ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

5: Le «nuove classi pericolose»

Giuseppe Campesi, 2009

Come è stato segnalato (1) la storia della modernità - che è anche la storia dello sviluppo capitalistico, dell'industrialismo e dell'urbanesimo - è segnata da continui e massicci spostamenti di manodopera. È una storia in cui le migrazioni (2), siano state interne o esterne (come quelle che hanno riguardato numerosi nostri concittadini), hanno avuto un ruolo di primo piano: tanto sotto il profilo dello sviluppo capitalistico, consentendo al capitale la disponibilità di masse di mano d'opera accessibile ad un costo tutto sommato accettabile; quanto sotto il profilo della nascita dei meccanismi disciplinari (e, più in generale, dello sviluppo di una sapienza biopolitica), che si sviluppano appunto per adattare tali masse brulicanti ai tempi, ai ritmi ed alla disciplina che si conviene alla condizione di lavoratore salariato.

A lungo il sistema di produzione capitalistico ha continuato ad integrare ed assorbire il maggior numero possibile di braccia, fossero esse immediatamente impiegate nel processo produttivo o momentaneamente accantonate come materiale di riserva. Tale adattamento biopolitico dei fenomeni di popolazione alle esigenze della produzione si è esplicato a lungo attraverso un insieme di meccanismi (fra cui le discipline assunsero un ruolo di primissimo piano) tesi all'internalizzazione della manodopera. Tutto un insieme di strategie di governo idonee a gestire, in maniera tutto sommato indolore, l'enorme "accumulo di individui" negli agglomerati urbani sede delle grandi concentrazioni industriali; "l'urbanizzazione spontanea, incitata o coatta, fu indispensabile a fornire manodopera attiva, forza lavoro di riserva e esseri umani in grado di riprodurre forza lavoro per lo sviluppo industriale" (3). Tale modello di governo biopolitico raggiunse, come segnalato, il suo apogeo nel XX secolo, trovando un terreno fertile per il suo sviluppo nella formula del welfare state e nel modello fordista di produzione industriale: è infatti in corrispondenza con il ciclo politico-economico social-democratico che è dato riscontrare una significativa apertura delle società industriali rispetto alle masse di manodopera, oltre che una tendenziale disponibilità ad integrare economicamente e socialmente il proletariato, d'importazione e non, su cui le grandi economie industriali basavano il loro sviluppo (4).

Gli attuali flussi migratori s'inseriscono tuttavia in un contesto completamente diverso rispetto a quanto è avvenuto almeno fino alla metà degli anni '70 e ciò è riscontrabile nella progressiva chiusura delle frontiere da parte dei paesi che storicamente sono stati la principale meta dei flussi migratori, anche se ovviamente non è questo l'unico segno del passaggio delle nostre democrazie capitalistiche a quello che viene chiamato evo "post-moderno".

Come visto nel precedente capitolo, un nuovo ciclo politico economico si è avviato nell'ultimo quarto del XX secolo ed a questo hanno fatto seguito corrispondenti adattamenti delle strategie di controllo sociale. In particolare, secondo l'interpretazione corrente del processo, la transizione ad un modello di produzione postindustriale globale accentuerebbe il passaggio a meccanismi di controllo sociale tesi a favorire l'esternalizzazione della manodopera idonei ad assecondare il processo di «delocalizzazione» nelle aree in via di sviluppo delle produzioni che necessitino di un nutrito contingente di manodopera. In parallelo, la supposta riduzione d'impiego di lavoro vivo nelle aziende ancora localizzate all'interno dei confini delle aree sviluppate del mondo, avrebbe contribuito alla radicale svolta nelle politiche migratorie di tutti i paesi occidentali, le quali sono solo un aspetto delle complessive strategie biopolitiche adottate nel governare i mutamenti indotti dall'evoluzione del sistema di produzione capitalistico.

La rigida chiusura delle frontiere sarebbe dunque parallela ad una gestione meramente escludente - e con metodi "neutralizzativi" - di una massa non più funzionale alle esigenze della produzione (perlomeno non all'interno dei nostri confini), una massa che non necessita, quindi, di essere disciplinata ed integrata in un meccanismo produttivo ed accolta nell'universo sociale corrispondente (5).

L'esclusione dei migranti contemporanei, la chiusura delle frontiere del mondo occidentale, sarebbe dunque un aspetto dello sviluppo di strategie di controllo sociale "attuariale", volte alla radicale esclusione di una massa di individui di cui il capitale non ha bisogno, una massa di lavoratori ormai strutturalmente eccedenti (6).

Gli inconvenienti che un simile modello teorico - seppur suggestivo - presenta sono stati in via generale evidenziati, tuttavia analoghe perplessità suscita una simile lettura delle politiche migratorie adottate, tanto dai paesi di "vecchia" che di "nuova" immigrazione, nell'ultimo quarto del secolo XX.

È da valutare, dunque, in che termini e sino a che punto la manodopera immigrata non sia ancora funzionale alla nostra economia capitalistica, fino a che punto, cioè, i flussi migratori non siano condizionati anche da persistenti fattori d'attrazione, piuttosto che dai soli fattori di spinta, quanto ed in che misura i flussi che investono l'occidente non trovino una collocazione nel mercato e non rispondano ad una domanda di lavoro insoddisfatta. Se, dunque, il controllo sociale dei flussi di manodopera sia effettivamente preordinato ad una rigida esclusione dei migranti contemporanei o, piuttosto, ad una loro "inclusione subordinata" (7), cioè ad un loro rigido disciplinamento che sia in grado di selezionare quanti accettano uno status d'integrazione economica privo di cittadinanza sociale e politica (le post-moderne «classi laboriose») e quanti, rifiutando i termini d'inclusione che siamo disposti a concedere, manifestano comportamenti conflittuali e problematici (le post-moderne «classi pericolose»).

5.1: «Nuove classi laboriose»: il proletariato postfordista in Italia

L'Italia ha, come visto, assistito ad un vasto processo di ristrutturazione del suo sistema produttivo, un processo che da un lato ha determinato una parziale riqualificazione del lavoro operaio ed il frazionamento della grande impresa fordista, con una drastica riduzione della quantità di lavoro impiegata nei grandi stabilimenti di un tempo. Ma dall'altro lato, affianco a tali settori del mercato del lavoro avvantaggiati dalla transizione al post-fordismo, ha visto il sorgere di un «nuovo proletariato», assistendo ad un progressivo - e massiccio - spostamento della domanda di lavoro. Essa ormai "si dirige non certo al tipo di occupazione persa tra gli anni Settanta e Ottanta, lavori relativamente ben pagati, stabili, sindacalizzati, in gran parte maschili, con generosi benefici di tipo assistenziale pensionistico e sanitario, e centrali al percorso produttivo, ma si orienta invece ad un nuovo tipo di occupazione spesso part-time, flessibile, poco o nulla protetta, in gran parte femminile e marginale al percorso produttivo" (8).

La composizione del proletariato postfordista italiano non è semplice da delineare, i suoi settori d'impiego sono soprattutto il "terziario dequalificato" e la vasta area della piccola e media impresa, in cui riveste ancora la sua importanza la figura dell'operaio generico e del lavoratore senza qualifiche assunto sempre più spesso con forme contrattuali "atipiche" o, comunque, "in nero". Tuttavia la forte segmentazione del nostro mercato del lavoro rende ancora più complesso il quadro.

Infatti, se da un lato per il nostro mercato del lavoro è possibile parlare di una situazione di "disoccupazione di massa" (9) - circostanza che sembrerebbe avvalorare l'ipotesi della ormai definitiva strutturale eccedenza della forza lavoro italiana rispetto alle esigenze della produzione - dell'altro lato, nelle aree più dinamiche della penisola (in particolare nella cosiddetta "terza Italia", che dagli anni '70 ha visto il fiorire di una vasta rete di piccole e medie imprese; ma anche nelle aree metropolitane - prevalentemente al centro nord - dove è fiorente il settore dei "servizi finali"), è dato rilevare situazioni di prossimità ai livelli di piena occupazione. Lo sviluppo di tali attività produttive (che non assumono forse il ruolo di settore trainante, ma rivestono comunque una certa rilevanza nel complesso del nostro mercato del lavoro e nella ripresa economica della fine degli anni '90) è probabilmente basato sulla disponibilità di una manodopera con bassi livelli di rigidità e di costo; sull'esistenza, appunto, di quel proletariato postfordista condannato ad una situazione di perenne "mobilità orizzontale", costantemente oscillante tra disoccupazione, sottoccupazione ed occupazione precaria e senza garanzie sociali.

È certamente vero che parte dei lavoratori impiegati in tali settori è, per così dire, in transito verso altri e più remunerativi impieghi, ma non si può d'altra parte negare l'esistenza di una vasta area sociale condannata "a restare intrappolata nella condizione di precarietà lavorativa e deprivazione economica tipica del nuovo proletariato postindustriale" (10).

Tale ampio strato sociale, che viene progressivamente a costruire una vera e propria «classe laboriosa postmoderna», è ciò su cui ormai si basa la produttività del nostro sistema industriale e la sua competitività in un mercato globale (ma anche ciò che trattiene molti imprenditori dal delocalizzare all'estero la propria produzione); esso, inoltre, consente di offrire una risposta alla crescente domanda di servizi che connota soprattutto le aree urbane e riguarda sempre in misura maggiore anche una popolazione in progressivo invecchiamento come la nostra.

Si può comunque asserire che la nuova classe laboriosa è in linea di massima caratterizzata dalla presenza di donne e giovani meridionali sottoscolarizzati, coloro che, più di ogni altra categoria sociale, subiscono il costo della disoccupazione in Italia e di un mercato del lavoro rigidamente "gerontocratico" (11) ...Coloro che saranno destinati ad accettare la sottoccupazione ed il precariato come unica possibilità d'impiego che il mercato offre loro (12).

Tuttavia, già sul finire degli anni '80, un importante mutamento avrebbe investito la stratificazione sociale italiana, una nuova componente si sarebbe andata ad aggiungere alle fila della "classe laboriosa"nostrana: avrebbe fatto la sua comparsa sul mercato la figura del lavoratore immigrato.

L'Italia, dopo aver a lungo esportato mano d'opera, si apprestava a trasformarsi in paese importatore, il Sud del mondo si affiancava al Sud d'Italia nell'ingrossare, con i suoi giovani, le fila del proletariato postfordista (13).

Per la verità la storica tradizione dell'Italia quale paese d'emigrazione si era già interrotta nel 1981, quando per la prima volta nella nostra storia di paese unito il saldo migratorio risultò, secondo i dati del censimento, positivo; anche se tale dato era ancora prevalentemente dovuto al rientro di diversi emigranti, piuttosto che a sostanziosi flussi di manodopera da paesi in via di sviluppo (che pure non mancavano, anche se spesso l'Italia fungeva da ripiego per quanti non riuscivano a raggiungere mete più ambite come Inghilterra, Francia o Germania, che già si apprestavano a chiudere le loro frontiere) (14).

Nel volgere di un decennio, tuttavia, la quota di stranieri presenti sul nostro territorio sarà praticamente raddoppiata e, secondo il censimento del 1991, si assesterà intorno alle 625.000 unità. In questa prima fase il fenomeno immigrazione si riduce prevalentemente alla presenza di tunisini in Sicilia (impegnati nella pesca, in particolare nella zona di Mazzara del Vallo) e alla, già consistente, presenza di domestiche straniere, provenienti prevalentemente da aree di religione cattolica (capoverdiane, latinoamericane, filippine); ma sarebbe ben presto venuto il momento dei marocchini - con l'immigrazione dalle Filippine, una delle costanti dei nostri flussi - che, inizialmente dedicandosi all'ambulantato ed all'attività agricola, si sarebbero insediati nel sud Italia, seguiti dai flussi provenienti dall'Africa sub-sahariana e centro-occidentale (si trattava prevalentemente di senegalesi) (15). Infine, il crollo del "blocco sovietico", aprirà la strada ai flussi dall'est Europa e, segnatamente, dall'Albania e dall'ex Jugoslavia, completando il quadro di quello che sarà chiamato, in uno dei primi contributi sull'argomento, "arcipelago migratorio italiano" (16).

Sono passati altri dieci anni nel frattempo e, rispetto al 1992, già nel 2000 il numero di stranieri in possesso di un permesso di soggiorno si è praticamente più che raddoppiato: passando dalla cifra di 648.935, a quella di 1.340.655, con una percentuale sul totale dei residenti in Italia pari al 2,2% (percentuale del resto ancora molto ridotta rispetto alle medie degli storici paesi d'immigrazione in Europa, che oscillano tra il 3 ed il 9%), un incremento percentuale pari al 106,6 ed un consistente incremento medio annuo, pari a 86.465 unità (17).

Per quel che riguarda le nazionalità si sono registrate nel decennio trascorso significative novità: se da un lato non hanno perso il loro primato i marocchini (con 155.864 permessi di soggiorno), notevoli incrementi ha registrato la presenza albanese (133.018 permessi) e di cittadini provenienti dalla ex Jugoslavia (82.067), rispettivamente al secondo ed al terzo posto fra le nazionalità che compongono il nostro panorama immigratorio; fra le novità si segnalano poi i notevoli incrementi dei cittadini rumeni e cinesi, che arrivano a scalzare le classiche componenti tunisine e senegalesi (18).

Resta dunque molto variegata sotto questo profilo la nostra immigrazione, che nel tempo ha visto moltiplicarsi le nazionalità presenti, con consistenti incrementi dei flussi provenienti dall'est-europeo (cui alla Romania va aggiunta la Polonia) e dall'Asia.

Non è cambiata invece la distribuzione territoriale degli immigrati nella nostra penisola: se, infatti, inizialmente (negli anni '80) l'afflusso riguardava prevalentemente il sud Italia (con impiego nel settore agricolo) e le zone turistiche (in cui vi era un afflusso stagionale prevalentemente legato all'ambulantato), a tali flussi si è pian piano aggiunta e sovrapposta un'immigrazione diretta verso le aree metropolitane (o comunque industriali) del centro-nord (19).

Sotto il profilo della composizione demografica dei flussi c'è da sottolineare la preponderante presenza di maschi giovani-adulti: nel 2000 la percentuale delle donne sugli stranieri regolarmente presenti in Italia non superava il 45%, mentre la sola fascia d'età compresa tra i 25 ed i 35 anni costituiva circa il 40% sul totale degli immigrati, arrivando a percentuali, sul totale dei residenti in Italia per quella fascia d'età, del 4,6%.

Diverse sono le percentuali di giovani-adulti immigrati se valutate in relazione a specifiche aree geografiche - il che è ovviamente un altro indicatore della prevalente distribuzione degli immigrati sul territorio italiano: al centro nord gli immigrati raggiungono una quota che oscilla tra il 5-7%, mentre al sud scendono su valori più prossimi alla media nazionale, il 2% circa (20).

Ovviamente i dati sintetizzati si riferiscono alla componente immigratoria in regola con le norme per il soggiorno in Italia, e pongono, dunque, il problema di capire in che misura la percentuale, tutto sommato esigua, di immigrati presenti non sia incrementata nella sua consistenza dalla presenza irregolare. Peraltro, in dieci anni di immigrazione di una certa intensità, il "panico da invasione" che, come vedremo, ha intossicato ogni dibattito sull'argomento si è sempre fondato su stime a dir poco approssimative ed allarmistiche della presenza irregolare, la cui più precisa quantificazione ha, dunque, moltissima rilevanza.

La stima degli immigrati "comunque presenti" sul nostro territorio va effettuata avendo riguardo alla specificità delle situazioni che possono portare ad un soggiorno irregolare. Di tanto in tanto poi, sempre in coincidenza con una qualche riforma della legge sull'immigrazione, l'Italia ha offerto agli immigrati "comunque presenti" la possibilità di regolarizzare la loro posizione, determinando una parziale "emersione" dell'immigrazione irregolare.

All'esito di una sanatoria, dunque, la cifra di immigrati non autorizzati al soggiorno è data da:

  1. quanti non hanno provveduto a regolarizzarsi, poiché non in grado di soddisfare le condizioni richieste;
  2. quanti, dopo una sanatoria, sono entrati clandestinamente (cioè senza in necessario visto d'ingresso) nel territorio italiano (21);
  3. quanti hanno comunque perso il permesso di soggiorno perché non più in grado di rinnovarlo.

All'epoca della seconda sanatoria (22) stime diverse concordavano nel ritenere comunque esigua la presenza irregolare (in senso lato) in Italia: si stimavano infatti i soggetti del primo gruppo pari ad una quantità di circa 100.000 persone; i soggetti del secondo prossimi comunque alle 15.000-20.000 persone (visto che con il 1990 i controlli alla frontiera iniziarono a farsi più pressanti); ed, in ultimo, i soggetti che avevano comunque perso il permesso di soggiorno, continuando a restare all'interno del nostro territorio, vicini alle 100.000 unità.

Considerando che, nel 1994, la quota di cittadini stranieri provenienti da paesi a forte pressione migratoria ammontava a circa 450.000 unità, il totale degli immigrati extracomunitari provenienti da aree povere del mondo non superava all'epoca le 700.000 unità (23); a stime simili giungeva anche il dossier della Caritas (24).

Sino all'ultima sanatoria (25), poi, le stime non avevano subito significative variazioni e la cifra degli immigrati comunque presenti sul territorio continuava ad essere quantificata intorno alle 250.000-300.000 unità; a seguito del provvedimento si è poi stimato che il numero di quelli che non erano riusciti ad usufruire della regolarizzazione non superava le 75.000 unità (nella previsione più pessimistica), cifra che, sommata al numero di quanti si riteneva potessero essere entrati clandestinamente in Italia dopo la scadenza dei termini per la regolarizzazione, non avrebbe comunque superato le 100.000 unità. Si riteneva dunque che nel 2000 vi fossero circa 10 irregolari ogni 100 immigrati regolari, rapporto destinato comunque a salire in relazione a specifiche realtà con una forte presenza immigrata (come dimostrava un'analisi condotta su Milano, ove il rapporto era stimato in un numero di 20 irregolari per ogni 100 immigrati regolari) (26).

In media, comunque, le ultime due sanatorie hanno fatto emergere dall'irregolarità circa 250.000 immigrati, il che dimostra l'attendibilità delle stime riportate (27) e l'assoluta infondatezza degli allarmismi tanto diffusi quando si parla di immigrazione.

Pur con la cautela dovuta quando si fa riferimento a proiezioni demografiche di lungo termine - ed in particolare all'idea che ad un costante aumento del tasso di nascite nei paesi d'emigrazione, corrisponderà una parallela diminuzione nei paesi d'immigrazione che porterà al "riversarsi" del peso demografico del sud del mondo sui paesi industrializzati (cosiddetto "modello idraulico" o "dei vasi comunicanti"), spesso responsabile di giustificare e legittimare allarmismi assolutamente fuori luogo (28) - si può ritenere che, nonostante sia prevedibile un continuo aumento della consistenza dei flussi, intorno al 2007 l'ammontare percentuale degli immigrati rispetto al totale della popolazione residente difficilmente supererà il 4,2%; e nel 2017, sempre secondo tali previsioni, si arriverebbe a toccare al massimo una percentuale del 6,2%. Percentuali davvero limitate, dunque, se si pensa che Francia e Germania, già nel 1995, avevano rispettivamente 6,3% e 8,8% (29).

Questo il profilo demografico dell'immigrazione in Italia alla fine del XX secolo. Un profilo che ci delinea, secondo quanto ci si sarebbe potuto aspettare, i tratti di flussi con una assoluta prevalenza di persone in età lavorativa (solo il 7,3% degli immigrati in regola possiede più di sessant'anni, a fronte del 23% circa di Italiani (30)), evidenziandoci quale sarà la componente umana che andrà nel secolo XXI a rinfoltire i ranghi delle nostre "classi laboriose", contribuendo al ringiovanimento della nostra popolazione.

In particolare, infatti, secondo proiezioni delle Nazioni Unite, nei prossimi venti anni la popolazione italiana in età lavorativa sarà in progressivo decremento e soprattutto la fascia d'età che va dai venti ai ventinove anni, la quale è prevista diminuire con un tasso medio annuo pari al 2,1%. Il che potrebbe portare al riassorbimento di gran parte dell'attuale disoccupazione giovanile ed alla creazione di squilibri quantitativi sul mercato del lavoro, con carenza di domanda e correlativa eccedenza di offerta lavorativa che è presumibile ritenere si dirigerà verso i lavoratori stranieri (31).

Già nel '98, del resto, un'indagine condotta da Union-Camere e dal Ministero del Lavoro, segnalava come in un contesto di crescita economica e di costante calo demografico, le imprese italiane produttrici di beni e servizi avrebbero avuto bisogno, per il biennio 1999-2000, di nuova manodopera. Si stimava, infatti, che - soprattutto nei settori: metalmeccanico, dei servizi alle imprese (pulizie, facchinaggio, ecc.), dell'edilizia - un terzo delle figure professionali richieste non sarebbe stato disponibile sul mercato della forza lavoro autoctona e ciò avrebbe riguardato in particolare figure professionali non qualificate, utili per i lavori più faticosi e meno remunerativi. Restringendo il fuoco dell'analisi sulle aree economicamente più dinamiche del paese (il Centro-Nord Est), poi, l'indagine stimava il fabbisogno di manodopera in circa il 70%-90% del potenziale d'assunzione (32).

Come detto, previsioni simili possono essere smentite facilmente da eventi non prevedibili a chi le effettua, tuttavia le stime da ultimo riportate hanno il pregio di limitarsi ad un ben circoscritto periodo e consentono alcune considerazioni preliminari che uno sguardo più approfondito sulla situazione attuale del nostro mercato del lavoro e sulla partecipazione immigrata alla produzione del reddito e della ricchezza nazionale potrebbe forse confermare.

È chiaro, infatti, che non è solo una "spinta" ad orientare i flussi migratori che investo la nostra penisola, ma vi è anche una forte "attrazione" che il nostro sistema economico e sociale esercita e non si tratta solo della possibilità di accedere a consumi non altrimenti accessibili (33).

Ciò trova del resto una precisa conferma nelle direzioni che prendono i flussi migratori, i quali sono prevalentemente orientati verso le aree economicamente più dinamiche del paese, come vedremo addirittura prossime a livelli di piena occupazione; o verso le aree metropolitane dove, a parte l'innegabile componente di giovani attratta dalle luci e dagli splendori delle città occidentali (34), vi è anche una enorme possibilità d'impiego nel settore del terziario dequalificato, nell'edilizio e nell'industriale - soprattutto nelle città del Centro-Nord.

Se si ritiene l'immigrazione dovuta principalmente a push effect (fattori di spinta) e non a pull effect (fattori di richiamo), all'eventuale inserimento lavorativo degli immigrati dovrebbe corrispondere una sostituzione dei nuovi venuti agli autoctoni. Si dovrebbero riscontrare dunque dei casi di concorrenza fra lavoratori immigrati e lavoratori italiani e magari qualche episodio di conflittualità legato alla competizione per il lavoro, dato che in questi casi i flussi non dovrebbero essere determinati dall'esistenza di possibilità occupazionali in grado di attrarre gli immigrati nelle società d'arrivo, ma solo da ragioni - siano esse di natura politica, economica o sociale - idonee a spingerli lontano dalla loro terra d'origine.

D'altra parte se si asserisce che l'immigrazione è determinata prevalentemente da pull effect, logica conseguenza della premessa dovrebbe essere l'asserzione circa il carattere complementare sul mercato della forza lavoro immigrata rispetto all'italiana. In questo caso, com'è ovvio, gli immigrati verrebbero a riempire nicchie più o meno ampie di mercato lasciate vuote dagli autoctoni, senza che si determini alcuna concorrenza fra loro (35).

La questione, come si comprende, è di una certa rilevanza e merita di essere meglio approfondita. Cominciando dagli aspetti schiettamente quantitativi: i dati sull'impiego (regolare) di immigrati in Italia sono in costante crescita sin dal 1991 e, già nel 1997, risultavano quasi triplicati (passando dai 140.000 del '91, alle 360.000 unità del '97). Come c'era da aspettarsi, poi, i picchi di regolarizzazioni si registravano in corrispondenza delle varie sanatorie (le medie di 40.000-50.000 libretti del lavoro annualmente richiesti, schizzano a 190.000 nel '90 e 165.000 nel '96) (36), che andavano a legalizzare pregresse situazioni di irregolarità (perlomeno nel soggiorno): tra '94 e '96, infatti, si dimezza il numero di quanti lavoravano in nero in condizione di irregolarità con le norme per il soggiorno (si passa da 341.000 a 182.000; nel '98 si arriverà a 100.000) ed aumentano considerevolmente coloro che lavorano con un regolare contratto di lavoro (211.000 nel '94, 391.000 nel '96, 564.000 nel '98) (37).

L'esigenza cui rispondevano le sanatorie è, comunque, chiara: queste intervenivano a legittimare situazioni d'integrazione economica ed inserimento lavorativo ormai cristallizzatesi del tutto indipendentemente da una politica migratoria che in Italia sarà a lungo ottusamente legata ad una visione ristretta del problema e fondata su una patente sottostima dell'effettiva domanda di manodopera espressa dal nostro sistema produttivo (il quale, peraltro, ha i suoi buoni vantaggi nell'accedere ad una vasta offerta di lavoro complessivamente meno garantita e meglio sfruttabile qual'è quella degli extracomunitari non in regola con il permesso di soggiorno). Gli ingressi di extracomunitari autorizzati al lavoro nel nostro territorio sono sempre stati, infatti, parecchio limitati se si pensa alla realtà che solitamente emerge in occasione di una sanatoria, fermi intorno ai 20.000 fino al 1997, inizieranno ad aumentare solo sul finire degli anni '90, toccando nel '99la pur esigua quota di 36.454 autorizzazioni.

Tali dati tuttavia sono affetti da una complessiva sottorappresentazione del numero di immigrati effettivamente impiegati nel nostro paese, poiché non tengono in conto di quanti lavorano in nero pur avendo un regolare permesso di soggiorno (di quelli illegalmente soggiornanti in Italia si è detto), rispetto ai quali le cifre ufficiali fornite da ISTAT, Ministero del Lavoro ed uffici di collocamento, nulla ci dicono. Necessariamente, dunque - come nel caso della presenza irregolare, quando si parla della partecipazione degli immigrati al mercato informale del lavoro ci si confronta con delle stime (38). E tali stime, d'altra parte, ci pongono di fronte a dei dati non del tutto confortanti, poiché vedono una notevole partecipazione degli immigrati al mercato del lavoro nero, aggiratesi intorno al 38,3% degli immigrati con permesso di soggiorno. Se si considera che una simile percentuale è praticamente doppia rispetto al livello di partecipazione degli italiani al mercato del lavoro nero, risulta evidente come nel corso degli anni '90 gli immigrati si sono progressivamente sostituiti alla manovalanza italiana nel settore informale dell'economia (39).

Nel corso degli anni '90 l'impiego informale di immigrati è, dunque, cresciuto costantemente, raddoppiando nella sola seconda metà del decennio (si passa dalla stima di 138.000 del '94, a quella di 260.000 nel '98) (40) e ciò stimola ulteriori considerazioni.

In primo luogo tali stime possono in parte ridimensionare la rilevanza delle quote di disoccupazione che registrano gli immigrati (41), i dati relativi alle iscrizioni agli uffici di collocamento infatti potrebbero essere valutati in maniera meno allarmante proprio a partire dall'immensa sovra-rappresentazione degli immigrati nel mercato del lavoro nero. Inoltre ciò testimonia come le ricorrenti sanatorie se, da una parte, hanno avuto il meritorio effetto di far uscire dall'irregolarità molti immigrati (ed anche le posizioni lavorative di chi non poteva avere un regolare contratto a causa della sua situazione rispetto alla normativa con il soggiorno), dall'altra non hanno impedito che questi, acquisito il permesso di soggiorno, tornassero in molti casi ad una situazione lavorativa informale (42).

In ultimo ci consente di effettuare una valutazione complessiva della partecipazione degli immigrati alla produzione del nostro reddito nazionale: nel 1999 (ma è presumibile che tali dati siano adesso molto più elevati, anche in considerazione dell'elevato numero di regolarizzazioni effettuato a seguito della sanatoria del '98, le cui procedure si sono andate a concludere solo nel 2000 (43)) il numero degli immigrati impiegati in Italia era stimato in una cifra pari a circa 945.000 unità, di cui 830.000 con il permesso di soggiorno (585.000 impiegati regolarmente; e 245.000 irregolarmente) e 115.000 privi del permesso di soggiorno (che ovviamente non possono avere un rapporto di lavoro in regola) (44).

La distribuzione regionale degli immigrati riscontrata sotto il profilo demografico riflette perfettamente, come segnalato, l'andamento del nostro mercato del lavoro: la stragrande maggioranza degli avviamenti avviene, infatti, nelle zone più dinamiche del paese, dove, più che altrove, si diffondono piccola e media impresa e terziarizzazione (Nord-Est, Centro, Lombardia, con il forte contributo nel settore terziario di Milano), che - da sole - effettuano circa il 70% degli avvii al lavoro. D'altra parte ridotta è la presenza immigrata nelle aree del paese dove ai processi di deindustrializzazione non ha fatto seguito un adeguato sviluppo post-industriale (Nord-Ovest); mentre per il Sudil discorso è parzialmente diverso, poiché entro certi limiti la ridotta presenza di immigrati registrata potrebbe essere falsata da una forte presenza irregolare, dato che anche il tipico inserimento lavorativo in queste aree è nel settore agricolo, in cui è dato registrare elevati livelli di lavoro nero (45).

Quanto ai settori d'attività, ormai dal 1994 stabile è la distribuzione: a parte la netta prevalenza dell'impiego industriale e nei servizi, che mediamente danno lavoro in Italia al 26-28% - nell'industria (cui si potrebbe aggiungere il 7% dell'edilizia) - ed al 16-20% - nei servizi - degli immigrati, notevole è la rilevanza del lavoro domestico, in cui restano segregate le donne immigrate, con percentuali che nel '98 arrivavano fino al 29,7% sul totale del lavoro immigrato (46).

Come accennavamo, l'agricoltura è al Sud il principale settore d'impiego degli immigrati (con una percentuale del 38,3%), mentre al Centro-Nord prevalgono in senso assoluto l'impiego industriale e nei servizi: in particolare (a parte il dato del Nord-Ovest, dove l'impiego industriale non supera il 26,3%) tutto il Centro-Nord non scende, per quel che riguarda l'industria, al di sotto del 30% (con punte del 39,7% nel Nord-Est) e, per quel che riguarda i servizi, al di sotto del 20% (47).

Quanto al tipo di mansioni svolte c'è una netta prevalenza degli impieghi nelle basse qualifiche (operai generici), mentre sono progressivamente diminuiti i contratti a tempo indeterminato, a favore di formule contrattuali "atipiche" (ovviamente non teniamo in conto il lavoro nero, forma principe di "atipicità" lavorativa in Italia) (48).

Come si vede, a parte l'ovvia considerazione circa la parziale attendibilità delle stime relative ai lavoratori in nero, non è affatto irrilevante l'apporto che la manodopera immigrata offre al nostro sistema produttivo (49); anche se i dati riportati non ci dicono ancora se e fino a che punto gli immigrati entrino in concorrenza con i lavoratori italiani, o, piuttosto, non siano complementari alle carenze dell'offerta di lavoro italiana sul mercato. Sotto questo profilo, infatti, bisogna considerare la profonda stratificazione e la marcata segmentazione territoriale che connota il nostro mercato del lavoro.

Utilizzeremo, per valutare se e quanto l'integrazione lavorativa degli immigrati avvenga in termini concorrenziali rispetto alla manodopera italiana, i tre modelli proposti da E. Reyneri per classificare l'inserimento degli immigrati nel nostro mercato del lavoro (50):

  1. modello industriale: diffuso prevalentemente al Centro Nord, dove vi è una forte domanda di lavoro nelle piccole e medie imprese industriali e nelle aziende edili;
  2. modello metropolitano: relativo alle grandi città, nelle quali prevalgono i lavori domestici ed i servizi necessari alla qualità della vita (ristorazione, pulizia, lavoro domestico, etc.);
  3. modello meridionale: in cui prevale l'agricoltura, se ovviamente si escludono le grandi città che presentano solitamente le caratteristiche tipiche del modello metropolitano.

Si era segnalato in precedenza come la manodopera immigrata tendesse a dirigersi prevalentemente verso le aree del Centro-Nord, tale concentrazione è stata messa in relazione con lo sviluppo economico ed occupazionale di quelle zone ed è stato rilevato come sia in questi luoghi che si registra la maggior parte del lavoro immigrato, impiegato nei settori produttivi più fiorenti (piccola e media impresa, servizi, ma anche, in piccola parte, agricoltura).

Il modello industriale riguarda sopratuttola cosiddetta "Terza Italia" (ma non solo), dove - soprattutto nelle aree dove la rete di piccole e medie imprese si è maggiormente sviluppata - abbiamo percentuali bassissime di disoccupazione (tant'è che si parla con un sostanziale accordo di livelli prossimi alla piena occupazione). Non è pertanto sostenibile, a riguardo, l'idea che l'immigrazione, in queste aree d'Italia, sia dovuta solo a fattori di spinta, né, tanto meno, che i lavoratori immigrati entrino in concorrenza con i lavoratori italiani. Si può piuttosto sostenere la tesi della complementarietà della manodopera immigrata rispetto all'italiana, perlomeno nel settore industriale, dove gli immigrati vanno ad occupare le posizioni professionali meno qualificate e remunerative (operai generici, spesso con contratti di precariato).

Il modello metropolitano, invece, si basa prevalentemente sulla diffusione del terziario dequalificato (lavapiatti, camerieri, cuochi, benzinai, guardiani, imbianchini, dipendenti di imprese di pulizia e nei servizi di riparazione, nei garage, portinai, facchini, fattorini, lavoratori di basso livello in panetterie, macellerie...ecc.); dei servizi alla persona, che come visto coprono da soli una grossa fetta di lavoro immigrato; sull'impiego nel settore edilizio. Ovviamente, nelle realtà metropolitane del Centro-Nord, sovente si sovrappone a tale modello il modello industriale, per cui molti immigrati che vivono in città trovano lavoro nella rete di piccole imprese sparse nell'area suburbana di molti capoluoghi. In ogni caso si tratta spesso di lavori di bassissimo livello con poche possibilità di carriera, oltre che precari, molto pesanti come orari di lavoro e squalificati socialmente.

Tuttavia, anche per tale settore della domanda di lavoro, l'esercito di extracomunitari è fondamentale e non solo nel caso delle "badanti" (sovente l'unico ruolo sociale la nostra società sembra riconoscere agli immigrati):"nelle fabbriche di Treviso o Vicenza come nelle stalle di Cremona o Modena senza gli immigrati interi cicli produttivi entrerebbero in grave crisi, E altrettanto ne soffrirebbe la qualità della vita di molte famiglie a Milano e Roma. Il lato negativo non è certo dato dalla concorrenza con i disoccupati italiani, che continua a non esistere, ma dal fatto che gran parte di questi vantaggi sono legati ad una condizione di precarietà, che rende gli immigrati disponibili a qualunque lavoro" (51).

Più complessa da interpretare è la situazione del mezzogiorno: affetto da impressionanti livelli di disoccupazione (siamo su percentuali che si approssimano al 25%), parrebbe dover essere il Sud il terreno di un conflitto fra lavoratori immigrati e lavoratori italiani la cui posta in gioco è il lavoro. Tuttavia la disoccupazione meridionale è una disoccupazione che riguarda prevalentemente giovani altamente scolarizzati (52) e sovente ancora protetti da una "rete" familiare che gli assicura la possibilità di attendere l'occasione lavorativa consona alle proprie aspettative. Inverosimile è, dunque, che queste categorie di disoccupati entrino in concorrenza con gli immigrati per accedere a lavori bracciantili, magari sottopagati ed in nero, come accade nelle campagne di Villa Literno, nel Salento o nella Piana di Gioia Tauro (53).

Piuttosto, se concorrenza vi può essere, lo sarà rispetto alle "fasce deboli" della disoccupazione giovanile meridionale, rispetto alle fasce di disoccupazione prive di elevati livelli di scolarizzazione, che si spostano verso il Nord nel tentativo di entrare anch'esse nei ranghi del proletariato post-fordista settentrionale.

Tuttavia, in dieci anni d'immigrazione d'una certa consistenza, difficilmente si sono registrati conflitti fra giovani meridionali e giovani immigrati. Conflitti che invece si sono verificati proprio nelle aree dove la maggiore presenza degli immigrati è giustificata da un forte inserimento economico degli stessi. Ma in questi casi tali conflitti hanno assunto il carattere di conflitti per l'accesso alle risorse (sempre più scarse) del welfare e per la fruizione dello spazio urbano, piuttosto che per il lavoro (54).

Conflitti apparentemente inspiegabili proprio perché più aspri laddove gli immigrati necessitano maggiormente, dove le esigenze delle imprese produttrici di beni e servizi impongono un completamento dei ranghi delle sempre più sfilacciate «classi laboriose» italiane con un ampio ricorso alla manovalanza immigrata (circostanza che forse ha evitato, per il momento, un massiccio processo di delocalizzazione all'estero, in aree dove il costo del lavoro è meno elevato, ma sovente molto instabili politicamente (55)); dove il nostro tenore di vita ed il nostro livello di consumi (non solo di beni) non potrebbe altrimenti mantenersi così elevato. Esigenze che però sono destinate a scontrarsi con le pulsioni xenofobe di molte aree del Centro-Nord, che "chiuse nel loro localismo, vorrebbero gli immigrati relegati all'interno delle fabbriche ed invisibili nella società" (56).

Gli immigrati partecipano in maniera sostanziale alla produzione del reddito nazionale e la pretesa di una loro invisibilità sociale che, come vedremo, levano a gran voce ampi strati della nostra società civile, è esattamente funzionale alla volontà di farli partecipare in minima parte, se non escluderli totalmente, alla redistribuzione di tale reddito, confinandoli nel ruolo di docile e disciplinata classe laboriosa.

Si delinea, insomma, un quadro in cui il tipo d'integrazione che l'Italia sembra disposta a concedere agli immigrati, corrisponde esattamente a quello che è stato chiamato: modello di "inclusione subordinata". Integrazione economica a fronte di radicale esclusione sociale e politica. L'immigrato non serve come soggetto che gode di pari diritti civili, politici e sociali rispetto agli autoctoni, egli risulta utile nella qualità di "neo-schiavo", come soggetto inferiorizzato. La pretesa di visibilità sociale, di partecipazione o, comunque, la reazione all'esclusione ed all'inferiorizzazione subita è assolutamente antagonista rispetto ad un sistema che, massimizzando i profitti e riducendo l'area dell'intervento statale nel sociale, non ha bisogno di una massa di manodopera integrata, bensì di una massa priva di diritti. Non è l'immigrazione di per sé ad essere in contrasto con il nostro assetto economico, lo è, tuttavia, un'immigrazione che aspiri all'uguaglianza giuridica e sociale.

Il controllo sociale esercitato sull'immigrazione, sul nostro proletariato d'importazione, è dunque funzionale a disciplinare gli extracomunitari al ruolo in cui la società italiana li confina: quello di «classi laboriose». Tutto ciò che sfugge a quest'ordine rientra nella nozione di «classi pericolose».

5.2: «Nuove classi pericolose»: la criminalizzazione degli immigrati in Italia

Nella storia l'associazione fra migrazioni e criminalità è ricorrente. Sin dai primi sviluppi di un'economia capitalistica, con l'avvio di quel processo economico e sociale che Marx chiamò accumulazione originaria, lo spostamento di popolazioni dalla campagna verso le città fu da stimolo per l'invenzione di forme di controllo sociale sempre più sofisticate e pervasive. L'aggirarsi libero e disordinato fra le città e le campagne di turbe di vagabondi fu la ragione della nascita di quella che è stata chiamata società disciplinare, un vasto complesso di istituzioni da cui sorgerà la stessa prigione moderna.

Come visto nella prima parte di questo lavoro, il problema del vagabondaggio fu molto sentito dalle autorità e dai cittadini comuni del tempo, una lunga serie di provvedimenti finalizzati all'imbrigliamento di questa massa fluttuante in istituzioni sociali chiuse - o al bando dal territorio dello stato, qualora riconosciuti come forestieri - si sussegue sin dal secolo XVI, almeno fino al XIX, quando ai vecchi "ospizi", alle antiche "case di lavoro" o "ospedali" per vagabondi e disoccupati si sovrappose la rete penitenziaria.

La stessa Parigi descrittaci da L. Chevalier è ossessionata dalla presenza di masse più o meno controllabili di "forestieri", alla cui inciviltà si imputano il degrado morale e fisico dei bassifondi ed il diffondersi della delinquenza...se non, addirittura, l'assoluta paternità dei moti insurrezionali che sconvolgono le vie della capitale francese nella prima metà del XIX secolo.

Sempre visti quale massa di barbari e selvaggi, gli immigrati hanno ovunque destato sospetto fra la popolazione autoctona, sono stati da sempre i principali candidati ad essere inquadrati nel novero delle "classi pericolose", diventando così i migliori clienti dell'attività poliziesca e delle istituzioni disciplinari in genere.

Tutto ciò non era altro che il portato del funzionamento dei meccanismi biopolitici deputati al controllo ed all'adattamento dei fenomeni di popolazione alle esigenze della produzione, nell'ambito dei quali polizia ed istituzioni disciplinari - come più volte sottolineato - agivano "chirurgicamente" selezionando quanti non apparissero sufficientemente disciplinati (o non più disciplinabili) in relazione alle esigenze di normalizzazione che l'ordine economico-sociale imponeva alle masse lavoratrici.

Complessivamente, dunque, i meccanismi poliziesco-disciplinari continuarono a tener fede alla loro originaria vocazione: disciplinare il sempre più ampio esercito di salariati che il capitale andava assorbendo, alle condizioni ed ai ritmi di lavoro funzionali alle sue esigenze di valorizzazione.

L'immigrazione, in quanto processo di rinnovamento e di allargamento della base sociale, della forza lavoro impiegabile, ha sempre subito il peso dei meccanismi disciplinari e dei saperi, degli stereotipi sul crimine che li hanno accompagnati. Anche se la percezione di «diversità» che sottende ogni stereotipo ne è uscita sempre rinforzata dal confronto con le migrazioni: come avremo modo di sottolineare adeguatamente, infatti, a diversità di classe esse sovrapposero sempre diversità somatiche e razziali ben più efficaci nel fondare processi di stigmatizzazione ed emarginazione. Alla marginalità sociale, economica e politica cui è sempre stata relegata la base della piramide sociale in ogni sistema capitalistico, si sovrappone l'emarginazione etnica e culturale degli immigrati nella società d'immigrazione, di cui ghetti e banlieux sono solo la sanzione spaziale, il segno fisico.

Lo straniero, o meglio, l'immigrato, colui "che oggi arriva e domani resterà" (57), non appartiene più al suo luogo d'origine - da cui ha operato una secessione - ma non appartiene nemmeno all'universo sociale in cui pretende d'inserirsi. Egli è in una inevitabile posizione di marginalità, in una ambigua posizione di mezzo, incapace di collocarsi in un ambiente sociale cui senta di appartenere: lontano dalla terra d'origine, vive in un luogo che lo respinge come corpo estraneo e nel quale deve imparare a muoversi, riconsiderando tutti i suoi modelli culturali e comportamentali (58).

Alla classica figura del «mostro popolare», il nemico interno che minaccia di rompere il patto sociale dal basso, lo straniero sovrappone l'immagine dell'estraneo che, a causa della sua profonda alterità, giunge a corrompere il patto: nemico esterno che adesso è fra noi e mette in pericolo l'integrità del consesso sociale. L'immigrazione, così come la criminalità, involge un fondamentale problema politico: chi ed a che titolo fa parte del patto che fonda il nostro ordine sociale e chi ne è escluso. In entrambi casi, infatti, è in gioco un'autodefinizione della società, dei suoi confini e dei suoi membri legittimi, attuata per mezzo di due fondamentali dicotomie: amico/nemico; nazionale/straniero.

Il nesso tra migrazioni e criminalità risiede in primo luogo, dunque, nella stessa prossimità semantica che connota, nel nostro lessico politico, i due termini negativi delle dicotomie: straniero - nemico; hospes - hostis (59). Tale nesso, tuttavia, oltre ad avere profonde radici all'interno della nostra cultura filosofico morale, è ricorrente nella nostra esperienza storica moderna almeno quanto lo sono le stesse migrazioni e merita, pertanto, qualche considerazione più specifica; anche perché le esperienze migratorie più recenti (almeno dall'inizio del XX secolo) sono state oggetto di numerosi contributi di ricerca che hanno notevolmente influenzato il dibattito pubblico sull'argomento.

5.2.1: Immigrazione e criminalità

Ogni flusso di popolazione ha subito il peso di un pregiudizio criminalizzante e ciò è certamente vero non solo per i movimenti di manodopera conosciuti sino alla metà del XIX secolo, ma vale anche nel caso dei movimenti migratori a noi più prossimi.

Le Americhe tra fine XIX e primi anni del XX secolo; ancora il Nord America rispetto alle migrazioni interne di lavoratori di colore provenienti dal Sud; l'Australia, il Canada e l'Europa Nord-Occidentale nella seconda metà del XX secolo, così come la stessa Italia del triangolo industriale rispetto ai flussi provenienti dal mezzogiorno; tutte le società d'immigrazione hanno conosciuto un lungo dibattito, accademico e non, circa il contributo che gli immigrati davano al diffondersi della delinquenza e, più in generale, hanno manifestato una diffusa diffidenza nei confronti dei nuovi venuti (60).

In questo, il caso degli Stati Uniti d'America è emblematico, poiché in questo paese l'immagine sociale diffusa dell'immigrato è riuscita ad avere conseguenze rilevanti sulla sua stessa politica immigratoria: fu, infatti, il dibattito pubblico sviluppatosi sull'argomento ad aver portato alla storica chiusura delle frontiere nel 1924.

Paese che sull'immigrazione si è fondato, gli Stati Uniti tennero a lungo aperte le loro frontiere, accogliendo i flussi di manodopera forse più imponenti che la storia ricordi; parallelamente lo sviluppo economico industriale, l'inurbamento ed i complessi fenomeni sociali connessi divenivano oggetto delle attenzioni delle autorità di controllo, degli scienziati sociali e di un'opinione pubblica sempre più diffidente e ostile ai "nuovi immigrati" dall'Europa meridionale ed orientale.

La vicenda è di una certa rilevanza poiché è in questo contesto che verranno prodotte le prime specifiche ricerche sulla partecipazione degli immigrati all'attività criminale. Del resto, secondo quanto già segnalato nel corso della prima parte, furono proprio le trasformazioni sociali indotte dall'evoluzione capitalistica, con gli imponenti spostamenti di popolazione che si andranno a scatenare, l'oggetto principale delle indagini delle scienze sociali e ciò tanto nel vecchio continente, quanto nel nuovo, dove tali fenomeni - che andavano assumendo proporzioni macroscopiche - tennero a battesimo la stessa scienza sociale americana.

Nazione che nel sacro valore delle libertà individuali trovava il suo principio fondante, gli Stati Uniti erano nell'immaginario collettivo, a cavallo tra XIX e XX secolo, il luogo dove chiunque avrebbe potuto realizzare le proprie aspirazioni; in questa terra di pionieri mai nessuno avrebbe potuto mettere in discussione la fede nel valore dell'individuo e, tanto meno, nel suo sacro diritto di circolare e soggiornare liberamente sul suolo americano. Tanto più che ciò contribuiva a rendere significativamente più vantaggiose le condizioni del mercato del lavoro per un economia capitalistica che, già nel primo quarto del secolo XX, avrebbe raggiunto livelli di primissimo piano su scala mondiale...La fede liberale, insomma, ben si sposava con la fede liberista che dominò il campo almeno fino agli anni '30.

Quest'immagine aperta ed accogliente degli Stati Uniti d'America rispose tuttavia alla realtà concreta solo fino ai primi decenni del secolo XX, quando lentamente, ma sempre in maniera più insistente, il dibattito pubblico cominciò ad orientarsi favorevolmente verso politiche di maggiore restrizione dell'immigrazione. Come è stato segnalato, il ruolo degli intellettuali a riguardo fu non indifferente: da un lato essi, come consulenti delle autorità governative, offrirono il loro parere "tecnico" in relazione alle varie riforme che si andarono promovendo; dall'altro si fecero divulgatori presso l'opinione pubblica di un "razionale" fondamento per una disciplina normativa che obiettivamente ledeva il sacro valore delle libertà individuali; "prima che le leggi sull'immigrazione degli anni venti potessero essere approvate una generazione di antropologi, economisti, sociologi e storici lavorò per dare al principio delle quote per nazione un puntello che le rendesse coerenti con il sistema dominante americano di valori" (61).

Come detto l'immigrazione costituiva la vicenda originaria del popolo americano stesso, ma la questione che iniziò a porsi, già a partire dal 1880, fu quella della possibilità di assimilare la "nuova immigrazione", proveniente dall'Europa meridionale e orientale, la quale si andava sostituendo alla "vecchia immigrazione", prevalentemente costituita da anglosassoni, tedeschi e scandinavi. Ancora sul finire del XIX ed all'inizio del XX secolo il discorso dell'antropologia esercitava un certo fascino anche negli Stati Uniti e fu proprio il timore che le nuove migrazioni minacciassero l'integrità biologica della "stirpe" americana a giustificare, presso alcuni settori dell'opinione pubblica, la possibilità di limitare per alcune categorie d'individui la libertà di immigrare.

Il ruolo degli intellettuali nella diffusione di tali opinioni razziste non fu indifferente: anche uno dei promotori dell'American journal of Sociology, Edward Ross, poteva autorevolmente arrivare a confermare l'idea che il ceppo originario fosse messo in pericolo dall'afflusso di individui biologicamente inferiori, "il sangue attualmente iniettato nelle vene della nostra specie è sottosviluppato (...) si rimane colpiti dal fatto che dal dieci al venti per cento sono persone ispide, dalla fronte bassa, con grossi visi, ovviamente di scarsa intellettualità" (62).

L'immigrazione più recente, inoltre, era esplicitamente accusata di alimentare pauperismo e criminalità, rinfoltendo le fila delle classi ritenute più pericolose per l'ordine sociale; i nuovi arrivati erano, insomma, una massa di delinquenti e di potenziali sovversivi. Ovviamente anche tale inserzione dell'immigrazione nel novero delle classi pericolose fu favorita dalla grande diffusione che ebbero le scienze antropologiche ed, in particolare, l'antropologia criminale, la quale legittimava l'idea di una particolare propensione a delinquere dei nuovi immigrati con il riferimento alla loro supposta inferiorità razziale.

Tale radicata visione negativa dell'immigrazione proveniente dalle aree meridionali ed orientali dell'Europa portò progressivamente alla chiusura delle frontiere statunitensi rispetto a questi flussi ed all'avvio di una esplicita "biopolitica immigratoria" volta a selezionare le nazionalità o i gruppi etnici ritenuti assimilabili o comunque non pericolosi per l'integrità biologica e culturale degli "americani" (63). Al contempo ciò portò alla definitiva equiparazione, nell'immaginario collettivo, di immigrazione (ma soprattutto di una "certa" immigrazione) e criminalità.

Con gli anni '30, però, iniziarono a diffondersi contributi d'analisi che rifuggirono da un'interpretazione biologica e pregiudiziale della devianza degli immigrati, arrivando addirittura a sfatare il mito che gli immigrati commettessero più reati degli autoctoni.

Di particolare rilievo fu il lavoro di E. H. Sutherland, che nel 1939, in sintonia con quanto aveva sostenuto nel suo celebre Culture Conflict and Crime Th. Sellin, affermò categoricamente l'assoluta irrilevanza del fattore biologico - o razziale - nel determinare i livelli di delittuosità degli immigrati, la cui eventuale maggior partecipazione alle attività devianti era piuttosto ricollegabile a specifiche ipotesi delittuose, che esprimevano particolarità culturali riferibili alla provenienza degli immigrati (64).

In particolare, la minore partecipazione degli immigrati alle attività criminali rispetto agli autoctoni era già stata autorevolmente dimostrata nel 1931 dal lavoro della Commissione Wickersham (ultima di quattro cui, dall'inizio del XX secolo, il governo degli Stati Uniti aveva affidato l'incombenza di studiare il fenomeno), la quale giunse alla conclusione che, nonostante tutti gli svantaggi di natura economica e sociale e l'elevato rischio che venissero maggiormente stigmatizzate dal sistema penale (sia a causa degli svantaggi economici e linguistici, che in ragione delle cattive opinioni diffuse sul loro conto), "in proporzione alla loro rispettiva consistenza numerica, le persone nate all'estero commettono meno spesso reati degli autoctoni" (65). Piuttosto, anche in questo caso, quando, occasionalmente, gli stranieri superavano gli autoctoni, si trattava solitamente di specifici reati particolarmente legati alle origini culturali dell'immigrato.

Gli Stati Uniti avevano ormai chiuso le frontiere e ciò che maggiormente si sarebbe posto all'attenzione degli scienziati sociali sarebbe stato il problema delle migrazioni interne, che cominciavano a far defluire verso le città del nord molti lavoratori di colore; ma, soprattutto, la questione degli immigrati di "seconda generazione" rispetto ai quali i dati non erano certo incoraggianti. Tutti i contributi a riguardo, compresa la Commissione Wickersham, erano già convenuti nel concludere che i figli degli immigrati erano maggiormente coinvolti, rispetto ai loro coetanei autoctoni, nelle attività delittuose (66).

Piuttosto le divergenze si riscontravano nell'interpretazione di tali dati. Da un lato, infatti, si sottolineava il fattore della perdita della capacità di controllo sui loro figli da parte delle famiglie, rapidamente socializzati alla way of life americana a dispetto dei genitori, ancora legati al passato di tradizioni e norme culturali dei luoghi d'origine; come segnalavano I.T Thomas e F. Znaniecki nel loro lavoro sui contadini polacchi in America, i genitori non rappresentavano più per i loro figli la guida per l'iniziazione alla vita sociale, "non era più dal padre e dalla madre che essi potevano imparare il lavoro o la storia e le regole del paese in cui vivevano" (67).

D'altra parte, alla perdita di efficacia del controllo sociale informale, si poteva aggiungere un conflitto culturale ancora più forte rispetto a quello subito dagli immigrati di prima generazione, che, tutto sommato, restavano legati alle vecchie tradizioni culturali; la teoria di Sellin dava conto, infatti, di tale dissidio tra i diversi canali di socializzazione: da un lato la famiglia con i valori culturali e le tradizioni del paese d'origine, dall'altro la società d'immigrazione con cui si entra in contatto al di fuori delle mura di casa (68).

L'interesse che suscitò negli Stati Uniti il problema della criminalità degli immigrati si riprodusse nella seconda metà del XX secolo in Europa (ma anche in Australia, in Canada, ecc.), allorché le regioni nord occidentali del vecchio continente furono investite da consistenti flussi di manodopera. Le conclusioni cui giunse la ricerca furono sostanzialmente simili a quelle cui erano giunti gli scienziati sociali americani dagli anni '30 in poi (anche se una comparazione corretta non è possibile poiché le politiche immigratorie di paesi come Francia, Inghilterra, Olanda favorirono la naturalizzazione degli immigrati dalle ex colonie; mentre altri paesi, tra cui spicca la Germania, adottarono un modello immigratorio che tendeva a sfavorire l'insediamento stabile dell'immigrato, il quale, pertanto, difficilmente avrebbe perso tale status per diventare un cittadino): gli immigrati di prima generazione difficilmente presentavano tassi di delittuosità superiori a quelli degli autoctoni. Piuttosto restava problematica la questione della seconda generazione di immigrati, la quale continuava anche in Europa (ma non solo) ad essere connotata da elevati livelli di delittuosità (69).

L'Italia stessa, che continuava ancora a svolgere il suo classico ruolo d'esportatrice di manodopera, conobbe delle migrazioni interne di una certa rilevanza, con un consistente flusso di lavoratori meridionali diretti verso le aree metropolitane del cosiddetto "triangolo industriale". In questo caso, però, le ricerche svolte sull'argomento, oltre ad evidenziare la diffusione dei segnalati pregiudizi oltremodo criminalizzanti, riscontrarono una notevole partecipazione degli immigrati alle attività devianti. Anche sotto il profilo statistico, il Sud risultava essere un grande esportatore di delinquenza; tuttavia, come nel caso dei tassi di delittuosità registrati per le seconde generazioni di immigrati, tali cifre nulla dicevano se non che determinati soggetti risultavano essere sovra-rappresentati nelle statistiche sulla criminalità (70).

L'evidenza numerica, insomma, avrebbe potuto certificare tanto le discriminazioni che le minoranze etniche (nel caso delle migrazioni "esterne") o gli immigrati da altre zone della stessa nazione (come nelle migrazioni "interne") subivano da parte del sistema di controllo sociale formale; quanto dimostrare l'effettiva maggior partecipazione di queste categorie sociali alle attività criminali, interpretabile poi con il ricorso ad ipotesi teoriche di vario tipo ora centrate sugli svantaggi socio economici, ora sul conflitto culturale, ecc.

A complicare il quadro complessivo si sono aggiunte le ricerche svolte in relazione alle immigrazioni più recenti, che, come segnalato, dagli anni '70 in poi hanno incontrato delle normative via via più restrittive ed un quadro socio-economico molto diverso rispetto al contesto in cui s'inserirono i flussi di manodopera ancora nel dopoguerra. Tendenzialmente, infatti, le ricerche più recenti svolte in tutta Europa (71) segnalano una crescente sovra-rappresentazione degli immigrati nelle statistiche criminali e ciò anche tenendo conto della composizione per sesso e per età dei nuovi immigrati, i loro livelli di delittuosità, infatti, superano comunque il livello registrato per quote di autoctoni con caratteristiche di genere ed età corrispondenti.

Il dibattito sulla partecipazione alle attività devianti dei nuovi arrivati si aggiunge così - nei paesi di più lunga tradizione migratoria - alla questione delle seconde generazioni degli immigrati giunti tra gli anni '50 e '60, e ripropone identica a sé stessa la questione dell'interpretazione dei dati: essi riflettono una realtà di maggiore partecipazione alle attività criminali, o sono solo il frutto delle discriminazioni e della selettività dei sistemi penali?

I recenti flussi migratori tuttavia hanno investito anche paesi prima teatro solo di emigrazioni (o di migrazioni interne) come l'Italia ed hanno dunque posto identiche questioni anche all'attenzione della nostra opinione pubblica. Per la prima volta nella sua storia, l'Italia è alle prese con consistenti flussi migratori provenienti dall'estero e, come vedremo, similmente a quanto accaduto con i migranti meridionali, non sono mancati pervasivi processi di stereotipizzazione il cui esito è stato l'equiparazione, nel sentire comune, d'immigrazione e criminalità.

Questa potrebbe indubbiamente essere una premessa valida da cui partire nel sostenere che la maggiore rappresentazione degli immigrati nelle statistiche sulla criminalità è dovuta al peso della discriminazione e del pregiudizio. Tuttavia vi sono due ordini di difficoltà in cui si incorre nel tentativo di sostenere una simile interpretazione dei dati sulla criminalità degli immigrati: da un lato la necessità di dover dimostrare che, a fronte di un impostazione formalmente egalitaria, i nostri sistemi di controllo sociale formale alimentino le discriminazioni ed agiscano selettivamente; dall'altro la necessità di spiegare come mai tutte le ricerche condotte nelle società d'immigrazione giunsero, almeno fino agli anni '70, alla conclusione che "il tasso elevato di delinquenza fra i lavoratori emigranti stranieri è un mito dovuto alla xenofobia" (72), dimostrando come gli immigrati (almeno quelli di prima generazione) non avessero, nonostante i pregiudizi, elevati livelli di delittuosità.

A tali difficoltà riteniamo si possa sopperire affrontando la questione secondo l'approccio metodologico nello studio dei processi di controllo sociale suggeritoci dalla criminologia critica, in quest'ottica, infatti, l'analisi dei processi di controllo sociale non si limita ad una valutazione del ruolo degli stereotipi criminalizzanti, dell'immagine sociale dominante di criminalità, nell'orientare selettivamente l'azione delle agenzie coinvolte (siano esse agenzie di controllo formali o informali), ma si estende anche all'analisi di quello che è stato chiamato referente materiale dello stereotipo, cioè al sostrato strutturale su cui i processi sovra-strutturali s'inseriscono ed a cui ritornano, con i loro effetti di riproduzione materiale ed ideologica della realtà.

Siamo persuasi, in proposito, che una simile impostazione metodologica, oltre a gettar luce sui meccanismi che alimentano la selettività del sistema di controllo sociale, possa dar conto delle diverse realtà economico sociali in cui si sono inserite le migrazioni che la storia ha conosciuto, strutture che non sono certo indifferenti rispetto a processi di marginalizzazione e criminalizzazione (o a processi inversi), ma che, al contrario, sono la base su cui questi - ed i processi ideologici che li sorreggono - s'inseriscono. Come segnalato, infatti, ogni processo di criminalizzazione, se slegato dalla realtà materiale in cui si esplica, rischia di apparire come un fenomeno privo di senso, avulso da una realtà al cui mantenimento ed alla cui riproduzione, invece, contribuisce incessantemente.

Ci pare insomma di poter inserire l'analisi dei processi di controllo sociale degli immigrati, nel quadro delle più complesse strategie di governo biopolitico della base della piramide sociale messe in campo da tutte le nazioni in cui si sono avviati processi di sviluppo capitalistico e più, poi, dalle democrazie occidentali del XX secolo. Nel quadro, dunque, di quella complessa strategia di separazione delle "classi laboriose" dalle "classi pericolose" cui sono preordinati i nostri apparati di controllo.

Del resto, come si è segnalato, spesso, nella storia dell'economia capitalistica, i ranghi delle "classi laboriose" sono composti da materiale d'importazione; anche se, nella costruzione degli stereotipi criminali, e soprattutto quando si tratta di migrazioni esterne, alle categorizzazioni di classe si sovrappongono categorie concettuali che rimandano ad entità quali nazionalità, razza, etnia, cultura...Tutti fattori che, come suggerito, sono in grado di rendere più pervasivo ed insidioso lo stereotipo criminale.

Per le ragioni appena espresse è, dunque, assai complicato condurre un discorso sulla partecipazione alle attività devianti degli immigrati che non sia specificamente rivolto ad un determinato contesto storico-sociale ed è, dunque, opportuno concentrare l'attenzione sulla realtà della nostra penisola, partendo dalla grezza evidenza statistica.

5.2.2: Immigrazione e criminalità nell'Italia di fine XX secolo

L'Italia, come del resto l'Europa (73), presenta livelli di carcerizzazione degli immigrati notevoli e si è già segnalato quanto sia cresciuto durante tutti gli anni '90 il numero di detenuti stranieri, che, nel 1999, è arrivato a toccare una percentuale sulle presenze pari al 26,5%. L'Italia dunque è ormai su livelli prossimi a quelli espressi da altre democrazie europee che pure hanno percentuali di immigrati sul totale dei residenti nettamente più elevate rispetto al nostro misero 2,6% (74).

Nel 1998, è stato calcolato che il tasso di detenuti su centomila stranieri residenti ammontava a 1.014 unità, mentre la cifra corrispondente d'italiani era quantificata in 65 unità, una differenza enorme, che in pratica significa che, già alla fine degli anni '90, gli immigrati presentavano tassi di carcerizzazione quindici volte superiori rispetto agli italiani. Il dato è ancora più impressionante se si considera che in Europa raggiunge simili livelli solo la Spagna (che non è certo paese dalla lunga tradizione immigratoria), dove, sempre alla fine degli anni '90, gli stranieri avevano tassi sedici volte superiori rispetto agli autoctoni e che nemmeno gli Stati Uniti, che pure hanno elevati livelli di carcerizzazione delle minoranze etniche (sempre nel '98 gli afroamericani risultavano incarcerati 7,5 volte di più rispetto ai bianchi), raggiungevano simili vette (75).

Certo c'è da rilevare come sia impossibile raffrontare nazioni in cui è stata favorita la naturalizzazione degli immigrati (come Inghilterra, Francia, Olanda), con nazioni in cui è arduo per gli immigrati poter raggiungere lo status di piena cittadinanza, anche se restano elevatissimi i livelli di carcerizzazione che le etnic minorities, seppur naturalizzate, subiscono (76).

Restando allo specifico italiano, anche altri dati quali quelli sulle denunce o sulle condanne, che costituiscono i momenti preliminari rispetto all'ingresso in carcere, evidenziano una notevole rappresentazione degli immigrati nelle statistiche penali. Anche in questo caso, in assoluta concordanza con le rilevazioni effettuate nel resto d'Europa, i livelli di rappresentazione degli immigrati sono nettamente superiori rispetto a quelli degli autoctoni (77).

In generale (78) - per quel che concerne le denunce - gli immigrati, nell'ambito di un generale aumento riferibile a tutti i reati, compaiono prevalentemente fra i denunciati per violazioni inerenti alla normativa sugli stupefacenti: tra il 1988 ed il 2000 la percentuale di stranieri denunciati è, infatti, praticamente raddoppiata, passando dal 13%, al 29%, con punte anche del 32%. Ma sono parecchio elevate anche le percentuali relative ai reati contro il patrimonio: nel 2000 gli stranieri denunciati per furto erano il 40% del totale, mentre nel caso delle rapine si arrivava al 28% e si saliva al 38% nel caso della ricettazione (79). Non meno consistenti, infine, sono le percentuali di stranieri denunciati per sfruttamento della prostituzione e rissa (sempre nel 2000, siamo rispettivamente intorno al 56% ed al 34%), come pure le percentuali registrate per i reati di contrabbando e violenza, resistenza ed oltraggio a Pubblico Ufficiale (rispettivamente il 44% ed il 35%).

L'andamento delle percentuali di nati all'estero sul totale dei condannati non è sostanzialmente differente: tra '91 e '99, infatti, tale percentuale è raddoppiata, passando dal 7,8% al 16,5% (80). Identici sono gli incrementi che hanno subito le cifre relative ad alcuni specifici reati: per esempio la percentuale di stranieri condannati per furto è passata dal 11,2% del '92 al 22,1% del '99; la percentuale di condannati per rapina passa dal 8,2% del '92 al 16,3% del '99; ma ancora più impressionante è l'incremento di condannati per violazione della normativa sugli stupefacenti, che passa da 12,3% del '92 al 32% del '99 (con una punta del 35% nel '96) (81).

La ripartizione territoriale dei reati segue quella degli stranieri stessi, concentrandosi nelle aree maggiormente popolate da immigrati (e soprattutto nelle grandi città del centro-nord): nel 1999, infatti, il 79,2% delle denunce a carico di stranieri si era avuta al Centro-Nord (82). Ciò si riflette anche sui dati relativi ad alcuni specifici reati: la percentuale di stranieri denunciati per furto è al centro-nord (nel 2000) del 46%, mentre al sud e nelle isole è del 31%; così per le rapine: 35% al centro nord e 18% al sud e nelle isole; e per le violazioni relative alla normativa sugli stupefacenti: 39% al centro nord e 9% al sud e nelle isole.

In città come Torino, Milano, Bologna si registrano livelli di delittuosità imputata agli stranieri ancora più significativi, ma i dati sono importanti soprattutto perché evidenziano l'elevata incidenza degli immigrati sulle violazioni alla normativa sugli stupefacenti registrate nei maggiori centri urbani. A Torino già nel '94 la percentuale di stranieri sul totale di denunciati per violazione del D.P.R. 309/1990 superava il 65%, da allora non è mai scesa al di sotto di questa cifra, arrivando a punte del 85% nel '98 e assestandosi intorno al 72% nel 2001. Milano è giunta più tardi su percentuali così elevate, superando il 50% nel '97, per poi sfondare definitivamente il tetto del 70% a far corso dal '98. Bologna, a differenza di Milano, supera già nel 1997 il dato del 70% di stranieri denunciati per violazione alla normativa sugli stupefacenti e da allora si assesta su livelli simili, sfiorando il dato del 80% nel 1998. Altre grandi città del Centro-Nord, come Firenze o Genova, segnano cifre altrettanto significative, pur senza raggiungere simili picchi (già dal 1996, comunque, sfondano il livello del 50%, oscillando da allora su percentuali attorno al 60%).

Tali percentuali difficilmente si raggiungono per altri reati (con l'eccezione della rissa che, nelle prime tre città considerate, si assestava nel 1999 attorno al 70%), così come, altrettanto difficilmente, è dato riscontrare dati simili rispetto alle grandi città del Sud e delle Isole (83); è, inoltre, nelle medesime aree geografiche del paese che si ha la stragrande maggioranza di condanne pronunziate contro stranieri: nel 1999 per esempio l'83% circa delle condanne contro immigrati extracomunitari è stata pronunziata al centro-nord (84).

Qualora si volesse provare a caratterizzare più precisamente la figura dello "straniero criminale" sulla base di tali dati strettamente quantitativi, ci si accorgerebbe che, quanto a genere ed età, i tassi di delittuosità registrati riflettono in Italia (e non solo) gli andamenti generali nelle statistiche giudiziarie penali: risultano infatti nettamente prevalenti i maschi giovani adulti.

In particolare però, se il dato sull'età dei condannati ci conferma come siano prevalentemente i soggetti compresi in una fascia d'età tra i quattordici ed i quarantaquattro anni ad attirare l'attenzione delle nostre agenzie penali - il 94% di condanne nel 1999 è, infatti, a carico di stranieri compresi in questa fascia d'età (85) - le caratteristiche di genere sono più complicate da valutare, anche perché le percentuali di donne sul totale degli stranieri che hanno impattato con il sistema penale variano in relazione ai tipi di reato ed alla nazione di provenienza - il che, dunque, impone di considerare preliminarmente quali siano le nazionalità straniere più rappresentate nei dati ufficiali sulla criminalità.

Come è stato giustamente segnalato la stragrande maggioranza di stranieri che abbiano avuto contatti con il nostro sistema penale proviene da paesi situati nell'"immediata periferia europea" (86), cioè dalle aree del Nord Africa, ed in particolare dal Magrheb, e dall'area dell'Est europeo, in particolare ex-Jugoslavia ed Albania (anche se, recentemente, in parallelo con il complessivo aumento demografico, hanno fatto la loro comparsa i cittadini rumeni) (87).

Simili risultanze riflettono praticamente il profilo demografico della nostra immigrazione, anche se si registrano le significative eccezioni dei cittadini provenienti dalle Filippine e dalla Cina, scarsamente rappresentati nelle statistiche sulla criminalità nonostante siano due delle nazionalità più rilevanti quanto a presenza in Italia; mentre, viceversa, gli algerini scalzano, nelle statistiche sulla criminalità, nazioni come il Senegal, l'Egitto, la Polonia, il Perù, il cui apporto sul totale degli stranieri presenti in Italia è nettamente più significativo. Certo alcune nazioni, come le Filippine, la Polonia o il Perù, hanno percentuali di maschi sul totale dei presenti molto basse e questo potrebbe in parte spiegare la loro scarsa rappresentazione nelle statistiche sulla criminalità; d'altra parte però, comunità prevalentemente maschili, come l'egiziana o la senegalese, comunque non presentano elevati livelli di delittuosità (88).

L'impattare delle donne straniere con il nostro sistema penale resta in ogni caso basso anche se si prendono in considerazione dati relativi a nazionalità con una netta prevalenza femminile sui residenti e ciò corrisponde tutto sommato ad una generale sotto-rappresentazione delle donne nelle statistiche criminali (89). Le donne straniere tuttavia presentano elevate percentuali di rappresentazione in relazione ad alcuni specifici reati, rispetto ai quali superano anche le percentuali sul totale dei denunciati che registrano gli uomini. È il caso, ad esempio, di alcuni reati contro il patrimonio (furto, ricettazione, rapina impropria) che, fra i denunciati, segnalano una significativa presenza di donne straniere.

In questo caso, tuttavia, è possibile circoscrivere il dato a donne straniere provenienti da una ben precisa area geografica: l'ex-Jugoslavia (90); nel caso di altre nazionalità (come accade per i paesi del Nord-Africa), infatti, le percentuali sui denunciati di sesso femminile per reati del genere sono davvero irrisorie. Tuttavia c'è da sottolineare che le due componenti immigrate presentano - nel nostro territorio - una composizione demografica quanto a genere completamente diversa: gli immigrati provenienti dal Nord-Africa sono prevalentemente comunità maschili, mentre la comunità ex-jugoslava ha un rapporto uomini-donne più equilibrato, il che potrebbe avere degli effetti significativi anche sulle statistiche criminali.

Le cifre ci evidenziano insomma una forte partecipazione degli immigrati alle attività delittuose, tale dato, tuttavia, non è genericamente riferibile agli immigrati tout court, ma, in prevalenza, ad una loro componente specifica: gli irregolari. Già nel 1997 il Ministro dell'Interno G. Napolitano in una sua relazione al Parlamento della Repubblica sul fenomeno della delinquenza organizzata, asseriva che non fosse "azzardato ritenere che gran parte della devianza straniera si annidi nella componente irregolare degli immigrati" (91). Analoghe considerazioni avrebbe qualche anno dopo svolto il Ministro E. Bianco, sostenendo che, nel quadro di un aumento complessivo delle denunce a carico di stranieri (il quale peraltro s'inserisce in una fase di sostanziale stagnazione, se non di decremento, del numero di reati registrati dalle agenzie ufficiali), "in ogni caso, la percentuale di regolari che commettono reati è sempre piuttosto contenuta" (92).

La prevalenza degli irregolari è confermata da tutti i dati sulla criminalità degli stranieri (anche se alcuni reati segnalano una crescita del ruolo degli immigrati con permesso di soggiorno (93)) ed in particolare reati come il furto, la rapina impropria, le violazioni inerenti la normativa sugli stupefacenti, presentano percentuali d'irregolari sul totale degli stranieri denunciati che superano in genere l'80%; ma, d'altra parte, anche nel caso di reati in cui la percentuale di stranieri muniti del permesso di soggiorno è più elevata, difficilmente si scende al di sotto del 65% di irregolari fra i denunciati (94).

Valutare questi dati è quanto mai complesso, poiché essi sembrano evidenziare una realtà indiscutibile: gli stranieri offrono un apporto significativo al quantitativo di reati commesso in Italia ogni anno e ciò si deve soprattutto alla componente irregolare; anche se non meno significativo è l'apporto degli immigrati con permesso di soggiorno e un confronto fra italiani e stranieri in regola, effettuato prendendo in considerazione i tassi di condanne su un campione di 100.000 persone omogeneo quanto a genere ed età, l'ha di recente confermato (95). Tuttavia proveremo ad offrire un'interpretazione critica di questi dati, cercando di evidenziare quel complesso processo di costruzione materiale ed ideologica della criminalità degli immigrati che porta ad una così marcata selettività del sistema di controllo sociale formale.

Le "nuove migrazioni", o meglio, le migrazioni che si sono svolte a partire dagli anni '70, a conclusione del ciclo fordista dell'economia capitalistica, s'inseriscono in universi sociali che, come visto nel capitolo precedente, sono molto distanti da quelli che incontravano i migranti del "trentennio glorioso". I nuovi immigrati rinfoltiscono i ranghi delle classi laboriose come fecero i loro predecessori, ma lo fanno a condizioni completamente diverse, in società non più così aperte all'integrazione, ma sempre più orientate ad assecondare i bisogni di valorizzazione del capitale ed a diminuire la spesa sociale.

Considerazioni simili sono recentemente servite per un'interpretazione dei tassi di criminalità degli immigrati in Italia che ci pare tutto sommato poco condivisibile. In particolare, l'autore di tale lettura (e quanti avevano già proposto interpretazioni analoghe), pur sottolineando correttamente l'inadeguatezza delle teorie sul conflitto culturale rispetto ai livelli di devianza espressi oggigiorno dagli immigrati nelle società d'immigrazione, ha proposto un quadro interpretativo macrosociologico mutuato dalla classica teoria "mertoniana" della privazione relativa (96).

A parere di questo autore, infatti, a far corso dalla metà degli anni '70, gli immigrati regolari ma soprattutto gl'irregolari (peraltro aumentati, viste le politiche immigratorie restrittive che sono state avviate in tutto il mondo occidentale) hanno iniziato a trovare nei paesi d'immigrazione una situazione sociale in cui è difficile per loro poter aspirare ad un'integrazione: "più difficile è diventato per loro trovare un lavoro. Più difficile conservarlo. Più difficile avere una casa. E dunque minori di un tempo sono i miglioramenti che queste persone riescono a raggiungere abbandonando il loro paese" (97).

Tale interpretazione delle statistiche criminali rappresenta un classico esempio di quel tipo di "criminologia ortodossa" (98) che - in coincidenza con un senso comune parecchio radicato socialmente - lega meccanicamente il peggioramento delle condizioni economiche ad un consequenziale aumento dei comportamenti devianti e, dunque, della risposta delle agenzie di controllo sociale formale. Nel suo lavoro Marzio Barbagli parte dalla premessa secondo cui le migrazioni contemporanee non sarebbero in alcun modo funzionali ad una domanda di lavoro creatasi all'interno delle nostre società - contribuendo, piuttosto, ad alimentare i già alti livelli di disoccupazione ed incrementando anche una forte concorrenza nel mercato dell'offerta di lavoro - per giungere alla conclusione che i tassi di imprigionamento che attualmente subiscono gli immigrati in Italia (e in tutte le democrazie occidentali), siano dovuti ad una loro maggiore propensione a delinquere causata dalle difficoltà che incontrano nel trovare un'integrazione attraverso il lavoro e negli svantaggi sociali corrispondenti. Sempre secondo Barbagli, inoltre, ciò si rifletterebbe nelle politiche migratorie messe in campo a partire dagli anni '70 da tutte le democrazie occidentali: politiche che s'indirizzano ormai verso una rigida chiusura delle frontiere (arrivando anche alla limitazione della possibilità di concedere lo status di rifugiato o di richiedente asilo) e, più di recente, si sono sposate con analoghi indirizzi espressi dalle istituzioni sopranazionali europee, soprattutto a seguito dell'istituzione, con gli accordi di Schengen, della cosiddetta "frontiera unica" europea (99).

Una simile proposta interpretativa, tuttavia, appare sotto il profilo teoretico piuttosto semplificante. Se da un lato, infatti, è vero che le ristrutturazioni che l'economia capitalistica ha conosciuto hanno in linea di massima cancellato il tipo di domanda che ha attratto nel dopoguerra molti immigrati, dall'altro lato il post-fordismo non ha certo eliminato la domanda di lavoro tout court. Come abbiamo cercato di dimostrare nel paragrafo precedente, sottolineando la notevole "partecipazione al lavoro" degli immigrati in Italia, è quanto mai difficile sostenere che le nuove migrazioni non rispondano a perduranti fattori d'attrazione e che esse, viceversa, siano determinate in netta prevalenza da fattori di spinta. Sono del resto chiare, nella letteratura sull'argomento, le nicchie del mercato del lavoro in cui s'inseriscono i nostri proletari d'importazione: essi, infatti, vanno a comporre l'esercito di lavoratori dequalificati, precarizzati e sottopagati o, in quantità non indifferenti, finiscono nel vasto universo sommerso dell'economia informale; senza per questo scatenare alcun conflitto con la manodopera autoctona.

L'immigrazione, dunque, continua a svolgere il suo classico ruolo di supporto alla composizione numerica delle "classi laboriose", di quel proletariato così importante per la produttività del nostro come di tutti i sistemi capitalistici e ciò indipendentemente dal fatto che i nuovi migranti incontrino nelle nostre democrazie difficoltà ed ostacoli all'integrazione sempre maggiori, costantemente sul punto di precipitarli in una la spirale di marginalizzazione e pauperizzazione (processi che, come abbondantemente sottolineato, riguardano nelle società occidentali anche ampi strati della classe operaia autoctona o comunque già residente).

All'interno del quadro politico-economico apertosi con l'avvio del ciclo post-fordista dell'economia capitalistica, infatti, è centrale l'esistenza di una nuova "classe laboriosa" pronta ad accettare le peggiori condizioni di lavoro (sotto il profilo delle garanzie sociali e sindacali, della stabilità dell'impiego, della retribuzione, ecc.) che si vanno imponendo all'esercito dei salariati e dunque - lungi dall'esprimere una strutturale eccedenza della forza lavoro immigrata all'interno del nostro sistema economico - le difficoltà che incontrano i nuovi immigrati in Europa (ed in Italia) s'inseriscono nel quadro della ristrutturazione al ribasso delle garanzie economiche e sociali assicurate al lavoro. Difficoltà che riguardano l'intero ambito di quelle che abbiamo chiamato "classi laboriose" e che in Italia - stante la particolare struttura del nostro mercato del lavoro - colpiscono anche i giovani meridionali e le donne con bassi livelli di scolarizzazione.

Lo schema teorico "mertoniano" utilizzato da Marzio Barbagli contiene elementi al suo interno che consentirebbero una radicale critica delle stratificazioni sociali e dalla polarizzazione che connota le democrazie capitalistiche (tanto più oggigiorno, nel quadro di una deriva neo-liberista da cui l'occidente non sembra possa uscire a breve), ma esso quando è utilizzato meccanicamente per sostenere che le cattive condizioni economiche aumentano la criminalità e, conseguentemente, i tassi di delittuosità e carcerizzazione, rischia di funzionare - e spessissimo ha agito in tal senso - quale strumento per legittimare e giustificare "scientificamente" l'idea che la criminalità sia il comportamento tipico delle classi marginali, spostando i termini della "questione sociale" (che è ormai in gran parte confusa con la "questione immigrazione") sul piano della "questione criminale" e delle becere esigenze di difesa sociale connesse. Esso, in breve, rischia di divenire un formidabile supporto teorico attraverso cui oggettivare il dato di senso comune secondo cui è la povertà la causa del crimine, dato su cui si sono sempre fondati e giustificati i progetti di disciplinamento della base della piramide sociale e su cui, come visto, si fondano i progetti di ridisciplinamento avviati negli States ed in Inghilterra nell'ultimo quarto del xx secolo.

Al contrario, il dato sulla criminalità degli immigrati più che esprimere la dimensione oggettiva della devianza degli extracomunitari in Italia, offre la misura della realtà percepita dalle agenzie di controllo sociale. Esso esprime in buona parte la consistenza e la direzione assunta dai processi di controllo sociale e, dunque, una realtà ben più complessa di una semplice rappresentazione numerica degli episodi delittuosi.

Come ha correttamente rilevato Asher Colombo (100), infatti, la categoria «devianza degli immigrati» è data da una struttura complessa di interazioni tra più elementi che andrebbero presi in considerazione singolarmente: in primo luogo la società di provenienza, con la sua situazione economico sociale, le sue reti sociali, le sue strutture culturali e di opportunità, che selezionano un certo tipo d'emigrazione, con determinate aspettative e relativi progetti migratori che, come accennato, possono talora portare ad un migliore inserimento sociale, mentre in altri casi a percorsi migratori fatti di emarginazione e vita di strada; in secondo luogo la società di arrivo, con la sua struttura sociale più o meno aperta all'integrazione sociale ed economica degli immigrati, con i suoi modelli culturali e comportamentali che, nel complesso, sono un altro importante fattore nell'indirizzare in un senso piuttosto che in un altro il progetto migratorio; in terzo luogo la reazione sociale nei confronti dell'immigrazione in generale e della criminalità degli immigrati in particolare, posto che da un lato, una certa visione del "problema immigrazione" può portare ad una chiusura delle società d'immigrazione rispetto alla possibilità di accogliere ed integrare i nuovi venuti, arrivando ad incidere in maniera determinante sulla struttura di opportunità che gli immigrati trovano nei paesi in cui giungono e che, dall'altro, una certa immagine della criminalità degli immigrati, può spingere verso spropositate amplificazioni e drammatizzazioni del problema, da cui discende rischio di una criminalizzazione degli immigrati che vada ben al di là della loro stessa effettiva partecipazione alle attività devianti - con i devastanti effetti che simili processi di reazione sociale possono indurre nella rappresentazione di sé degli immigrati, accelerando le derive anomiche e la definitiva adesione a modelli comportamentali e stili di vita devianti.

Un simile approccio coniuga felicemente - anche se da una prospettiva parzialmente diversa, perché più attenta allo studio di ciò che si definisce "carriera criminale" (101) - l'analisi tanto dei fattori strutturali, economici, quanto dei fattori soprastrutturali, culturali (e la loro incidenza sul funzionamento del sistema di controllo formale), nella produzione sociale di ciò che definiamo "devianza degli immigrati"; e ciò in una prospettiva molto simile alla proposta teorica avanzata da Dario Melossi (102), a parere del quale l'analisi dell'incidenza degli svantaggi economico sociali andrebbe combinata con lo studio dei processi di costruzione sociale della devianza. È infatti certo che la partecipazione degli immigrati all'attività criminale (al di là di quanto il fenomeno possa essere distorto nella sua evidenza statistica, e lo vedremo ampiamente, da fenomeni di costruzione ideologica) è già un fattore che evidenzia quante e quali discriminazioni gli immigrati subiscano all'interno del nostro sistema socio economico "e non vi è alcun vantaggio dal punto di vista di una posizione critica, nel negare tale più ampia partecipazione, con il risultato di oscurare la situazione di grave svantaggio sociale e culturale di queste minoranze!" (103).

Entrambi i fattori, da un lato la marginalizzazione economico-sociale che i migranti subiscono nel nostro paese e dall'altro i processi di costruzione ideologica della devianza, concorrono nel produrre il "dato" sulla criminalità degli immigrati; entrambi determinano "un circuito, veramente vizioso, criminalizzante-penalizzante, tra criminalità, debolezza sociale e criminalizzazione, per cui certi strati sociali sono più a rischio di criminalizzazione nel doppio senso di entrambi i poli del processo di criminalizzazione, e cioè sia quello di commettere atti criminali che di essere così etichettati socialmente" (104).

Una simile impostazione teorica rifugge tanto dagli esiti più infausti (105) di un approccio criminologico - per così dire - ortodosso, quanto dal rischio che la prospettiva "costruzionista" si sleghi da ogni referente materiale, rinunciando così a molto del suo potenziale critico.

Il "dato" sulla partecipazione degli immigrati all'attività criminale è, dunque, un dato costruito socialmente in un doppio senso: lo è tanto sul piano materiale che ideologico. Esso si forma attraverso processi di criminalizzazione della marginalità socio-economica che le dinamiche strutturali contribuiscono materialmente a creare ed evidenzia l'essersi avviato anche in Italia quel processo di disciplinamento di un'emergente undeclass che abbiamo visto essere già da tempo in corso negli Stati Uniti ed in Inghilterra.

Tuttavia, se da un lato gli immigrati subiscono in Italia un processo di marginalizzazione economica e sociale del tutto analogo a quello subito dall'underclass statunitense ed inglese, essi, dall'altro lato, non costringono semplicemente a rimettere in questione i limiti contenutistici del nostro concetto di cittadinanza - com'è avvenuto con tutto il dibattito creatosi attorno al concetto di sottoclasse. Le attuali migrazioni transnazionali esplicitano ulteriormente l'antinomia di fondo che esiste fra l'aspirazione cosmopolita ed universalistica che ha sempre mosso l'affermazione dei diritti individuali ed il loro esser stati storicamente legati alla categoria filosofico politica della cittadinanza, che cela all'interno dei suoi confini semantici un aspetto profondamente escludente. Il lavoratore immigrato, infatti, mette in crisi la nozione di cittadinanza intesa quale «appartenenza» (106): il suo migrare è espressione di una volontà di accedere alle "cittadinanze pregiate" che le democrazie occidentali garantiscono e mette drasticamente in questione il criterio dell'appartenenza ad una comunità "pregiuridica" (sia essa etnicamente, culturalmente o razzialmente fondata) da sempre utilizzato quale sistema per l'estensione dei diritti di cittadinanza. Gli immigrati, in sostanza, disvelano e destrutturano il "pensiero di stato" (107), l'idea di nazione e nazionalità come parametro per l'attribuzione di diritti ed espongono la nostra nozione di cittadinanza ad una doppia tensione, tanto sotto il profilo del suo contenuto, che sotto il profilo della sua estensione.

In questo quadro lo straniero si configura come nemico, poiché aspira ad un'integrazione all'interno delle nostre società che non ci appare più sostenibile. Egli, in un contesto in cui la lotta per l'accesso alle risorse sempre più scarse del welfare si fa aspra, si configura quale presenza destabilizzante, diviene nel sentire comune l'outsider pronto a far pesare le sue richieste ed esigenze sul nostro sistema sociale e ad entrare in concorrenza con gli autoctoni per accaparrarsi le sempre minori prerogative attribuite dalla nostra cittadinanza.

Gli immigrati extracomunitari, dunque, sommano a quel processo di marginalizzazione economica e sociale che in altri contesti nazionali ha già creato una vera e propria sottoclasse, un processo di marginalizzazione politica e culturale che ha il suo esito estremo in una forma di emarginazione giuridica o, meglio, di spersonalizzazione - come è stata chiamata (108), la quale è il frutto delle politiche di (sovente anche ottusa) restrizione dell'immigrazione avviate da tutti i paesi occidentali nell'ultimo quarto del XX secolo.

L'estrema precarizzazione dello status giuridico dei migranti, il perenne rischio di essere trasformati in non-persone, in individui esclusi dal godimento di quei diritti che la nostra tradizione culturale definisce pomposamente universali, riproduce all'interno dei nostri ordinamenti differenziazioni di status giuridico fra i soggetti di diritto, che l'evo moderno avrebbe dovuto cancellare (109), ma, soprattutto, rischia di far precipitare verso l'esclusione sociale assoluta un numero indefinito di individui. Tali "processi di riproduzione dell'irregolarità" (110) determinati dalla chiusura delle frontiere di tutte le democrazie occidentali, coniugano in un unico meccanismo la squalificazione sociale, economica e di status giuridico dei migranti.

Le enormi difficoltà cui incorrono gli immigrati nell'attuare un progetto migratorio in regola, nell'ottenere un regolare visto d'ingresso per motivi di lavoro, parrebbero giustificate qualora si volesse credere all'idea dell'assenza, in Italia (come altrove in Europa), di possibilità d'integrazione economica per una forza lavoro d'importazione; tuttavia anche una sommaria disamina della struttura del nostro mercato del lavoro (come quella che abbiamo svolto all'inizio di questo capitolo) è stata sufficiente a convincerci del contrario ed i dati sulle sanatorie potrebbero offrire, se ancora ce ne fosse bisogno, un'ulteriore conferma.

Dai tempi della prima sanatoria, infatti, circa 784.000 persone (e sembra che in occasione dell'ultima sanatoria, la quinta della nostra recente storia di paese d'immigrazione, le cui procedure sono in corso mentre scriviamo, le domande presentate siano state parecchio superiori alle medie delle ultime sanatorie (111)) hanno ricevuto un permesso di soggiorno in quanto persone già impiegate in una qualche attività lavorativa in Italia. È chiaro dunque che l'afflusso di immigrati irregolari ha avuto una sua funzione rispetto al nostro sistema produttivo, funzione che l'opinione pubblica italiana tarda a comprendere vista la quota irrisoria, rispetto alla consistenza delle periodiche sanatorie, di visti d'ingresso per motivi di lavoro che i nostri consolati continuano a concedere e viste le continue richieste - variamente argomentate - di chiusura delle frontiere che, come vedremo, si levano da dieci anni a questa parte (112).

In questo quadro tutto il battage che negli ultimi anni ha, come vedremo, strutturato nell'immaginario collettivo uno stretto legame tra immigrazione (soprattutto irregolare) e criminalità - supportato all'occasione dai ministri dell'interno di turno o da autorevoli "esperti" - appare poco comprensibile, "insistere sulla relazione tra irregolarità e problemi di sicurezza, tra irregolarità e criminalità, oppure anche tra irregolarità e non inserimento, non aiuta a capire. Essere irregolari è un fattore di rischio, non è una condizione, un dato che operi naturalmente nel condurre alla devianza o nel determinare il fallimento di un percorso di inserimento. Anche i percorsi nella irregolarità possono essere esenti da tratti di marginalità sociale e, a maggior ragione, di devianza. D'altra parte la storia reale dell'immigrazione è fatta in gran parte da percorsi di successo iniziati nell'irregolarità" (113).

L'Italia non riesce a rappresentarsi come "paese d'immigrazione" (114), ciò inevitabilmente si riflette nell'emarginazione socio-giuridica cui costringe il suo proletariato d'importazione e nella spirale di produzione dell'irregolarità che le difficoltà di stabilizzazione (testimoniate dagli elevati livelli di mancati rinnovi o revoche dei permessi di soggiorno) dei migranti alimentano. Tuttavia, tale incongruenza culturale del nostro paese rispetto alle effettive esigenze del nostro sistema produttivo, è forse solo apparente. In un quadro politico-economico avviato verso una deriva neo-liberista è centrale, infatti, l'esistenza di un ampio strato sociale pronto ad accettare le peggiori condizioni esistenziali e lavorative che il sistema sociale offre; ma, com'è evidente, il governo di tale strato di popolazione (una vera e propria sottoclasse) che le esigenze di valorizzazione del nostro sistema produttivo vengono a creare al livello più basso della piramide sociale presenta non poche difficoltà. In tale quadro il meccanismo di controllo sociale è costretto a recuperare quell'antica sapienza che, in epoche di più aspri conflitti sociali, è servita a separare le "classi laboriose" dalla "classi pericolose", producendo, al contempo le strutture simboliche idonee a sorreggere tale processo di chirurgia sociale.

Nel governare le conflittualità che l'inclusione subordinata dei migranti nel nostro sistema sociale scatena nei nostri maggiori agglomerati urbani, viene in soccorso quel processo culturale che struttura l'immagine dello straniero quale nemico e cristallizza lo stereotipo dell'immigrato criminale. Grazie ad esso, infatti, si giustifica in primo luogo una politica immigratoria di stampo prettamente poliziesco ed escludente, che, se pur apparentemente vorrebbe ottenere l'effetto di limitare l'afflusso d'immigrati (ratio legislatoris), limitando al massimo l'accesso di stranieri ad una qualche forma di cittadinanza (dotata di diritti civili e, almeno parzialmente, sociali) nel nostro sistema sociale, sostanzialmente (ratio legis) rende possibile la creazione di una underclass dotata di una cittadinanza di infimo livello (limitata, almeno in teoria, ai soli diritti civili) e più propensa ad accettare supinamente tale status sociale (115). "In questo senso, infatti, si può sostenere che rafforzando il controllo alle frontiere non si produce una riduzione dei flussi migratori, ma una riduzione delle aspettative sociali ed economiche dei migranti. Coloro che finalmente ce la fanno a raggiungere l'Europa saranno preparati a sopportare le politiche inique, i pregiudizi culturali e la segregazione spaziale della città" (116). In secondo luogo, poi, il processo di stereotipizzazione giustifica e sorregge il ruolo del sistema penale-poliziesco nel disciplinamento di tale sottoclasse, il quale - analogamente a quanto è avvenuto altrove nel mondo occidentale - recupera la sua funzione di surrogato delle politiche sociali e, nello specifico italiano, diviene fondamentale nel gestire gli effetti sociali più dirompenti causati dall'accoppiata lavoro nero/immigrazione irregolare e, più in generale, dall'inclusione rigidamente subordinata che riserviamo ai migranti.

Non scompaiono, in sostanza, le funzioni disciplinari del sistema penale, né scompare il "lavoro" da disciplinare, anzi. Le stesse politiche migratorie sono lì a segnalarci come "l'inasprimento delle legislazioni in materia d'immigrazione, in Europa, non segnala un declino del bisogno di lavoro vivo, ma piuttosto il tentativo di usufruire del tale lavoro in condizioni più vantaggiose" (117).

5.2.3: Ragazzi di vita

Anche in Italia, dunque, si sta progressivamente formando una sottoclasse, una categoria più o meno ampia d'individui marginalizzati sotto il profilo economico, sociale e, soprattutto, giuridico. Gli immigrati si aggiungono alle fasce sociali autoctone più deboli nel comporre una underclass sempre più importante per il nostro sistema economico, che necessita di braccia quanto più disposte e pronte ad accettare condizioni di lavoro sempre più precarie e dequalificate, sempre meno garantite e remunerate.

Sono soprattutto queste le nuove povertà: gli immigrati; sono soprattutto loro quanti compongono le fila dell'esercito proletario e sottoproletario postfordista. Sono loro che iniziano a popolare i vecchi quartieri operai in decadenza a causa della deindustrializzazione, o le abitazioni fatiscenti dei centri cittadini svuotati da ampi processi di sub-urbanizzazione, che determinano una fuga dei ceti medio-alti analoga (anche se dalla portata tutto sommato ridotta) a quella avvenuta dalle inner cities statunitensi (118).

Processi di "segregazione" involontaria si registrano del resto da tempo nelle nostre realtà urbane: dalle zone dove gli immigrati hanno trovato sistemazione (119) lentamente, ma inesorabilmente, gli italiani si allontanano abbandonando l'area, causando spesso anche un deprezzamento del valore degli stabili e dei locali affittabili come esercizi commerciali, trasformando così la zona in un ghetto.

La creazione di queste nuove povertà avviene nel quadro del segnalato complessivo arretramento del welfare e delle garanzie di integrazione e stabilità assicurate un tempo al lavoro; tuttavia, nel caso degli immigrati, l'incidenza di tali fattori è decisamente alimentata dall'assenza quasi completa di politiche socio-assistenziali volte all'integrazione dei nuovi venuti. Se ciò è vero anche per coloro che sono in possesso di un permesso di soggiorno (120), è ovvio che quanto detto debba valere in misura ancora maggiore per gli immigrati irregolarmente presenti, costantemente esposti al rischio di scivolare verso la miseria e la deprivazione assoluta.

Questo è, per sommi capi, il quadro strutturale in cui si produce il "dato" sulla devianza degli immigrati e c'è già qualche elemento utile per trarre delle considerazioni a proposito di quelli che abbiamo chiamato processi di "produzione materiale" della criminalità degli immigrati.

Le statistiche indicano, in maniera apparentemente inequivocabile, una significativa partecipazione degli immigrati all'attività delittuosa, certamente però, come segnalato, tale discorso non può essere esteso a tutti i tipi di reato. La criminalità degli immigrati è, infatti, in netta prevalenza circoscrivibile ad alcune specifiche fattispecie delittuose, quali le violazioni della normativa sugli stupefacenti ed i reati contro il patrimonio. Si tratta, come si vede, di un tipo di attività delittuosa prevalentemente "strumentale", acquisitiva, che costituisce il mezzo per raggiungere fini economici; e non di atti "espressivi", cioè fini a sé stessi, come tutti gli atti violenti o vandalici, gli schiamazzi, gli atti osceni ecc. (121).

Si tratta poi, in netta prevalenza, di episodi delittuosi di piccolo cabotaggio, di una fenomenologia criminale tipica dei settori sociali più svantaggiati, su cui - sul finire del XX secolo - il sistema penale italiano (ma, come visto, analoghe considerazioni si possono fare per quasi tutti i paesi occidentali) ha stretto la sua morsa, spinto da un movimento d'opinione sempre più propenso a criminalizzare l'universo della marginalità sociale (122).

Tale insieme di attività acquisitive illegali può essere analizzato come se si stesse osservando l'universo del mondo del lavoro legittimo: nel mercato delle possibilità di guadagno illecito gli immigrati entrano come in qualsiasi altro settore economico, intessendo rapporti di vario tipo con i soggetti che lo popolano, rapporti di complementarietà, di sostituzione, di concorrenza (123). E si è ipotizzato a riguardo che gli immigrati verrebbero a sostituire gli autoctoni in tutto un insieme d'attività criminali di basso profilo, molto rischiose e poco remunerative, al pari di quanto abbiamo visto avvenire in relazione al mercato del lavoro legale. L'ipotesi è particolarmente feconda per l'analisi di alcuni mercati illegittimi rispetto ai quali è comunemente considerata elevatissima la partecipazione degli immigrati: mercato della droga e mercato della prostituzione. In entrambi i settori economici l'immigrato (o l'immigrata) sembra essere, indiscutibilmente ormai, venuto a sostituire l'italiano nelle fasce lavorative più basse e meno "qualificate" (124).

Tenendo fuori il discorso sulla prostituzione, che non è di per sé un reato e meriterebbe una trattazione specifica, poiché sovente la scelta di dedicarsi a questa attività non è libera - gli "impieghi illegali" in cui troviamo affaccendati gli immigrati, dallo spaccio, al borseggio, alle piccole rapine ecc., costituiscono una parte di quell'universo di opportunità che i bazar urbani offrono ai loro abitanti. Il ricorso a simili strategie di sopravvivenza è un aspetto dell'isolamento sociale e culturale in cui è confinata la sottoclasse, ma esprime anche quanto siano floridi i mercati illegali in cui sovente gli immigrati trovano "impiego".

Una recente ricerca svolta in Emilia Romagna ha, infatti, sottolineato come il dirigersi dei flussi migratori verso le aree economicamente più dinamiche e floride del paese ed in particolare verso le aree urbane del Centro-Nord, la cui opulenza crea una fortissima domanda di beni e servizi "voluttuari" anche illeciti, attrae in quelle stesse zone due "tipi" particolari di possibili autori di reato immigrati: quanti (soprattutto in condizione di irregolarità) non riescono a trovare una integrazione economica soddisfacente in un mercato del lavoro sempre più liberalizzato, scivolando lentamente verso i mercati illegali; e quanti arrivano attratti dal miraggio dei facili guadagni che i mercati illegali promettono (125).

Simili asserzioni, tuttavia, non valgono a confermare l'idea che le strade delle nostre città siano in mano ad agguerrite e determinate organizzazioni criminali, esse, piuttosto, indicano il crescente isolamento sociale di uno strato sempre più ampio d'individui all'interno dei nostri agglomerati urbani. Contrariamente a quanto si tende a pensare, attività come il piccolo spaccio di sostanze stupefacenti o il borseggio, il taccheggio, lo scippo, ecc., difficilmente richiedono un'elevata specializzazione criminale (126), né sono inserite in strutture organizzative rigidamente gerarchiche e vincolanti. Le persone che entrano in contatto con un qualche mercato illegale non sempre, né subito, stabilizzano ed organizzano la propria vita attorno all'attività delinquenziale, più spesso, invece, tendono ad oscillare tra attività legali, semplicemente informali ed illegittime.

Tuttavia quest'elevata mobilità che si riscontra all'interno dei bazar è una "mobilità stagnante" (127): tanto nel settore delle attività legali che in quello dei mercati illegali cui è possibile accedere all'interno dei bazar urbani, si riproducono infatti barricate interne identiche a quelle che separano quest'universo sociale dal resto della società. A tali barriere si deve il riprodursi nei mercati illegali dei medesimi svantaggi cui la marginalità sociale va incontro nei mercati legali.

C'è dunque un certo grado di disorganizzazione anche in mercati come quello della droga: l'universo dello spaccio al minuto, infatti, è composto da tutto un insieme di persone con un limitatissimo apprendistato criminale, la cui attività ha fortissime caratteristiche di precarietà e spesso soggetta a nessun vincolo, se non quello di coprire il debito eventualmente contratto nell'acquistare il quantitativo di droga da rivendere al minuto. Coloro che compongono l'universo degli spacciatori da strada, inoltre, sono soggetti ad un rapido turn over e, data la loro particolare visibilità, che li rende facili prede dell'attività delle forze dell'ordine, difficilmente sono in stretti contatti con quanti organizzano il movimento di grosse partite di droga. "Certamente, l'immagine di un crimine organizzato monolitico, formato da persone di alta qualificazione, perde gran parte della sua pertinenza quando si osserva il mercato delle droghe" (128).

Ad analoghe conclusioni è giunto A. Colombo analizzando l'economia che si è venuta a creare attorno ai reati contro il patrimonio perpetrati dagli algerini di Porta Venezia a Milano: difficilmente, infatti, il "rischio" è svolto all'interno di rigide strutture organizzative (che al limite assumo le caratteristiche dei gruppi di pari, o delle compagnie di strada) ed altrettanto difficilmente assume il carattere di esclusiva forma di sostentamento, "anche mentre si trova in un periodo in cui è il rischio la principale se non l'unica fonte di guadagno, il giovane algerino di Porta Venezia è sempre attento a voci relative a offerte di lavori legittimi - per quanto sottopagati e privi di garanzie contrattuali. Li cerca, e quando li trova riduce l'impegno nell'attività rischiosa" (129).

Insomma, il quadro che si delinea da queste sommarie considerazioni ci offre un'immagine dell'"immigrato criminale" molto simile all'immagine di quello che, nella letteratura di lingua anglosassone, viene definito hustler, la cui vita è stata in Italia efficacemente descritta - seppur in forma narrativa - da Pier Paolo Pasolini, nei suoi romanzi sulle borgate romane (130).

Soggetti che si arrabattano tra un ventaglio di possibilità più o meno ampio che le nostre società gli offrono, passando velocemente dall'attività legale all'illegale e subendo spesso il fascino dei facili guadagni che sembrano promettere mercati illegali particolarmente prolifici. Del resto la nostra società esprime una fortissima domanda di beni e servizi illeciti, creando così un mercato parecchio remunerativo ed attraente per i nuovi venuti, "il luogo comune secondo cui l'Italia sarebbe oggetto di un'invasione da parte di orde di criminali stranieri, potrebbe quindi essere rovesciato: è la società italiana a produrre profonde conseguenze criminogenetiche nei confronti degli stranieri, sia che li attiri qui con il miraggio del denaro facile sia che, una volta che lo straniero venga a trovarsi in Italia in cerca di fortuna, trovi tale supposta fortuna sulla strada, spacciando o battendo" (131).

Inoltre, la nuova sottoclasse che si sta creando in Italia, i nuovi "ragazzi di vita" che popolano le nostre strade (e le nostre patrie galere), provengono in prevalenza dall'immediata periferia europea e ciò può servire a spiegare come mai non tutti gli immigrati, anche quanti appartengono a nazionalità composte in netta prevalenza da giovani maschi, presentano gli stessi tassi di delittuosità.

I giovani magrhebini, o gli immigrati dall'est Europa, giungono nel nostro paese al di fuori di precise catene migratorie e, quindi, tendenzialmente con meno risorse relazionali da spendere nel paese d'immigrazione. Essi costituiscono spessissimo la "marginalità immigrata", cioè l'insieme degli immigrati che subiscono tutto il peso dell'assenza di canali d'inserimento (anche lavorativo) nella società italiana; canali che, al contrario, risultano molto utili per i percorsi d'integrazione, lavorativa e non, di molte altre nazionalità (132).

D'altra parte poi, "l'immigrazione come l'urbanizzazione sono sempre stati fenomeni che per alcuni soggetti hanno preso il significato di corsa verso i valori, i comportamenti, i segni e gli oggetti che la società d'immigrazione ostenta di più: il denaro, il consumo, il divertimento, lo spreco" (133). Ciò fu vero in particolare per le seconde generazioni d'mmigrati già negli Stati Uniti: a differenza dei loro genitori, legati ancora a dei valori tradizionali, già perfettamente socializzati ai valori di una civiltà dei consumi; ed è vero a maggior ragione per le attuali migrazioni, soprattutto per quelle provenienti dalle città di paesi geograficamente prossimi ai confini europei ed occidentali in genere.

Ciò si riflette nel fatto che siano proprio i giovani provenienti dalla periferia europea a subire maggiormente il fascino di attività che promettono facili guadagni, giovani abbondantemente socializzati a valori consumistici e sedotti dalle luci e dagli splendori occidentali già nel loro stesso paese; giovani il cui progetto migratorio pare spesso assumere un carattere "consumistico", come fosse il loro migrare dettato semplicemente dalla volontà di accedere a consumi di beni e servizi cui sarebbe impossibile accedere al paese d'origine (134).

L'impossibilità di poter accedere a tali consumi è spesso motivo di frustrazione e di rivendicazione accesa nelle interviste dei giovani algerini di Porta Venezia, il consumo inoltre è il principale veicolo d'acquisizione di prestigio sociale e "in questo senso gli algerini di porta Venezia sono pienamente inseriti nell'orizzonte culturale e simbolico delle società industriali avanzate" (135). Tali giovani, del resto, vengono da una periferia che, nonostante il processo di unione europea tenda a chiudere nei suoi confronti le frontiere, "continua a vivere di riflesso dell'Europa, guarda la nostra televisione, produce per la nostra società (basti pensare a tutte le firme dell'abbigliamento europeo che hanno lì le loro appendici produttive), consuma quasi sempre prodotti europei, ha una parte della sua popolazione in Europa" (136).

Facile è per tali individui persuadersi del fatto che, piuttosto che lavorare a condizioni poco vantaggiose e remunerative, sovente prive di alcuna garanzia contrattuale e sindacale, sia preferibile tentare la via dei facili guadagni; spesso, inoltre, si ha occasionalmente modo di sperimentare i vantaggi che si possono trarre dal "rischio". Quanto più la ricerca di una sistemazione lavorativa decente e consona alle proprie aspirazioni si fa difficile, quanto più il processo d'emarginazione socio economica avanza, tanto più facile sarà per questi giovani immigrati credere di poter risolvere i propri problemi per vie illecite

Quando sono arrivato avevo voglia di vedere e provare tutto e subito. Come lavoro era la merda! Lavorare come bruti, essere trattati come cani e tutto ciò oer guadagnare niente e perdere la vita così! Ma io non sono venuto come quelli che accettano tutto per arrivare ad avere un lavoro in regola e il permesso di soggiorno. Questi qui mi fanno anche incazzare! Ti rendi conto? Lavorano come pazzi, sono trattati come cani, guadagnano niente e in più nove volte su dieci non riescono a farsi regolarizzare (137).

Certo nella stabilizzazione dell'immagine di sé quale deviante ha un peso non indifferente anche la reazione sociale stigmatizzante, tanto più quando è percepita come ingiusta; all'ingiustizia di una situazione di svantaggio sociale ed economico si aggiunge la percezione di un'ingiustizia subita dalle agenzie di controllo sociale, che spesso apre la strada a comportamenti anomici estremi, alla definitiva secessione da una società da cui non ci si aspetta più nulla ed a cui non si vuole dare più nulla, alla convinzione di non avere più nulla da perdere

Vedi adesso questa storia della sanatoria: quando hanno chiesto al loro padrone se li metteva in regola sono stati cacciati via o gli hanno chiesto un sacco di soldi! Se io avessi voluto, potevo permettermi di mettermi in regola perché ho i soldi e conosco anche parecchia gente. Ma primo non m'interessa e poi in ogni caso mi dicono che non si può perché sono stato due volte in carcere! Si, non mi vergogno a dirlo. Non sono io che sono andato a cercarmi i guai, ma è così! Quando tu entri in un grande negozio tutti gli occhi sono su di te! Anche quando non stai facendo nulla di male, solo se guardi, anche se vuoi comprare, anche se sei vestito bene, senti che ti prendono per un ladro (138)!

In questo paese quando hai fatto un errore una volta, basta. Dopo ti conoscono tutti. Perché quando la polizia ti ferma una volta o due, e poi caschi una terza, puoi pagarla anche se non hai fatto niente. Per esempio a me una volta a Firenze mi hanno arrestato per il mio portafoglio. Per il mio portafoglio, veramente! Ho fatto un mese per il mio portafoglio. C'era anche la mia foto, lo scontrino della lavanderia. Niente da fare. Perché?

Nell'inverno del 1991, insieme ad altri 7 o 8 algerini, avevamo rioccupato la cascina Greco, dove già avevamo vissuto tra il 1989 e il 1990. Un giorno, verso sera, è venuta una pattuglia della polizia per fare una perquisizione, coll'idea di trovare della droga - che poi ovviamente non ha trovato - carte d'identità e permessi di soggiorno - e tutti sono stati controllati a fondo. È stato a questo punto che sono sbottato per l'esasperazione. Ho detto che già eravamo senza soldi, senza lavoro e senza casa; ci mancava solo di non poter dormire in pace perché loro venivano a rompere i ciglioni. Allora uno di questi poliziotti (...) mi ha preso da parte, portato in un'altra stanza e detto: «Tu hai il permesso di soggiorno?». «Si».

«Beh. Te lo puoi ficcare nel culo il tuo permesso di soggiorno».

E così dicendo ha strappato davanti ai miei occhi il permesso di soggiorno. Poi è tornato di là e ci ha detto: «c'è qualcuno che non ha il permesso di soggiorno?». A chi diceva di si, dava un frammento del permesso strappato.

Da quel momento ho detto: «ve bene. Voi volete che io sia illegale? Volete che non abbia il permesso di soggiorno? Va bene, sarà così». E da quel momento ho cominciato a rubare senza pietà (139).

Facili guadagni e sperperi altrettanto repentini, sembrano queste le giornate dei "ragazzi di vita" contemporanei: così come facevano i personaggi pasoliniani, spesso i giovani che trascorrono le loro giornate a bighellonare per le strade in attesa di "occasioni", spendono il proprio guadagno in vere e proprie futilità: alcool, divertimento, capi d'abbigliamento firmati, costosi occhiali da sole da calzare, magari, anche la sera...Tuttavia la debauche (140) non è facile da sostenere a lungo, tanto più per coloro che lentamente si abbandonano alla vita di strada "la trasformazione delle aspirazioni in trappola è il caso più frequente. La ricerca di denaro facile si inverte spesso nel suo opposto - la ricerca della sopravvivenza, lasciando alcuni in perenne lotta per pagare l'affitto o la stanza d'albergo, altri a dover affrontare la detenzione, altri ancora infine ad abbandonare definitivamente il mondo del lavoro legittimo" (141).

Tuttavia, contrariamente a quanti ritengono di poter descrivere questi ragazzi come individui completamente esclusi dalla nostra società, i "ragazzi di vita" contemporanei, come quelli d'un tempo, dimostrano una capacità d'adattamento e d'integrazione sociale tutt'altro che indifferente (142); e ciò sotto diversi profili. In primo luogo, infatti, tale tipo di criminalità acquisitiva possiede una natura tutt'altro che patologica, essendo espressione degli stessi valori e dello stesso universo culturale dominante all'interno della nostra società; in secondo luogo, poi, la capacità di saper cogliere le "occasioni" che i mercati illegali offrono è segno di perfetta integrazione nella società d'immigrazione, perlomeno all'interno dell'universo sociale che popola i bazar urbani. È segno del sapersi orientare perfettamente tra tutte le attività remunerative cui si potrebbe accedere e del saper scegliere la più prolifica, che è senza dubbio la fornitura di quei beni illeciti di cui, all'interno delle nostre società dei consumi, c'è una gran richiesta: le sostanze stupefacenti

Tali considerazioni non escludono ovviamente la partecipazione degli italiani a quei mercati illegali, né tolgono validità alla lettura critica delle statistiche criminali che segnalano una netta prevalenza degli extracomunitari, soprattutto nelle città del Centro-Nord. Esse sono semplicemente finalizzate ad evidenziare quanto la criminalità degli immigrati sia costruita anche "materialmente" dal nostro sistema sociale e non escludono, dunque, che la sovra-rappresentazione statistica sia il portato anche di marcati processi di criminalizzazione e costruzione "ideologica" della criminalità degli immigrati.

Da una lato, infatti, più che di "sostituzione" nei livelli più bassi di una rigida gerarchia distributiva all'interno del mercato della droga (o di altri mercati illegali), sarebbe più corretto parlare del sovrapporsi degli immigrati ai piccoli spacciatori nostrani. Sovrapposizione che ha determinato una enorme espansione del mercato degli stupefacenti, espansione del resto esattamente funzionale ad una parallela esplosione della domanda di consumi illeciti. D'altra parte, nonostante dalle statistiche ufficiali possa apparire il contrario, non solo gli immigrati fanno del mercato della droga una fonte di sostentamento, non solo gli extracomunitari posseggono l'intraprendenza necessaria a mettere in piedi attività micro-imprenditoriali nel fiorente terziario illegale (143).

Dall'altro lato poi, l'indice dei processi di criminalizzazione che, in tutto il Centro-Nord, sembrano subire gli immigrati extracomunitari può essere rappresentato dall'enorme squilibrio che abbiamo o riscontrato esservi fra i tassi di delittuosità registrati nelle aree settentrionali del paese, ed i tassi registrati nel mezzogiorno. Certo il peso demografico degli immigrati al Sud è nettamente più basso rispetto ai livelli registrati al centro-nord, tuttavia, la prevalente presenza di immigrati irregolari e le scarse possibilità d'inserimento economico (soprattutto in regola) che l'immigrazione (e non solo) incontra nel meridione, rendono apparentemente inspiegabile la registrata sproporzione nelle statistiche sulla delittuosità. Forse un immigrato irregolare al Sud, che abbia magari provato a lavorare trovando solo impieghi occasionali al "nero", avrebbe meno stimoli nel tentare la via dei mercati e delle attività illecite?

E non ci paiono persuasive, a riguardo, le considerazioni di chi ribatte che al sud vi sono "maggiori possibilità di sopravvivenza senza ricorrere ad attività illecite" e che "per i cittadini extracomunitari, sia più facile inserirsi in una società come quella meridionale, meno regolata dalle leggi e in cui l'arte di arrangiarsi ha avuto per molto tempo grande importanza" (144). La stessa, tanto diffusa, arte di arrangiarsi è espressione di una "atavica" incapacità della dinamica produttiva meridionale di assorbire nell'integrazione economica la sua popolazione, tant'è che, a cento cinquant'anni dall'unità, il mezzogiorno riproduce, sempre identici a sé stessi, enormi livelli di disoccupazione giovanile.

Probabilmente l'unica variabile rilevante nell'interpretazione dei differenti livelli di delittuosità che gli immigrati presentano tra Nord e Sud, è costituita dalla diversa "soglia di tolleranza" dei due contesti sociali; dalla diversa intensità con cui le due realtà criminalizzano la fenomenologia delittuosa riferibile alla marginalità sociale; dal fatto che, al Sud, non sembra aver molto attecchito il "cortocircuito securitario" di cui è stato teatro il nostro paese nell'ultimo decennio del XX secolo.

Ci pare, infatti, che il processo di costruzione "ideologica" della devianza degli immigrati possa essere letto nel quadro del segnalato processo di costruzione sociale del sentimento d'insicurezza.

5.3: Lo stereotipo dell'immigrato criminale

Il fuoco della nostra analisi si concentrerà adesso sul processo che ha portato alla costruzione di un'immagine sociale negativa dell'immigrazione. La vicenda è in tutto e per tutto analoga al processo di "criminalizzazione della miseria" avviatosi in molte aree del mondo occidentale in concomitanza con la svolta politica economica neoliberista e, pertanto, si potranno utilmente recuperare alcune considerazioni svolte nel capitolo primo di questa seconda parte. In particolare, infatti, ci pare che la svolta securitaria delle politiche sociali che anche l'Italia ha - a suo modo (145) - conosciuto, abbia sostanzialmente colpito quel nuovo strato sociale che si viene, da quindici anni a questa parte, formando alla base della nostra piramide sociale.

Certo anche le fasce sociali autoctone più deboli non sono state risparmiate dalla stretta poliziesca, ma, in linea di massima, è stata l'immigrazione a subire il più ampio e pervasivo processo di criminalizzazione. Anzi: a causa dell'assoluto vuoto di politiche sociali in cui s'inserì e che l'accompagnò fino al '98 - quando, in occasione del quarto intervento di modifica sulla disciplina per l'ingresso ed il soggiorno, si chiarì finalmente che gli immigrati regolarmente soggiornanti avessero diritto ad accedere ai benefici assistenziali in condizioni di parità con i cittadini italiani (146) - essa fu a lungo governata dalle semplici disposizioni poliziesche sull'ingresso ed il soggiorno. E vedremo quanto ha pesato tale deserto di politiche sociali in cui, a lungo, gli immigrati residenti nel nostro paese si sono mossi (abbandonati alle eventuali iniziative delle amministrazioni locali ed alle limitate finanze municipali) nel costruire - oltre all'ovvia situazione di grave emarginazione sociale anche in casi d'avviato inserimento economico - l'immagine degli immigrati quale orda di "miserabili" e di "barbari". Di certo, comunque, il processo di criminalizzazione della miseria comincia in Italia proprio a partire dal crearsi di questa "underclass" abbandonata, sin dall'inizio, a sé stessa ed è in primo luogo un processo di pauperizzazione e marginalizzazione.

Oggetto della nostra trattazione sarà una sommaria ricostruzione storica della dinamica soprastrutturale che ha costruito, nell'immaginario collettivo, gli immigrati come "nuova classe pericolosa", ponendoli al centro della "questione sicurezza" in tutte le più importanti aree metropolitane del Centro-Nord. Gli attori coinvolti in tale processo sono gli stessi che abbiamo visto attivi nella costruzione del "sentimento d'insicurezza", anche perché è sopratutto l'immigrato, in Italia, a canalizzare le ansie e le paure dei cittadini: quelle particolari forme di aggregazione e di azione collettiva comunemente chiamati "comitati securitari" - che assumono come visto il ruolo di veri e propri "imprenditori della sicurezza"; i mass media; attori politici di varia estrazione (non solo conservatrice, come segnalato) e livello; le agenzie di controllo sociale formale (polizia e magistratura), che, riproducendo nella loro attività le pulsioni della realtà locale, forniscono una sorta di evidenza al sentimento d'insicurezza ed al processo di criminalizzazione degli immigrati; last but not least gli "intellettuali", che, per l'autorevolezza comunemente accordata alla voce di un "esperto", con le loro opinioni ed i loro interventi forniscono spesso uno statuto pseudo-scientifico a stereotipi di ogni sorta (147).

L'oggetto del nostro lavoro è, come segnalato, il funzionamento degli apparati di controllo sociale formale e l'influenza che gli stereotipi circolanti riescono ad avere nell'orientarne l'agire, tuttavia - oltre ad essere necessaria una sommaria ricostruzione delle caratteristiche dello stereotipo dell'immigrato criminale prima di vederlo all'opera - è difficile, nello studio dell'attività specifica di uno degli attori sociali coinvolti nel processo di costruzione sociale della devianza, prescindere completamente dal ruolo degli altri. Il processo in questione è, infatti, rappresentabile con la metafora visiva di una dinamica circolare, o con l'idea di una spirale in cui siano coinvolti, in fitte interazioni reciproche, tutti gli attori considerati (148). Separare in tanti compartimenti stagni l'analisi non è, pertanto, possibile. Tuttavia proveremo a farlo per ciò che concerne l'attività della magistratura (oggetto peraltro di una specifica ricerca empirica da noi condotta), sulla quale ci soffermeremo nel dettaglio a partire dal prossimo capitolo; mentre collocheremo le nostre considerazioni sull'attività dell'autorità di pubblica sicurezza in questo paragrafo, a stretto contatto con l'analisi del sorgere e diffondersi dello stereotipo e dell'attività degli altri attori coinvolti (comitati, media, politici, intellettuali).

Nonostante sia proprio l'attività che la polizia effettua nel controllo del territorio a circoscrivere il campo su cui deve concentrarsi l'attività della magistratura (149), riteniamo, per diversi ordini di ragioni, opportuno anticipare a questo paragrafo la trattazione dell'argomento: in primo luogo perché l'autorità di pubblica sicurezza, a differenza della magistratura, non è soggetta solo alla legge nella sua azione, ma anche agli imput che provengono dall'autorità politica cui fa capo e dalla realtà locale, come visto sempre più efficace nell'incidere sulla linea di politica criminale adottata dalle questure. Ma anche perché, a prescindere da questa sua doppia relazione che la lega da una lato agli attori politici (verso l'alto) ed dall'altro alla realtà ed ai media locali (verso il basso), l'autorità di pubblica sicurezza è l'istituzione cui, in assenza assoluta di una politica assistenziale ed integrativa, è stata interamente delegata la "tutela" delle "nuove classi laboriose", similmente a quanto abbiamo visto accadere nel XIX secolo. Tutte le normative sull'immigrazione susseguitesi nel corso degli ultimi quindici anni, infatti, hanno sempre esteso il ventaglio di poteri attribuiti all'autorità di pubblica sicurezza, fino al punto di trasformare la politica immigratoria in un segmento della più complessiva politica di disciplinamento delle nuove povertà agita per mezzo degli strumenti penal-polizieschi.

Tale sistema si è costruito esattamente in parallelo con il progressivo esplodere del "problema sicurezza" e con il fondamentale supporto di quel processo culturale che ha strutturato l'immagine dell'immigrazione quale esclusivo problema d'ordine pubblico. In linea di massima, infatti, il "problema immigrazione" è stato il terreno principale su cui l'Italia ha sperimentato un drastico ritorno ad un governo poliziesco della marginalità sociale. Il repentino arretramento verso forme ottocentesche delle strategie di governo della miseria, seppur inserito in un quadro strutturale atto ad estenderlo ben oltre le minoranze immigrate (cosa che è avvenuta in altri paesi occidentali, come visto, ed in parte anche in Italia, che non ha mai smesso di carcerizzare i giovani meridionali, insieme agli immigrati, colonna portante della composizione sociale del proletariato postfordista italiano), si è soprattutto esplicato nei confronti degli extracomunitari, che, insieme ai tossicodipendenti, hanno subito - nell'ultimo decennio del XX secolo - un impressionante processo di carcerizzazione che ha portato le presenze in carcere su livelli mai conosciuti durante tutta l'epoca repubblicana.

Il meccanismo del "panico morale" e della stereotipizzazione di alcune categorie sociali (solitamente le più povere e marginali, anche perché - loro malgrado - meglio di altre si prestano a tali processi soprastrutturali, in quanto categorie con un più alto grado di problematicità conflittualità sociale) quali classi pericolose, quel processo che, come segnalato, costruisce la figura del nemico interno - del mostro popolare che, con la sua condotta tanto individuale che collettiva, allorché si lancia in rivolte sanguinarie (il riot, recentemente riapparso nel panorama metropolitano contemporaneo, come dimostrano i fatti di Los Angeles e delle banlieux francesi), minaccia la stabilità del patto sociale - quale elemento simbolico centrale nella gestione delle crisi sociali più gravi, allorché le profonde stratificazioni scatenano una conflittualità tale da poter esporre l'intero patto sociale ad una profonda crisi di legittimità, ha nei confronti degli immigrati una particolare efficacia.

Come accennavamo, infatti, l'immigrazione sovrappone a categorizzazioni di classe, categorizzazioni etniche, razziali che facilitano oltremodo i processi di stigmatizzazione, "l'alterità, o l'estraneità, dello straniero e l'alterità, o estraneità, del deviante, si confondono nel ritratto sociale dell'immigrante criminale - allo stesso modo in cui il riferimento ai fenomeni migratori tende a confondersi, specie nella stampa sensazionalistica e locale, con il riferimento a fenomeni criminali" (150).

La posizione dell'immigrato è già, nel nostro universo culturale, estremamente contigua a quella del delinquente, egli è l'estraneoche pretende di far valere le sue aspirazioni all'interno di un ordine sociale che non gli appartiene e, nel momento in cui manifesta disagio, comportamenti problematici, aggiunge al torto originario della sua non appartenenza alla "comunità" in cui pure pretende d'entrare, il torto secondario dell'aver violato le regole della "comunità" in cui è ospite. All'immigrato non è in alcun modo consentito di mettere in discussione l'ordine delle cose nella società d'arrivo, il rispetto delle "buone maniere" in casa d'altri implica la cessione d'ogni pretesa poilitica e, dunque, non è consentito agli ospiti mettere in discussione - sia pur implicitamente, manifestando conflittualità sociale - il grado d'inclusione loro riservato. In questo consiste la "doppia pena del migrante" (151), essa è l'espressione del dovere di iper-correttezza che imponiamo agli immigrati e rende, a causa dell'alterità, dell'estraneità, del suo autore, ogni infrazione commessa da un immigrato proporzionalmente più grave.

Tale alterità rende i nuovi venuti solo parzialmente assimilabili, essi possono aspirare ad una cittadinanza di infimo livello ed, al contempo, sono sempre esposti alla stigmatizzazione da parte dei cittadini inclusi, che sentono l'ordine sociale minacciato dall'avvento di queste nuove classi pericolose. Un'alterità, una distanza che abbiamo visto esser percezione particolarmente radicata sul finire del XIX, all'indomani dell'unità d'Italia, allorché il nord volgeva il suo sguardo verso il sud Italia e che ritorna oggi allorché la "civile" Italia volge il suo sguardo verso questi nuovi barbari che bussano alle porte d'Europa.

5.3.1: Costruzione dello stereotipo

In quindici anni di immigrazione di una certa consistenza l'Italia ha cambiato radicalmente il suo atteggiamento rispetto ai nuovi venuti. Inizialmente, almeno fino alla fine degli anni '80, aperta e solidale, nel breve volgere di un paio di anni stravolge la propria percezione del problema: l'immigrato non è più il lavoratore in cerca di migliori condizioni di vita, cui bisogna offrire integrazione ed accoglienza, egli è un miserabile che getta le nostre aree metropolitane nel degrado, un esportatore di miseria e delinquenza.

Il passaggio è repentino e coincide, peraltro, con la definitiva presa di coscienza da parte degli italiani, dell'essersi trasformata l'Italia in un paese d'immigrazione; coevi sono, del resto, i primi interventi normativi in materia d'immigrazione.

Come è stato segnalato (152), fino alla fine degli anni '80 il "problema immigrazione" non si era posto in tutta la sua rilevanza agli occhi dell'opinione pubblica, non essendo dotato forse della necessaria visibilità, nonostante non mancassero in Italia gli immigrati, né gli episodi di razzismo ed intolleranza nei loro confronti.

In questa fase le vicende più eclatanti sono rappresentate dalle proteste dei commercianti di varie città (come Firenze, Genova, alcune località turistiche in Romagna) contro la presenza di venditori ambulanti abusivi, accusati di praticare concorrenza sleale; vicende che, se pure saranno destinate a riprodursi in maniera del tutto simile nel corso degli anni successivi in altre zone d'Italia (rappresentando, quello fra commercianti ed ambulanti, uno dei classici fattori di scontro fra comunità autoctone ed immigrate), restano ancora confinate nel novero degli episodi d'intolleranza collettiva eccezionali.

È, invece, un episodio di segno completamente diverso a calamitare l'interesse dei media e delle forze politiche nazionali: l'omicidio di Jerry Essan Masslo. Il fatto, avvenuto nell'estate del'89, nonostante fosse con tutta probabilità da catalogare fra gli episodi di "nera" (153), viene interpretato come il primo omicidio a sfondo razziale perpetrato in Italia, suscitando un vivissimo sdegno in tutta l'opinione pubblica. All'episodio fu data un'incredibile risonanza, i funerali e poi la manifestazione nazionale contro il razzismo che seguì, furono eventi politico-mediali dall'indiscussa rilevanza che portarono, forse per la prima volta, l'immigrazione al centro del dibattito pubblico nazionale, spingendo le varie forze politiche a prendere una qualche posizione sul punto.

Sono gli anni del secondo intervento in materia di politica immigratoria e della prima conferenza sull'immigrazione (organizzata dal Ministero dell'Interno), un periodo contrassegnato, per certi versi, da un dibattito virtuoso, in cui non mancavano accenti di apertura verso l'immigrazione e difficilmente passavano inosservati dai media episodi d'intolleranza o manifesto razzismo.

Tuttavia, in poco tempo, la bolla mediatica che la vicenda Masslo e l'approvazione della cosiddetta legge "Martelli" avevano creato svanisce e l'immigrazione esce bene o male dall'agenda delle forze politiche e delle cronache nazionali, tornando momentaneamente ad essere confinata nell'angusta dimensione delle cronache locali. È però in questo periodo ed esattamente in relazione a vicende d'interesse locale (addirittura "di quartiere") che si avvia un lento, quanto inesorabile, processo che costruirà una cornice simbolica completamente diversa al discorso sull'immigrazione.

Tra il 1990 ed il 1991, infatti, l'Italia inizia a conoscere i primi conflitti urbani scatenati dalla presenza degli immigrati: per la prima volta dopo la vicenda dei commercianti fiorentini (e non solo), collettività più o meno ampie di cittadini insorgono contro la presenza di immigrati extracomunitari, associandovi degrado, emarginazione, criminalità (154). L'immigrazione prende ad essere costruita come "bene negativo" di cui le varie realtà locali non intendono farsi carico e, pur non mancando in questa fase voci solidali ed aperte rispetto agli immigrati, la cornice simbolica all'interno della quale vengono inquadrati gli episodi di cronaca legati all'immigrazione tende a rilevare il degrado e la criminalità importate nelle nostre città da questi nuovi barbari, piuttosto che le condizioni di vita che la nostra società assicura loro.

Le vicende di città come Roma o Milano sono paradigmatiche: le due metropoli "scoprono" l'esistenza degli immigrati allorché questi, per sopperire alla carenza di abitazioni, occupano abusivamente stabili abbandonati, creando luoghi di eccezionale concentrazione e visibilità. La storia dell'occupazione dell'ex Pantanella a Roma e le diffuse proteste per l'abitazione inscenate dagli immigrati a Milano (155) - dove non mancano gli stabili occupati dai senzatetto, con le relative reazioni da parte dei cittadini - furono i primi sentori dell'avvio di un processo di stereotipizzazione che, nel volgere di un decennio, porterà allo strutturarsi di una immagine "patologizzante" dell'immigrazione.

Il processo (che qualcuno ha definito circolare (156) e qualcun altro tautologico (157)) s'innesta sul vuoto assoluto di una politica integrativa per gli immigrati (e sui processi di pauperizzazione che di conseguenza si scatenano) e passa, da un lato, attraverso l'enfatizzazione delle situazioni più estreme e problematiche che ne derivano (come il crearsi di sacche di marginalità economico-sociale); dall'altro sull'occultamento sistematico della quotidiana realtà d'inserimento lavorativo ed economico degli immigrati.

L'immigrazione in sostanza, soprattutto a causa dell'assenza di politiche adeguate, si pone subito come una "nuova povertà", come un fenomeno accusato di alimentare il degrado degli spazi urbani ed abbassare la qualità della vita. I tratti somatici di questi nuovi poveri favoriscono indubbiamente una maggiore "presa di distanza" da parte dei cittadini inclusi socialmente e la loro stereotipizzazione in termini di "nuova classe pericolosa". Tuttavia, nonostante l'extracomunitario porti addosso, sulla sua stessa pelle, i segni della sua profonda diversità, la sua immagine è inquietante anche per la profonda differenza di classe che lo separa dagli inclusi, dai cittadini.

Sin dai primi anni novanta la società civile inizia ad esprimere un'immagine "miserabilista" dell'immigrazione, gli immigrati appaiono sempre più spesso come "individui laceri, stanchi, sradicati che abitano luoghi fatiscenti degradati oscuri" (158) e ciò traspare ogni qualvolta un determinato quartiere reagisce all'insediamento di un gruppo di immigrati in zona. Si tende a sottolineare la marginalità che connota i lavoratori immigrati e gli effetti in termini d'abbassamento della qualità della vita che comporterebbe un loro definitivo stanziamento in zona, il quale verrebbe inevitabilmente ad aumentare degrado e criminalità; "come nella prima metà del secolo scorso, in Francia, le classi lavoratrici si fondono sempre più, nell'opinione degli osservatori dell'epoca, con le classi pericolose, qui la condizione di clandestinità, la mancanza di una fissa dimora, e sempre più il semplice essere extracomunitario diventa sinonimo, oltre che di marginalità, di pericolosità sociale" (159).

Inizialmente, tuttavia, le pulsioni della società civile non incontrano i favori delle autorità politiche e della stampa locale, che non esitarono a levare il loro sdegno rispetto a manifestazioni di protesta a tratti esplicitamente razziste (160). In ogni caso erano già attive varie "organizzazioni dell'intolleranza" (161), come MSI e LEGA, che cominciavano a cogliere quale enorme fetta di consenso le forze politiche si sarebbero giocate su questo tema. Non è un caso del resto se le varie autorità locali, inizialmente solidali ed aperte rispetto agli immigrati, anche a dispetto dei moniti provenienti dal basso, furono costrette ad un rapido dietro front, attuando numerosi sgomberi ed assecondando le richieste di allontanare gli immigrati che i loro cittadini muovevano.

Il clima era però in rapido mutamento ed una vicenda dalla rilevanza, nuovamente, nazionale lo avrebbe evidenziato a sufficienza: il primo consistente flusso di albanesi che approdò sulle nostre coste. Inizialmente, infatti, non mancò la disponibilità ad accogliere quello che era considerato un popolo "in fuga verso la libertà", ma repentinamente, tra la fine del 1990 e l'estate del 1991, di fronte agli sbarchi incessanti i profughi in fuga dalla dittatura comunista saranno trasformati, dal discorso pubblico, in "clandestini", in immigrati indesiderabili (162).

Alla "questione albanese" dobbiamo con tutta probabilità lo strutturarsi del panico da invasione e la costruzione di un universo simbolico idoneo a legittimare la paura della società civile; ma, soprattutto, dobbiamo all'allora ministro dell'interno, Margherita Boniver, l'adozione di una strategia di gestione del fenomeno improntata alla più rigida chiusura e l'episodio - rimosso dall'opinione pubblica italiana - dell'internamento nello stadio di Bari: il primo luogo di sospensione del diritto, di extraterritorialità giuridica, che il nostro paese conoscerà, preludio di altre - più efficaci e capillari - istituzioni in cui l'Italia internerà gli immigrati extracomunitari (163).

Dal 1991 in poi, dunque, il discorso pubblico sull'immigrazione si struttura secondo alcuni canoni ben precisi, come è stato giustamente segnalato: tra la fine degli anni '80 e l'inizio dei '90, si completa il "passaggio da un emergenza razzismo a un'emergenza criminalità" (164). Il passaggio è di una importanza estrema poiché porta alla definitiva legittimazione delle mobilitazioni anti-immigrati che si vanno sempre più diffondendo nelle varie realtà locali. Se da un lato, infatti, arretra progressivamente l'area semantica del concetto di razzismo, riservato ormai all'interpretazione di episodi esplicitamente razzisti, tendenzialmente riferibili ad ambienti dell'estrema destra; dall'altro lato le varie azioni e mobilitazioni, che, come visto, media ed esponenti politici stessi non esitarono inizialmente a definire xenofobe, si trasformano in legittime rivendicazioni di cittadini esasperati dal degrado e dalla criminalità dovuti dall'arrivo degli immigrati (165).

L'irrazionale sentimento di repulsione che la gente comune prova verso l'immigrazione cessa di essere riprovato e comincia ad essere accolto dai media e dalle altre forze politiche (a prescindere dalle avanguardie dell'intolleranza); da questo momento in poi il flebile solidarismo che ancora l'Italia esprimeva sarà definitivamente sepolto sotto il peso di un indiscutibile stereotipo: gli immigrati sono dei barbari, dei criminali, o, nella migliore delle ipotesi, dei miserabili di cui è inconcepibile pensare di potersi fare carico.

Nascono in questo periodo i primi comitati di quartiere, da subito attivi nella lotta al degrado ed alla criminalità, associati entrambi alla semplice presenza degli extracomunitari; nello stesso tempo però, media e classe politica "prendono in carico" le rivendicazioni dei cittadini, fornendo loro una cornice simbolica all'interno della quale inserire le loro pulsioni (166).

Come segnala Alessandro Dal Lago, scelte redazionali e felici operazioni di marketing politico, costruiscono la visione del problema immigrazione offerta dai "cittadini comuni" e dai vari "comitati", come unica visione legittima e, nell'adottarla, le forniscono uno statuto di una verità incontrastabile, oltre che un linguaggio per esprimersi coerentemente. La costruzione dello stereotipo dell'immigrato criminale passa in primo luogo, dunque, attraverso l'azione reciproca di tre attori (media, classe politica, "imprenditori della sicurezza"), che ne circoscrivono i termini e le caratteristiche, nell'ambito di un meccanismo di riproduzione tautologica dei suoi assunti di base (167).

Accogliendo le definizioni allarmistiche del "problema immigrazione" che forniscono i cittadini comuni (militanti e non), i media restituiscono all'opinione pubblica un prodotto simbolico finito, trasformando la visione allarmistica in uno sfondo cognitivo abituale, dato per scontato. Tre, in particolare, sono i passaggi concettuali fondamentali attraverso cui l'immigrazione è definitivamente costruita quale indiscutibile minaccia: "enfatizzazione del fatto criminale e deviante; rappresentazione miserabilistica delle condizioni di vita degli immigrati; cancellazione della loro dimensione quotidiana (lavorativa, esistenziale, sociale)" (168).

Tuttavia, a parte la versione edulcorata - e dunque più pervasiva - dello stereotipo dell'immigrato criminale, centrata sulla sua rappresentazione "miserabilista", che abbiamo visto essere uno dei cardini del processo di criminalizzazione delle nuove povertà avviatosi in tutto l'occidente, come spesso accade quando alle differenze di classe si sovrappongono fattori etnici, o presunti tali, ben altre risorse concettuali possono sorreggere la presa di distanza della società civile da questi nuovi barbari. Nell'enfatizzazione della devianza degli stranieri, infatti, si annidano spesso accenti neorazzisti, che non esitano ad associare "devianza" ed "etnia" con retoriche sovente straordinariamente simili alle descrizioni che il positivismo di matrice lombrosiana effettuava allorché volgeva il suo sguardo verso le "razze inferiori". Certo, difficile sarebbe trovare accenti che esplicitamente rimandino a presunte diversità biologiche o ad atavismi di sorta, la stessa ambiguità delle formule utilizzate ha consentito che le definizioni dell'altro ricorrenti nel discorso pubblico non fossero inquadrate nell'area semantica del concetto di razzismo, come accennato sempre più ristretta. La costruzione nel discorso pubblico della profonda "diversità" degli extracomunitari, della loro "natura" delinquente, si basa oggi su di un campionario di risorse concettuali più ampio e variegato di quello che fu in grado di fornire la biologia ottocentesca: "lo spettro della differenza comprende infatti razza e animalità, sporcizia e ubriachezza, devianza e illegalità, disordine e pericolo senza una gerarchia simbolica definita" (169). Questa complessa struttura simbolica viene a radicare anche in Italia l'idea dell'esistenza di tutto un insieme d'individui che, per una forma di deficienza morale o per scarso senso di responsabilità, si mantiene volutamente ai margini del mercato del lavoro, conducendo un'esistenza da parassiti e sfruttando l'eccessivo permissivismo del nostro sistema sociale e, soprattutto, penale. E ciò riguarda soprattutto l'immagine degli immigrati irregolari: il cui status giuridico, più che esprimere l'ottusa chiusura della nostra società nei loro confronti, evidenzia secondo questa vulgata la precisa volontà di sfuggire ad ogni tipo di controllo sociale, l'intenzione di mettere in pratica un progetto di vita fondato sulla commissione d'illeciti. La vita ai margini cui sono costretti gli immigrati, dunque, è dovuta ad una loro ben precisa scelta di vita, al pari dell'underclass statunitense o inglese, sono essi stessi responsabili delle loro condizioni sociali svantaggiate e la società non è tenuta a farsi carico del loro disagio, anzi.

A lungo andare la percezione del fenomeno immigrazione che il cittadino comune ha - tanto più se difficilmente egli ha la possibilità di esperire personalmente un contatto con gli immigrati che vada aldilà del semplice incrociarli per strada - si forma esclusivamente sulla base del quadro interpretativo, della cornice simbolica, che i media gli forniscono (ed i politici adottano legittimandola) e la rappresentazione patologizzante dell'immigrato assume uno statuto di realtà in grado di occultare l'effettivo inserimento economico degli extracomunitari (170).

"Non conosciamo l'immigrazione, ma quella parte di immigrazione filtrata per noi dai media secondo le loro caratteristiche di funzionamento. Al tempo stesso però questa piccola parte del fenomeno costituisce per noi la realtà stessa, con cui inevitabilmente andiamo a confrontarci. Il discorso sull'immigrazione da parte dei media diventa così la realtà dell'immigrazione stessa" (171).

L'adozione da parte dei media, soprattutto locali, del punto di vista dei cittadini comuni e, soprattutto, dei cosiddetti comitati di quartiere, molto efficaci nel dare "visibilità" alle proprie iniziative, sarà seguita, nel volgere di pochi anni, dall'entrata in scena delle principali forze politiche. Inizialmente terreno di propaganda e risorsa simbolica per forze minoritarie, la questione dell'immigrazione acquista progressivamente una rilevanza maggiore nel dibattito pubblico. Strettamente associata al problema della sicurezza urbana, essa percorre la medesima parabola della questione securitaria diventando, a partire dalla seconda metà degli anni '90, uno dei punti principali dell'agenda politica nazionale. A questo punto però lo sfondo simbolico all'interno del quale si svolge il dibattito pubblico sull'immigrazione è già strutturato, essa è prevalentemente una questione d'ordine pubblico ed, insieme al "problema sicurezza", un comodo catalizzatore di ansie e paure su cui costruire facili consensi. Le forze politiche hanno ormai espropriato ai comuni cittadini il ruolo di definitori legittimi della situazione, "la funzione pionieristica dei comitati è virtualmente finita" (172).

La questione dell'immigrazione è definitivamente inquadrata come uno (il principale) degli aspetti della questione securitaria ed utilizzata, tanto da destra che da sinistra, quale base per la costruzione del consenso, tanto che entrambi i poli si contendono l'alleanza della forza politica che più di ogni altra ha costruito la sua fortuna cercando di assumere la paternità delle mobilitazioni securitarie ed anti-immigrati: la Lega Nord.

In linea di massima, dunque, il senso d'insicurezza, di cui abbiamo diffusamente parlato, sorge e si legittima in Italia con il crearsi di queste "nuove povertà" e, già agli inizi degli anni '90, la stretta associazione tra immigrazione e problemi d'ordine pubblico, di polizia, avvia una transizione (perlomeno a livello municipale) da un governo «sociale» dell'immigrazione - riduzione delle quote di budget dedicate ad interventi socio-assistenziali per gli immigrati - verso un governo «poliziesco» della stessa - aumentano le richieste d'intervento delle forze di polizia contro il degrado, la marginalità sociale, la microcriminlità e le pulsioni verso una chiusura delle frontiere ed un rigido controllo dell'immigrazione - esplicitamente accusata di essere la causa prima di tutti i disordini.

Tale tendenza si radicherà ulteriormente, come visto, nel corso della seconda metà degli anni '90, durante la quale l'Italia comincia a smantellare il suo welfare ed a ridurre la spesa sociale, incrementando parallelamente intervento poliziesco ed il budget delle forze dell'ordine; ma soprattutto - stando ad un argomento che tocca direttamente gli immigrati - scivola definitivamente verso un governo poliziesco dell'immigrazione (173).

Le amministrazioni municipali iniziano così ad avviare una sciagurata politica di disimpegno rispetto al fenomeno, abbandonando gli immigrati a sé stessi, con il risultato di incrementare la marginalità sociale e, soprattutto, il disagio abitativo, potenziando esponenzialmente i "conflitti urbani" che avevano portato il "problema immigrazione" al centro delle cronache locali. Emblematica di tale immediato scivolamento delle nostre politiche migratorie verso una strategia poliziesca è la particolare vicenda del centro di via Corelli a Milano: inizialmente centro di accoglienza, in seguito luogo d'internamento. Da struttura d'assistenza a struttura poliziesca! Da luogo per iniziare ad accogliere ed integrare gli immigrati regolari, a luogo per avviare le procedure d'espulsione degli irregolari. Questa è, forse, la più efficace sintesi dello spostamento di priorità che il governo dell'immigrazione ha subito in Italia nel volgere di un decennio.

Le vicende legate all'immigrazione vanno, dunque, considerate come un aspetto del processo di costruzione sociale del sentimento d'insicurezza, esse, infatti, s'inseriscono nel medesimo contesto storico-sociale che abbiamo visto far da sfondo all'esplosione dell'insicurezza ed alle mobilitazioni cittadine contro degrado e criminalità. Probabilmente, infatti, non si va troppo lontani dalla realtà effettiva delle cose asserendo che è stata proprio la possibilità di individuare così facilmente una "nuova classe pericolosa", uno strato di popolazione particolarmente debole socialmente e, dunque, facilmente stigmatizzabile, ad aver alimentato oltre misura la reazione della società civile, con il battage mediatico e le operazioni di marketing politico che si è portata dietro.

Tali considerazioni sono del resto confermate dal fatto che spesso è stata la semplice presenza sul territorio di "certi" soggetti a suscitare inquietudini e repulsione e che spesso la maggiore visibilità degli immigrati ha portato a credere che determinati comportamenti criminali fossero appannaggio esclusivo degli extracomunitari (174).L'arretramento della soglia di tolleranza rispetto a tutta una serie di comportamenti "sub-criminali" e di problematiche riferibili alla marginalità sociale, che abbiamo visto avviarsi sul finire del XX secolo, si esplica in Italia soprattutto rispetto agli immigrati, la cui presenza in strada inquieta, il cui semplice bivaccare in alcune zone desta sospetti e fastidi, "l'allarme urbano, ciò che i cittadini temono, si estende all'immigrazione come metafora della devianza sociale" (175).

Il "conflitto urbano" che il "cittadinismo attivista" ha portato alla ribalta delle cronache - costringendo la classe politica ad assumerne coscienza, prendendo delle posizioni a riguardo, poiché sempre più ampia è stata, come visto, la fetta di consenso che ci si è giocati sulla questione della sicurezza - è prevalentemente dovuto alla segnalata "paura di vivere insieme" che attanaglia la vita in ambienti metropolitani fortemente stratificati socialmente. Il conflitto urbano, infatti, ha per oggetto la distribuzione dei costi, degli aspetti negativi dell'immigrazione, sul territorio urbano e sulla qualità della vita.

L'immigrazione che, come visto, canalizza i flussi di manodopera verso le aree più ricche e sviluppate del paese, ha indubbiamente degli effetti positivi sulla nostra dinamica produttiva, compensando un complessivo deficit di manodopera, un'insufficienza nella struttura del nostro proletariato post-fordista; tuttavia, seppur determinata da ben precise esigenze del nostro sistema produttivo, essa, nell'attuale congiuntura politico-economica, reca con sé diverse problematiche. Tanto più elevato è il deficit di cittadinanza sociale e di politiche integrative che il nostro sistema assicura agli immigrati, tanto più elevati saranno i costi in termini di conflittualità e problematicità sociale da pagare. L'esplodere di una "questione immigrazione" ed, in parallelo, di una "questione sicurezza" è infatti da ritenersi il portato delle conflittualità scatenate dalla deriva politico economica di fine secolo.

Gli attori del conflitto, infatti, sono soprattutto gli abitanti delle periferie urbane (le borgate romane, gli ex quartieri operai nelle città industriali) che reagiscono a quello che percepiscono come il tentativo di scaricare interamente su di loro tutti gli aspetti negativi dell'immigrazione (di cui, peraltro, non percepiscono, se non in maniera indiretta, nella misura in cui essa fa da volano per la nostra economia, gli effetti positivi). Si tratta evidentemente dei soggetti che, come già accennato, più di tutti hanno subito il peso della ristrutturazione economico-sociale ed il crollo delle vecchie reti di solidarietà su cui si fondava la struttura sociale fordista: "i processi di profondo cambiamento socio-economico nelle zone urbane delle nostre città, la crisi di un'etica del lavoro e al tempo stesso del lavoro come mezzo di promozione sociale e personale, la scomparsa di reti sociali urbane tradizionali - spesso collegate a forme di partecipazione politica che vanno scomparendo - producono esiti di frammentazione sociale ed identitaria, che vanno a saldarsi con, e sembrano venir rappresentate da, le nuove emergenti immagini di disordine facilmente attribuite agli interpreti, spesso inconsapevoli, di tale rappresentazione sociale, siano essi i nuovi immigrati o gruppi di giovani nomadi" (176).

D'altra parte però, attori altrettanto agguerriti dei conflitti urbani contemporanei sono gli abitanti dei centri cittadini ed i "bottegai", come segnalato, fervidi animatori di molte delle mobilitazioni securitarie ed anti-immigrati che l'Italia ha conosciuto negli anni '90. In questi casi, però, la rivendicazione di maggior decoro - tipica di quello che è stato chiamato "cittadinismo perbenista" - tende a scaricare i costi negativi della presenza degli immigrati sulle periferie.

Entrambi i tipi di attori coinvolti, tuttavia, lottano per ottenere il medesimo risultato: l'invisibilità sociale degli immigrati in particolare e delle nuove povertà in generale (177), tanto più qualora tali soggetti presentano bisogni elementari insoddisfatti (come l'abitazione), forti disagi e tendono a scivolare verso forme di marginalità estrema.

Tale pressione verso l'invisibilità sociale, verso l'eliminazione dal panorama urbano di determinati soggetti, sorretta dai pervasivi stereotipi criminalizzanti che abbiamo visto, è ciò che ha contribuito in maniera determinante a riorientare le strategie di controllo sociale nell'ultimo decennio del scolo XX. Ma, soprattutto, è ciò che potrebbe contribuire a spiegare l'enorme sovra-rappresentazione degli immigrati nelle statistiche penali che abbiamo visto, ciò che potrebbe spiegare come il processo di costruzione ideologica della criminalità degli immigrati possa arrivare a condizionare pesantemente l'azione delle agenzie di controllo sociale, nel senso di una riproduzione - nella loro attività materiale e, dunque, nella realtà statistica - dello stereotipo.

Note

1. Cfr. l'introduzione di D. Melossi al numero della rivista Dei delitti e delle pene (nº 3, 1999) dedicato ad Immigrazione ed insicurezza; cfr. anche: S. Palidda, Polizia ed immigrati, un'analisi etnografica, cit.

2. Non intendiamo il termine migrazione alla maniera di U. Eco (Le migrazioni, la tolleranza e l'intollerabile, in: Cinque scritti morali, cit., p. 93 e ss.), poiché non ci è dato sapere (né potremmo in questo contesto sviluppare adeguatamente la problematica) se l'imponenza degli attuali spostamenti di popolazione tra "nord" e "sud" del mondo è tale da poter determinare a lungo andare una sorta di meticciato globale: "sino a che vi è immigrazione i popoli possono sperare di tenere gli immigrati in un ghetto, affinché non si mescolino con i nativi. Quando c'è migrazione non ci sono più ghetti, e il meticciato è incontrollabile" (ivi, p. 99). Certamente gli spostamenti di manodopera che la storia del capitalismo ha conosciuto non rientrerebbero nel concetto di "migrazione" così inteso, gli stessi Stati Uniti d'America - che sull'afflusso di popolazione dall'estero si sono costruiti - sono ben lungi dall'aver realizzato quel melting pot auspicato dagli scienziati sociali di inizio XX secolo; né è possibile fare considerazioni dissimili riguardo i lavoratori affluiti dalle ex colonie in Francia, confinati, a dispetto degli auspici di naturalizzazione, nelle banlieuex; o pensando alla Germania, che non ha mai offerto prospettive di una stabile integrazione ai suoi immigrati. La visione di un'Europa multirazziale e meticcia è certamente suggestiva, oltre che verosimile in una prospettiva di lunghissimo termine, tuttavia - parlando di migrazioni - adotteremo in questo contesto un profilo semantico meno impegnativo: utilizzeremo, infatti, il termine per riferirci a fenomeni di emigrazione/immigrazione e questo indipendentemente dal fatto che le politiche adottate dai paesi di destinazione dei flussi abbiano sempre cercato (e, in maniera tutto sommato velleitaria, tentino di farlo anche adesso che "il Terzo Mondo sta bussando alle porte dell'Europa, e vi entra anche se l'Europa non è d'accordo", ivi, p. 99) di indirizzarli e governarli.

3. S. Palidda, Proletari d'importazione, cit.; cfr. anche: Id, Polizie e ordine nella società post-industriale globale, cit.

4. Gli Stati Uniti costituiscono forse un caso a parte: nazione che sui flussi migratori si è costruita, ha chiuso le sue frontiere, limitando la possibilità di immigrare già a partire dal 1924, quando ancora la "terza via" rooseveltiana era da venire. D'altra parte però, solo nel primo quarto del XX scolo, si era accumulato un impressionante esercito industriale di riserva (circa 16.000.000 di individui cfr.: R. Rauty, Il sogno infranto. La limitazione dell'immigrazione negli Stati Uniti e le scienze sociali, Roma, 1999, p. 31): l'imponente immigrazione, e le generazioni che sarebbero nate sul suolo americano, avrebbero assicurato la manodopera sufficiente ai bisogni che il capitale avrebbe manifestato con l'avvio del fordismo. L'apertura del sistema sociale americano s'indirizzo, dunque, prevalentemente verso l'integrazione delle ethnic minorities già presenti sul territorio, mentre la quantità di nuovi immigrati ammessi non raggiunse più gli impressionanti livelli dell'inizio del XX secolo.

5. Cfr.: S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit., soprattutto il capitolo intitolato: Ordine postmoderno e migrazioni; Id., Polizia ed immigrati un'analisi etnografica, in: Rassegna italiana di sociologia, xl, 1999.

6. Cfr. A. De Giorgi, Zero tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, cit.

7. Secondo la formula usata da Vittorio Cotesta nei suoi lavori sui conflitti etnici (cfr.: La cittadella assediata, immigrazione e conflitti etnici in Italia, Roma, 1992; Noi loro. Immigrazione e nuovi conflitti metropolitani, Soveria Mannelli, 1995).

8. D. Melossi, Discussione a mo' di prefazione: carcere, postfordismo e ciclo di produzione della "canaglia", in: A. De Giorgi, Il governo dell'eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine, cit., p. 15.

9. E. Pugliese, Gli squilibri del mercato del lavoro, cit.

10. M. Paci, I mutamenti nella stratificazione sociale, cit.

11. Cfr.: M. Paci, I mutamenti nella stratificazione sociale, cit.; E. Pugliese, Gli squilibri del mercato del lavoro, cit.

12. Come abbiamo del resto segnalato, le politiche del lavoro "attive" progressivamente adottate dai nostri governi a partire dalla seconda metà degli anni '80 sono appunto andate nella direzione di aumentare la competitività sul mercato del lavoro dei giovani disoccupati aumentando il ventaglio di possibilità di un loro impiego "atipico" (oltre al già ampio settore dell'economia informale).

13. Cfr.: M. Paci, I mutamenti nella stratificazione sociale, cit.

14. Cfr.: E. Pugliese, L'immigrazione, in: Storia dell'Italia repubblicana, vol. 3*, L'Italia nella crisi mondiale, cit.

15. Cfr.: E. Pugliese, L'immigrazione, cit. A questo proposito, c'è da ricordare che i dati cui si fa riferimento in relazione a questo periodo sono dati censuari, elaborati dall'ISTAT sulla base dei dati anagrafici; è dal 1990 in poi che sarà possibile usufruire di una fonte diversa, offerta dai dati relativi ai permessi di soggiorno concessi, elaborati dal Ministero dell'Interno. D'ora in poi faremo prevalentemente riferimento a quest'ultimo tipo di dati, poiché, rispetto ai primi, presentano una maggiore attendibilità data dal fatto che non tutti gli extracomunitari regolarmente soggiornanti risultano residenti in un qualche comune (pur avendo diritto all'iscrizione anagrafica).

16. Cfr.: G. Mottura, L'arcipelago immigrazione, Roma, 1992. Le principali nazionalità secondo i dati relativi ai permessi di soggiorno erano, al primo Gennaio del 1992, Marocco (con 83.292 permessi), Tunisia (41.547), Filippine (36. 316), ex Jugoslavia (26.727), Albania (24.886) e Senegal (24.194; i dati sono tratti da: M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, Bologna, 2002, p. 50).

17. Cfr.: M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit. C'è da segnalare però, che molti dei permessi di soggiorno concessi (circa 228.000 unità) sono riferibili a persone provenienti non da paesi in via di sviluppo, o comunque non a forte pressione migratoria e che il dato sui permessi di soggiorno non tiene conto dei minorenni che giungono assieme ad un adulto (cfr.: A. Golini, C. Conti, Il profilo demografico, in: G. Zincone (a cura di), Secondo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, Bologna, 2001, p. 157 e ss.). Sotto questo profilo se si considera che i minorenni iscritti all'anagrafe sono circa 230.000, di cui una parte (circa 60.000) entrati con un'autorizzazione autonoma, si può ragionevolmente sostenere che il dato totale della presenza immigrata nel nostro paese sia leggermente diverso da quello indicato: assestandosi intorno alle 1.520.000 unità (circa il 2,6% sul totale dei residenti in Italia; cfr.: D. Melossi, Alla ricerca di una vita tranquilla: immigrazione, criminalità e italian way of life, in: Quaderni di Città Sicure, nº 21, Vol. I, p. 17 e ss.). In ogni caso si può segnalare sin da adesso che i più consistenti incrementi nel numero degli stranieri regolarmente presenti sono da ricollegare alle varie sanatorie che hanno fatto seguito agli interventi normativi in materia (quattro dal 1986, come vedremo). In particolare nel 1997 (a seguito della sanatoria del '96) si è registrato un incremento del 35,2%, mentre nel 2000 (i dati sono relativi alla sanatoria del 1998, che ha presentato non pochi problemi con significativi rallentamenti nelle procedure di regolarizzazione) si è registrato un incremento del 22,9%.

18. Cfr.: M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 50; A. Golini, C. Conti, Il profilo demografico, cit.

19. Nel 1994 la distribuzione fra le aree geografiche faceva registrare l'81% delle presenze al centro-nord ed il 19% al sud (cfr.: Cfr.: E. Pugliese, L'immigrazione, cit.), tali percentuali non hanno subito significative variazioni sino al 2000 (cfr.: A. Golini, C. Conti, Il profilo demografico, cit.). Se si considera la percentuale globale di stranieri presenti in Italia nel 2000 (circa il 2,2%) sul totale dei residenti nella penisola, si potrà riscontrare la loro prevalente concentrazione nelle aree metropolitane solo a pensare che città come Milano, Roma, Firenze, Torino e Bologna, hanno percentuali sui residenti rispettivamente pari al: 7,3% - 5,1% - 4,7% - 3,7% - 3,6% (cfr.: M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit.).

20. Cfr.: A. Golini, C. Conti, Il profilo demografico, cit.; A. Golini, L'emigrazione italiana all'estero e la demografia dell'immigrazione straniera in Italia, cit., in: G. Zincone (a cura di), Primo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, Bologna, 2000, p. 121; M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit.

21. È, dunque a questa specifica categoria che va riferito il termine "clandestino", spesso surrettiziamente esteso come appellativo alla categoria degli irregolari tout court.

22. Quella effettuata in occasione dell'emanazione della cosiddetta "Legge Martelli" (L nº 39/1990), che seguiva alla sanatoria del 1986, effettuata in occasione della prima disciplina dell'immigrazione in Italia (L. nº 943/1986).

23. Cfr.: E. Pugliese, L'immigrazione, cit.

24. Cfr.: CARITAS, Immigrazione. Dossier Statistico, 1995.

25. Ci riferiamo al provvedimento adottato nel 1998, in occasione dell'emanazione della legge cosiddetta "Turco/Napolitano" (L. nº286/1998), che seguiva il provvedimento del 1996, emanato in occasione del decreto "Dini".

26. Cfr.: G. Carlo Blangiardo, P. Farina, La presenza regolare e irregolare, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Sesto rapporto sulle migrazioni, Milano, 2001, p. 11 e ss.

27. Cfr.: A. Golini, C. Conti, Il profilo demografico, cit.

28. È chiaro infatti che il "modello idraulico", nel suo rigido schematismo, non tiene minimamente in conto vari fattori che possono incidere nell'incrementare, indirizzare o limitare i flussi migratori, "lo sviluppo economico, le trasformazioni politiche, l'urbanizzazione, la crescente alfabetizzazione e la scolarizzazione, nonché il grado di emancipazione femminile dei paesi della Riva Sud, sono tutti fattori dal peso oggi imprevedibile, che possono incidere sui ritmi della fecondità e vanificare proiezioni e previsioni (...) le trasofmazioni del mercato del lavoro e le politiche più o meno restrittive dei paesi europei in materia di immigrazione, nonché lo stesso sviluppo economico dei paesi di emigrazione, costituiscono degli ostacoli evidenti alle spinte migratorie. Ma, più in generale, il modello idraulico ignora il presupposto che le migrazioni non sono una cosa, ma il risultato di un gran numero di scelte individuali, che a loro volta si basano su fattori percettivi, processi decisionali, condizionamenti sociali e rappresentazioni culturali, di cui la demografia non può tener conto" (A. Dal Lago, Non-persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, cit., p. 161).

29. Cfr: A. Golini, L'emigrazione italiana all'estero e la demografia dell'immigrazione straniera in Italia, cit.

30. Cfr.: A. Golini, C. Conti, Il profilo demografico, cit., p. 173.

31. Cfr.: A. Golini, L'emigrazione italiana all'estero e la demografia dell'immigrazione straniera in Italia, cit.; A. Golini, C. Conti, Il profilo demografico, cit.; CARITAS, Immigrazione. Dossier statistico, 1999.

32. E. Reyneri, Il mercato del lavoro. L'integrazione nell'occupazione dipendente, in: G. Zincone (a cura di), Secondo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, cit., p. 331 e ss.

33. Una lettura di questo tipo è stata offerta da Marzio Barbagli (cfr.: Immigrazione e reati in Italia, cit.) e, come vedremo, tale impostazione di partenza sarà determinante per la spiegazione dei tassi di delittuosità degli immigrati che l'autore propone; più moderata è la posizione a riguardo di Enrico Pugliese (cfr.: L'immigrazione, cit.) che lascia qualche spazio anche ai fattori d'"attrazione" e, soprattutto, non elude la questione della rilevanza degli immigrati nel nostro mercato del lavoro.

34. L'incontrastata diffusione mondiale di un modello culturale consumistico tipicamente occidentale, che segue lo sviluppo della globalizzazione dei flussi di merci e d'informazione, traspare in maniera evidente dalle parole degli algerini di Porta Venezia a Milano (cfr. il bellissimo lavoro di A. Colombo: Etnografia di un'economia clandestina. Immigrati algerini a Milano, Bologna, 1998), e riguarda probabilmente tutte le popolazioni in stretta contiguità territoriale con il mondo occidentale, che spesso captano i segnali delle nostre televisioni, subendo una sorta di socializzazione anticipata ai nostri modelli culturali.

E se è vero, come sottolinea Luca Fontana (cfr. Diario, nº 37, settembre 2000), che sarebbe eccessivo parlare di "catastrofe antropologica", circa la propensione consumistica che sembra manifestarsi in certe aree del globo sino ad adesso più cristallizzate attorno a valori tradizionali, è altrettanto vero che la comunicazione fra mondi sta concretando quella che, come visto, Pier Paolo Pasolini aveva individuato, riferendosi all'Italia degli anni '70, perlomeno come "rivoluzione antropologica" (cfr., Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, cit.).

35. Cfr.: E. Pugliese, L'immigrazione, cit.

36. C'è da dire, però, che la sanatoria del 1990 non imponeva il requisito di avere già un lavoro per poter ottenere un permesso di soggiorno in Italia, che sarà invece richiesto già a partire dal 1996.

37. Cfr.: E. Reyneri, A. Payar, Integrazione nel mercato del lavoro, in: G. Zincone (a cura di), Primo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, cit., p. 157 e ss. Tali tendenze sembrano essersi confermate anche negli ultimi anni: nel '99 infatti è ulteriormente aumentato il numero di quanti lavorano regolarmente sul nostro territorio (si è arrivati a quota 585.000), anche se si è assistito ad un leggero incremento di quanti lavorano in nero perché privi di permesso di soggiorno (115.000) (cfr.: E. Reyneri, Il mercato del lavoro. L'integrazione nell'occupazione dipendente, cit., p. 342).

38. Cfr.: E. Pugliese, L'immigrazione, cit.; E. Reyneri, A. Payar, Integrazione nel mercato del lavoro, cit.

39. Cfr.: E. Reyneri, A. Payar, Integrazione nel mercato del lavoro, cit.; E. Reyneri, Il mercato del lavoro. L'integrazione nell'occupazione dipendente, cit.; L. Zanfrini, La discriminazione nel mercato del lavoro; M. Ambrosini, Il lavoro; in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quinto rapporto sulle migrazioni, Milano, 2000. A riguardo c'è da sottolineare che se, da un lato, le ragioni dell'impiego informale degli immigrati sono identiche a quelle che determinano l'impiego degli italiani, dall'altro lato le conseguenze per i primi rischiano di essere gravissime, dato che la loro posizione non gli consentirebbe di rinnovare il permesso di soggiorno, esponendoli ad una situazione di precarietà nello status giuridico che può avere effetti devastanti per la riuscita di un progetto migratorio (cfr.: E. Reyneri, A. Payar, Integrazione nel mercato del lavoro, cit.).

40. Cfr.: E. Reyneri, A. Payar, Integrazione nel mercato del lavoro, cit.

41. Peraltro anche parecchio differenziate a seconda della nazionalità di provenienza. Differenze che sono state interpretate come dovute alla profonda diversità delle "filiere" migratorie, che in certi casi riescono a creare dei veri e propri "network etnici", o comunque dei canali molto efficienti di accesso al lavoro regolare. Tali reti sarebbero meno strutturate per diverse nazionalità, rispetto alle quali più frequenti sono i progetti migratori individuali, effettuati al di fuori di solide reti o canali migratori (cfr.: L. Zanfrini, La discriminazione nel mercato del lavoro, cit.).

42. Peraltro nessuna sanatoria, dopo il 1990, ha omesso di prevedere il requisito di un rapporto di lavoro in atto per ottenere il permesso, il che significa che, nonostante tutto, c'è stato un rapido ritorno all'informalità, evidentemente più conveniente per i datori di lavoro (cfr.: E. Reyneri, A. Payar, Integrazione nel mercato del lavoro, cit.; L. Zanfrini, La discriminazione nel mercato del lavoro, cit.).

43. Resta comunque il fatto che, indipendentemente dai dati della sanatoria, le regolarizzazioni avevano già registrato rispetto al '98 un incremento del 24% Cfr.: E. Reyneri, Il mercato del lavoro. L'integrazione nell'occupazione dipendente, cit.

44. Cfr.: E. Reyneri, Il mercato del lavoro. L'integrazione nell'occupazione dipendente, cit.

45. Cfr.: E. Reyneri, Il mercato del lavoro. L'integrazione nell'occupazione dipendente, cit.

46. Più modeste le percentuali dell'impiego agricolo, anche se nella valutazione di questi dati vanno tenute in conto le considerazioni appena svolte, che non superano il 18-20% (cfr.: E. Reyneri, A. Payar, Integrazione nel mercato del lavoro, cit., p. 354; E. Reyneri, A. Payar, Integrazione nel mercato del lavoro, cit.; cfr. per valutazioni non dissimili: L. Zanfrini, La discriminazione nel mercato del lavoro, cit.;M. Ambrosini, Il lavoro; in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quinto rapporto sulle migrazioni, cit.).

47. Cfr.: E. Reyneri, A. Payar, Integrazione nel mercato del lavoro, cit., p. 354.

48. Cfr.: E. Reyneri, Il mercato del lavoro. L'integrazione nell'occupazione dipendente, cit.; E. Reyneri, A. Payar, Integrazione nel mercato del lavoro, cit.; L. Zanfrini, La discriminazione nel mercato del lavoro, cit.; M. Ambrosini, Il lavoro; in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quinto rapporto sulle migrazioni, cit.; E. Pugliese, L'immigrazione, cit.

49. Cfr.: E. Reyneri, A. Payar, Integrazione nel mercato del lavoro, cit.; l'autore stima che gli immigrati coprano il 5% della domanda di lavoro sul mercato.

50. Cfr.: Il mercato del lavoro. L'integrazione nell'occupazione dipendente, cit.

51. E. Reyneri, Il mercato del lavoro. L'integrazione nell'occupazione dipendente, cit., p. 364; sul punto vi è comunque un sostanziale accordo fra gli osservatori, cfr.: E. Reyneri, A. Payar, Integrazione nel mercato del lavoro, cit.; L. Zanfrini, La discriminazione nel mercato del lavoro; M. Ambrosini, Il lavoro; in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quinto rapporto sulle migrazioni, cit.; E. Pugliese, L'immigrazione, cit.

52. Per la verità l'elevato livello di scolarizzazione è caratteristica di molti giovani immigrati, che, per ovvie ragioni, difficilmente possono aspirare ad un lavoro che valorizzi il loro titolo di studio; d'altra parte sono completamente esclusi dall'accesso alle "professioni" (cfr.: L. Zanfrini, La discriminazione nel mercato del lavoro, cit.).

53. Cfr.: E. Reyneri, Il mercato del lavoro. L'integrazione nell'occupazione dipendente, cit.; E. Reyneri, A. Payar, Integrazione nel mercato del lavoro, cit.

54. V. Cotesta, La cittadella assediata, cit.; Id., Noi e Loro. Immigrati e nuovi conflitti metropolitani, cit. Come ha sottolineato Enrico Pugliese, infatti, "non è un caso che nei decenni scorsi l'opposizione agli immigrati non sia venuta dai lavoratori o dai sindacati, bensì dai settori più di destra e xenofobi o da quell'area di politici definiti in passato imprenditori politici del razzismo. E questo per diversi motivi. Tanto per cominciare finora in Italia il contrasto tra immigrati e popolazione locale - quando c'è stato - ha avuto luogo non sul posto di lavoro ma semmai nei quartieri: il conflitto ha riguardato non il luogo della produzione, ma quello della riproduzione. Il conflitto, dove c'è stato, è stato sugli spazi urbani tra settori di classe distinti: tra vecchi abitanti dei quartieri degradati e lavoratori immigrati, tra piccoli commercianti più o meno abusivi e negozianti delle zone centrali della città. Questo non vuol dire che non ci siano interessi in conflitto, ma solo che bisogna tenere conto di una serie di variabili che vanno in direzione opposta" (cfr.: Demografia, immigrazione, salario. Per uscire dai luoghi comuni, in: La rivista, 11, 2000).

55. Cfr.: E. Reyneri, Il mercato del lavoro. L'integrazione nell'occupazione dipendente, cit.; E. Reyneri, A. Payar, Integrazione nel mercato del lavoro, cit.; si pensi per esempio agli inconvenienti cui sono incorsi le avanguardie imprenditoriali che hanno delocalizzato in Albania (cfr.: Dal Lago, Non-persone, cit.).

56. E. Reyneri, Il mercato del lavoro. L'integrazione nell'occupazione dipendente, cit., p. 357.

57. G. Simmel, Excursus sullo straniero, in: S. Tabboni, Vicinanza e lontananza, Milano, 1993.

58. A. Schutz, Lo straniero: saggio di psicologia sociale, in: S. Tabboni, Vicinanza e lontananza, cit.

59. A. Dal Lago, Introduzione, in: Id, Lo straniero e il nemico. Materiali per l'etnografia contemporanea, cit.

60. Per un quadro generale della ricerca sull'argomento cfr.: T. Bandini, U. Gatti, M. I. Marugo, A. Verde, Criminologia, cit., p. 454 e ss.; M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 13 e ss.; quest'ultimo tuttavia, ripercorrendo per così dire la storia delle migrazioni, sembra vedere solo i viaggi cui furono costretti i condannati, tra XVII e XIX secolo, alle colonie penali o al bando. Una simile ricostruzione, oltre a dimenticare quale rilevanza ebbero gli spostamenti di manodopera - che del resto non sempre oltrepassavano l'oceano, propone un implicito, quanto semplicistico, parallelo fra le preoccupazioni che le autorità americane manifestarono circa l'afflusso di deportati nel nuovo mondo e il vasto movimento d'opinione che portò - negli anni '20 - alla chiusura delle frontiere americane (sulla storia di questa importante svolta nella politica immigratoria degli Stati Uniti cfr.: R. Rauty, Il sogno infranto. La limitazione dell'immigrazione negli Stati Uniti e le scienze sociali, cit.).

61. R. Rauty, Il sogno infranto. La limitazione dell'immigrazione negli Stati Uniti e le scienze sociali, cit., p. 74.

62. Cfr.: R. Rauty, Il sogno infranto. La limitazione dell'immigrazione negli Stati Uniti e le scienze sociali, cit., p. 92. Altri scienziati diedero il loro apporto nel diffondere e giustificare l'idea della necessità di limitare l'immigrazione rispetto ad alcune nazionalità. Vi era, infatti, chi con argomentazioni prevalentemente di tipo demografico parlava di un rischio di "suicidio etnico" per l'originario ceppo degli americani primo venuti, affetti da bassissimi livelli di natalità. Altri invece, come H. P. Fairchild, elaborarono varie obiezioni alla politica immigratoria statunitense, asserendo - in particolare - che la mole di immigrati in arrivo fosse più di quanto gli Stati Uniti potessero sostenere e che i nuovi venuti fossero assolutamente inassimilabili al ceppo originario, troppo diversi ed inferiori - anche per i bassi standard di vita cui erano abituati ed a causa della loro "congenita subalternità" - avrebbero determinato un notevole abbassamento dei salari, incidendo negativamente anche sul livello di vita dei lavoratori autoctoni (opinione questa sostenuta anche da E. Ross; cfr.: ivi, p. 74 e ss.). Inutile dire che l'infamante marchio con cui erano accolti gli immigrati negli States era in buona parte fabbricato dalle scienze antropologiche europee (cfr. retro: parte I, par. 3.4.2). Già nel 1906 N. Colajanni sentì di dover reagire alle calunniose opinioni dei teorici "positivisti", a parere dei quali l'emigrazione esportava semplicemente fame, miseria e delinquenza, senza mai riuscire - a riprova dell'inferiorità biologica degli emigrati - a produrre una significativa elevazione sociale. I dati riportati da Colajanni, al contrario, indicavano come moltissimi emigranti avessero notevolmente elevato la loro posizione sociale; circostanza che l'economia delle rimesse avrebbe dimostrato abbondantemente anche in Italia, offrendo i segni tangibili di tale mobilità sociale verso l'alto. Basti solo il riferimento all'elevatissima percentuale di aumento che i depositi bancari riferibili a contadini segarono tra 1914 e 1925: + 376%; o l'accesso di molti contadini alla proprietà immobiliare, fatto del tutto inedito sino ad allora in Italia. (cfr.: V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, cit., p. 229 e ss.; G. Masollo, L'economia delle rimesse, in: A.A.V.V., Storia dell'emigrazione italiana, cit., p. 161 e ss.). Una efficace rappresentazione letteraria di quanto a lungo (anche nel secondo dopoguerra) si sarebbero rivelati preziosi gli "zii d'America" per i siciliani l'ha offerta Leonardo Sciascia (Cfr.: La zia d'America, in: Gli zii di Sicilia, Torino, 1958).

63. Tutto ciò si riflette perfettamente nei vari passaggi che portarono alla definitiva disciplina del 1924. Già nel 1903, infatti, si iniziava a delineare una precisa categoria di "immigrati indesiderabili", costituita da poveri, malati, epilettici, poligami, anarchici, prostitute e donne sospette di volersi dare alla prostituzione, oltre che dai ladri di professione. Nel 1917 poi, oltre ad una disposizione che escludeva categoricamente dalla possibilità di immigrare gli asiatici e gli immigrati da India, Indocina, Afghanistan ed Arabia, sarebbe stato introdotto il test di alfabetizzazione, onde evitare che un'ondata di miserabili potesse livellare verso il basso "l'intelligenza collettiva". Tuttavia sarebbe stato tra il 1921 ed il 1924 che la politica immigratoria si sarebbe assestata definitivamente con il sistema delle "quote", che avrebbe sostituito un meccanismo di selezione "qualitativo" con uno "quantitativo" e quindi apparentemente meno discriminatorio. Le discriminazioni, tuttavia, si riprodussero anche nel nuovo sistema (e questo anche aldilà delle nazionalità esplicitamente escluse dalla possibilità di immigrare negli States), poiché in base ad esso era possibile ammettere negli Stati Uniti, per ogni nazionalità, una quota pari al 3% (dal 1924 sarà il 2%) rispetto al totale dei nati all'estero di quella stessa nazionalità secondo il censimento del 1910 (dal 1924 il parametro sarà quello del censimento del 1890). Tale normativa era, dunque, implicitamente discriminatoria, poiché imponeva di prendere in considerazione come parametro per quantificare le quote i dati di censimenti in cui le nazionalità maggiormente "desiderabili" erano sovra rappresentate rispetto alle meno "desiderabili". "Una legislazione di questo tipo aveva i suoi obbiettivi e la sua logica interna: essa privilegiava di fatto, tra i popoli che provenivano dall'Europa, l'Inghilterra, la Germania e la Scandinavia. Così, di fronte al decremento delle immigrazioni negli Usa da 1.034.940 unità negli anni tra il 1910 e il 1914 a 304.182 nel periodo 1925-'29 (con un calo complessivo del 70,6 %), i tedeschi passavano da 32.237 nel 1910-1914 a 47.506 nel 1925-'29, gli italiani da 220.967 a 13.498" (R. Rauty, Il sogno infranto. La limitazione dell'immigrazione negli Stati Uniti e le scienze sociali, cit., p. 52; cfr. anche: A. Clementi, La grande emigrazione, in: A.A.V.V., Storia dell'emigrazione italiana, cit., p. 207 e ss.).

64. Cfr.: T. Bandini, U. Gatti, M. I. Marugo, A. Verde, Criminologia, cit., p. 455 e ss.

65. Brano riportato in: M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 19.

66. Cfr.: T. Bandini, U. Gatti, M. I. Marugo, A. Verde, Criminologia, cit.; M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit.; D. Melossi, Immigrazione, pluralismo culturale e insicurezza: una ricerca in Emilia Romagna, cit.

67. M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 177.

68. Cfr.: T. Bandini, U. Gatti, M. I. Marugo, A. Verde, Criminologia, cit., p. 456 e ss.

69. Cfr.: T. Bandini, U. Gatti, M. I. Marugo, A. Verde, Criminologia, cit.; M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit.

70. Cfr.: T. Bandini, U. Gatti, M. I. Marugo, A. Verde, Criminologia, cit., p. p. 465 e ss.

71. Per una rassegna cfr.: M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 26 e ss.

72. Sono parole di uno degli autori di una ricerca pubblicata nel 1970, cfr.: F. Ferracuti, L'emigrazione europea e la criminalità, in: Rassegna di Studi Penitenziari, 1970, nº 20, p. 3 e ss.

73. Cfr.: I.H. Marshall, Minorities, migrants, and crime, London, 1997; M. Tonry, Ethnicity, crime and immigration. Comparative and cross-national perspectives, Chicago, 1997; L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit., p. 73 e ss.; D. Melossi, Alla ricerca di una vita tranquilla: immigrazione, criminalità e italian way of life, cit.; S. Palidda, La devianza, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quinto rapporto sulle migrazioni, 1999, cit.

74. Cfr. i dati riportati in: I.H. Marshall, Minorities, migrants, and crime, cit.; M. Tonry, Ethnicity, crime and immigration. Comparative and cross-national perspectives, cit.;D. Melossi, Alla ricerca di una vita tranquilla: immigrazione, criminalità e italian way of life, cit.; S. Palidda, La devianza, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quinto rapporto sulle migrazioni, 1999, cit.

75. Cfr.: I.H. Marshall, Minorities, crime, and criminal justice in the United States, in: I.H. Marshall, Minorities, migrants, and crime, cit., p. 1 e ss.; S. Palidda, La devianza, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quinto rapporto sulle migrazioni, 1999, cit., p. 128; L. Wacquant, Parola d'ordine tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società neoliberale, cit.

76. Cfr.: I.H. Marshall, Minorities, migrants, and crime, cit.; M. Tonry, Ethnicity, crime and immigration. Comparative and cross-national perspectives, cit.;D. Melossi, Alla ricerca di una vita tranquilla: immigrazione, criminalità e italian way of life, cit.; S. Palidda, La devianza, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quinto rapporto sulle migrazioni, 1999, cit.; M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit.; J. P. Lynch, R. J. Simon, Saggio comparativo sul coinvolgimento criminale di immigrati e autoctoni in sette nazioni, in: Dei delitti e delle pene, nº 3, 1999, p. 13 e ss.

77. Cfr.: I.H. Marshall, Minorities, migrants, and crime, cit.; M. Tonry, Ethnicity, crime and immigration. Comparative and cross-national perspectives, cit.;M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 141 e ss.; D. Melossi, Immigrazione, pluralismo culturale e insicurezza: una ricerca in Emilia Romagna, cit.; per il caso della Francia cfr. anche P. Tournier, La delinquenza degli stranieri in Francia. Analisi delle statistiche penali, in: Dei delitti e delle pene, nº 3, 1999, p. 141 e ss.

78. I dati riportati, salvo diversa indicazione, sono tratti dal lavoro di M. Barbagli (Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 52 e ss.); più in generale sull'argomento cfr.:S. Palidda, Devianza e criminalità, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Primo rapporto sulle migrazioni, 1995, p. 250 e ss.; Id., Devianza e vittimizzazione, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quarto rapporto sulle migrazioni, 1998, p. 145 e ss.; Id., La devianza, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quinto rapporto sulle migrazioni, 1999 cit., p. 119; C. Conti, Immigrazione e devianza, in: G. Zincone (a cura di), Secondo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, cit., p. 279 e ss.; E. Bianco, Rapporto sullo stato della sicurezza in Italia, 2000.

79. Certo però le percentuali variano allorché ci si appresti a valutare ipotesi più specifiche rispetto alle generiche categorie di furto e rapina: per esempio molto elevate risultano le percentuali di stranieri denunciati per taccheggio o borseggio (rispettivamente il 49,1% ed il 71,5%), altrettanto elevata è la percentuale di stranieri denunciata per rapina impropria (50%). Quest'ultima fattispecie peraltro confina strettamente con lo scippo, il quale ha percentuali di denunciati stranieri bassissime se confrontate con gli altri reati contro il patrimonio (15,3%); e ciò potrebbe essere un indice della tendenza ad aggravare quando possibile (e ciò nella maggioranza dei casi dipende, come avremo modo di sottolineare, dai difetti di tassatività delle fattispecie penali) le imputazioni a carico degli extracomunitari contestando, quando fra due ipotesi c'è un confine incerto, il reato più grave; cfr. S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, cit.; Id., Domanda di sicurezza e forze di polizia nei capoluoghi emiliano romagnoli, cit. Sul punto cfr. infra, par. 6.3.2.

80. Fonte: elaborazione su dati ISTAT, Statistiche giudiziarie penali, anni 1991-1999.

81. Fonte: elaborazione su dati ISTAT, Statistiche giudiziarie penali, anni 1991-1999.

82. Cfr.: C. Conti, Immigrazione e devianza, cit., p. 288.

83. Cfr.: M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 68; C. Conti, Immigrazione e devianza, cit., p. 286.

84. Fonte: elaborazione su dati ISTAT, Statistiche giudiziarie penali, 1999.

85. Fonte: elaborazione su dati ISTAT, Statistiche giudiziarie penali, 1999.

86. S. Palidda, Devianza e criminalità, cit.

87. La nazione più rappresentata nel '99 fra i denunciati è il Marocco (circa il 17% sul totale), seguita dall'Albania (16%) e dall'ex-Jugoslavia (12%), seguono poi Romania, Tunisia ed Algeria che non superano il 10%; cfr.: C. Conti, Immigrazione e devianza, cit., p. 294.

88. Cfr.: M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 50.

89. Cfr.: E. Bianco, Rapporto sullo stato della sicurezza in Italia, 2000, p. 305.

90. In questo caso le donne raggiungono il 34% fra i condannati per furto e il 23% dei condannati per rapina; Cfr.: M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 71.

91. Brano riportato in: M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 118.

92. E. Bianco, Rapporto sullo stato della sicurezza in Italia, 2000, p. 14.

93. Cfr.: E. Bianco, Rapporto sullo stato della sicurezza in Italia, 2000, p. 314.

94. Cfr.: E. Bianco, Rapporto sullo stato della sicurezza in Italia, 2000, p. 313 e ss.; M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 118 e ss.

95. M. Barbagli (cfr.: Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 131) ha recentemente effettuato tale confronto verificando che "gli immigrati regolari hanno una quota di condanne (sulla popolazione) maggiore di quella degli italiani".

96. Qui alludiamo al lavoro di M. Barbagli (Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 36 e ss.) anche se in maniera simile si era già espresso anche S. Segre, (cfr.: Immigrazione extracomunitaria e delinquenza giovanile: un'analisi sociologica, in: Studi emigrazione, 30, 1993) il quale tuttavia è incorso in alcuni "scivoloni lessicali" che lo hanno portato a parlare, a dispetto della sua interpretazione dei tassi di criminalità degli immigrati centrata sugli svantaggi economico sociali, di "particolare propensione a delinquere" o"inclinazione a delinquere"degli immigrati; locuzioni che, evidentemente, rimandano ad eziologie centrate su fattori "costitutivi" piuttosto che ad interpretazioni sociologiche della criminalità. In entrambi i casi, comunque, la teoria della privazione relativa è integrata con il ricorso ad altri approcci teorici che sottolineano la situazione di carenza di controlli sociali informali in cui sovente si vengono a trovare gli immigrati nel paese d'immigrazione.

97. M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 39.

98. S. Box, C. Hale, Economic crisis and the rising prisoner population in England and Wales, cit.; Id., Unemployment, crime and imprisonment and the enduring problem of prison overcrowding, cit.

99. Cfr.: M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit., pp. 36 e ss, 178 e ss.

100. Cfr.: Etnografia di un'economia clandestina. Immigrati algerini a Milano, cit.

101. Cfr.: A. Colombo, Etnografia di un'economia clandestina. Immigrati algerini a Milano, cit., p. 19 e ss. Sul concetto di carriera deviante cfr.: H. Becker, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, cit., p. 33 e ss.

102. Cfr.: Alla ricerca di una vita tranquilla: immigrazione, criminalità e italian way of life, cit.

103. D. Melossi, Alla ricerca di una vita tranquilla: immigrazione, criminalità e italian way of life, cit., p. 39.

104. D. Melossi, Alla ricerca di una vita tranquilla: immigrazione, criminalità e italian way of life, cit., p. 41; considerazioni analoghe ha svolto V. Ruggiero, cfr.: Movimenti nella città, cit., p. 97, 98.

105. Testimoniati in Italia dal citato caso di S. Segre, il quale, come segnalato, riproduce nella sua lettura rigidamente eziologica, il senso comune borghese che associa povertà e criminalità. In particolare l'autore ritiene fuori discussione la validità della teoria "mertoniana", poiché questa troverebbe conferma in tutti gli indici di delittuosità che da sempre registrerebbero tassi sproporzionati di delinquenza riferibile alle classi disagiate. Ora - a prescindere dal fatto che simili asserzioni sono il tipico esempio di come considerazioni pseudo-scientifiche possano legittimare il carattere marcatamente classista del sistema penale in ogni società capitalistica - è evidente che, com'è stato lucidamente sottolineato, una simile teoria può essere ribaltata nel suo opposto: in una teoria dell'affluenza relativa, qualora si sia disposti a ricordare la delittuosità, spesso difficilmente registrabile, delle classi agiate (cfr.: V. Ruggiero, Delitti dei deboli e dei potenti, cit., p. 11 e ss.). Il campionario di locuzioni utilizzate da Segre lascia del resto perplessi, ma a sconcertare è soprattutto la pretesa di dimostrare come i soggetti con una "particolare propensione a delinquere" si concentrino nelle aree urbane più povere e "socialmente disorganizzate". Inoltre tali individui sarebbero, non solo portati a commettere reati contro il patrimonio, ma - a causa della loro istruzione sovente inadeguata - anche reati contro la persona...come dire: il loro scarso livello di civilizzazione ed i loro bisogni elementari insoddisfatti li rendono simili a dei selvaggi, incapaci di frenare i loro impulsi primitivi! Quanta "distanza" ci sia fra l'autore e gli ambienti poveri che descrive come criminali è evidente, simili affermazioni (oltre ad essere un perfetto esempio di "revanscismo" criminologico) sanno di perbenismo borghese velato da un sottile strato di pseudoscientificità, riflettono in termini edulcorati tutto il disprezzo ed il timore che incutono certi "loschi figuri" e l'universo della marginalità sociale.

106. Cfr.: D. Zolo, La strategia della cittadinanza, in: D. Zolo (a cura di), Cittadinanza, appartenenza identità, diritti, cit.

107. H. Sayad, La doppia pena del migrante, in: aut/aut, nº 275, 1996.

108. Cfr.: A. Dal Lago, Non-persone, il limbo degli stranieri, in: aut/aut, nº 275, 1996, p. 43 ss.; Id, Non-persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, cit.

109. Cfr.: G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, cit.

110. S. Palidda, La devianza, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quinto rapporto sulle migrazioni, 1999, cit.

111. Recentemente, rispondendo ad un'interrogazione parlamentare (Nº 3-01624; 26 novembre 2002, presentata dall'On. Turco et Al.), il Ministro dell'Interno G. Pisanu ha affermato che "le domande pervenute per legalizzare lavoratori extracomunitari sono circa 700 mila, con una forte concentrazione nelle città metropolitane", confermando così le indiscrezioni giornalistiche a riguardo (cfr. "La Repubblica", 13.11.2002). C'è da segnalare peraltro come questa sanatoria sia stata oggetto di uno scontro serrato all'interno dell'attuale maggioranza: nell'estate 2001 infatti, allorché venne varato dal consiglio dei ministri il testo del progetto di legge che poi sarebbe diventato la cosiddetta "Bossi-Fini", non era prevista alcuna sanatoria. A riguardo, le principali forze politiche promotrici della riforma, dimostravano un'assoluta ignoranza delle dimensioni della partecipazione degli immigrati irregolari al lavoro in Italia, equiparando irregolarità nel soggiorno e criminalità tout court (del resto vi era stato, da parte di queste stesse forze, più di un tentativo di introdurre nel progetto il reato di immigrazione clandestina); queste parole proferiva, infatti, G. Fini alla conferenza stampa susseguente il lungo consiglio dei ministri da cui venne fuori il testo del progetto: "Il governo non ha mai preso in considerazione una sanatoria, gli stranieri che svolgono un lavoro continuativo, in nero o in chiaro, sono un numero irrilevante. Il clandestino è chi vive ai margini della società. In questo senso non c'è sanatoria" (cfr.: "Il Manifesto", 15.09.2001). È evidente che il tempo avrebbe smentito il nostro vicepresidente del consiglio dei ministri circa l'irrilevanza del lavoro degli immigrati irregolari, anche se lo stesso vicepresidente del senato (Il leghista R. Calderoni), allorché trapelarono le prime indiscrezioni, ebbe modo di dichiarare: "noi non siamo assolutamente contenti di questa regolarizzazione e soprattutto dei numeri che stanno emergendo. Siamo sicuri che moltissimi clandestini ci hanno provato: ora ci sarà la verifica e saranno cacciati via" ("La Repubblica", 13.11.2002).

112. Per il 2000, il D.P.C.M. 8 febbraio 2000 (pubblicato in: "Gazzetta Ufficiale" n. 62 del 15-03-2000) prevedeva una quota massima di persone cui concedere un visto d'ingresso per motivi di lavoro, aggiratesi intorno alle 63.000 unità; di cui circa 31.000 autorizzazioni rilasciate dagli uffici provinciali del lavoro, 15.000 autorizzazioni secondo il vecchio sistema degli sponsor ed altre 15.000 autorizzazioni rilasciate a persone provenienti dai cosiddetti "paesi privilegiati" (Albania, Marocco, Romania e Tunisia), con i quali l'Italia ha stipulato accordi per il contrasto dell'immigrazione clandestina. La vicenda tenne a lungo banco sulle pagine dei nostri quotidiani nazionali, anche perché la quota stabilita parve agli ambienti dell'imprenditoria italiana assolutamente inadeguata e tale infatti si dimostrò in pochi mesi, allorché tutte le autorizzazioni all'ingresso andarono rapidamente esaurite. Fu a questo punto che l'opinione pubblica italiana iniziò a scoprire l'enorme partecipazione al lavoro degli immigrati in Italia, anche se le proposte di ritoccare le quote e di anticipare il "decreto flussi" per il 2001 suscitarono comunque un vespaio di polemiche, cadendo nel vuoto (cfr. A. Amati, La cronaca dell'anno attraverso i mass-media, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Sesto rapporto sulle migrazioni, 2000, cit., p. 67 e ss.).

Nel gennaio 2002, inoltre, l'attuale governo non aveva ancora emanato il provvedimento di programmazione dei flussi per l'anno in corso, circostanza che aveva indotto alcuni deputati dell'opposizione a presentare un'interpellanza urgente rivolta al Presidente del Consiglio dei Ministri ed agli altri ministri interessati (dell'interno, del lavoro e politiche sociali), per chiedere conto di tale ritardo, a cui si dovevano imputare, peraltro, i forti disagi registrati presso gli uffici provinciali del lavoro, letteralmente assaliti dai datori di lavoro che chiedevano manodopera immigrata (cfr. Interpellanza urgente, nº 2-00213, Violante, Turco, 22.01.2002). Circostanza del resto inedita in Italia, dove "non si erano mai viste, davanti agli uffici del lavoro, file di persone formate non soltanto da immigrati, ma da datori di lavoro che chiedono di poter assumere regolarmente lavoratori immigrati", come ha avuto modo di sottolineare l'On. L. Turco illustrando alla Camera la sua interpellanza (Cfr. Resoconto stenografico dell'Assemblea, seduta nº 90, 31.01.2002, p. 2). In seguito, durante la medesima seduta, rappresentante del governo (in questo caso il sottosegretario all'interno On. A. Mantovano) avrebbe avuto modo di chiarire che il ritardo si sarebbe prolungato fino all'emanazione della nuova normativa sull'immigrazione, ai sensi della quale sarebbe stato emanato il provvedimento di programmazione dei flussi.

113. A. Tosi, L'abitazione, in: G. Zincone (a cura di), Secondo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, cit., pp. 211, 212.

114. D. Melossi, Immigrazione e insicurezza: un'introduzione, in: Dei delitti e delle pene, nº 3, 1999, p. 5 e ss.

115. Sulla deriva poliziesca delle politiche migratorie cfr. per tutti: S. Palidda, La conversione poliziesca delle politiche migratorie, in: A. Dal lago (a cura di), Lo straniero e il nemico, cit., p. 209 e ss. Le normative sull'immigrazione, tuttavia, oltre ad avere impliciti effetti criminalizzanti dati dalla spirale di emarginazione che innescano, presentano notevoli effetti di esplicita criminalizzazione, poiché espongono gli immigrati ad un pesante controllo poliziesco e creano tutta una serie di reati legati allo specifico status giuridico degli immigrati (cfr.: M. Pastore, Produzione normativa e costruzione della devianza e della criminalità tra gli immigrati, in: Quaderni I.S.MU., IX, Milano).

116. V. Ruggiero, Movimenti nella città, cit., p. 96.

117. Ivi, p. 97.

118. Cfr. A Becchi, Città e forme di emarginazione, in: Storia dell'Italia repubblicana, vol. 3*, L'Italia nella crisi mondiale, cit.; A. Lanzani, E. Granata, C. Novak, Abitare e insediarsi, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quinto rapporto sulle migrazioni, 1999, cit., p. 107 e ss.

119. Quella dell'abitazione è indubbiamente una questione dall'enorme rilevanza, anche perché è sintomatica del livello di integrazione socio economica che agli immigrati è riservata in Italia. Nel 1998 un'indagine svolta tra Milano e Bologna, due delle città con la più alta percentuale di immigrati residenti, (cfr.: (...), Abitazione e Habitat in immigrazione, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quarto rapporto sulle migrazioni, 1998, p. 133 e ss.) giungeva alla conclusione che l'esiguità del mercato dell'affitto, i costi eccessivi, sovente per affitti in "nero" in stabili al limite dell'abitabilità e l'inadeguatezza dell'edilizia popolare pubblica o di un mercato dell'"affitto sociale" erano tutti fattori di serio svantaggio per gli immigrati. Molti degli intervistati che godevano di autonomia abitativa dichiaravano, poi, di non avere in casa acqua corrente, wc, vasca da bagno, elettricità, riscaldamento, ecc. La debolezza delle politiche abitative è del resto stata segnalata nei rapporti ufficiali sull'integrazione degli immigrati in Italia (cfr.: A. Tosi, Casa e immigrazione, in: G. Zincone (a cura di), Primo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, cit., p. 317 e ss.; A. Tosi, L'abitazione, in: G. Zincone (a cura di), Secondo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, cit., p. 193 e ss.). In generale l'immigrazione soffrirebbe di un forte disagio abitativo solo in parte determinato dalla povertà o dalla emarginazione rispetto al mercato del lavoro, del resto l'Homelessness oltre ad essere particolarmente significativa fra gli immigrati, riguarda anche molti immigrati forniti di un regolare permesso di soggiorno e di un lavoro. Già da tempo significativo è dunque l'apporto di immigrati al complesso della popolazione senza fissa dimora in Italia, apporto di cui l'opinione pubblica - come vedremo - sembra prendere coscienza solo quando si tratta di rilevarne la componente irregolare. Ancora una volta si deve sottolineare come l'immigrazione non sia di per sé deputata a favorire la marginalità sociale e la povertà estrema, almeno fino a quando non intervengano processi di marginalizzazione determinati dalle politiche neo-liberiste e dal vuoto di politiche sociali in cui s'inserisce l'afflusso di lavoratori extracomunitari; oltre che dalle restrizioni che impone la normativa sull'immigrazione, che determinano una costante precarietà di status giuridico. Contrariamente ad un senso comune parecchio diffuso socialmente - l'opinione pubblica infatti tende ad ignorare quale sia la quantità di immigrati in regola privi di fissa dimora e non è un caso se, quando viene scoperto uno stabile abusivamente occupato, si tende a legare in un unico filo conduttore irregolarità dell'occupazione dell'immobile/irregolarità nella presenza/devianza e criminalità - non è affatto diretta la relazione tra marginalità socio-economica e marginalità abitativa, anzi, spesso è a partire dalla perdita della casa che si avviano processi di emarginazione sociale irreversibili.

120. Nel complesso, la legge cosiddetta Turco-Napolitano, è venuta a colmare un vuoto gravissimo, prevedendo per la prima volta i criteri di accesso degli extracomunitari in regola con il soggiorno a quel che resta del nostro sistema di garanzie socio-assistenziali e stabilendo l'assoluta uguaglianza, sotto questo profilo, di cittadini italiani e lavoratori stranieri.

121. Cfr.: S. Palidda, La devianza, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quinto rapporto sulle migrazioni, cit.; E. Bianco, Rapporto sullo stato della sicurezza in Italia, 2000, p. 295.

122. Cfr. retro, par. 4.4.4; S. Palidda, Devianza e criminalità, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Primo rapporto sulle migrazioni, 1995, cit.; Id., Devianza e vittimizzazione, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quarto rapporto sulle migrazioni, 1998, cit.; Id., La devianza, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quinto rapporto sulle migrazioni, 1999, cit.; C.I.D.S.I., Gli stranieri in carcere. Dossier statistico, cit.

123. Cfr.: S. Palidda, La devianza, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quinto rapporto sulle migrazioni, cit.; V. Ruggiero, Economie sporche, Torino, 1996; Id., Delitti dei deboli e dei potenti, cit.

124. Il peso degli stranieri nelle fasce più basse del mercato della droga è confermato dal fatto che, dal '91 al '97, sul totale degli stranieri indagati per violazione della normativa sugli stupefacenti la percentuale di quelli accusati di semplice spaccio non è mai scesa al di sotto del'80%; cfr.: M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 77.

125. Cfr.: D. Melossi, Alla ricerca di una vita tranquilla: immigrazione, criminalità e italian way of life, cit.

126. Per l'analisi di un'economia illegale basata sul furto cfr.: A. Colombo, Etnografia di un'economia clandestina. Immigrati algerini a Milano, cit.; per un'analisi dell'organizzazione del mercato della droga cfr.: V. Ruggiero, Economie sporche, Torino, 1996; Id., Delitti dei deboli e dei potenti, cit.

127. V. Ruggiero, Delitti dei deboli e dei potenti, cit., p. 17 e ss.; Id., Movimenti nella città, cit., p. 97 e ss.

128. V. Ruggiero, Delitti dei deboli e dei potenti, cit., p. 28.

129. A. Colombo, Etnografia di un'economia clandestina. Immigrati algerini a Milano, cit., p. 101.

130. Per una rassegna della vasta letteratura criminologica sull'argomento cfr.: A. Colombo, Etnografia di un'economia clandestina. Immigrati algerini a Milano, cit., p. 135; quanto ai romanzi pasoliniani alludiamo ovviamente a Ragazzi di vita (Milano, 1955) ed Una vita violenta (Milano 1959), che parecchio scalpore destarono nell'Italia del dopoguerra.

131. D. Melossi, Alla ricerca di una vita tranquilla: immigrazione, criminalità e italian way of life, cit., p. 33.

132. S. Palidda, La devianza, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quinto rapporto sulle migrazioni, cit.; L. Zanfrini, La discriminazione nel mercato del lavoro, cit., in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Quinto rapporto sulle migrazioni, cit.

133. S. Palidda, Devianza e criminalità, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Primo rapporto sulle migrazioni, cit., p. 264.

134. A. Colombo, Etnografia di un'economia clandestina. Immigrati algerini a Milano, cit.; S. Palidda, Devianza e criminalità, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Primo rapporto sulle migrazioni, 1995.

135. A. Colombo, Etnografia di un'economia clandestina. Immigrati algerini a Milano, cit., p. 61.

136. S. Palidda, Devianza e criminalità, in: Fondazione CARIPLO I.S.MU., Primo rapporto sulle migrazioni, cit., p. 269.

137. Intervista cit. in: S. Palidda, Verso un "fascismo democratico"?. Note su emigrazione, immigrazione e società dominanti, in: "aut/aut", 296, 1996, p. 144.

138. Intervista cit. in: S. Palidda, Verso un "fascismo democratico"?. Note su emigrazione, immigrazione e società dominanti, cit., p. 144.

139. Intervista cit. in: A. Colombo, Etnografia di un'economia clandestina. Immigrati algerini a Milano, cit., p. 209, 213, 214.

140. A. Colombo, Etnografia di un'economia clandestina. Immigrati algerini a Milano, cit., p. 179.

141. A. Colombo, Etnografia di un'economia clandestina. Immigrati algerini a Milano, cit., p. 96.

142. S. Palidda, Devianza e criminalità tra gli immigrati: ipotesi per una ricerca sociologica, in: Inchiesta, 103, 1994.

143. Cfr.: M. Cardinali, I nomadi della nuova era: uno studio di sociologia della devianza, tesi di laurea in Giurisprudenza, Università di Bologna, a.a. 2000-2001.

144. M. Barbagli, Immigrazione e reati in Italia, cit., p. 179.

145. Cfr.: retro, par. 4.4.

146. Cfr. art. 2 D. Lgs. n. 286/1998.

147. Emblematico è il caso di Marzio Barbagli, il cui lavoro sulla criminalità degli immigrati uscì (nella sua prima edizione) nei primi mesi del 1999, subito ddopo quella sequenza di omicidi a Milano che scatenò un vero e proprio panico securitario. L'uscita ebbe infatti parecchia risonanza e fu presentata sulle pagine di alcuni dei più noti settimanali, accompagnata da interviste del sociologo impegnato a spiegare che, fra i risultati della sua indagine, vi era l'evidenza statistica (e perciò oggettiva) della maggiore partecipazione degli immigrati alle attività delittuose e della loro maggiore "propensione a delinquere".

148. M. Maneri, Lo straniero consensuale. La devianza degli immigrati come circolarità di pratiche e discorsi, in: A. Dal Lago (a cura di), Lo straniero e il nemico. Materiali per l'etnografia contemporanea, cit., p. 236 e ss.

149. Sulla questione avremo occasione di ritornare, cfr. infra, par. 6.5.

150. D. Melossi, immigrazione, pluralismo culturale e insicurezza: una ricerca in Emilia Romagna, cit., p.47.

151. H. Sayad, La doppia pena del migrante, cit.

152. L.Balbo, L. Manconi, I razzismi reali, cit.

153. E. Pugliese, L'Immigrazione, cit.

154. Cfr.: V. Cotesta, La cittadella assediata, cit.

155. Su cui cfr.: V. Cotesta, La cittadella assediata, cit.

156. Cfr.: M. Maneri, Lo straniero consensuale. La devianza degli immigrati come circolarità di pratiche e discorsi, cit.

157. A. Dal Lago, Non-persone, cit., p. 63 e ss.; Id. La tautologia della paura, in: Rassegna italiana di sociologia, XL, 1, 1999, p. 5 e ss.

158. L.Balbo, L. Manconi, I razzismi reali, cit., p. 74.

159. Cfr.: M. Maneri, Lo straniero consensuale. La devianza degli immigrati come circolarità di pratiche e discorsi, cit., p. 242.

160. La ricerca svolta da Vittorio Cotesta evidenzia chiaramente quanta fatica facessero gli stessi sindaci di Roma o Milano, ad aderire supinamente alla spinta verso l'esclusione sociale che animava la società civile dei loro quartieri maggiormente a contatto con il fenomeno immigrazione. Nella stessa Roma, la stampa locale non esitò a bollare come razziste le mobilitazioni contro gli immigrati che inscenarono varie borgate.

161. L.Balbo, L. Manconi, I razzismi reali, cit.

162. A. Dal Lago, Non-persone, cit., p. 180 e ss.

163. Cfr. Dal Lago, Non-persone, cit.; L.Balbo, L. Manconi, I razzismi reali, cit.

Il termine internamento è utilizzato per indicare l'atto di rinchiudere qualcuno sulla base di un semplice provvedimento amministrativo, possibilità che il nostro ordinamento bandì per lungo tempo e che l'immigrazione sembra aver riportato in auge, prima con l'episodio di Bari e poi con la disciplina del '98, che creò gli ormai tristemente famosi Centri di Permanenza Temporanea.

164. Cfr.: M. Maneri, Lo straniero consensuale. La devianza degli immigrati come circolarità di pratiche e discorsi, cit., p. 238.

165. Cfr. Dal Lago, Non-persone, cit.; M. Maneri, Lo straniero consensuale. La devianza degli immigrati come circolarità di pratiche e discorsi, cit.

166. Cfr.: M. Maneri, Lo straniero consensuale. La devianza degli immigrati come circolarità di pratiche e discorsi, cit.; A. D'Elia, La devianza dell'immigrato straniero nei media: i risualtati di una ricerca nel Salento, in: Dei delitti e delle pene, 3, 1999, p. 77 e ss.; V. Cotesta, Noi e loro, cit.

167. A. Dal Lago, Non-persone, cit.; Id. La tautologia della paura, cit.; si ha un processo tautologico quando "la semplice enunciazione dell'allarme (in questo caso l'invasione di immigrati delinquenti) dimostra la realtà che esso denuncia" (Non-persone, cit., p. 73).

168. L.Balbo, L. Manconi, I razzismi reali, cit., p. 64.

169. A. Dal Lago, Non-persone, cit., p. 101.

170. Per restare alle prime mobilitazioni avvenute nel '90 a Roma e Milano, le proteste dei cittadini si basavano su delle argomentazioni che, bene o male, sottolineavano esclusivamente l'assembramento in stabili in disuso di gente che portava degrado, criminalità, miseria. Enfatizzare tali aspetti - che pure non erano assenti - portò ad occultare completamente il fatto che la stragrande maggioranza degli occupanti erano immigrati con un avviato inserimento lavorativo che, a causa delle insufficienti politiche abitative, non riuscivano a trovare un tetto sotto il quale ripararsi. Cfr.: V. Cotesta, La cittadella assediata, cit.

171. A. D'Elia, La devianza dell'immigrato straniero nei media: i risualtati di una ricerca nel Salento, cit., p. 108.

172. A. Dal Lago, Non-persone, cit., p. 81.

173. S. Palidda, Verso un "fascismo democratico"?. Note su emigrazione, immigrazione e società dominanti, cit., Id, La conversione poliziesca delle politiche migratorie, cit.

174. Cfr., per esempio la ricerca di M. Chiodi: Immigrazione devianza e percezione d'insicurezza, in: Dei delitti e delle pene, 3, 1999, p. 115 e ss.; e, più in generale, i già citati lavori di S. Palidda e M. Maneri.

175. A. Dal Lago, Non-persone, cit., p. 85.

176. D. Melossi, Alla ricerca di una vita tranquilla: immigrazione, criminalità e italian way of life, in: Quaderni di città sicure, 21, p. 31.

177. Cfr.: V.Ruggiero, Movimenti nella città, cit., p. 92 e ss. Reazione a tale stato di invisibilità e caparbia conquista di quegli spazi sociali che le nostre società negano ai migranti, possono essere considerati i movimenti dei foyers e dei sans-papiers, avutisi in Francia sul finire degli anni '90. L'Italia conobbe esperienze simili già nei primi anni '90, grazie all'attivismo di Caritas e Cgil all'interno dell'ex Pantanella a Roma e conosce recentemente esperienze simili anche grazie all'azione dei Social Forum (cfr. il caso dell'occupazione a Bologna di uno stabile in disuso delle ex Ferrovie dello Stato, esperienza da cui sul finire del 2002 è nato lo "Scalo internazionale migranti").