizione da parte dello Stato italiano delle province meridionali, sembra che vi sia in questo fatto un elemento fortemente simbolico, perché in fin dei conti Lombroso era stato ufficiale medico dell'esercito piemontese. Egli scoprì quest'inferiorità di tipo biologico in un nemico sconfitto. Mi sembra impossibile separare tale "scoperta scientifica" da una operazione di stigmatizzazione di un "altro" che non si poteva e non si voleva integrare, troppo diverso culturalmente per poterlo considerare uguale" (173).

La diversità, la "natura criminale" delle popolazioni meridionali, la loro inferiorità biologica, l'atavismo di queste genti offriva inoltre una comoda spiegazione al sostegno che sempre i briganti ricevettero fra le popolazioni rurali (174). Evitando ai repressori di dover ammettere la natura profondamente "sociale" del fenomeno e giustificando le misure "draconiane" che - come visto - colpirono anche chi era semplicemente sospettato di favorire i briganti.

Inoltre, se la diffusione di stereotipi criminali "scientificamente" fondati difficilmente poté far presa sulle masse meridionali, essa fu con tutta probabilità il principale strumento per impedire che si concretizzasse ciò che Gaetano Salvemini riteneva fosse fondamentale ai fini del successo della lotta di classe in Italia: l'alleanza fra le masse del sud e le masse del nord, da contrapporre al blocco agrario-industriale in cui si erano strutturate le elite dirigenti. Se quest'unione non si produsse, se alle moderate concessioni che i governi - a partire dal 1900 - fecero nei confronti delle masse operaie settentrionali, non si accompagnò un'analoga politica al sud, che continuò a subire sanguinose repressioni - sino all'esodo verso le Americhe - fu anche perché la velata ostilità dei settentrionali nei confronti dei meridionali, l'incomprensione della realtà delle province meridionali, fu ulteriormente assecondata dall'irrompere del positivismo antropologico e dalla teoria sull'inferiorità dei meridionali (175).

La circostanza è del resto lucidamente segnalata da uno dei più illustri pensatori del XX secolo, A. Gramsci, che così si espresse riguardo ai sentimenti che i settentrionali nutrivano nei confronti dei meridionali: "la miseria del Mezzogiorno era inspiegabile storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano che l'unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale di città-campagna, cioè che il Nord concretamente era una piovra che si arricchiva alle spese del Sud e che il suo incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l'impoverimento dell'economia e dell'agricoltura meridionale. Il popolano dell'Alta Italia pensava invece che se il mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne, da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne, innate nella popolazione meridionale, tanto più che era radicata la persuasione della grande ricchezza naturale del terreno: non rimaneva che una spiegazione, l'incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica. Queste opinioni già diffuse (il lazzaronismo napoletano era una leggenda di vecchia data) furono consolidate e addirittura teorizzate dai sociologhi del positivismo (Niceforo, Sergi, Ferri, Orano, ecc.) assumendo la forza di «verità scientifica» in un tempo di superstizione per la scienza" (176).

Represse, inferiorizzate e sfruttate, alle masse contadine meridionali non rimase che la via delle Americhe, e ciò le trasformò in un esercito industriale di riserva per lo sviluppo e la ricchezza dei nuovi mondi. Gli anni di fine secolo diedero la dimensione di un esodo inaudito a tendenze che già in precedenza si erano manifestate e forse non è un caso se il vertiginoso aumento dell'emigrazione si ebbe all'indomani della sanguinosa repressione del movimento dei fasci siciliani.

Milioni furono gli uomini e le donne che traversarono l'Atlantico (già nei primi anni del XX sec. New York è la quarta città "italiana" dopo Roma, Napoli, Milano!), con la speranza di elevare il proprio status sociale (impresa che spesso ebbe buon fine) attuando una sorta di "bio-politica" spontanea e rivoluzionaria, non fu infatti visto di buon occhio il loro sottrarsi al giogo dello sfruttamento da parte della borghesia agraria meridionale.

Essi sfuggivano così alla realtà di uno Stato la cui unica politica sociale fu rappresentata da misure poliziesche di tipo repressivo-neutralizzativo ed in cui si offrivano come unici interlocutori per le masse contadine: da un lato i moderni "signorotti", le vu'signorie al cui passaggio il contadino ancora s'inchinava levandosi il cappello (una borghesia agraria che concentrava nelle sue mani, oltre al potere economico, il potere politico, arrivando a dominare in maniera incontrastata gli enti locali); dall'altro i funzionari di Pubblica Sicurezza, cui la borghesia agraria senza esitare si rivolgeva qualora avvertisse il sentore di rivolte che potessero mettere in pericolo le loro proprietà.

Qui è appena il caso di rilevare come il «romanzo antropologico» riuscì ad estendere la sua influenza anche oltre oceano, giustificando ulteriormente lo stigma di "immigrati indesiderabili" che spesso colpiva gli italiani, anche a dispetto della loro obbiettiva laboriosità e del notevole contributo offerto alla ricchezza dei paesi dove giunsero a prestare la propria opera (177).

Ma, come vedremo, è un destino comune a tutti i lavoratori che lasciano il suolo natio in cerca di migliori condizioni di vita quello di essere stigmatizzati quale «classe pericolosa».

Note

1. Si è fatto cenno alle lettres de cachet ed a come esse incarnassero un potere che saliva dal basso, ascendente; adesso preme sottolineare come la competenza a decidere l'internamento di qualcuno spettasse sempre ad organi che sfuggono completamente alla giustizia ordinaria: "in Francia a deciderla sono quasi sempre il re, i ministri, gli intendenti, i sottodelegati (...) la reclusione è uno strumento del potere politico" (M. Foucault, La società punitiva, in: I corsi al College de France. I Résumés, cit., p. 35); discorso analogo può essere condotto a proposito delle pene arbitrarie (M. Sbriccoli, Polizia (diritto intermedio), cit. p. 117, 118) o straordinarie, le quali consentivano l'applicazione di una pena come il bando o la detenzione a soggetti semplicemente sospettati di un delitto (D. Petrini, Il sistema di prevenzione personale tra controllo sociale ed emarginazione, in: Storia d'Italia, Annale nº12, La criminalità, cit., p. 895 e ss.), meccanismo di cui si ha un'eco anche nelle pagine dedicate da Beccaria agli oziosi (Dei delitti e delle pene, XXIV, cit., p. 52, 53).

2. K. Marx, Il Capitale, cit., p. 795. Sul problema cfr. anche B. Geremek, La pietà e la forca, cit., p. 243 e ss.

3. D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 64.

4. "Le nazioni povere sono quelle in cui il popolo sta bene, e le nazioni ricche sono quelle in cui esso è abitualmente povero" (Destutt De Tracy, Traité de la Volonté, cit. in: K. Marx, Il Capitale, cit., p. 798).

5. G. Procacci, L'economia sociale ed il governo della miseria, in: aut/aut, cit., p. 73.

6. Come nel caso degli illuministi inglesi cui abbiamo accennato: "la sofferenza dei poveri è notata meno dei loro reati, e per questo riduce la nostra pietà nei loro confronti. Periscono di fame e di freddo nel mezzo dei loro simili, ma gli occhi dei facoltosi appaiono soltanto quando chiedono l'elemosina, rubano e saccheggiano" (E. Fielding, cit. in: B. Geremek, La pietà e la forca, cit., p. 254); a riguardo cfr. anche: D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 64.

7. Brano cit. in: G. Procacci, L'economia sociale ed il governo della miseria, in: aut/aut, cit.

8. G. Procacci, L'economia sociale ed il governo della miseria, in: aut/aut, cit., p. 73.

9. Per questa partizione cfr.: G. Procacci, L'economia sociale ed il governo della miseria, in: aut/aut, cit.

10. Cfr.: D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza. Teorie criminologiche esocietà tra Europa e Stati Uniti, Milano, 2002, pp. 15 e ss; 109 e ss.

11. A riguardo cfr.: G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, cit.

12. In merito cfr.: U. Allegretti, Dissenso, opposizione politica, disordine sociale: le risposte dello Stato liberale, in: Storia d'Italia, annale n. 12, La criminalità, cit., p. 725.

13. G. De Rosa, Sicurezza pubblica, in: Digesto italiano, XXI/3, 1895, p. 360 e ss.

14. Ibidem.

15. Ibidem.

16. Alludiamo alla vicenda dell'ordinamento del regno di Sardegna, che tanta importanza avrà per il successivo ordinamento giuridico Italiano e che nel 1848 vide l'emanazione del c.d. Statuto Albertino, cui fece seguito un provvedimento provvisorio di Pubblica Sicurezza nel 1852 (fra i primi in questa materia, assieme alla legge sull'esercizio della libertà di stampa ed alla legge che creava, riordinando la materia, un'apposita "amministrazione di P.S.", entrambe del 1848). In particolare il dibattito che precedette l'emanazione di questo provvedimento fu segnato dall'esigenza di conformare le leggi di P.S. ai nuovi principi stabiliti dallo Statuto. Nelle intenzioni di Galgagno, allora Ministro dell'interno, vi era la volontà di far approvare un provvedimento complessivo di P.S., ma i vivaci dibattiti ed i contrasti in parlamento, portarono all'approvazione di questo testo provvisorio che valse, infatti, fino al 1854 e disciplinò, nella sua trentina di articoli, la materia degli oziosi e vagabondi, del commercio ambulante, della consegna di inquilini e dei sospetti ladri di campagna (cfr.: G. S. Pene Vidari, Il Regno di Sardegna, in: Amministrazione della giustizia e poteri di polizia dagli stati preunitari alla caduta della destra, Istituto di storia del Risorgimento italiano, Roma, 1986, p. 43 e ss.; G. De Rosa, Sicurezza pubblica, cit., p. 363).

17. M. Pavarini, Le fattispecie soggettive di pericolosità nelle leggi 27.12.1956 nº1423 e 31.05.1965 nº 575, in: Le misure di prevenzione, atti del convegno di Alghero, Milano, 1975, p. 283 e ss. Con figura soggettiva intendiamo una previsione normativa costruita secondo il canone delle norme penali costitutive, che, come detto, attribuiscono rilevanza ad uno status soggettivo dell'individuo e costituiscono un retaggio delle antiche concezioni sostanzialistiche e soggettivistiche della devianza.

18. G. De Rosa (Sicurezza pubblica, cit., p. 361) riferisce di antiche disposizioni di polizia in cui possiamo intravedere gli avi di moderni provvedimenti quali "ammonizione" e "domicilio coatto": parla infatti del "divieto ai locandieri ed a tutti i cittadini di dar ricetto a malviventi, tanto stranieri che nazionali, i quali taluna volta si espellevano senza più fuor dallo Stato. A più forte ragione dovevano venire espulsi coloro che, per qualche delitto erano stati banditi dal loro paese. A quest'uopo si eleggevano ad Ivrea tre buoni e discreti uomini per parrocchia, che dovevano denunciare tutti i ladri, malfattori e uomini diffamati nel loro circondario, e se questi citati dal podestà, non volevano dare sicurtà in cento lire di non commettere verun delitto, venivano espulsi (...) In altri luoghi, pur lasciandoli rimaner nello Stato si mandavano a domicilio coatto né tali provvidenze erano date unicamente contro dei malfattori, ma eziandio contro quelli che tenvano a proprio servizio gente d'arme, o ancora contro dei discoli, o degli oziosi, o degli uomini senza professione, in particolar modo poi contro coloro che, essendo atti al lavoro, preferivano vivere di accattonaggio". L'autore dà, in oltre, esempio di molte disposizioni di polizia adottate in Piemonte fino al 1798, la lista è lunga, ma, significativamente, il primo provvedimento riportato (datato 1430 - 3º libro degli Statuti di Amedeo VIII) sono "disposizioni concernenti i mendicanti validi, gli oziosi e vagabondi, le concubine, le pubbliche meretrici, e i lenoni".

19. D. Petrini, Il sistema di prevenzione personale tra controllo sociale ed emarginazione, cit., p. 897.

20. Cfr.: D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 97 e ss.

21. D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 106.

22. Cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 513; D. Petrini, Il sistema di prevenzione personale tra controllo sociale ed emarginazione, cit., p. 895; tali figure soggettive o di sospetto, esempio perfetto di norme penali costitutive, come detto già contenute nel code Napoléon del 1810, trovano cittadinanza anche nel primo codice unitario, che definisce vagabondi: "coloro i quali non hanno né domicilio certo, né mezzi di sussistenza e non esercitano abitualmente un mestiere o una professione; coloro che vagano da un luogo ad un altro affettando l'esercizio di una professione o un mestiere, ma insufficiente per sé a procurar la loro sussistenza; coloro che fanno il mestiere di indovinare, pronosticare o spiegare sogni per ritrarre guadagno dall'altrui credulità". Mentre oziosi saranno: "coloro i quali sani e robusti, e non provveduti di sufficienti mezzi di sussistenza, vivono senza esercitare professione arte o mestiere, o senza darsi stabile lavoro". Il codice comminava l'arresto di tre mesi per il solo fatto di appartenere ad una di tali categorie, con successiva sorveglianza speciale di polizia e la pena fino a cinque anni di carcere per la recidiva. Prevedeva inoltre un mese di arresto, per i "mendicanti validi" e alcune ipotesi di sospetto (ancora, in parte, ufficialmente presenti nel nostro ordinamento agli art. 707 e 708 C.P.), per oziosi, vagabondi, mendicanti e "altre persone sospette" (vittime di pubbliche voci o sottoposti a sorveglianza speciale) i quali sarebbero stati assoggettati alla reclusione, qualora trovati in possesso ingiustificato di "scalpelli, lime, grimaldelli" o anche "generi od altri effetti o somme di denaro non confacenti al loro stato o condizione".

23. M. Foucault, La società punitiva, in "I corsi al College de France. I Résumés", cit., p. 40.

24. Cfr. a riguardo: G. S. Pene Vidari (Il Regno di Sardegna, cit., p. 64) che riferisce di una relazione accompagnata ad un progetto legge presentato sin dal 1848 al parlamento piemontese, in cui si sottolineavano le pesanti ingerenze dell'amministrazione di pubblica sicurezza nell'amministrazione della giustizia, attraverso l'utilizzo di sanzioni in via amministrativa, circostanza che l'avvento dello statuto rendeva adesso anche giuridicamente intollerabile.

25. Nella legge "provvisoria" del 1852, sarà previsto l'istituto della sottomissione: a questa si perveniva attraverso una denuncia operata dagli agenti di pubblica sicurezza e inviata al giudice del mandamento, il quale avrebbe invitato il soggetto a darsi ad uno stabile lavoro entro pochi giorni. L'atto di sottomissione rendeva il soggetto passibile della pena del carcere, qualora contravvenisse all'ordine, pena ulteriormente incrementata in caso di recidiva. Stesso meccanismo di sottomissione è poi previsto per i sospetti ladri di campagna, individuati in base all'indicazione, semestrale, operata da parte del consiglio comunale locale ed inviata all'organo giurisdizionale (Cfr.: I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, in: Le misure di prevenzione, atti del convegno di Alghero, cit., p. 197 e ss.; G. S. Pene Vidari, Il Regno di Sardegna, cit.; G. De Rosa, Sicurezza pubblica, cit.; L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 818 e ss.). È pur vero, in ogni caso, che provvedimenti di polizia specificamente rivolti ai sospetti ladri di campagna erano già stati adottati nel 1845 ed in essi vi si rintracciava già un embrione di sottomissione. A riguardo così si esprimeva in una lettera ad un amico il Cavour "che cosa avete detto sull'editto sui ladri di campagna? Senza essere legale ho rabbrividito leggendo una cotale profanazione di tutti i principi di diritto ed equità. Mi si è risposto che le prescrizioni musulmane in esso proclamate erano assolutamente necessarie per frenare la crescente immoralità della gente di campagna" (G. S. Pene Vidari, Il Regno di Sardegna, cit., p. 63).

26. I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit., p. 199; lo Statuto Albertino recitava all'art. 68: "La giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo Nome dai Giudici ch'Egli istituisce", in generale per tutto il XIX secolo i principi elaborati dalla filosofia politica del XVIII furono su questo punto ampiamente disattesi, in Italia la dipendenza dei giudici dall'esecutivo fu temperata nel 1859 dall'introduzione del pubblico concorso per il loro reclutamento; in merito alle vicende del principio della separazione dei poteri vedi: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 597 e ss.

27. Cfr.: G. S. Pene Vidari, Il Regno di Sardegna, cit., p. 56 e ss.

28. Il ministro specificherà, inoltre, che per i minori l'internamento conseguente all'atto di sottomissione non rispettato "dovrà sempre aver luogo in una casa di lavoro, sia per tenerli lontani dal consorzio d'altri già troppo viziati e mal consigliati, sia per avviarli in avvenire ad una vita onesta"(i brani sono riportati in I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit.).

29. Per un confronto fra le due normative cfr.: G. S. Pene Vidari Il Regno di Sardegna, cit.; G. De Rosa, Sicurezza pubblica, cit.; I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit.; nella legge del 1854 si è inteso disciplinare con maggiore precisione anche alcune attribuzioni che, secondo la distinzione fra polizia e pubblica sicurezza cui abbiamo fatto cenno, si possono ritenere afferenti all'ufficio di polizia genericamente inteso: vi sono, infatti, disposizioni relative agli esercizi pubblici, all'illuminazione di case, relative ai teatri, ai balli, alle maschere...e così via.

30. Che sostituisce ad un meccanismo simile a quello delle lettres des cachet, in cui la comunità locale stessa individuava i soggetti irrequieti da disciplinare attraverso l'internamento, l'accentramento di tale potere nelle mani dell'autorità amministrativa. "Tale partecipazione (del consiglio comunale) oltreché apportare pregiudiziali ritardi, non poteva per altro raggiungere il fine proposto, mentre l'esperienza ha provato che non si eseguiva la legge con quella sollecitudine, con quello zelo che esigeva l'universale desiderio per il rispetto della proprietà" affermava Rattazzi relazionando in parlamento sul progetto di legge (brano citato in: I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit., p. 201).

31. Brano citato in: I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit., p. 201.

32. Altra, forse non molto vistosa, novità è l'obbligo che viene fatto all'autorità giudiziaria di comunicare ogni sentenza in giudicato all'autorità di P.S., avviando la prassi di schedare i pregiudicati; ciò esprime la chiara volontà politica di dare rilevanza allo status di pre-giudicato, che la polizia è chiamata a tenere presente anche nella prassi dei controlli di ogni giorno.

33. "Questa legge, nella quale erano inoltre contenute disposizioni relative all'ordinamento della amministrazione di pubblica sicurezza e della forza pubblica, costituiva un codice di polizia abbastanza completo" (G. De Rosa, Sicurezza pubblica, cit., p. 364).

34. Cfr.: G. De Rosa, Sicurezza pubblica, cit; G. S. Pene Vidari, Il Regno di Sardegna, cit.; I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit.; L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit.

35. Rispolverando, peraltro, un editto del 1829 (cfr.: G. De Rosa, Sicurezza pubblica, cit., p. 363; G. S. Pene Vidari, Il Regno di Sardegna, cit., p. 71).

36. Cfr.: G. S. Pene Vidari, Il Regno di Sardegna, cit., p. 71. In merito al libretto di lavoro, così recitava l'art. 28 "Tutti gli individui dell'uno e dell'altro sesso che prestano la loro opera con mercede, qualunque sia la loro arte o mestiere, e sotto qualsivoglia titolo o denominazione servano o lavorino nelle case dei privati, dovranno essere provveduti di un libretto, conforme al modulo che sarà determinato. Tale libretto sarà rimesso all'Autorità di pubblica sicurezza del luogo"; l'art. 29 continuava "il libretto non potrà ottenersi senza un certificato di buona condotta o senza il benservito del padrone (...) i muniti di libretto... non possono intraprendere alcun viaggio, senza far apporre sul libretto il visto dell'Autorità locale di pubblica sicurezza. Al luogo dell'arrivo, prima che trascorrano 24 ore, devono presentare lo stesso libretto a quell'Autorità di pubblica sicurezza."(brani riportati in: I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit., p. 203).

37. G. S. Pene Vidari, Il Regno di Sardegna, cit., p. 71.

38. Per la complessa vicenda dell'unificazione legislativa ed amministrative del regno cfr.: G. De Rosa, Sicurezza pubblica, cit., p. 364.

39. Cfr.: I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit., p. 203 e ss.; per dar l'idea dell'eccezionalità del provvedimento basti il riferimento alle pene che stabiliva: fucilazione anche per la semplice resistenza ed ergastolo in caso di "complicità" con i briganti.

40. A riguardo cfr.: I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit., p. 203 e ss.; sul punto cfr. anche: D. Adorni, Il brigantaggio, in: Storia d'Italia, Annale nº 12, la criminalità, cit., p. 283 e ss.

41. Anche se un suo prozio può essere individuato nell'istituto della "relegazione", che Galgagno, in uno dei suoi progetti in materia di P.S. che non superarono il vaglio parlamentare, voleva introdurre per gli oziosi e vagabondi recidivi (cfr.: I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit., p. 198).

42. Ivi, p. 203.

43. Cfr.: G. De Rosa, Sicurezza pubblica, cit; G. S. Pene Vidari, Il Regno di Sardegna, cit.; I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit.; T. Pedio, Domicilio coatto, in: Enciclopedia del diritto, xiii, p. 886 e ss.; M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit.; prenderà così avvio una modalità di controllo sociale che, sperimentata durante la lotta al brigantaggio, offriva garanzie uniche di efficienza, fu infatti immediatamente utilizzata nei confronti della "pericolosità" comune e ripresa utilmente per il controllo del dissenso politico (anarchici, socialisti); a riguardo D. Petrini, Il sistema di prevenzione personale tra controllo sociale ed emarginazione, cit., p. 902 e ss.

44. G. S. Pene Vidari, Il Regno di Sardegna cit.; a riguardo cfr. anche: G. De Rosa, Sicurezza pubblica, cit.; I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit.; T. Pedio, Domicilio coatto, cit.

45. Cfr.: I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit., p. 199.

46. G. S. Pene Vidari, Il Regno di Sardegna, cit., p. 73.

47. I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit., p. 207; M. Pavarini, Le fattispecie soggettive di pericolosità, cit., p. 292, 293. Contemporaneamente nascerà un "regolamento" che disciplina minuziosamente il protocollo da seguire nell'applicazione delle misure e nello schedare i soggetti ammoniti, sospetti, sorvegliati speciali o sottoposti a domicilio coatto.

48. G. De Rosa, Sicurezza pubblica, cit., p. 365.

49. Brano cit. in I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit., p. 208.

50. Ivi, p. 210.

51. Anche se non era da meno lo spostamento di competenza dal Pretore al Presidente del Tribunale, in quanto quest'ultimo è organo indipendente ed inamovibile, a differenza del primo, potendo assicurare, in teoria, un minore condizionamento dell'esecutivo nei procedimenti in questione.

52. I brani sono citati in I Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit., p. 209.

53. Ivi, p. 210.

54. I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit.; T. Pedio, Domicilio coatto, cit.; il provvedimento era appellabile di fronte alla Commissione centrale per il domicilio coatto istituita presso il Ministero, ma l'appello non aveva effetto sospensivo ed il soggetto sarebbe stato immediatamente tradotto in un comune diverso dalla sua normale residenza, o in una delle colonie a ciò destinate: Pantelleria, Favignana, Ponza, Tremiti, Ustica, Lipari, Lampedusa, Ventotene.

55. I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit., p. 208.

56. I. Mereu, Cenni storici alle misure di prevenzione nell'Italia liberale, cit.; T. Pedio, Domicilio coatto, cit.; D. Petrini, Il sistema di prevenzione personale tra controllo sociale ed emarginazione, cit.

57. M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit., p. 508.

58. Cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 578; F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 38 e ss.

59. Sulle storture connesse a tali sistemi informati ad una "mezza" oralità-pubblicità, cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 632 e ss.

60. Cfr.: a riguardo F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 67 e ss.

61. Per l'opinione della c.d. scuola Classica sul processo misto cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 662 sub nota nº 104.

62. D. Petrini, Il sistema di prevenzione personale tra controllo sociale ed emarginazione, cit. p. 900.

63. Ibidem.

64. M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit., p. 490.

65. Ivi, p. 489.

66. M Rèbora, Oziosi e vagabondi, in: Enciclopedia giuridica italiana, XII, 1915, p. 1301.

67. Cfr.: a riguardo le analisi di D. Petrini, Il sistema di prevenzione personale tra controllo sociale ed emarginazione, cit.; M. Pavarini, Le fattispecie soggettive di pericolosità, cit.

68. L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 800.

69. Ivi, p. 795 e ss.

70. Cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 559 e ss.

71. Ivi, p. 561 e ss.; "la privazione della libertà essendo una pena, essa non può precedere la sentenza se non quando la necessità lo chiede. La carcere è dunque la semplice custodia d' un cittadino finché sia giudicato reo, e questa custodia essendo essenzialmente penosa, deve durare il minor tempo possibile e dev'essere la meno dura che si possa (...) La strettezza del carcere non può essere che la necessaria, o per impedire la fuga, o per non occultare le prove dei delitti" sottolineava Beccaria (Dei delitti e delle pene, cit., XIX, p. 45, 46), mentre Carrara arrivava anche ad affermare che "la custodia preventiva non è tollerabile, tranne che per i gravi delitti ed in quelli che quantunque meno gravi rappresentano probabile sospetto di ripetizione e che possono dirsi delitti abitudinari" (brano riportato in L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 648 sub nota nº 40).

72. In merito alle vicende della custodia cautelare nel nostro ordinamento cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 559 e ss.; F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 457.

73. M. Da Passano, Linee di politica criminale nei discorsi inaugurali dei rappresentanti del pubblico ministero. 1879-1888, in: Materiali per una storia della cultura giuridica, XXI, 1991/1, p. 93 e ss.

74. F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 482.

75. M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit., p. 491.

76. U. Allegretti, Dissenso, opposizione politica, disordine sociale: le risposte dello Stato liberale, cit., p. 722 e ss.

77. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit.

78. Cfr.: U. Allegretti, Dissenso, opposizione politica, disordine sociale: le risposte dello Stato liberale, cit.; M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit.; D. Petrini, Il sistema di prevenzione personale tra controllo sociale ed emarginazione, cit.

79. E.J. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi, 1798-1848, Milano, 1963.

80. Cfr.: M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 299 e ss.; Id., La società punitiva, cit., p. 37 e ss.

81. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 300.

82. Ivi, p. 302.

83. Ivi, p. 302, 303.

84. A. Desideri, Storia e storiografia, vol. II, Messina-Firenze, 1988, p. 862; cfr. anche: F. Barbagallo, La modernità squilibrata del mezzogiorno d'Italia, Torino, 1994.

85. Mezzogiorno e settentrione d'Italia, in: V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, Roma, 1993, p. 140.

86. Che peraltro rappresentava questione della massima importanza posto che l'Italia era un paese prevalentemente rurale (nel 1871, due italiani su tre vivevano in campagna, cfr.: E. Ragionieri, La storia politica e sociale. Lo stato nuovo, cit.). Inoltre le forze che condussero il processo di unificazione non seppero o non vollero minimamente dare un'adeguata soluzione alla questione agraria. In particolare, se appare logico che gli esponenti moderati delle forze risorgimentali, organica espressione degli interessi delle classi alte, non potessero accogliere le rivendicazioni delle masse contadine; tragica si rivelò per il contado italiano l'inadeguatezza del Partito d'Azione che concretamente subì in tutto e per tutto l'egemonia dei moderati: "è proprio sulla parola d'ordine di indipendenza e unità, senza tener conto del concreto contenuto politico di tali formule generiche, che i moderati dopo il 48 formarono il blocco nazionale sotto la loro egemonia, influenzando i due capi supremi del Partito d'Azione, Mazzini e Garibaldi" riuscendo così a "deviare l'attenzione dal nocciolo alla buccia". Per sfuggire a tale egemonia e non scadere al ruolo di mero "organismo di agitazione e propaganda al servizio dei moderati", il Partito d'Azione "doveva legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere giacobino non solo per forma esterna, di temperamento, ma specialmente per il contenuto economico sociale" e riempire di un contenuto più pregnante la formula vuota della nazionalità (A. Gramsci: Quaderni dal carcere. Il Risorgimento, cit., p. 93 e ss.).

87. Il fenomeno dell'inurbamento di una gran massa d'individui riguardò tutte le principali città europee, ma ovviamente in tempi diversi, così: se l'Inghilterra visse già nel XVIII quella che fu chiamata I rivoluzione industriale e la Francia la seguì relativamente in fretta, l'Italia, al contrario, visse fenomeni di tali proporzioni solo a seguito dell'Unità e soprattutto nel corso della c.d. II rivoluzione industriale. Nel trentennio fra 1880 e 1910, infatti, oltre ad un significativo incremento della produttività, si ebbe nelle città italiane una rilevante esplosione demografica: a fronte della crescita complessiva della popolazione pari ad un 21,8% (si passò da 28.460.000 a 34.671.000), la popolazione dei centri con più di 100.000 abitanti crebbe in una percentuale complessiva pari al 63,6% (da un totale di 2.387.825 si passò a 3.906.075), città come Roma o Milano ebbero un incremento pari, rispettivamente, al 89,4% e 87,7% (F. Socrate, Borghesie e stili di vita, in: G Sabatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia. Vol. III Liberalismo e democrazia, Roma-Bari, 1999, p. 398).

88. Che, come segnala Gramsci, avvenne sotto l'egemonia dei moderati piemontesi (cfr.: Quaderni dal carcere. Il Risorgimento, cit., p. 93 e ss.).

89. Brani cit. in: E. Ragionieri, La storia politica e sociale. Lo stato nuovo, cit.

90. "E chi di questi superflui ha abbastanza coraggio e passione per ribellarsi apertamente alla società, e per rispondere con la guerra aperta contro la borghesia che conduce contro di lui una guerra coperta, questi si getta allo sbaraglio, ruba, depreda, uccide" scriveva Engels alla metà del XIX secolo (il brano è cit. in: D, Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 65); sui "mob" cittadini cfr. anche: E.J. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Torino, 1974, p. 138 e ss.

91. Il banditismo sociale (come del resto i mob delle città pre-industriali) se pur dovuti alle identiche cause che determineranno il sorgere e l'organizzarsi dei movimenti socialisti e comunisti (sfruttamento, disoccupazione, pauperismo, carestie, carovita) si presentano sotto forma di ribellismo primitivo dai forti connotati "tradizionalisti", a tratti reazionari (tanto i banditi che i ribelli cittadini insorgevano, infatti, "per la Chiesa e per il Re"). Tuttavia è fuor di dubbio che gli insorti o i ribelli lottassero per un ideale di giustizia che essi vedevano incarnato nella figura del Re giusto o nel significato più autentico della parola di Cristo, anche se "in fondo (...) il mob - come del resto il banditismo - non era legato a nessun re governatore o sistema; erano queste semplici etichette politiche apposte a movimenti privi di qualsiasi programma positivo, ad eccezione dell'odio per i ricchi e di un certo ideale di uguaglianza di sapore larvatamente anarchico" (E.J. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, cit., p. 155; sul banditismo sociale cfr. anche: Id., I banditi. Il banditismo sociale nell'età moderna, Torino, 2002). Del resto l'attività sobillatrice dei settori filo-borbonici che resero il brigantaggio meridionale post-unitario un movimento reazionario (e soprattutto contribuirono ad una sua esclusiva interpretazione in tal senso da parte delle elite dirigenti piemontesi) fu possibile, come sottolineò giustamente Gramsci, in quanto le rivendicazioni delle masse rurali non furono inserite in un programma politico in grado di sfruttarne tutto il potenziale rivoluzionario e progressista insito nelle pulsioni contadine...il Partito d'Azione (l'unico che potesse assumere tale ruolo) lasciò il campo completamente libero ai settori legittimisti e clericali (cfr.: Quaderni dal carcere. Il Risorgimento, cit., p. 93 e ss.).

92. Cfr.: M. Degl'Innocenti, Socialismo e classe operaia, in: G Sabatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia. Vol. III Liberalismo e democrazia, cit., p. 135 e ss.

93. I Fasci furono peraltro il primo movimento rivoluzionario di massa in cui gli aneliti "millenaristici" lasciarono il posto ad un'ideologia politica vera e propria: prima, infatti, in fasi rivoluzionarie comportamenti che esprimevano un mero ribellismo individuale (come il banditismo), senza alcuna pretesa realmente rivoluzionaria, potevano occasionalmente unirsi alla rivolta dei contadini, i quali davano vita ad una sorta di banditismo di massa (dandosi all'assassinio, alla violenza, al saccheggio delle proprietà, all'assalto dei municipi, alla distruzione dei documenti che attestano la loro servitù; cfr.: E.J. Hobsbawm, I banditi. Il banditismo sociale nell'età moderna, cit., p. 103 e ss.; una rappresentazione letteraria - tutto sommato nemmeno troppo benevola - delle rivolte contadine meridionali l'ha offerta nel 1883 il Verga, in una delle sue Novelle Rusticane: Libertà). Tanto queste manifestazioni rivoluzionarie, quanto i movimenti millenaristici presentano un certo primitivismo che l'avvento di forme di protesta meglio organizzate (come i fasci) tende a cancellare - anche se alcuni tratti millenaristici possono persistere. Così i fasci fornirono alle masse siciliane una nuova visione del mondo in cui inserire le proprie rivendicazioni, non a caso si segnala come presso queste organizzazioni i contadini ricevettero per la prima volta un'istruzione diversa rispetto a quella cui erano, ormai da secoli, abituati: "non andiamo più in chiesa ma al fascio. Là dobbiamo istruirci, là organizzarci per la conquista dei nostri diritti" dice una contadina di Piana dei Greci (il brano è riportato in: E.J. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, cit., p. 127). Tuttavia non si può certo negare che la diffusione del socialismo fra le masse siciliane assunse i connotati della diffusione di un nuovo vangelo che preconizzava l'avvento di un nuovo regno di giustizia, tanto che si racconta di qualche contadino che portò a battezzare i suoi bambini alla sede del fascio.

94. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 303.; cfr. sul punto anche: D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, cit., p. 50 e ss.

95. "Il problema diviene così quello di legare gli operai all'apparato di produzione, di fissarli o di spostarli dove si ha bisogno di loro, di sottometterli ai ritmi dell'apparato, di imporre loro la costanza o la regolarità che esso richiede" (M. Foucault, La società punitiva, cit., p. 39).

96. Cfr.: E. Ragionieri, La storia politica e sociale. Lo stato nuovo, cit.

97. "Coloro che più direttamente e materialmente erano investiti dallo Stato del compito di «educare» il popolo, i maestri elementari, venivano formati in modo tale da divenire portatori di un'ideologia composita, imbevuta magari di contenuti nazionali, ma fondamentalmente indirizzata alla tutela paternalistica delle plebi"; tuttavia non dovette essere impresa facile alfabetizzare le masse popolari e, soprattutto nelle zone rurali, è del tutto plausibile ritenere che ancora a lungo furono i parroci - la cui tendenza a "trasformare in precetto morale l'invito ad appagarsi del proprio stato" è stata spesso sottolineata - l'unico elemento moralizzatore per il contado italiano (per tutti questi argomenti cfr.: E. Ragionieri, La storia politica e sociale. Lo stato nuovo, cit.).

98. Sul periodo giolittiano cfr.: F. Barbagallo, Da Crispi a Giolitti. Lo Stato, la politica, i conflitti sociali, in: G Sabatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia. Vol. III Liberalismo e democrazia, cit., p. 3 e ss.

99. Alla grave repressione dei moti popolari avvenuta nel 1898 - moti peraltro iniziati già l'anno precedente a causa di un vertiginoso aumento del costo del pane (del 40% circa) - di cui si rese protagonista il governo guidato da Roudinì (repressione rispetto alla quale non declinò le sue responsabilità nemmeno un uomo liberale come Zanardelli, allora guardasigilli) seguì il tentativo, inaugurato dallo stesso Roudinì e proseguito dal governo Pelloux, di varare una serie di misure repressive eccezionali (aggravamento delle disposizioni sul domicilio coatto, pesanti limiti alla libertà di associazione, di riunione, di sciopero, di stampa e d'insegnamento) che avrebbero rimarcato ulteriormente i tratti autoritari dello Stato. Tali misure, proposte inizialmente come provvisorie, già nel 1899 sono concepite per diventare definitivamente leggi dello stato, ma il parlamento (in cui repubblicani, radicali e socialisti ricorrono per la prima volta all'ostruzionismo) bocciò il progetto costringendo Pelloux a tentare la via - autoritaria - del Decreto Legge, che fu infatti promulgato il 22.06.1899. Fu la Corte di Cassazione, il 20.02.1900, ad annullare i provvedimenti presi in violazione delle norme statutarie e senza l'approvazione del parlamento, bloccando così la deriva autoritaria verso cui lo Stato italiano si avviava. Il tentativo di far votare nuovamente le misure alla Camera espose il governo Pelloux all'ennesima sconfitta.

Le dimissioni di Pelloux e la morte di Umberto I, avvenuta il 29.06.1900, sotto i cui auspici tali reiterati tentativi di involuzione autoritaria si svolsero, chiusero una stagione estremamente critica e segnarono il definitivo tramonto delle speranze dei settori più retrivi della borghesia italiana di attuare un colpo di mano autoritario. (cfr.: F. Barbagallo, Da Crispi a Giolitti. Lo Stato, la politica, i conflitti sociali, in: G Sabatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia. Vol. III Liberalismo e democrazia, cit., p. 3 e ss.)

100. Pena e struttura sociale, cit.

101. "È un soggetto, purtroppo, doloroso e umiliante, questo delle carceri, per l'Italia, costretta a far pubblica confessione del più infelice primato che mai avesse potuto toccarle in sorte, fra le nazioni d'Europa" scrive nel 1881 il relatore dell'Annuario statistico italiano (il brano è cit. in: D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, cit., p. 69).

102. Cfr. i dati riportati in: D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, cit., p. 69; M. Pavarini, La criminalità punita: processi di carcerizzazione nell'Italia del XX secolo, cit.; L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 457 sub nota nº 183.

103. È questo del resto l'orientamento della sociologia della pena contemporanea che, dopo gli inutili sforzi effettuati per correlare l'andamento economico ai tassi di carcerizzazione, nel tentativo di dimostrare come ad un peggioramento della situazione economica faccia un immediato seguito un aumento dei livelli di carcerizzazione che non ha riscontro nei livelli di delittuosità, si è progressivamente orientata verso "un maggiore apprezzamento delle variabili di tipo politico e culturale che medierebbero tra mutamento economico e mutamento nei tassi di incarcerazione" (D. Melossi, Sociologia della pena, economia e criminalità: un'introduzione, in: Polis, XII, 3, 1998, p. 367).

104. Su questi aspetti delle politiche adottate dai governi di Crispi e Giolitti cfr.: F. Barbagallo, Da Crispi a Giolitti. Lo Stato, la politica, i conflitti sociali, in: G Sabatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia. Vol. III Liberalismo e democrazia, cit., p. 3 e ss.

105. L. Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose, cit., p. 463; l'autore cita un pubblicista del tempo, Buret (che scrisse un'opera dell'eloquente titolo: De la misère des classes laborieuses en Angleterre et en France), ritenendolo fautore della "miglior valutazione delle dimensioni di questa popolazione sventurata e pericolosa a un tempo".

106. Ivi, p. 205.

107. Ivi, p. 465.

108. Tutti i brani citati sono tratti dall'opera di Buret, De la misère des classes laboriouses en Angleterre et en France, cit. in: L. Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose, cit., p. 463, 464.

109. Non era infatti solo il sottoproletariato a scatenare i "mob" cittadini, cui spesso prendevano parte anche settori delle classi lavoratrici, spinti magari da un'occasionale ed eccessivo peggioramento delle condizioni di vita, come poteva accadere nel caso delle cicliche crisi economiche che determinavano vertiginosi aumenti nel costo dei beni di prima necessità (cfr.: E.J. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, cit., p. 138 e ss.).

110. Brano cit. in L. Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose, cit., p. 467.

111. Ivi, p. 470.

112. R. Canosa, Storia della criminalità in Italia. 1845-1945, Torino, 1991, p. 139 e ss.

113. E. Ragionieri, La storia politica e sociale. Lo stato nuovo, cit.

114. Tanto più che il reclutamento dei funzionari di basso livello avveniva fra gli strati popolari. Cfr.: E. Ragionieri, La storia politica e sociale. Lo stato nuovo, cit.

115. Cfr.: A. Berselli, Amministrazione ed ordine pubblico dopo l'unità, cit., che fa riferimento ad un'opera di un funzionario di P.S. del tempo (G. Bolis, La polizia e le classi pericolose della società, Bologna, 1871) e riferisce quanta e quale influenza ebbe in Italiala pubblicistica francese sul ruolo e le funzioni della polizia e su quali fossero le classi da sottoporre al controllo poliziesco ed in particolare l'opera, già citata, di Buret.

116. Ivi, p. 186.

117. Ivi, p. 189.

118. Lucas, De la riforme des prisons, cit. in: M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 304.

119. Ivi, p. 304.

120. Che allora pubblicava ampie sintesi dei discorsi tenuti in adempimento della previsione dell'art. 150 dell'ordinamento giudiziario del 1865. Cfr.: M. Da Passano, Linee di politica criminale nei discorsi inaugurali dei rappresentanti del pubblico ministero. 1879-1888, cit.

121. Ivi, p. 117.

122. In merito non manca qualche autore fuori dal coro, come il p.r. di Cosenza, il quale sottolinea come nel solo casentino la divisione delle terre comunali (annoso problema) potrebbe trasformare almeno 600 mila individui in "acerrimi difensori del diritto di proprietà" (Ivi, p. 118).

123. Ivi, p. 119.

124. Ivi, p. 122.

125. Ivi, p. 121, 122).

126. M. Pavarini, Le fattispecie soggettive di pericolosità, cit., p. 292, 293.

127. Ivi, p. 292, 293.

128. M. Pavarini, Le fattispecie soggettive di pericolosità, cit., p. 294.

129. Cfr.: F. Tagliarini, pericolosità, cit.

130. A riguardo vedi: A. Dal Lago, La produzione della devianza, Verona, 2000, p. 43.

131. Cfr.: F. Tagliarini, pericolosità, cit.

132. Che in Italia s'innestò bene sul terreno preparato dalla diffusione del materialismo e del socialismo (cfr. anche: L. Mangoni, Gli intellettuali alla prova dell'Italia unita, in: G Sabatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia. Vol. III Liberalismo e democrazia, cit., p. 443 e ss.).

133. E. Resta, La secolarizzazione della colpa, in: Storia d'Italia, Annale nº 12, La criminalità, cit., p. 129.

134. "Chi si lagna, ora, per l'intrusione della chimica e della meccanica nei congegni della nostra vita, se non sono i nemici di ogni processo civile?", questa domanda avrebbe posto Lombroso ai suoi studenti dell'università di Torino durante la sua prolusione nel 1887 (brano cit. in: L. Mangoni, Gli intellettuali alla prova dell'Italia unita, in: G Sabatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia. Vol. III Liberalismo e democrazia, cit., p. 462).

135. Nel 1881 E. Ferri pubblica il manifesto programmatico della nuova scuola: I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, proponendo una vera e propria torsione del sistema penale, rovesciando l'impostazione retributiva in un sistema interamente basato sul concetto di prevenzione e fondato su una concezione del delitto quale fatto umano, naturale e sociale; entro il 1882, poi, avrà individuato gli avversari della sua dottrina in una "scuola classica" le cui matrici culturali sono fatte discendere dall'opera di Beccaria e dei pensatori illuministi fino ai giuristi liberali del XIX secolo, "capitanati" da F. Carrara (M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit., p. 499, 500).

136. M. Pavarini, Le fattispecie soggettive di pericolosità, cit., p. 294. Ciò a dispetto delle professioni di fede socialista che tutti gli antropologi criminali non mancarono di esprimere; è tuttavia vero che non tutti nell'ambito dell'elite intellettuale del partito socialista furono disposti ad accettare gli esiti estremi delle teorie antropologiche (cfr.: L. Mangoni, Gli intellettuali alla prova dell'Italia unita, in: G Sabatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia. Vol. III Liberalismo e democrazia, cit., p. 463).

137. E. Resta, La secolarizzazione della colpa, in: Storia d'Italia, Annali nº 12, cit., p. 127.

138. Cfr.: Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit., p. 499 e ss.

139. Non fu quindi l'introduzione delle circostanze del reato a determinare il crollo del diritto penale del fatto a scapito o di un diritto penale dell'autore (ne, tanto meno, la sola introduzione della perizia psichiatrica) secondo quella che, come segnalammo, fu l'opinione di M. Foucault (opinione cui sembra aderire anche E. Resta, cfr. a riguardo: La secolarizzazione della colpa, cit., p. 126).

140. M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit., p. 511.

141. Ivi, p. 507 e ss.

142. L'idea della poena medicinalis non si può certamente definire una novità assoluta, lo stesso Ferrajoli (Diritto e ragione, cit., p. 252 e ss.) ne rintraccia le origini molto indietro nel tempo, sottolineando come tale visione pedagogica della pena, intesa come recupero morale del reo, fosse già tutta interna alla tradizione ebraico-cristiana dell'emenda. Ma, ancora prima, lo stesso Platone, nel Gorgia, faceva asserire a Socrate che "colui che sconta la pena si libera da un male dell'anima" (Platone, Gorgia, in: Platone. Tutti gli scritti, Milano, 1991, p. 889) e ancora che "la giustizia fa in certo senso rinsavire e rende più giusti, e costituisce come la medicina della malvagità" (Ivi, p. 891). Il correzionalismo positivista, tuttavia, è assolutamente diverso dalle dottrine cristiane dell'emenda, (cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 254; M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 108) queste ultime infatti si concentrano sull'intenzione, rintracciando in questa l'intrinseca malvagità del criminale; questa cattiva inclinazione dell'animo era da correggere attraverso l'espiazione della colpa ed il ravvedimento del reo, com'era nel caso del diritto penale canonico che prevedeva l'isolamento in una segreta usque ad correctionem.

Il correzionalismo di matrice positivista, al contrario, vede nel criminale un individuo anormale, comunque determinato al delitto da fattori indipendenti dalla sua intenzione, l'eliminazione di queste determinanti attraverso la cura è cosa diversa dall'espiazione della colpa e dall'emenda in senso cristiano, la quale avviene in ogni caso rispetto a Dio "come rigenerazione etica e sociale del condannato-peccatore; in questo senso la pena non poté che essere retributiva, fondata quindi sul parametro della gravità del reato e non sulla pericolosità del reo" (D.Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit., p. 25). Aveva, dunque, avuto un'esatta intuizione Marx quando, riferendosi al sistema penitenziario "filadelfiano", vi rintracciò una riedizione della teoria e della pratica penitenziaria cristiana. Tuttavia - se pur con le profonde differenze che abbiamo segnalato - tanto le dottrine dell'emenda quanto le dottrine della terapia, giungono ad un identico risultato: la svalutazione dell'atto in sé considerato, come atto antigiuridico, producendo uno spostamento d'attenzione sul criminale da emendare, rieducare, correggere. Entrambe, confondendo il crimine ora con il peccato, ora con l'anormalità, scambiano il diritto ora con la morale, ora con la natura e trasformano il sistema penale in un apparato altamente oppressivo, rendendo il potere di punire sostanzialmente illimitato.

143. A riguardo L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 513; che indica come la condizione di pre-giudicato sia stata colpevolizzata sin dall'antichità. Alla stessa maniera M. Foucault sottolinea come già nel 1549 fosse conosciuto l'istituto della recidiva, un ordinanza di quell'anno dichiarava, infatti, "il malfattore che ricomincia un essere esecrabile, infame, eminentemente pernicioso alla cosa pubblica"; a partire dal 1791 la recidiva renderà passibili di un raddoppio di pena; successivamente i recidivi andranno marchiati con una R e, nel 1810, diverranno passibili del massimo della pena o della pena immediatamente superiore a quella prevista per il reato commesso (Sorvegliare e punire, cit., p. 109).

144. Scrive F. M. Pagano "la pena interamente cancella ed estingue il delitto, ed il reo che l'ha sofferta ritorna innocente. Perciocché quanto egli oltrepassa la linea colla violenza commessa, altrettanto retrocede colla pena, onde si rimette nell'ordine. E quindi per quel delitto, per cui siasi una volta sofferta la pena, molestar non si può il cittadino", chiarendo quale marchio d'infamia, una pena nella pena, sia insito nell'idea di tener in conto la recidiva, che concretizza una vera e propria morte civile del soggetto; cfr.: F. M. Pagano, Principj del codice penale, cit., XVI, p. 100.

145. Già dal 1854 l'autorità giudiziaria aveva l'obbligo di segnalare all'autorità di p.s. i soggetti con condanne in giudicato, mentre l'istituzione del casellario centrale verrà effettuata negli anni '60; il codice del 1865, peraltro, inseriva fra i "sospetti" i sottoposti a sorveglianza speciale di polizia (che si applicava anche a chiunque fosse uscito dal carcere), con il paradossale effetto che per il nostro ordinamento si era "sorvegliati in quanto sospetti e sospetti in quanto sorvegliati"; più avanti poi la condizione di pregiudicato (o addirittura di semplice processato) sarà un parametro fondamentale per l'applicazione delle misure di polizia.

146. Cfr.: Le misure di prevenzione nelle prospettive positiviste, in: Le misure di prevenzione, atti del convegno di Alghero, cit., p.161 e ss.; ora in: Id., Prospettive criminologiche e processo penale, cit.

147. D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, cit., p. 64.

148. E. Ferri, Sociologia criminale, cit. in: F. Gianniti, Le misure di prevenzione nelle prospettive positiviste, cit., p. 168.

149. M. Rèbora, Oziosi e vagabondi, cit., p. 1302.

150. D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, cit., p. 64.

151. Ibidem. Cfr. anche: D. Melossi, Teoria sociale e mutamenti nella rappresentazione della criminalità, cit. Sul punto torneremo a breve.

152. C. Lombroso, L'uomo delinquente, cit. in: D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, cit., p. 122.

153. Sulla "scuola positiva" cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 254; A. Baratta, Introduzione alla sociologia giuridico-penale, cit., p. 38 e ss.; D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, cit., p. 53 e ss.

154. L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 254. Per una disamina del "progetto Ferri" cfr.: F. Gianniti, Prospettive criminologiche e processo penale, cit., p. 79 e ss.

155. Oziosi e vagabondi, cit., p. 1202 e ss.

156. Tutti i brani sono tratti da M. Rèbora, Oziosi e vagabondi, cit. L'autore ci offre inoltre un saggio delle sue doti d'empirista, descrivendoci tutta una fenomenologia del vagabondaggio e dell'accattonaggio: "li trovate ciechi sui gradini delle chiese con il cagnolino ammaestrato che li guida e tiene in bocca il cappello del padrone, povera bestia impassibile e incolpevole; li vedete donne vecchie lerce e cenciose nell'atrio del tempio vendere scapolari o medaglie, o nell'interno volontarie custodi delle cassette delle elemosine che alleggeriscono dell'obolo con pieghevoli, sottilissime bacchette spalmate di vischio, in un momento di profonda estasi e di raccoglimento intenso; li trovate a frotte nell'interno della città, nelle vie popolose dei sobborghi, uomini e donne, adulti e fanciulli con poche cartoline illustrate, o foglietti di una canzonetta oscena o stupida in mano, o un mazzolino di fiori avvizziti, o due scatolette di cerini in una sgangherata cassetta appesa al collo, gobbi, storpi, guerci, mutilati, piagati, mostri senza braccia e senza gambe, assillare spesso aiutati da un gemebondo organetto delinquente, i passanti, importunarli, seguirli, insolentirli quando non esauditi".

157. I brani ripresi sono due spezzoni tratti, rispettivamente, dalla Sociologia Criminale di E. Ferri e dalla Criminologia di R. Garofalo, citati in L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 255 e 299. riteniamo che questi possano essere intesi come rappresentativi della doppia natura della special-prevenzione teorizzata dalla scuola positiva: una volta al recupero del delinquente (comunemente intesa come special-pervenzione positiva), l'altra tesa alla neutralizzazione del soggetto irrecuperabile (comunemente intesa come special-prevenzione negativa).

158. Su queste altre correnti di pensiero, con le relative proposte di politica criminale, cfr.: L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 255.

159. Cfr.: M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 305 e ss. Sulla funzione dello stereotipo criminale cfr. anche: G. Baronti, La funzione dello stereotipo criminale nell'ambito dei processi di controllo sociale, p. 253 e ss.; A. Baratta, Problemi sociali e percezione della criminalità, cit.

160. A. Baratta, Problemi sociali e percezione della criminalità, cit.

161. Un'eccezione si ha nelle classiche forme di banditismo sociale, quando esse si esprimono nella loro forma più pura (sintetizzabile nella formula del "ladro gentiluomo"). Del resto nelle realtà rurali che conobbero simili forme di banditismo resistette molto a lungo la memoria delle gesta di quei personaggi, un vero e priprio mito dei banditi sociali, che assurgono i questi casi al ruolo di veri e propri eroi popolari (sul punto cfr.: E.J. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, cit.; Id., I banditi. Il banditismo sociale nell'età moderna, cit.).

162. G. Baronti, la funzione dello stereotipo criminale nell'ambito dei processi di controllo sociale, cit., p. 259.

163. È ovviamente impossibile in questa sede citare tutti i contributi, alcuni dei quali non hanno peraltro bisogno di essere ricordati: è il caso di Sonnino, Nitti, Fortunato, Colajanni, Ciccotti, Salvemini, così come l'inchiesta condotta, nel 1884, da Jacini (per una sintesi di questi, ed altri, contributi cfr.: V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, cit.).

164. Ci riferiamo ovviamente ai classici lavori di E. J. Hobsbawm, cui abbiamo più volte fatto riferimento.

165. Mezzogiorno e settentrione d'Italia, in: V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, cit., p. 141.

166. V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, cit., p. 17.

167. Il primo lavoro di Niceforo apparve nel 1897, con il titolo di La delinquenza in Sardegna; nel 1898 apparve poi lo scritto L'Italia barbara contemporanea e, a chiudere la trilogia, arriverà nel 1901 Italiani del nord e italiani del sud, con cui l'autore intendeva rispondere alle critiche mosse da più parti nei confronti della sua opera.

168. V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, cit., p. 13.

169. A. Niceforo, L'Italia barbara contemporanea. Studi e appunti, in: V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, cit., p. 81.

170. È "«un azzardoso e terribile esperimento» quello di governare popoli come quello siciliano «con leggi all'inglese o alla belga che suppongono un popolo colto e morale come colà, o come almeno nella parte superiore della penisola»" arrivava ad affermare il prefetto di Caltanissetta in una lettera al Ministero dell'Interno, chiedendo in seguito anche la sospensione dell'Habeas corpus, appunto una misura eccezionale per far fronte ad una situazione esplosiva quale era quella delle province meridionali; cfr.: A. Berselli, Amministrazione ed ordine pubblico dopo l'unità, cit., p. 199 e ss.

171. M.L. Salvatori, Il mito del buongoverno, brano cit. in: V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, cit., p. 45.

172. V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, cit., p. 44.

173. D. Melossi, Lezioni di sociologia del controllo sociale, cit., p. 127.

174. "Di fatto non havvi individuo che voglia ad alcun prezzo fornire all'Autorità Militare il più piccolo indizio sui briganti, anzi, ogni qualvolta si può, si cerca con notizie false di trarla in errore (...) i briganti, al contrario, ovunque si presentano trovano amici ed aderenti, notizie sicure sui movimenti della Truppa e guide fidate" scrivevano nel 1864 le autorità militari in Calabria, evidenziando la generale diffidenza che circondava un esercito percepito come straniero da parte dei contadini meridionali (sul punto cfr.: D. Adorni, Il brigantaggio, in: Storia d'Italia, Annale nº 12, La criminalità, cit., p. 283 e ss.).

175. Assecondata anche da esponenti del partito socialista, cfr. a riguardo: F. Barbagallo, Da Crispi a Giolitti. Lo Stato, la politica, i conflitti sociali, in: G Sabatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia. Vol. III Liberalismo e democrazia, cit. Su quanto possa aver influito un certo sentimento di vicinanza/lontananza - che all'occasione può legare o distanziare l'analista rispetto ai protagonisti dei fenomeni sociali studiati - nel determinare Enrico Ferri a prese di posizione addirittura opposte rispetto alla questione agraria settentrionale e meridionale (circostanza che lo portò a tingere, da un lato, i braccianti del mantovano come veri e propri "eroi rivoluzionari" e ad apprezzare, dall'altro, i ributtanti accenti razzistici con cui Niceforo spiegava la "natura" sediziosa delle masse bracciantili meridionali) ci siamo già soffermati.

176. A. Gramsci, Quaderni dal carcere. Il Risorgimento, cit., p. 93 e ss.

177. Cfr.: V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, cit., p. 225 e ss.; inoltre, se le idee positiviste avevano una carta eco nei luoghi di immigrazione, offrendo un valido fondamento allo stereotipo dell'italiano (posto che nelle americhe non si faceva troppa distinzione fra meridionali e settentrionali) criminale, tali visioni rientravano in Italia e venivano assunte - in una sorta di spirale del pregiudizio - a conferma delle teorie sulla natura criminale degli emigranti meridionali, esportatori di delinquenza. A tali "pregiudizi scientifici" reagì prontamente N. Colajanni in un capitolo del suo Latini e aglo-sassoni (razze inferiori e razze superiori), intitolato gl'italiani delle colonie (il brano è ora riportato in: V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, cit., p. 232 e ss.), ove dimostrava, riportando un'ampia documentazione, come gli emigranti riuscissero ad elevare di molto la loro posizione sociale e non fossero sempre mal visti nei luoghi d'arrivo.