ADIR - L'altro diritto

L'educatore nel carcere minorile
Formazione e competenze

Silvia Guetta (*), 2006

Quella dell'educatore in carcere sta diventando oggi una professione sempre più definita e chiara, con una sua importante e significativa visibilità sociale e professionale. Una professione nata un po' in sordina, senza uno status o un modello di riferimento preciso, ma piuttosto sulla spinta dei cambiamenti e dei rinnovamenti sociali, culturali e pedagogici degli anni Settanta.

Con la legge 354 del 1975 veniva affermato il ruolo rieducativo della pena. Si apriva una nuova stagione sul modo di pensare alla pena, al periodo di detenzione delle persone, al significato stesso dell'educazione in contesti istituzionali non solo scolastici. Siamo sulla scia della contestazione studentesca della fine degli anni Sessanta che ha avuto le sue ripercussioni anche nel campo dell'educazione "degli esclusi". Una contestazione che ha aperto luci nuove sul significato di educare e sul ruolo della scuola e delle istituzioni educative.

Si comincia a pensare alla educazione come intervento che deve coinvolgere colui che è sempre stato pensato essere solo l'oggetto dell'azione educativa: l'educando; oltre a questo si inizia a scardinare l'idea che l'educazione sia da considerare l'azione di trasmissione di modelli culturali e sociali con conseguente richiesta di adeguamento a quegli stessi modelli che i gruppi sociali e/o chi detiene il potere e controlla i processi, impone sia nelle forme implicite che esplicite attraverso apparati e sistemi. L'educazione comincia a pensarsi in modo diverso da forme di coercizione, imposizione, controllo, punizione, adeguamento, ripetizione. Non si tratta più solo di raddrizzare una natura, quella infantile, che nasce difettosa, quanto piuttosto di comprenderne le caratteristiche, i bisogni, le predisposizioni e le tante diversità.

La riflessione pedagogica ha quindi iniziato negli anni Settanta un percorso lungo ma ricco ei cambiamenti e nuovi indirizzi. Si pensi ai programmi per la scuola elementare, alla nascita degli asili nido, all'introduzione dell'educatore in carcere, all'affermarsi della pedagogia del dissenso, una pedagogia che trova la voce più autorevole nella denuncia al modello scolastico emarginante e monoculturale di quegli anni. La denuncia fatta da Don Milani porta finalmente a criticare un modello scolastico che si manteneva escludente, emarginante e capace solo di selezionare.

Fino a quando non si è stata avviata una riflessione sulla presenza di condizioni di diversità, di disuguaglianza, di svantaggio, l'educazione non ha avuto spazi e campi adeguati per esplorare contesi diversi da quello scolastico. Sempre nello stesso periodo cominciano a uscire le prime ricerche e le prime riflessioni sul rapporto educazione e svantaggio, educazione ed emarginazione, ci si interroga sul significato di svantaggio, sulla sua origine sociale, culturale ed economica; sul suo rapporto sui processi di apprendimento, sulle ipotesi di intervento e di diverse opportunità formative in situazione di marginalità.

C'è stata una vera e propria evoluzione di questo ambito di studio all'interno della pedagogia, tanto negli anni successivi alcune facoltà hanno sentito la necessità di inserire discipline di insegnamento che permettessero agli educatori, ma anche agli insegnanti, di acquisire nuovi strumenti di osservazione per educatore in contesti di marginalità e di deprivazione culturale.

Questa presenza disciplinare ha quindi avuto un importante significato per la riflessione pedagogica in quanto ha attivato una sorta di autoanalisi e autocritica delle teorie e delle pratiche educative sia passate che presenti. In Italia, la necessità di aprire questo campo di ricerca è stata iniziata da Borghi "Educazione e emarginazione" alla fine degli anni Settanta, poi ripresa ampliata e attualizzata dalla Ulivieri, con un contributo specifico con la cura del volume "L'educazione e i marginali". Mentre il lavoro di Borghi cerca di mettere a fuoco quali possono essere i condizionamenti sociali che hanno una ricaduta sull'educazione, in particolare quello della scuola, che simile ad altre istituzioni sociali analizzate con le lenti foucaultiane, agisce perpetuando la logica di un sistema di controllo e di esclusione che si veste di strategie di inclusione solo superficiali e che rinforzano il processo di esclusione e di riconoscimento dell'inferiorità della diversità, quello della Ulivieri allarga la visuale delle problematicità sia in modo diacronico che sincronico, utilizzando il contributo di letture disciplinari diverse.

Sia Borghi che Ulivieri, sottolineano, tra le tante tipologie di soggetti marginali e di azioni atte a creare queste stesse tipologie, c'è la situazione giovanile. Generalmente i giovani hanno un posto marginale nella società. Paradossalmente sono coloro che, nel prepararsi a saper affrontare creativamente questioni sempre più complesse, sono in realtà fatti oggetto di pratiche educative talvolta coercitive e lontane dai loro interessi, bisogni e problemi. Non esprimendo il proprio disagio con le forme sociali legittimate, sono talvolta costretti a prendere scelte obbligate o ad entrare in una integrazione forzata che genera scompensi stagnanti e aggressività, la ricerca del rischio o della marginalità come scelta, talvolta anche della devianza sociale o di forme di autoannientamento, rappresentano dei modi di rispondere nel sociale, che meritano una riflessione specifica per la richiesta di interventi non progettati con l'ottica del "rieducativo", quanto di ipotesi di progettazione della propria vita.

Negli anni Settanta si apre quindi la necessità di una riflessione teorica sull'agire pratico in cui si tiene conto delle forme di razionalità e di impegno sociale e culturale che lo connotano. In questo senso si aprono nuovi orizzonti all'intervento e al dibattito educativo e di pari passo si va definendo la necessità di indagare quali conoscenze e competenze sono necessarie all'educatore che opera in contesti di marginalità sia di soggetti che di luoghi. Si affermano professionalità educative nuove, la scuola comincia a perdere la sua centralità formativa e autoreferenzialità e si introducono, con i decreti delegati del 1974 figure "laiche" (genitori, studenti e personale non scolastico) nella gestione della scuola stessa.

Ecco quindi che la formazione dell'educatore in carcere ha un senso e una specificità se viene compresa in una evoluzione e trasformazione del concetto e dell'intervento educativo ed ha un senso perché è carica di problematicità e di impegno che rendono ancora più critica e complessa la natura del suo intervento.

Oggi, diversamente da quando è nata figura dell'educatore in carcere, è condivisa l'idea che sia necessario una solida formazione dell'educatore nei differenti campi che lo comprendono: quello teorico, quello metodologico e quello relazionale/comunicativo. È per questo che all'interno dei corsi di laurea di Educatore Professionale, con le discipline di pedagogia della marginalità e della devianza, di pedagogia sociale di legislazione minorile e di sociologia della devianza, si inizia la formazione di un educatore capace di cominciare ad attrezzarsi di strumenti professionali per lavorare in questo ambito.

Il pensare alla formazione dell'educatore in carcere con una preparazione universitaria permette di guardare alla realtà carceraria come luogo educativo e non come luogo di coercizione e punizione. Un luogo, cioè, dove, pur nella specificità della sua natura e delle relazioni e condizioni umane che sono presenti, si pensa comunque al cambiamento, al diritto all'apprendimento e alla conoscenza come strumenti necessari per pensarsi in nuovo percorso di progettualità esistenziale.

La formazione dell'educatore però deve anche avere un percorso esperenziale, sostenuto dalla capacità di saper creare e mantenere positivamente e in modo creativo, relazioni in contesti di problematicità e di disagio. La relazione non è solo con le persone in carcere, ma anche con quelle reti interne ed esterne alla realtà carceraria, che con questa hanno dei rapporti. Ecco perché diventa sempre più necessario dover pensare al contributo che dà l'esperienza di tirocinio degli studenti che si preparano a questa professione, come una esperienza di consolidamento delle conoscenze e l'inizio della trasformazione di queste in competenze.

Il territorio all'interno del quale si colloca l'istituzione carceraria è quindi luogo di esplorazione di comunicazione e di scambio. È il luogo dell'emarginazione, dello svantaggio, ma anche della partecipazione e del reinserimento.

Saper guardare alle offerte del territorio e insieme alle situazioni di svantaggio, è una competenza professionale che l'educatore può costruire potendo osservare da dentro le situazioni e le esperienze di vita. C'è anche la necessità di acquisire gli strumenti per comprendere la complessa realtà del fenomeno migratorio, delle sue implicazioni in particolare nei riguardi dell'esperienza adolescenziale e giovanile. Diventa così prioritario saper leggere e comprendere in prospettiva educativa i vissuti e i disagi dei minori non accompagnati, quali sono le buone pratiche per favorire la loro accoglienza all'interno di una progettualità che non consolidi situazione di abbandono e di marginalità, ma che promuova il rispetto sociale della persona, in questo caso del ragazzo e della ragazza e il loro diritto ad avere un luogo e un ambiente "affettivamente caldo".

La formazione sul territorio permette così di esplorare altre logiche e altri codici professionali che intervengono e sono indispensabili per la costruzione di un progetto di rete, non settoriale, ma capace di dare spazio e di utilizzare le risorse presenti. Un dialogo aperto quindi anche con le tante forme di volontariato che intervengono dando il un grande contributo e apporto motivazionale e di impegno alle azioni educative promosse in carcere.

Infine, un ulteriore punto di qualificazione che è indispensabile per l'educatore in carcere, come per ogni altre figura che opera in campo educativo e in particolare quello della marginalità e della problematicità, è quello di una formazione permanente. L'agire educativo va considerato per la sua pluralità di dimensioni e di relazioni che richiedono un continuo e rinnovato, oltre che creativo, reinvestimento dell'educatore stesso. È per questo che in primo luogo devono essere risottolineate le due dimensioni della formazione: quella teorica e quella prassica che poi rimandano alla complessa relazione che c'è tra conoscenza e azione.

Nella logica della formazione continua rientra anche la capacità di vedere la propria e la altrui situazione educativa con la prospettiva della trasformazione e del cambiamento. La trasformazione della situazione, anche se talvolta impercettibile nei contesti di disagio e di problematicità sociale, si concretizza e si realizza grazie anche alla competenza riflessiva che permette di costruire il progetto e l'intervento negli spazi della rappresentazione e della interpretazione dell'azione nel corso dello spazio, del tempo e delle relazioni che sono proprie dell'azione stessa.

Nel pensare ai contenuti della formazione dell'educatore in carcere, risulta importante considerare che non i riferimenti teorici e i modelli metodologici pedagogici devono essere scelti in coerenza con la prospettiva con la quale si guarda e si pensa l'intervento educativo. C'è quindi bisogno di costruire la propria progettualità educativa su impalcature teoriche forti che sostengano la persona come soggetto di sviluppo di potenzialità umane, come portatore e trasformatore di conoscenze e competenze sociali e culturali. Ci riferiamo a quelle teorie come l'attivismo, il costruttivismo, il problematicismo che, seppur con prospettive diverse, pongono il soggetto in educazione al centro del suo farsi educativo impegnandolo in una responsabile e partecipe costruzione di conoscenze. Sono prospettive teoriche che danno gli strumenti per individuare le i possibili percorsi di smontaggio di modellizzazioni rigide e stereotipate della realtà che richiedono il costruirsi e l'attivarsi di forme di autoconsapevolezza e responsabilità personale e sociale. Modelli che permettono di comprendere il farsi dei processi di apprendimento, la significatività e gli spazi delle proposte di intervento educativo. Non si entra nella prospettiva di una "rieducazione", non è possibile cancellare, rimuovere le esperienze, ma è possibile ricomprenderle, riaprirle dentro nuovi orizzonti e reintepretarle.

Alcune metodologie aiutano questi tipi di approcci, quelle metodologie, appunto che partono dal soggetto, che lo chiamano in azione già scuotendolo e impegnandolo nella riflessione delle sue capacità e potenzialità, ma anche nella possibile definizione dei suoi bisogni, delle sue attese e delle sue aspettative.

Nell'esperienza educativa del carcere le categorie dello spazio e tempo assumono un significato molto particolare: i ragazzi percepiscono quel luogo come il "luogo che non c'è", così come le ore che trascorrono come momenti superati verso un qualcosa che avverrà. Sono luoghi e tempi di passaggio, nei quali il pensare di "investire" sulle azioni educative, nei quali progettare un percorso di nuove dinamiche relazionali e di cambiamento, diventa quasi un paradosso. Eppure l'agire educativo si sviluppa anche lì perché si apre al dialogo con la rete di luoghi educativi che vivono nel territorio e sono fisicamente esterni al carcere. Per questo le metodologie come la Ricerca Azione Partecipativa, la Relazione di Aiuto, la Community Learning sono approcci che contribuiscono ad attivare processi di cambiamento, nuovi apprendimenti di saperi e ipotesi di autoprogettazioe. Se si esce da una prospettiva di autoreferenzialità dell'azione educative, se si allarga la visuale ad una progettazione educativa in una rete territoriale, per entrare nelle dinamiche di un sistema più ampio di possiamo forse offrire nuovi strumenti di riflessione pedagogica oltre che di ipotesi di prospettive orientative per le nuove esperienze di vita dei ragazzi

*. Università di Firenze - Scienze della Formazione.