ADIR - L'altro diritto

La frontiera migratoria tra la Libia e il Sahel
Uno spazio migratorio rimesso in discussione (*)

Olivier Pliez (**), 2006

Già a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso la Libia costituisce un polo d'attrazione per immigrati che vi giungono a lavorare in tutti i settori d'impiego che questo paese, vasto e sottopopolato (circa 6,5 milioni di abitanti), offre loro. Al momento della conquista dell'indipendenza, nel 1951, la Libia è un paese povero: la ricchezza giungerà solo con l'inizio dello sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi, a partire dal 1961, e soprattutto con la spettacolare crescita della rendita delle attività petrolifere nel corso degli anni Settanta.

In un primo momento l'immigrazione araba è largamente preponderante (l'88,6 % degli stranieri residenti nel 1973), con prevalenza dei cittadini tunisini ed egiziani; successivamente essa viene bilanciata, nel corso degli anni Settanta e Ottanta, dall'arrivo di lavoratori europei e asiatici (rispettivamente il 19 e il 22,6 % nel 1984) per mezzo di contratti internazionali. Ma questo modello migratorio entra in crisi a partire dai primi anni Ottanta, messo alle corde dal crollo del prezzo del petrolio. Inizia così un periodo di espulsioni di massa di immigrati. Durante gli anni dell'embargo la crisi economica si aggrava, e si configurano nuovi orientamenti geopolitici. I residenti stranieri, il cui numero diminuisce di un terzo tra il 1984 e il 1995, sono originari per metà del Machrek e per un terzo dell'Africa subsahariana.

Da un decennio a questa parte i flussi migratori dall'Africa subsahariana verso la Libia acquistano grande importanza. Mentre Tripoli tende a parlarne in modo generico, inglobando l'insieme del continente africano, la costruzione di questo spazio migratorio si fonda soprattutto sugli stati del bacino del lago Ciad, dal momento che quasi il 90% degli immigrati subsahariani sono originari di soli tre stati: il Sudan (70,4 %), il Ciad (13,2 %) e il Niger (4,4 %). Questo nuovo contesto migratorio verrà qui affrontato con riferimento al suo crescente significato nel dialogo multilaterale tra la Libia e i paesi della regione, alla sua incidenza spaziale sulle città saharo-saheliane e ai numerosi malintesi che sottendono la nuova politica migratoria libica nel quadro della politica di esternalizzazione delle frontiere europee.

La politica africana della Libia e i flussi migratori: alcuni dati di base

L'importanza dei flussi migratori tra l'Africa subsahariana e la Libia è andata crescendo nel corso degli Anni Novanta, in relazione alla politica panafricana di Gheddafi. Il Niger, il Ciad e il Sudan costituiscono dunque il nucleo centrale dell'emigrazione verso la Libia prima di divenire dei crocevia migratori nel contesto dell'Africa subsahariana. Nei primi anni del nuovo secolo i dati forniti dalla stampa permettono di avanzare alcune ipotesi numeriche e di tracciare un quadro delle migrazioni dall'Africa verso la Libia, permettendo almeno di ordinare i diversi migranti sulla base della loro nazionalità. E così, a parte la preponderanza egiziana, con una numero di presenze che va da 750.000 a 1,5 milioni (The Economist, 12.10.2000; PANA, 8.3.2001), i sudanesi (Reuters, 21.10.2000) e i ciadiani (PANA, 8.3.2001) sarebbero al secondo posto con almeno 500.000 presenze per ciascuno dei due gruppi, mentre i nigeriani sarebbero tra 5.000 e 10.000 (This Day, Lagos, 16.10.2000; AFP, 17.10.2000).

Dunque la crescita, in Libia, del numero di immigrati provenienti dall'Africa subsahariana è veramente impressionante. Il dato effettivo si situa all'interno di un'ampia forbice oscillante tra 1,5 e 2,5 milioni. Si tratta di cifre che, pur fornendo degli ordini di grandezza interessanti, restano evidentemente assai vaghe. Ciò si deve, in parte, alla carenza di informazioni affidabili, ma anche alle ambiguità che caratterizzano i rappresentanti del regime libico, i quali, ogni qual volta si discute d'Africa, parlano indifferentemente di Africa nera, di Africa subsahariana o semplicemente di Africa, senza mai precisare a quale entità facciano riferimento utilizzando questa o quell'espressione. Pertanto non si può fare a meno di diffidare quando le stesse espressioni sono riprese dai dirigenti politici europei al fine di giustificare la politica di cooperazione con la Libia. Si tratta spesso di proclami politici a effetto, ben lontani dalla realtà. (1)

Bisogna anche ricordare che le comunità di immigrati in Libia sono regolarmente colpite da misure di espulsione. È il caso dei tunisini, la cui emigrazione, tra il 1966 e il 1985, è scandita da almeno otto fasi di espulsioni e tre di apertura delle frontiere. I migranti sono rapidamente ridotti al rango di semplici strumenti delle altalenanti relazioni bilaterali tra Tunisi e Tripoli, e di conseguenza beneficiano delle fasi di riavvicinamento così come subiscono le conseguenze dei momenti di tensione tra i due regimi.

Tuttavia è all'inizio degli anni Ottanta che la presenza dei lavoratori immigrati è veramente messa in discussione da parte del potere. Il crollo del prezzo del petrolio, a partire dal 1981, rivela la dipendenza della Libia nei confronti della manodopera straniera. Nel 1983 due decreti mirano a introdurre misure per la riduzione rapida e radicale della presenza straniera. La funzione pubblica è la prima a finire nel mirino. Viene decretato che il numero di lavoratori stranieri deve essere dimezzato nello spazio di due mesi in diversi settori, e che non dovranno essere assunti altri stranieri fino alla fine dell'anno. Nelle società e imprese pubbliche la proporzione degli stranieri è ridotta al 50%. La portata reale di tali misure è però limitata, dal momento che senza la presenza degli immigrati interi settori dell'economia e dell'amministrazione non possono funzionare. L'anno seguente, ad esempio, una legge sull'insegnamento programma la progressiva sostituzione dei migranti, mentre l'esercito continua a reclutare stranieri nei propri ranghi.

Il 1985 segna una svolta radicale per ciò che riguarda le misure volte a limitare la presenza di lavoratori stranieri: in meno di due mesi quasi 80.000 persone, ossia un quarto degli immigrati presenti nel territorio libico, vengono espulse. I più colpiti sono i tunisini (oltre 30.000) e gli egiziani. Se la crisi petrolifera costituisce una ragione oggettiva per la decisione delle autorità libiche, quest'ultima si inscrive altresì nel contesto delle tensioni con la Tunisia e l'Egitto, i cui dirigenti sono accusati di "deriva americanista". Sul piano internazionale le conseguenze di queste espulsioni sono doppiamente negative per la Libia, perché le relazioni con la Tunisia si deteriorano in modo duraturo e soprattutto perché l'immagine del paese viene screditata agli occhi dell'opinione pubblica del mondo arabo.

Nel 1995 la congiuntura interna e internazionale torna ad essere determinante nelle scelte delle autorità libiche. La Libia sotto embargo attraversa una profonda crisi economica. Le statistiche ufficiali, d'altronde, riconoscono per la prima volta la presenza di un 10% per cento di disoccupati all'interno della popolazione attiva. È in questo contesto che viene adottato un pacchetto di misure volte a privilegiare le assunzioni di cittadini libici. Vengono stabilite espulsioni sulla base di giustificazioni legate alle posizioni internazionali dei paesi di origine degli stranieri espulsi: diverse migliaia di palestinesi subiscono le conseguenze della condanna di Tripoli nei confronti della firma degli accordi di pace tra la Palestina e Israele; i 200.000 sudanesi presenti sul territorio libico sono anch'essi vittime del deterioramento delle relazioni tra Khartoum, e Tripoli e diverse migliaia di loro (70.000?) sono riaccompagnati senza tanti complimenti alla frontiera tra i due paesi; anche 10.000 mauritani vengono allontanati, adducendo come motivazione scambi diplomatici tra Nouakchott e Tel Aviv. (2) In totale, 335.000 stranieri avrebbero lasciato il paese nel 1995, e di essi 200.000 sarebbero gli espulsi. Allo stesso tempo, tuttavia, una delegazione libica si reca a Bagdad al fine di facilitare l'assunzione di cittadini irakeni, la cui comunità conta già, in quel momento, 65.000 unità, (3) e meno di due anni più tardi degli inserti pubblicitari sulla stampa egiziana invitano potenziali emigranti a recarsi in Libia. (4) Un tale voltafaccia mette in evidenza i limiti della strumentalizzazione della manodopera straniera da parte del regime libico. Quest'ultimo si trova infatti costretto a fare nuovi appelli agli immigranti in modo da compensare le partenze di coloro i quali sono stati espulsi poco prima. Non si può quindi fare a meno di essere cauti di fronte alle cifre della popolazione attiva nel 1995: i libici passano da 451.000 a 1.019.000 tra il 1975 e il 1995, mentre i "non libici" diminuiscono nello stesso periodo da 280.000 a 216.000. È vero invece che si assiste a un aumento senza precedenti dell'immigrazione di lavoratori destinati al settore informale, animato dai libici.

Infine, durante il mese di settembre del 2000, circa 130 migranti originari dell'Africa subsahariana (6 secondo gli ufficiali libici) sono rimasti uccisi nei moti di cui sono stati vittime a Tripoli e Zâwiya, nel nord della Libia. Il numero degli espatri, volontari e non, ammonta ufficialmente a 33.000, e riguarda in particolare persone rientrate in Niger, Ciad, Sudan, Nigeria e Ghana. Gli sviluppi diplomatici seguiti alle violenze dell'autunno 2000 mostrano ancora una volta quanto i flussi migratori e le opzioni geopolitiche siano strettamente legati.

Oggi appare chiaro come questi moti abbiano costituito il punto di partenza di una politica più restrittiva di gestione dei flussi migratori, a cominciare dal coinvolgimento della Libia nelle discussioni multilaterali sulle questioni migratorie nel Mediterraneo. È così che nel corso del 2002 si tengono a Tripoli la Conferenza dei ministri degli esteri (29-30.5.2002) e la Riunione dei ministri dell'interno (9-11.7.2002) del Dialogo 5+5 sul Mediterraneo Occidentale. (5) In occasione del Consiglio Europeo di Siviglia, poi, Muammar Gheddafi si rivolge ai dirigenti dell'Unione Europea, a proposito della necessità di moltiplicare i progetti di sviluppo al fine di rallentare "l'invasione dell'Europa da parte dei migranti illegali", avvertendo che "nessun paese nordafricano è disposto a sorvegliare gratuitamente le porte d'Europa, perché la regione stessa è invasa dai migranti subsahariani" (Reuters, 24.6.2002). Dunque la Libia riconosce ormai ufficialmente l'importanza del transito tra Africa ed Europa, e adotta una posizione di conciliazione firmando la dichiarazione di Tunisi in occasione della Conferenza ministeriale sulla migrazione nel Mediterraneo Occidentale (16-17.10.2002). Ma solo qualche mese prima il leader libico annunciava ai candidati africani all'immigrazione che "gli enormi progetti libici richiedono l'arrivo di abbondante manodopera africana" (AFP, 5.02.02).

Un doppio gioco che non regge alla prova dei fatti, dal momento che il regime di Gheddafi sarà esso stesso soggetto a pressioni esterne che finiranno progressivamente con il mescolare in un solo calderone le diverse popolazioni africane che attraversano o abitano il territorio libico. Voler tracciare il profilo del migrante è azzardato, tanto variabili risultano essere i singoli casi, sia in funzione delle relazioni che si stabiliscono in un determinato momento tra la Libia e questo o quel paese africano, sia perché tanti sono - ed evidentemente maggioritari - coloro i quali si recano in Libia spontaneamente. Infine, non va dimenticato che la vicinanza geografica è il principale motore delle migrazioni verso la Libia per quanto riguarda i cittadini dei paesi del Sahel confinanti, cioè Niger, Ciad e Sudan. Costoro, inoltre, sfruttano la presenza di comunità di connazionali praticamente in tutti i centri urbani libici. Tali comunità permettono la mutua assistenza, la circolazione delle informazioni, la ricerca di un lavoro, l'alloggio e l'invio del denaro alla famiglia grazie ai notevoli movimenti tra la Libia e i paesi di emigrazione.

È nell'ambito di questo spazio che le migrazioni stagionali sono particolarmente importanti; i ravvicinamenti politici bilaterali possono facilitare l'ingresso in Libia dei potenziali migranti originari di paesi come il Sudan a partire dal 1990, il Ciad a partire dal 1994, e i paesi membri del COMESSA (6) a partire dal 1998. D'altronde i paesi africani associati al COMESSA sono generalmente quelli che vantano le comunità più importanti e più antiche in Libia; i rifugiati costituiscono una parte significativa del contingente di migranti in Libia, benché una stima del loro numero risulti impossibile da effettuare. Ufficialmente il numero dei rifugiati è ridotto (meno di 10.000 - in gran parte somali o palestinesi), perché fino alla sua recente adesione all'ACNUR la Libia prendeva in considerazione due definizioni dello status di rifugiato: quella libica formulata nella Carta Verde e quella della OUA. In compenso, le conversazioni sul posto permettono di mettere a fuoco la diversità delle situazioni: tuareg sfollati dopo le ondate di siccità e le insurrezioni in Niger; ciadiani e libici esiliati e rimpatriati al tempo della guerra; sudanesi, etiopi o eritrei in fuga dalle repressioni. Si arriva così a parecchie decine di migliaia di persone (7) che sono considerate come migranti ma la cui situazione reale non corrisponde, evidentemente, a tale definizione.

La vicinanza e i flussi di rifugiati hanno costituito a lungo le due principali ragioni delle migrazioni verso la Libia. Ma la crescita del numero dei migranti subsahariani e l'ampliamento dell'area geografica di loro provenienza hanno ampiamente contribuito a modificare i profili sociologici.

La figura dell'"avventuriero" è la più unanimemente rivendicata dai giovani africani, in quanto essa permette loro di sottolineare la dimensione di scelta autonoma della loro migrazione e forse anche di sottolineare quella che è la loro libertà, cioè quella di restare o partire malgrado condizioni di vita difficili. Questa avventura comincia innanzitutto con il reperimento dei documenti necessari per potere circolare più agevolmente da un paese all'altro e seguendo un itinerario, spesso distribuito lungo più mesi, che, da un consiglio all'altro, da un incontro all'altro, da un compagno di viaggio all'altro, li condurrà in luoghi diversi, dove lavoreranno per guadagnare quanto necessario al fine di proseguire il viaggio. Generalmente è da uno di questi incontri che arriva il consiglio di effettuare la "salita" verso il Sahara e fino in Europa. La maggior parte dei migranti, elencando i paesi nei quali hanno soggiornato, dice di avere tentato già diversi passaggi verso l'Europa, attraverso la Mauritania o il Niger verso l'Algeria e il Marocco. Il fallimento del tentativo, dovuto a un'espulsione, alla mancanza di soldi o a un furto, li ha condotti in Libia, sempre descritta come la destinazione "in mancanza di meglio", il ripiego di un'avventura temporaneamente fallita.

Questi "avventurieri" li ritroviamo in alcune località del Sahel, veri e propri punti nodali nei quali si concretizzano le decisioni di attraversare il deserto, da Nouakchott in Mauritania a Al Fasher in Sudan, passando per Agadez e Abeché: tutti centri cardine della circolazione transsahariana. Ad occuparsi dei migranti, in queste città, ci sono vari esponenti di reti assai organizzate, procacciatori di clienti e "agenzie di viaggi" che organizzano gli spostamenti - a bordo di camion o in modo più discreto.

Tuttavia il numero dei subsahariani che motivano la loro migrazione per ragioni precise cresce man mano che si moltiplicano i minacciosi proclami del regime libico nei loro confronti. Questa trasformazione si accompagna sempre più spesso a progetti fondati di volta in volta sulla possibilità di trovare un lavoro in Libia o di sviluppare altre strategie di medio termine: studenti si trasformano per qualche anno in insegnanti (o perfino in commercianti transfrontalieri) in modo da potere proseguire i loro studi. Si possono insomma distinguere, tra i diversi profili, diverse sfumature, e queste si rivelano assai lontane dalle descrizioni troppo nette che troppo spesso trovano spazio nei discorsi politici e sui mezzi di comunicazione.

Si sarà a questo punto intuito che la figura dell'"avventuriero" è la più diffusa. Ma essa è anche quella corrispondente ai meno attrezzati, a quelli che non hanno né i soldi né la deliberata intenzione di recarsi in Libia. I più dicono di volervi restare "in attesa di meglio... nella speranza di trovare un mezzo per raggiungere l'Europa". Così, secondo Olivier, la comunità congolese di Tripoli avrebbe perduto 150 dei suoi 250 membri in due anni; tutti sono ormai in Europa, passati clandestinamente da Tamanrasset e poi da Gibilterra oppure entrati regolarmente dopo essere riusciti a ottenere i documenti necessari.

Quando i flussi migratori ridisegnano la geografia sahariana

I flussi migratori tra l'Africa subsahariana e la Libia hanno contribuito, nel giro di qualche anno, a modificare la geografia del Sahara. Le città nelle quali i migranti fanno tappa hanno infatti conosciuto lo sviluppo di un'economia di transito che si è rivelata allo stesso tempo una risorsa per coloro che sono di passaggio e un motore dello sviluppo locale per i residenti. Sono dunque tre gli aspetti sotto i quali le migrazioni contribuiscono alla trasformazione dello spazio sahariano forgiato dallo stato: quello dell'ambiente abitativo, quello delle attività economiche e quello della costruzione di un'identità urbana.

Abitare: migrazioni e crescita urbana

Le modalità di inserimento di ciascun gruppo negli spazi urbani differiscono profondamente a seconda dell'origine e del periodo. Negli anni Settanta e Ottanta le prime ondate migratorie si inseriscono in un contesto migratorio caratterizzato dalla prossimità spaziale, transfrontaliero e connotato etnicamente (i tuareg a ovest, i tubù e i sudanesi a est). In tale contesto le migrazioni sono innanzitutto una risposta a una situazione di crisi (siccità, rivolte, guerra). Successivamente, negli anni Novanta, i flussi migratori interessano un numero crescente di paesi africani, rimettendo in discussione il riferimento spaziale del Sahara, così come quello etnico e religioso, (8) e la relazione diretta tra emigrazione dal Sahel e immigrazione in Libia. Questa dicotomia si riflette in modo evidente nei paesaggi urbani, evidenziandosi nella differenza tra un primo periodo, nel quale si moltiplicano i villaggi di rifugiati alla periferia delle città del Sahara libico, e un secondo periodo, in cui i villaggi vengono travolti dal rapido sviluppo dell'edilizia abitativa informale.

Da questo punto di vista, l'esempio di Sebha è rivelatore. Dagli anni Sessanta agli anni Ottanta il centro amministrativo e militare di Sebha diviene il punto d'arrivo dell'esodo rurale dal Fezzan. Rapidamente, tra i villaggi dell'oasi, le zone abitate si estendono con l'insediamento degli immigrati rurali che si raggruppano per origine geografica, riempiendo gli spazi residui a scapito delle terre agricole, formando progressivamente una prima corona urbana. In ossequio a un primo piano regolatore del 1966 Sebha è strutturata attorno a un asse centrale asfaltato, che attraversa l'agglomerato da parte a parte. Questo modello di espansione viene seguito fino agli anni Ottanta, parallelamente alla pianificazione, da parte delle autorità pubbliche, dell'estensione del tessuto urbano in quartieri a base tribale. L'arrivo in massa di rifugiati tuareg e ciadiani determina una rottura. Migliaia di essi (si parla di 30.000 tubù provenienti dal Ciad) si stabiliscono a Sebha. Questo afflusso di persone comporta due movimenti: i più agiati - spesso dei "rimpatriati" libici - si insediano nel centro di Sebha, dove vengono loro attribuiti dei lotti e costruiti degli alloggi. La grande maggioranza dei rifugiati, invece, si stabilisce nella periferia cittadina, contribuendo a un'espansione spettacolare del tessuto urbano informale. Da quindici anni a questa parte sono sorti nuovi quartieri sotto-integrati, disseminati di fili elettrici posati per terra, nei quali convivono fianco a fianco tende, recinti e residenze lussuose come quella del console ciadiano a Sebha. L'aumento dell'immigrazione subsahariana a partire dagli anni Novanta riattiva e accresce la dualità tra un centro cittadino arabo, libico e migrante, sempre meglio strutturato grazie ai piani regolatori, e una città periferica informale abitata dai neri africani.

La questione dell'alloggio si pone con forza per i migranti. In effetti, quale che sia la durata del soggiorno - stagionale per gli uni, pressoché definitivo per gli altri - essi si trovano di fronte a un paradosso insolubile: quello di non potere essere legalmente né proprietari né affittuari. La necessità impone di aggirare il paradosso secondo modalità variabili: per esempio la tolleranza, nel momento in cui le autorità locali decidono di costruire un edificio per offrire alloggio agli insegnanti del villaggio. Più spesso, invece, vige una sorta di anarchia, con i migranti che si installano negli abitati in un modo che - tenuto conto di quanto previsto dalla legge - non può che essere illegale.

I modelli abitativi prevalenti sono tre. Il modello informale dei quartieri periferici rappresenta, nelle grandi città, la principale soluzione del problema dell'alloggio per i migranti, in continuità con i villaggi creati dai o per i rifugiati. Generalmente il nucleo di questi spazi urbani è uno ksar (9) abbandonato, come del resto nella maggior parte dei villaggi sahariani. Malgrado il loro stato di abbandono, questi ksour sono sempre di proprietà dei discendenti degli originari abitanti dell'oasi. Nell'insieme del Sahara libico si assiste dunque a una ripopolazione dell'insieme dei vecchi villaggi che i libici avevano lasciato quando lo stato aveva creato degli alloggi pubblici e che adesso affittano ai migranti. Altro modello assai diffuso è quello che consiste nel vivere sul luogo di lavoro - fattorie, officine o negozi. Infine, ci sono i "foyers" (per gli africani francofoni) o "ghettos" (per gli africani anglofobi), che sono, oltre che degli alloggi, anche dei luoghi ove ritrovare dei compatrioti che potranno facilitare l'inserimento dei nuovi migranti in Libia.

I "ghettos" si inseriscono dunque nel complesso della rete urbana libica e permettono a coloro i quali vi si stabiliscono di beneficiare dei consigli e delle reti di contatti offerti dal gruppo di persone originarie di uno stesso paese. Ma in definitiva la difficoltà di trovare alloggio spinge i subsahariani a una doppia dipendenza nei confronti dei libici: a quella del lavoro, che giustifica il loro arrivo, si aggiunge quella dell'alloggio.

Lavorare: i migranti e l'economia informale

Se i lavoratori immigrati in Libia sono stati indispensabili per il funzionamento dell'economia statalizzata, il loro ruolo continua ad essere determinante nello sviluppo dell'economia privata a partire dalla fine degli anni Ottanta. Bisogna senza dubbio ricordare che dalla metà degli anni Settanta un terzo della popolazione attiva non possedeva la cittadinanza libica, e che negli anni Ottanta gli stranieri rappresentavano oltre la metà della popolazione attiva del paese.

Ad essere interessati sono tutti i settori di attività, ma in modo ineguale. Le coltivazioni agricole private che si moltiplicano nei paraggi di tutti gli agglomerati urbani presentano quasi tutte lo stesso tipo di organizzazione: il proprietario è libico, il caposquadra generalmente egiziano, e i subsahariani occupano le posizioni subalterne. Il settore turistico deve anch'esso parte del suo rapido sviluppo alla presenza dei neri africani che lavorano durante la stagione turistica nel Fezzan come sguatteri nelle cucine o come tuttofare nelle località di transito turistico. Nel complesso, l'insieme dei servizi sfrutta appieno questa manodopera a buon mercato, compresi coloro i quali, appena arrivati, in attesa di un lavoro meno precario, offrono le proprie braccia come operai giornalieri lungo gli assi urbani di Tripoli o nelle piazze delle città e dei villaggi del Sahara. Le paghe sono sempre irrisorie, dal momento che i libici adducono come pretesto i livelli già bassi dei salari ufficiali per assumere i migranti a cifre ancora più basse. Questi ultimi ricevono in cambio, oltre vitto e alloggio, una protezione temporanea contro l'arbitrio delle forze dell'ordine.

La presenza crescente di subsahariani comporta anche lo sviluppo di nuove attività. Attorno alle città di Cufra e Sebha si sono sviluppati ampi mercati, rivolti a un'economia di transito molto attiva, legata alle città di Agadez, Abeché et Al Kasher. Ogni giorno partono camion carichi di merci e di migranti; mandrie di bestiame convergono in queste due città per rifornire il mercato alimentare libico; centri minori si specializzano nel transito clandestino di migranti verso le città principali.

La città di Al Jawf rappresenta un caso del tutto particolare, essendo passata nel giro di pochi anni da un'economia di guerra a un'economia di transito. Questo centro di circa 30.000 abitanti si trova nella regione dell'oasi di Cufra, una delle più isolate del Sahara. Situata nelle vicinanze della frontiera ciadiana e sudanese, essa gode durante la lunga guerra che oppose il Ciad alla Libia (1973-1994) di una posizione strategica determinante, che ne fa una base d'appoggio logistico per le truppe libiche. Vi si contano almeno cinque basi, delle quali una sola è ancora in attività, oltre a numerosi alloggi collettivi e perfino un insediamento agricolo, in cui stazionano centinaia di soldati palestinesi con le loro famiglie, per un totale di circa 3.000 persone.

La fine del conflitto comporta una rapida riconversione degli abitanti, che vivevano della presenza di migliaia di militari in stazionamento permanente, verso un'economia di transito. Così gli ufficiali procedono alla vendita di potenti camion originariamente destinati a effettuare i viaggi verso il litorale o le caserme isolate del deserto. Si tratta di una vera e propria manna per quelli che riescono a mettere insieme immediatamente i soldi necessari per comprare uno o più di questi veicoli, adatti alle difficili condizioni dei percorsi transsahariani verso il Ciad e il Sudan. Gli abitanti dell'oasi divengono così noleggiatori e ripartiscono le diverse mansioni all'interno delle rispettive famiglie: gli uni si occupano del carico, gli altri fanno i conducenti, altri ancora, infine, accolgono i camion nella località di destinazione. Gli ingranaggi principali dell'economia di transito sono dunque nelle mani dei libici di Cufra.

Cufra rappresenta un caso limite: quello di una città che si è interamente dedicata alla funzione del transito. L'esempio di Cufra, tuttavia, permette di sottolineare i cambiamenti che migrazioni e commercio provocano nel complesso delle città e dei villaggi situati lungo gli assi che collegano il Sahel alla Libia. Questi flussi ridisegnano una trama urbana costituita da città nodali, Sebha e Cufra, da "porte d'ingresso", Ghat e Al Qatrūn, e da stazioni di posta, Faya e Dirkū. In misura diversa questi centri vivono una rapida conversione delle loro attività, dei loro tessuti urbani e degli attori coinvolti. Nei quartieri informali periferici delle città nodali, attorno ai centri di stazionamento dei camion, il transito comporta la moltiplicazione delle trattorie e delle locande per i migranti ma stimola anche il commercio di prodotti libici sovvenzionati - prodotti di consumo ovvero contenitori e lacci per impacchettare i prodotti stessi - e il cambio, indispensabile tra valute non convertibili. Queste stesse funzioni si ritrovano, su scala ridotta, nelle stazioni di posta di Faya e Dirkū, laddove gli attori delle "porte d'ingresso" si specializzano nel trasportare e nel nascondere i migranti in ingresso o in uscita dalla Libia. Le attività indotte sono dunque numerose, e sempre animate dai libici.

Città cosmopolite

Un'analisi più approfondita delle principali città nelle quali si concentrano i migranti subsahariani porta a constatare che la loro presenza crescente agisce al di là della trasformazione della morfologia e dell'economia urbane. Dovunque, le migrazioni funzionano come autentico motore della creazione di una dimensione e di un'identità urbane.

Il segno elementare di tale dimensione urbana si individua innanzi tutto nei nomi dei luoghi. In effetti, nelle città di creazione recente come quelle che punteggiano il Sahara libico, l'estensione degli spazi urbani s'accompagna a un processo di denominazione degli spazi stessi che tradisce l'origine geografica della comunità che li domina numericamente: è il caso del Suq Sudania, a sud di Cufra, o della rue Quarante (nome preso in prestito dall'omonimo viale di N'Djamena, capitale del Ciad), nei quartieri periferici di Sebha, ma anche di complessi di edilizia popolare come Bardai (nome del capoluogo del Tibesti, in Ciad), sempre a Sebha. Anche fermandoci qui con gli esempi, si comprende il processo di appropriazione spaziale e di territorializzazione che sottende quello di denominazione degli spazi urbani.

Per quanto riguarda le principali città sahariane integrate nello spazio migratorio - Tamanrasset, Agadez e Sebha - il cosmopolitismo s'impone in modo evidente. Benché discutibili, alcune statistiche elementari permettono di darne una prima idea. A Tamanrasset Emmanuel Grégoire (1999) stima che, su una popolazione di circa 60.000 persone, un terzo siano originarie dell'Africa subsahariana. Nel Sahara libico è sempre azzardato avanzare questo tipo di stime, ma i dati del censimento ci permettono di ragionare sulla questione. Nel 1995 Cufra conta il 28% di migranti e Sebha solo il 12,4%, ma tra la popolazione di nazionalità libica gli appartenenti alla categoria "libici dall'estero" sono solo l'1% a Cufra e invece quasi il 15% a Sebha. Nel 1984, considerando tutte le migrazioni - interne e internazionali - verso Sebha, un abitante su tre (e probabilmente due su cinque, se si tiene conto degli immigrati censiti) non era nato lì. Questa diversità contribuisce all'aumento della circolazione, come conferma la variabile dei "libici il cui luogo di residenza è diverso da quello nel quale sono stati censiti". Nel 1984 a Sebha 4 persone su 10 provenivano dalle baladiya (regioni) vicine, mentre un numero equivalente veniva dall'estero, confermando che la forza di attrazione di Sebha è regionale ma anche "internazionale", cioè sahariana. Malgrado i loro limiti, le statistiche ci permettono dunque di corroborare certe constatazioni empiriche, e in particolare quella del cosmopolitismo dei centri urbani sahariani.

Come si articola questo cosmopolitismo con le dinamiche urbane? Una delle piste più evidenti sembra essere quella della ricerca delle centralità che si configurano nei centri urbani. La diversità della popolazione in ordine agli apporti migratori - interni ed esterni - dà vita a un comunitarismo legato ai raggruppamenti delle popolazioni per quartieri secondo l'origine geografica o etnica (O. Pliez, 2000). Si tratta di un fenomeno piuttosto banale, particolarmente negli spazi sahariani. Ma è interessante constatare che i principali agglomerati urbani integrati nei flussi di circolazione transsahariana vedono contrapporsi un movimento inverso, che consiste nell'emergere di nuovi centri abitati (egiziani, africani, sudanesi) e di modalità di appropriazione dell'edificato per ciò che riguarda abitazioni e quartieri (nomi di quartieri, tipologie di commercio, inserimento dei nuovi arrivati).

Se tutte le comunità - i libici per origine geografica o tribale, i non libici per nazionalità - costruiscono delle unità sociali a livello di quartiere, di contro i centri che essi producono contribuiscono a creare socialità anche tra i diversi quartieri. Le funzioni di tali centri sono perciò molteplici. Il loro ruolo è innanzitutto funzionale: si tratta di facilitare l'accoglienza e il transito dei migranti, di commerciare. Ma esse passano progressivamente a scandire i ritmi di vita dell'intero spazio urbano, in particolare la sera e il venerdì, quando divengono luoghi di incontro degli abitanti - esclusivamente uomini - che vengono a vendere, comprare, incontrare gli amici o praticare attività proibite (consumare alcol e frequentare prostitute africane). Così i centri che emergono là dove si concentrano le più forti comunità di migranti acquistano progressivamente una forza di attrazione e delle funzioni che vanno oltre la loro utilità iniziale; luoghi strutturanti di un vasto sistema migratorio, essi divengono semplicemente luoghi urbani: quelli per i quali si produce l'urbanità al di fuori delle unità sociali e familiari che formano l'insieme dell'agglomerato urbano.

Dopo avere esaminato alcuni aspetti delle conseguenze della presenza dei migranti in Libia, e soprattutto dopo avere constatato che - contrariamente a quanto a volte si dice, e come spesso si ignora - tali conseguenze sono lungi dall'essere negative, è adesso utile tornare sull'attualità recente dei controlli alle frontiere terrestri per misurare le conseguenze e vedere come le trattative tra Europa e Libia sull'esternalizzazione delle frontiere producano i loro effetti fino all'interno di spazi situati a migliaia di chilometri dal Mediterraneo.

Lo smantellamento dello spazio di circolazione Libia - Sudan

Nel 2003 le piste sahariane tra il Sudan e la Libia sono state chiuse alla circolazione, ufficialmente a causa dell'aggravarsi del conflitto del Darfur. In tal modo si è avviato lo smantellamento del più importante dispositivo migratorio e commerciale terrestre transsahariano - senza alcun dubbio il più dinamico fino all'inizio di questo secolo e paradossalmente uno dei meno conosciuti.

La presenza sudanese in Libia è notevole. Si stima infatti che in Libia soggiornino tra i 500.000 e gli 800.000 cittadini del Sudan, che costituirebbero così la seconda comunità di immigrati dopo gli egiziani e la prima tra gli originari dell'Africa subsahariana. Se essi sono in larga maggioranza musulmani provenienti dal nord e dall'ovest del paese, la loro condizione non è per questo meno ambigua. Ora, questo iato tra definizione statistica e rappresentazione da parte dell'opinione pubblica degli immigrati sudanesi in Libia ha chiaramente contribuito a gonfiare le cifre dei "migranti subsahariani in transito verso l'Europa", nel momento in cui si sono messe insieme, confondendole, popolazioni le cui motivazioni e condizioni di soggiorno sono fortemente variabili tra loro.

Mi sembra utile mostrare in che modo si sia sviluppato il campo migratorio tra Libia e Sudan, in quanto ciò permette di comprendere che i flussi migratori non sono emersi in pochi anni ma piuttosto si sono sviluppati in tre tappe:

  • Dagli anni Sessanta agli anni Ottanta sono i pastori nomadi del Darfur che utilizzano le strade che portano in Libia per sfuggire alle siccità che decimano gli armenti;
  • Alla fine degli anni Ottanta, il riavvicinamento tra il regime libico e quello sudanese porta all'apertura di una seconda strada, propiziando l'arrivo di migranti sudanesi dall'intero paese;
  • Molto rapidamente, all'inizio degli anni Novanta, con la politica africana della Libia, migranti provenienti da tutta l'Africa dell'Est utilizzano le piste tra la Libia e il Sudan. Il Sudan, insieme al Niger e al Ciad, forma il primo cerchio dell'immigrazione africana e allo stesso tempo lo snodo di un transito continentale di migranti. Ma ciò non incide granché sui rapporti di grandezza tra nazionalità. Questo itinerario viene utilizzato più da sudanesi diretti in Libia che da altri africani in transito verso l'Europa. Sono quindi in primo luogo i sudanesi a subire le restrizioni delle condizioni di ingresso in Libia.

I segnali precursori dello smantellamento dello spazio di circolazione Libia - Sudan erano effettivamente percepibili già a partire dal 2000. È in quel momento che l'ostilità latente dell'opinione pubblica libica nei confronti della politica africana di Muammar Gheddafi, sullo sfondo della crisi economica e delle crescenti tensioni sociali, culmina con gli episodi di violenza dell'autunno 2000 a Tripoli e a Zawiya. Ne conseguono rimpatri volontari ed espulsioni verso la maggior parte dei paesi di provenienza dei migranti subsahariani.

Tuttavia il regime libico non si impegna in modo chiaro a sorvegliare con maggiore attenzione la circolazione transfrontaliera dei migranti se non a partire dagli anni 2002 e 2003, in cambio di un sostegno italiano nel quadro delle trattative per la definitiva eliminazione dell'embargo europeo sulle forniture militari. Le relazioni tra la Libia e l'Italia prendono dunque il sopravvento su quelle con il partner sudanese, e portano all'applicazione di misure di controllo più severe.

Nel 2003 Tripoli proibisce l'ingresso per via terrestre ai veicoli provenienti dal Sudan, invocando ragioni di sicurezza del territorio in relazione all'aggravarsi della crisi del Darfur. E quando le trattative con Roma subiscono un'accelerazione, nel corso del 2004, la Libia annuncia ai consolati africani, nel mese di agosto, la decisione di rimpatriare tutti i loro cittadini che siano entrati illegalmente nel paese. Le trattative italo-libiche portano, nel mese di ottobre dello stesso anno, alla rimozione delle ultime sanzioni europee, mentre parallelamente si accresce, mese dopo mese, la pressione sui migranti presenti in Libia.

È quindi l'insieme del dispositivo migratorio e commerciale a risultare perturbato. Diamone qualche esempio:

  • Itinerari alternativi: alcune compagnie aeree permettono ormai ai sudanesi di raggiungere la Libia per via aerea anziché terrestre. Ma molti di coloro i quali già lavorano in Libia hanno salari troppo bassi e non possono permettersi il prezzo del biglietto aereo. Allo stesso modo, i commercianti non sempre possono imbarcare i loro carichi di merce come hanno sempre fatto con i camion. Numerose sono le testimonianze di sudanesi che optano per itinerari sempre più lunghi e pericolosi attraverso il Niger o l'Egitto, raddoppiando così i tempi del tragitto;
  • Dongola, nel nord del Sudan, era una delle località di transito dei migranti diretti in Libia. A partire dalle attività legate al transito si era sviluppato un suq, nel quale si trovavano agenzie di viaggio, drogherie, bar, ristoranti, garage, uffici di sdoganamento... in breve, tutti gli indizi di un centro frontaliero commerciale e migratorio. Adesso la chiusura della strada ha automaticamente causato il declino delle attività di transito di questo centro. Così, oggi solo il 20% dei 600 locali che conta il suq esh shaabi sono ancora aperti. Inoltre, le insegne lasciate sui locali chiusi dimostrano che proprio queste funzioni occupavano uno spazio cinque volte superiore solo poco tempo fa. Al punto che sui cartelloni delle agenzie di viaggio le parole "Libia" e "Cufra" sono state sistematicamente cancellate dai proprietari... come a voler passare un colpo di spugna per eliminare ogni minima traccia di quei flussi ancora tanto intensi l'anno precedente: ciò sembra essere indice di un ordine imposto precipitosamente dall'alto.

Lungo le piste transsahariane tra la Libia e il Sudan, a partire dagli anni Sessanta, si era dunque venuto a creare un vero e proprio spazio migratorio e commerciale transnazionale. Tale spazio è stato utilizzato da popolazioni di allevatori e agricoltori di regioni isolate del Sudan che hanno trovato nell'emigrazione un mezzo per combattere il degrado delle loro condizioni di vita dovuto all'instabilità politica e alle cicliche siccità. D'altronde, lungo i tragitti sahariani percorsi da questi migranti si è altresì formata una rete di circolazione, composta da piccoli centri urbani e mercati di diverse dimensioni, che hanno rappresentato le tappe intermedie di itinerari lunghi migliaia di chilometri tra Khartoum e il nord della Libia. Le proporzioni assunte dal fenomeno migratorio durante gli anni Novanta hanno poi chiaramente favorito la crescita delle attività di transito. La chiusura della strada tra la Libia e il Sudan penalizza dunque decine di migliaia di persone: migranti o abitanti delle regioni di transito.

Conclusioni

Volevo dunque sottolineare il fatto che - procedendo a commistioni tra differenti tipologie di migranti - quelli che transitano (i meno numerosi) e quelli che restano (di gran lunga i più numerosi) - ma anche tra differenti statistiche o piuttosto approssimazioni statistiche (residenti, stime...) - la politica di controllo dei flussi migratori attualmente applicata in modo metodico dalla Libia si è rivelata dannosa soprattutto per coloro i quali non erano toccati dal transito verso l'Europa. Infatti, mentre Tripoli accomuna l'intero continente nella sua politica migratoria, si è visto come la costruzione di questo spazio migratorio sia da ricondurre a relazioni più antiche con un numero ridotto di stati del bacino del lago Ciad.

In ciascuno di tali paesi, le regioni più marginali e le città che costituivano i nodi delle reti del transito beneficiavano di uno sviluppo stimolato dalle attività legate al transito dei migranti. Sono queste le regioni che più risentono delle politiche restrittive nei confronti dei flussi migratori.

È per questo che mi è sembrato importante parlare di un paese confinante con la Libia come il Sudan. Questo caso ci mostra come un africano rifiuti un altro africano. Di contro, comprendere le reti migratorie di differenti flussi di migranti permetterebbe di non lasciarsi ingannare nell'interpretare le motivazioni di ciascun migrante. Se si trovano degli eritrei lungo le piste che portano in Libia, ciò è legato alla politica di rimpatrio di queste persone adottata in Sudan; se cresce il numero dei burkinabé o degli ivoriani in Libia, ciò è evidente conseguenza del conflitto che colpisce quella regione.

Non voglio discutere della maggiore o minore pertinenza della politica di esternalizzazione del controllo delle frontiere europee in ambito migratorio, ma spero di avere dimostrato che gioverebbe alla stessa politica basarsi su informazioni precise anziché su notizie non verificate. Ciò costituirebbe la garanzia di un dialogo più sereno non solo con i partner nordafricani ma anche con quelli subsahariani. Infatti, se si vuole controllare tali frontiere, è necessario che i decisori politici si rendano conto del fatto che esse non si limitano né allo spazio Schengen né al Mediterraneo ma inglobano l'intero contesto del Sahara. La frontiera migratoria che i politici euro-mediterranei stanno oggi disegnando è in effetti costituita da uno spazio assai ampio, e coinvolge un numero crescente di persone le cui preoccupazioni quotidiane sono ben lungi da qualsiasi aspirazione a diventare migranti clandestini intenzionati ad andare in Europa. Spesso, in ambito politico, si parla della necessità di intensificare le politiche di aiuto allo sviluppo in Africa al fine di limitare numericamente l'immigrazione e di compensare i danni causati da un maggiore controllo della circolazione. Gli esempi che abbiamo proposto mostrano che un tale ragionamento omette di considerare la capacità delle popolazioni del Sahara e del Sahel di trovare le loro strade verso il loro sviluppo. E questo sviluppo si fonda in gran parte sulla crescente circolazione delle persone. Non tenere conto di tali parametri significa destinare al fallimento le scelte politiche che vengono prese oggi nel quadro euro-mediterraneo.

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Note

*. In P. Cuttitta, F. Vassallo Paleologo (a cura di), Migrazioni, frontiere, diritti, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2006.

**. Ricercatore presso il CNRS - CEDEJ, Il Cairo.

1. Per citare solo una delle più recenti dichiarazioni, Giuseppe Pisanu, ministro dell'interno italiano, dichiarò al parlamento, nel mese di luglio del 2004, che due milioni di africani e asiatici si trovavano in Libia in attesa di un passaggio clandestino per l'Europa.

2. Migration news, nº3, vol.3, 1996.

3. Migration news, Libya expels guest workers, nº 10, vol. 2, 1995.

4. Migration news, nº2, vol.4, 1997.

5. I dieci paesi membri sono: Algeria, Spagna, Francia, Italia, Libia, Malta, Marocco, Mauritania, Portogallo, Tunisia.

6. Comunità di 22 stati saharo-saheliani creata nel 1998 dalla Libia, detta anche CENSAD.

7. Nella sola città di Sebha, secondo l'assessore comunale all'urbanistica, si stima la presenza di 30.000 ciadiani.

8. Un congolese pentecostale, ad esempio, manifesta la propria sorpresa non solo per il fatto di avere trovato a Tripoli una nutrita comunità di correligionari ma anche per il fatto che la pratica del culto è autorizzata (Tripoli, 2002).

9. Gli ksour (al singolare: ksar) sono antichi villaggi fortificati.