ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo II
Manicomio giudiziario e Costituzione repubblicana

Giulia Melani, 2014

Con il Codice Rocco il manicomio giudiziario aveva trovato una consacrazione legislativa e una sistemazione come istituzione preposta all'esecuzione della misura di sicurezza rivolta ai prosciolti per vizio totale di mente. Con l'entrata in vigore della Costituzione si pose il problema della compatibilità del sistema dualistico e del manicomio giudiziario con i nuovi principi costituzionali. Vedremo che fu proprio la Corte Costituzionale - attiva dal 1956 (1) - ad essere chiamata ad intervenire, di fronte all'inerzia del legislatore, sulla questione della legittimità delle presunzioni di pericolosità sociale ed in particolare di quelle relative ai folli rei.

In questo capitolo ripercorreremo la storia dei manicomi giudiziari nei primi anni del secondo dopoguerra attraverso l'analisi di quelle teorie che fecero emergere alcuni nodi problematici della normativa in materia di misure di sicurezza che porteranno, alcuni anni più tardi, molti autori a parlare di un'irreversibile crisi delle stesse.

1. L'articolo 25 della Costituzione: costituzionalizzazione del doppio binario?

Prima di procedere con l'esame delle critiche, ci sembra opportuno analizzare le disposizioni costituzionali (o meglio la disposizione) in materia.

All'interno della Costituzione il solo articolo 25, al terzo comma, fa espresso riferimento alle misure di sicurezza, confermando il principio di legalità, già sancito a livello legislativo dall'art. 199 del codice penale. In dottrina si è molto discusso sul significato da attribuire all'art. 25, co.3 della Carta costituzionale. Alcuni autori hanno infatti ritenuto che questa norma costituisse in realtà, ben al di là della sua portata letterale, una costituzionalizzazione dell'assetto previgente, dunque del sistema del doppio binario (2). Questo indirizzo pare superato, sembra più legittimo ritenere che il costituente abbia inteso con l'art. 25 estendere la garanzia di legalità anche alle misure di sicurezza, senza imporre il mantenimento di un sistema dualistico (3). Difatti, appare metodologicamente erroneo, interpretare una norma di rango superiore alla luce di una di rango inferiore e da questo far derivare la conservazione e costituzionalizzazione dell'assetto legislativo previgente (4).

Al di là dell'interpretazione dell'art. 25 della Costituzione delle riflessioni sulla sua portata, conservatrice o meno, in questo capitolo ci vorremmo dedicare all'analisi: delle critiche che, a partire dal secondo dopoguerra, investirono il sistema dualistico; dei punti di attrito e di contrasto tra i principi sanciti dalla Costituzione e la normativa in materia di misure di sicurezza. Ci concentreremo, in una prima fase sulle critiche rivolte alle misure di sicurezza in genere, mentre in un secondo momento cercheremo di mettere a fuoco i problemi riscontrati in relazione alla misura del ricovero in manicomio giudiziario.

2. Le critiche alle misure di sicurezza

Nel secondo dopoguerra le critiche alle misure di sicurezza, in una prima fase, ebbero ad oggetto soltanto alcuni aspetti specifici della normativa. Tali critiche si mossero verso l'eliminazione delle principali storture della normativa codicistica. Seguendo un percorso di riflessione dal particolare al generale - come lo definisce Musco - la dottrina, nei primi anni concentrata su alcuni singoli aspetti, iniziò a porsi il problema di fondo della legittimazione stessa delle misure (5). La crisi del sistema dualistico fu messa in evidenza da un gruppo di studiosi che fece rivivere quella critica che si era sviluppata già nel periodo immediatamente successivo alla promulgazione del Codice (6) e che, partendo dalla difficoltà di distinguere funzionalmente le pene e le misure di sicurezza - per quanto concerneva gli imputabili - mirava all'abrogazione del doppio binario. Alla presa di coscienza dello stato di crisi, fece seguito la riflessione sulla giustificazione e legittimazione delle misure di sicurezza e il tentativo di un inquadramento nei principi dello Stato sociale di diritto.

Se la crisi emergeva dal lato dell'impossibilità di distinguere pene e misure di sicurezza, sia funzionalmente che nel loro contenuto concreto, d'altro canto si manifestava sotto il profilo delle minori garanzie previste per queste misure e quello delle incertezze scientifiche nell'accertamento dei presupposti.

Nei paragrafi che seguono cercheremo di ricostruire il percorso che condusse alla conclamata crisi delle misure di sicurezza, affrontando le varie tematiche appena delineate.

2.1. Il dibattito giurisprudenziale in materia di fungibilità

Per quanto concerne le prime riflessioni, quelle relative ad alcuni aspetti specifici, in primo luogo riassumiamo le osservazioni giurisprudenziali in materia di fungibilità tra la misura di sicurezza provvisoria e la pena (7).

A partire dagli anni '60 del XX secolo, sulla scia della trattazione giurisprudenziale del tema si aprì una discussione in materia di fungibilità tra pene e misure e di sicurezza (8). L'art. 206, 3º comma del codice penale prevedeva espressamente la possibilità di computare il tempo trascorso in esecuzione provvisoria della misura di sicurezza nella durata minima della misura applicata in via definitiva. Restavano non regolate altre due ipotesi: quella in cui - a seguito dell'esecuzione della misura di sicurezza in via provvisoria - il soggetto fosse stato condannato e quella in cui un soggetto - sottoposto a custodia preventiva - fosse stato ritenuto non imputabile e prosciolto con applicazione di una misura di sicurezza detentiva. Ci si chiedeva dunque se fosse possibile considerare come pre-sofferto il tempo trascorso in esecuzione della misura provvisoria e se fosse altresì possibile, computare nella durata minima della misura applicata in via definitiva, la detenzione sofferta a titolo di custodia cautelare (9). In senso contrario alla fungibilità, giocava l'assoluta eterogeneità che, almeno teoricamente, dovevano presentare pena, custodia cautelare e misura di sicurezza.

Per quanto concerne la fungibilità tra la custodia cautelare e la misura di sicurezza applicata in via definitiva, nel 1960 la Suprema Corte di Cassazione aprì al riconoscimento della fungibilità tra pene e misure di sicurezza (10). La Corte argomentò evitando di affrontare il nodo della differenza ontologica e funzionale, adottando una motivazione che si incentrava prevalentemente su alcune considerazioni pratiche. (11) La Corte rilevava come, anche tra pena e misura cautelare, non potesse riconoscersi un'omogeneità funzionale, dunque quella predisposta dall'art. 137 c.p. rappresentasse una fictio iuris (12). A questo punto, attribuendo valore preminente alla libertà individuale, glissava sulla questione di fondo della funzione da attribuire a pena e misura di sicurezza e riconosceva la fungibilità (13). Come nota Musco, a prescindere dagli effetti pratici di questa apertura della Corte - che peraltro sarà negata con un indirizzo contrario espresso nel 1962 (14) ed infine risolta in senso negativo dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 96 del 1970 (15) - ciò che appare di maggiore rilevanza è l'importanza attribuita alla libertà personale e il conseguente problema che rimaneva a fare da sfondo alla questione: quello del fondamento della misura di sicurezza (16).

La Corte di Cassazione investita della questione della fungibilità della misura provvisoria con la pena detentiva ha mostrato un atteggiamento di maggiore apertura, riconoscendo la possibilità di detrarre dalla pena detentiva il tempo trascorso in esecuzione della misura di sicurezza provvisoria, con un indirizzo che può ormai ritenersi consolidato. Tale indirizzo è peraltro confermato dall'art. 657 del nuovo codice di procedura penale (17), che riconosce espressamente che il pubblico ministero, nel determinare la pena detentiva da eseguire, computi il periodo trascorso in esecuzione di una misura di sicurezza detentiva, salvo che questa sia stata con la sentenza applicata definitivamente.

2.2. Critiche al dualismo: le misure di sicurezza sono solo una «frode delle etichette»?

Come abbiamo avuto modo di osservare, una delle prime critiche al sistema dualista verteva sulla difficoltà - o impossibilità - di distinguere le pene dalle misure di sicurezza (18). Tale difficoltà poteva riscontrarsi sia sul piano teorico che su quello concreto dell'esecuzione delle due misure. Sul piano teorico, la pena avrebbe dovuto distinguersi dalla misura di sicurezza per funzione, contenuto e soggetti a cui era rivolta (19). Già prima dell'introduzione della Carta costituzionale, era possibile riscontrare una vicinanza funzionale. Abbiamo visto come, nell'ottica compromissoria del Codice Rocco, la pena tendesse ad assumere, essa stessa, degli elementi tipici della prevenzione speciale (20). Con l'entrata in vigore della Carta Costituzionale e il relativo art. 27 co. 3º, si affievoliscono le peculiarità delle misure di sicurezza sotto il profilo funzionale. Il terzo comma dell'art. 27 sancisce la tendenza alla rieducazione della pena, tendenza che è stata variamente interpretata nel senso di un'affermazione della funzione special-preventiva della pena, di un principio applicabile solo in fase esecutiva e di un criterio che debba uniformare l'intero complesso del sistema penale (21). A prescindere dall'interpretazione offerta del principio della tendenza alla rieducazione, non si può non riconoscere un progressivo avvicinamento tra pene e misure di sicurezza, al quale ha peraltro contribuito la costante giurisprudenza costituzionale che ha riconosciuto il carattere polifunzionale della pena (22). La misura di sicurezza non ha conservato il monopolio della funzione special-preventiva e del resto, in dottrina, l'idea della pena come risposta meramente retributiva all'illecito è andata progressivamente scemando (23).

Se alla pena si riconosce una funzione (anche) special-preventiva, si osserva altresì, come le misure di sicurezza presentino un contenuto afflittivo equivalente alle pene, se non persino superiore, data la loro durata potenzialmente illimitata. Sul piano pratico della concreta applicazione, si poteva del resto riscontrare l'inconsistenza delle distinzioni: la colonia agricola e la casa lavoro spesso altro non erano che sezioni degli istituti penitenziari, ove il lavoro, che sarebbe dovuto essere il fulcro del trattamento, non esisteva o comunque era limitato ad alcune mansioni di servizio per l'istituto penitenziario (24). L'identità di funzioni, l'impossibilità di distinguere tra pene e misure di sicurezza, portava a considerare il sistema dualistico un'illegittima «frode delle etichette», secondo la celebre espressione coniata da Kohlrausch nel 1924 (25). In particolare, si trovava messa in discussione l'applicazione cumulativa di pene e misure di sicurezza nei confronti di imputabili e semi-imputabili (26). Difatti, se le pene e le misure di sicurezza condividono un analoga funzione preventiva, non si comprende come le prime sarebbero sottoposte ad una serie di limitazioni, connesse ai principi garantisti, che le seconde potrebbero invece eludere (27). Dunque alcuni autori giungono a ritenere, adottando una lettura costituzionalmente orientata, il sistema come sostanzialmente monistico (28).

Come abbiamo già anticipato, il sistema dualistico è quel sistema che affianca alle pene, con funzione retributiva, altre misure con funzione special-preventiva, le quali - in virtù della differenza nei presupposti tra pene e misure di sicurezza - possono essere applicate anche in aggiunta alla pena. Oltre al modello dualistico, a quelli monistico-preventivo e monistico-retributivo, esiste un quarto modello che, pur affiancando alle pene le misure di sicurezza, con diversi presupposti, non consente l'applicazione cumulativa di pene e misure, il cosiddetto sistema vicariale (29). Nel filone di giuristi che hanno rivendicato la necessità di un superamento del doppio binario, alcuni si sono espressi in favore del passaggio ad un sistema monistico con una pena con un massimo indeterminato ed un minimo prestabilito proporzionale alla gravità del fatto commesso, altri invece hanno optato per un sistema vicariale, dove la misura di sicurezza sia applicata anticipatamente rispetto alla pena e il tempo trascorso in esecuzione della misura sia decurtato dall'eventuale residuo di pena (30).

Quest'ultima prospettiva consente peraltro di superare le criticità rilevate rispetto alla successione nel tempo tra pene e misure di sicurezza applicate a soggetti imputabili, mantenendo comunque la duplice risposta all'illecito penale rappresentata dalle pene da un lato e dalle misure di sicurezza dall'altro. L'applicazione della misura di sicurezza in una fase successiva all'esecuzione della pena è stato considerato un elemento irragionevole della normativa in materia da illustri giuristi come Pietro Nuvolone. L'Autore, fortemente influenzato dall'ideologia della Nuova Difesa Sociale (31) riteneva che successione nel tempo, così come disciplinata dal codice non prendesse in minima considerazione la personalità dell'individuo, finendo per contravvenire alla funzione rieducativa che era la funzione propria delle misure di sicurezza e alla quale doveva finalisticamente orientarsi la pena (32).

Per quanto riguarda le misure di sicurezza destinate ai soggetti non imputabili, si apre un ragionamento solo in parte analogo. Nel nostro ordinamento rimane saldo il principio di colpevolezza, per cui non è possibile applicare una pena al soggetto al quale non si riconosca la colpa per le proprie condotte. Le misure di sicurezza destinate ai non imputabili debbono potersi distinguere nel contenuto dalla pena, altrimenti si finirebbe per applicare al non imputabile una pena mascherata con una diversa denominazione. Bettiol, sosteneva, riaffermando per la pena il principio retributivo, che il fondamento della misura di sicurezza per il non imputabile dovesse rintracciarsi nel principio di solidarietà. La pena manteneva la funzione retributiva che le era propria, mentre la misura di sicurezza veniva ad assumere una funzione di risocializzazione, offrendo a quei cittadini che partivano da una posizione di svantaggio - come gli infermi di mente - gli strumenti idonei a consentire loro di svolgere la propria personalità (33). La legittimazione della misura di sicurezza per i non imputabili si sarebbe dovuta rintracciare nella funzione risocializzante, per gli infermi di mente declinata nell'accezione terapeutica. La misura di sicurezza, proprio in quanto misura diversa dalla pena, deve avere in mira la rieducazione e in ragione dei principi di libertà personale e dignità umana sanciti dalla Carta costituzionale, non può consistere in uno strumento emarginativo o repressivo (34). La misura di sicurezza rivolta ai non imputabili è dunque giustificata dalla finalità terapeutica che viene ad assumere, finalità che rischia di rimanere soltanto dichiarata, data la portata inevitabilmente afflittiva di tali misure (35). A tale riguardo, Niro in un recente scritto, afferma che:

[...] Se l'O.P.G. fosse pienamente assimilabile al carcere non avrebbe senso esonerare dalla pena l'infermo di mente che ha commesso un reato e la distinzione pena-misura di sicurezza si risolverebbe in un artificio giuridico o in una “truffa delle etichette”.

Ma così non può essere, almeno in linea generale, e dunque l'O.P.G. deve avere caratteri e requisiti ulteriori che lo differenzino da un normale istituto di pena.

Dunque, con l'affermazione dell'ordinamento democratico e dei principi sanciti dalla Carta costituzionale si sollevano voci critiche nei confronti del doppio binario. Da un lato si sostiene la necessità di rinunciare ad un sistema dualistico ed eliminare quelle misure di sicurezza che possono applicarsi in aggiunta alla pena (36). Dall'altro, quelle rivolte ai non imputabili debbono caratterizzarsi per il loro contenuto risocializzante, debbono adattarsi alle categorie di soggetti sottoposti, attraverso un regime che consenta che la funzione special-preventiva nella sua chiave terapeutica non rimanga un dato solamente dichiarato (37).

2.3. Stesso contenuto ma minori garanzie: riflessioni sulla legittimità delle misure di sicurezza

Nella sistematica del codice Rocco le misure di sicurezza avevano una natura esclusivamente amministrativa, dunque mentre al reato erano connesse le tradizionali garanzie relative alla colpevolezza, alla proporzionalità, alla legalità, alla giurisdizionalità, non era possibile sostenere lo stesso anche per le misure di sicurezza. Per questo appariva più grave “l'inganno” rappresentato dal sistema dualistico, in quanto in ragione di una differenza nella natura dei due interventi lato sensu penali, risultava possibile scollegare dalla misura di sicurezza alcune delle principali garanzie dell'ordinamento penale.

Ferrajoli apre una critica a queste misure (che affianca a quelle di prevenzione e a quelle cautelari), da lui ritenute misure amministrative di polizia, in quanto non coerenti con i principi del garantismo penale, ovvero: la retributività, la stretta legalità e la stretta giurisdizionalità, formulate con i brocardi nulla poena sine crimine, nulla poena sine lege e nulla poena sine iudicio.

Il primo principio vuole che la pena sia conseguenza del reato secondo un nesso normativo biunivoco, dunque la pena deve seguire alla commissione di un reato e in assenza di questo non può esservi pena. Il secondo principio si articola in tre significati: solo la legge può introdurre o modificare le pene, le pene sono tutte e soltanto quelle previste dalla legge, le pene devono essere predeterminate, dunque si possono applicare soltanto nelle ipotesi e nella misura previste dalla legge. Da quest'ultimo discendono tre corollari: l'irretroattività della legge penale, l'ultrattività della legge penale favorevole al reo, il divieto di analogia in malam partem. Il terzo principio richiede che a comminare la pena ed a commisurarla sia un giudice con tutte le garanzie proprie di un giudizio penale (38).

La misura di sicurezza lederebbe tutti e tre i principi fondamentali. Da un lato infatti benché requisito essenziale della misura di sicurezza sia la commissione di un fatto dalla legge previsto come reato, l'art. 202 del c.p. pone subito un eccezione a questo principio, stabilendo che la legge penale possa determinare i casi in cui, anche in mancanza della commissione di un reato, sia possibile disporre una misura di sicurezza nei confronti del soggetto pericoloso (39). Queste misure oltre a poter essere applicate nelle ipotesi di quasi-reato o di istigazione non accolta, sono altresì destinate a coloro che abbiano commesso un fatto che oggettivamente rappresenta un reato ma non è commesso da un soggetto imputabile. Inoltre, queste misure sono irrogabili al di fuori di un sentenza di condanna, sia in via preventiva, sia a maggior ragione nella fase di proroga delle stesse.

Le misure di sicurezza, applicate a seguito di condanna o di proscioglimento, comunque non conseguono né sono commisurate al reato, bensì allo status del soggetto, di cui il reato rappresenta sostanzialmente un sintomo o l'occasione dell'accertamento della pericolosità. Tali misure non rispettano neppure il principio di stretta legalità difatti non sono rigidamente predeterminate il tipo di misura, né la durata e talvolta è discrezionale persino l'applicazione. Il corollario di non retroattività è negato dall'art. 200 c.p. e neppure il principio di stretta giurisdizionalità risulta rispettato laddove l'applicazione della misura di sicurezza non richiede tanto un fatto da provare, quanto una qualità da dichiarare. Qualità non affermata sulla base di fatti e di prove ma su indici e circostanze che facciano intuire la probabilità di ripetere una qualunque condotta criminosa (40).

Le misure di sicurezza dunque appaiono come limitazioni della libertà personale, difficili da distinguere dalle pene eppure non sottoposte alle stesse limitazioni. Duplicando il sistema penale, attribuendo la natura amministrativa a misure contenutisticamente simili alla pena, il legislatore ha potuto «operare una sostanziale dissoluzione delle principali garanzie penali e processuali con dei semplici giochi di parole [...]» (41).

2.4. Critiche al manicomio giudiziario

Per il manicomio giudiziario, in parte valgono le problematicità sollevate in materia di misure di sicurezza in genere, in parte il problema presenta degli aspetti del tutto peculiari. Innanzitutto, le critiche al dualismo sono oggi ampiamente condivise per quanto concerne gli imputabili, si ritiene infatti che queste non rappresentino altro che un'ingiustificata protrazione dello stato detentivo; una tale uniformità di vedute non si ritrova per quanto concerne i non-imputabili, nei confronti dei quali, a prescindere dal nomen iuris e dalla qualificazione della natura della misura, non sembra messa radicalmente in discussione la necessità di una qualche forma di intervento detentivo (42).

Le critiche al manicomio giudiziario hanno avuto origine come critiche al concreto funzionamento della struttura, spronate anche da alcuni eventi che furono all'attenzione della cronaca alla metà degli anni '70 (43). Le denunce dei luoghi insalubri e vecchi, delle contenzioni protratte per decine di giorni, delle carenze materiali, del sovraffollamento, dei maltrattamenti subiti dagli internati, aprirono il varco per la riflessione sulla valenza terapeutica dell'internamento. Il binomio delle funzioni di cura e custodia che aveva accompagnato l'istituzione fino dalla sua elaborazione ad opera della Scuola Positiva, che era stato confermato nell'impostazione codicistica (ove la misura rivolta ai semi imputabili assumeva proprio il nome di assegnazione ad una casa di cura e custodia), sembrava dover essere ripensato, soprattutto a seguito delle rivoluzioni condotte nel settore psichiatrico dai basagliani e della progressiva affermazione del diritto fondamentale alla salute come diritto inviolabile anche nei confronti delle persone detenute (44).

Del resto il progressivo indebolimento delle certezze scientifiche alimentava le critiche sulla legittimità della misura di sicurezza del ricovero in OPG, questa misura di sicurezza, per molti aspetti assimilabile alla pena, rischiava di non essere altro che una restrizione della libertà personale fondata su valutazioni con un discreto di margine di aleatorietà.

2.4.1. Imputabilità e pericolosità sociale al netto delle incertezza scientifiche: le critiche alla perizia e agli accertamenti diagnostici e prognostici

Le misure di sicurezza, come abbiamo avuto modo di vedere, sono misure con funzione difensiva che vengono applicate in ragione della sussistenza della pericolosità sociale (45). La misura di sicurezza del ricovero in OPG è una misura rivolta a soggetti ritenuti non imputabili e pericolosi. Dunque, nei confronti del sottoposto a questa misura, saranno effettuati due diversi accertamenti, uno relativo all'imputabilità, l'altro alla pericolosità sociale. Sia le due nozioni - di imputabilità e di pericolosità sociale - che la perizia psichiatrica e le modalità del suo svolgimento, sono state oggetto di critiche e riflessioni. In questo paragrafo procederemo a definire la perizia psichiatrica e delinearne la normativa, proseguiremo poi con l'analisi delle critiche all'accertamento dell'imputabilità e quello della pericolosità sociale.

La perizia nel processo penale rappresenta sia un mezzo di prova che un mezzo di valutazione della prova, è dunque uno strumento attraverso il quale si possono acquisire nuovi dati probatori e valutare dati già acquisiti (46). La perizia psichiatrica può essere utilizzata per una serie di accertamenti diversi (pericolosità, imputabilità, capacità processuale), nei confronti di soggetti diversi (imputato, vittima), in vari stati del procedimento (47).

Il lavoro del perito psichiatrico, come sottolineano da Lagazzi e Ferracuti è sempre articolato in almeno due fasi: una diagnostica, di tipo medico psichiatrico; l'altra valutativa, nel corso della quale gli elementi riscontrati nella prima fase sono messi in correlazione al fine di rispondere al quesito posto dal giudice (48). Il risultato del lavoro peritale costituirà un parere, professionale e il più possibile svincolato dagli elementi esterni che possono avere un'influenza sull'opinione che il perito si costruisce sulla persona esaminata, ma pur sempre un parere, dunque dotato di «un fisiologico ed inevitabile grado di soggettività» (49).

Tenendo ferme le considerazioni appena svolte, passiamo ad esaminare i problemi relativi alla perizia in materia di imputabilità. Come abbiamo visto, il nostro codice prevede tra le cause di esclusione dell'imputabilità il vizio di mente, ovvero la presenza di un'infermità che abbia dato luogo, al momento della commissione del fatto, ad una totale incapacità di intendere e di volere (50). Nello svolgimento di questo accertamento peritale si pongono alcune problematiche. In primo luogo il perito non è semplicemente chiamato a riconoscere la sussistenza di un patologia psichiatrica, ma a valutare se questa patologia abbia inciso sulle capacità appena menzionate. Il dato nosografico ha assunto nei vari contesti storico-culturali un diverso rilievo e la maggiore o minore importanza attribuita a questo elemento ha prodotto l'effetto di estendere o di ridimensionare la nozione di capacità. All'epoca della promulgazione del codice penale, era diffusa una nozione di malattia mentale di stampo positivista, biologico-determinista, secondo la quale, essendo l'attività mentale frutto del funzionamento celebrale, in presenza di una malattia, il soggetto doveva automaticamente ritenersi affetto da vizio di mente e non imputabile (51). Allo psichiatra, nel processo penale, era semplicemente richiesto di individuare la patologia, inscrivere il soggetto in una categoria nosografica, in poche parole etichettarlo in una determinata specie di follia.

Il concetto di malattia mentale è andato nel corso degli anni subendo un notevole mutamento e alle certezze scientifiche della scuola positiva sono andate progressivamente sostituendosi accezioni diverse della patologia psichiatrica, psicologiche e sociologiche (52). Questo mutamento ha prodotto degli effetti sulla valutazione di imputabilità. Da un lato questa è andata progressivamente espandendosi, ricomprendendo disturbi che non rientrano nelle tradizionali forme psicotiche. Dall'altra, alcuni autori hanno sostenuto la necessità di abolire la distinzione tra imputabili e non e alcuni psichiatri forensi hanno scelto di adottare una concezione riduttivista della non imputabilità, esprimendosi per l'incapacità del soggetto solo in presenza di patologie talmente gravi da comportare una totale alienazione dell'Io (53). Del resto, anche in presenza di patologie psichiatriche gravi, un tempo considerate automaticamente cause di esclusione dell'imputabilità, è stata rilevata la necessità di prendere in considerazione il nesso causale tra la malattia e il fatto commesso, ritenendo che anche patologie gravi non compromettano sempre e comunque la capacità di intendere e di volere (54). Questo stato di maggiore incertezza ha portato, come vedremo, alcuni autori a richiedere la modifica delle disposizioni in materia di imputabilità (55).

L'accertamento dell'imputabilità non pone problemi soltanto a causa delle crescenti incertezze scientifiche e del crollo del paradigma positivista, ma anche in ragione di alcuni elementi “pratici”. La perizia è di norma condotta da psichiatri che non conoscono il soggetto sul quale sono chiamati ad esprimere un parere ed inoltre è richiesto loro di esprimere una valutazione sulla capacità di intendere e di volere di un soggetto in un momento diverso da quello in cui effettuano la perizia e probabilmente abbastanza lontano nel tempo (56). Inoltre è sempre insito nel lavoro del perito il rischio di compromettere la sua funzione con altre, vagliando ad esempio, l'attendibilità dell'imputato e della sua ricostruzione dei fatti anziché la sua capacità nel momento in cui li commise (57). Queste caratteristiche, come apparirà chiaro, rendono più labili i confini di una valutazione che già presenta margini di incertezza.

Passando all'accertamento della pericolosità sociale, ricordiamo che questa altro non è che la probabilità che il soggetto in futuro commetta nuovi atti dalla legge previsti come reati. La struttura probabilistica della fattispecie complessa della pericolosità sociale pone problemi riguardo alla stessa legittimità delle misure di sicurezza. Difatti, postulare una limitazione della libertà personale ad un presupposto probabilistico porta con sé l'inevitabile rischio di un «sacrificio non necessario» di questo diritto fondamentale (58). Queste considerazioni di carattere generale si sono rafforzate con l'affiorare dei dubbi sulle modalità di accertamento di questo presupposto.

Preliminarmente chiariamo che i metodi di accertamento sono essenzialmente tre:

  • Il metodo clinico anamnestico che si basa sul colloquio clinico, sulla sottoposizione a test psicologici, psicodiagnostici e neurobiologici, al fine di cogliere le modalità di reazione del soggetto a particolari situazioni, nonché i fattori che lo hanno motivato all'azione delittuosa;
  • Il metodo statistico che consiste nella verifica della possibilità di ascrivere il soggetto ad una specifica categoria delinquenziale;
  • Il metodo intuitivo che è fondato sul senso comune e sulle conoscenze ed esperienze pregresse del giudice (59).

Progressivamente, questi metodi entrano in crisi: il metodo intuitivo porta con sé l'elemento positivo della maggiore individualizzazione possibile della valutazione, del resto però non può propriamente definirsi un metodo scientifico; il metodo statistico, riportando il soggetto a determinate categorie delinquenziali, rischia di produrre una sovrastima dei soggetti pericolosi, oltre a presentarsi come una lesione del diritto alla libertà personale di un soggetto fondata su un pregiudizio legato alla sua appartenenza ad una particolare categoria di soggetti; il metodo clinico anamnestico ha risentito della progressiva messa in discussione della criminologia positivista e della concezione del delitto come una malattia, inoltre con l'avvento del movimento cosiddetto anti-psichiatrico e di un nuovo punto di vista sulla malattia mentale, il nesso causale che si riteneva sussistere tra malattia e pericolosità è stato progressivamente messo in discussione (60).

Se nell'ottica deterministica dei criminologi positivisti, il giudizio di pericolosità era scientificamente fondato ed obiettivo, per cui si sarebbe potuto ricorrere alla predisposizione di categorie legali di soggetti pericolosi (61), con la crisi del determinismo ed il crescente diffondersi di incertezze sull'attendibilità dei metodi di accertamento esistenti, la struttura delle misure di sicurezza e la loro legittimazione sembra vacillare. Peraltro, nel nostro ordinamento la pericolosità sociale è scarsamente circoscritta. Da un lato infatti non vi è alcun riferimento alla tipologia di fatto che il soggetto valutato pericoloso potrebbe in futuro compiere, dall'altra non è qualificata quantitativamente la probabilità di futura commissione. Questi due elementi rendono la valutazione aleatoria, in quanto, con probabilità si intende, nel linguaggio scientifico la quantificazione della possibilità che un determinato evento si verifichi, possibilità che potrebbe essere anche tendente allo zero (62). D'altro canto, il fatto che il perito sia chiamato a valutare la possibilità che il soggetto commetta in futuro un qualsiasi atto dalla legge previsto come reato, rende ancora più labili i margini già incerti di questa valutazione. Come anticipato, queste incertezze producono un riflesso diretto sulla legittimità e giustificazione delle misure stesse.

In alcuni dei Paesi che adottano un sistema dualistico la valutazione è soggetta ad una serie di limitazioni: in primo luogo limitazioni che riguardano il reato commesso (questo, attraverso il riferimento al limite edittale, avviene anche nel nostro paese) (63); in secondo luogo è circoscritto il margine di valutazione della prognosi, in quanto è ritenuto pericoloso soltanto il soggetto che si ritiene potrebbe in futuro commettere reati di una certa “rilevanza” (64). Anche questa limitazione prevista dai codici dell'area tedesca mantiene dei difetti analoghi a quelli appena esaminati in relazione alla nostra legislazione, difatti la valutazione circa la «rilevanza» dei fatti che il soggetto potrebbe in futuro commettere, rimane ampiamente discrezionale.

Date le numerose criticità della valutazione di pericolosità sociale alcuni psichiatri ritengono sia necessario rifiutare il compito di partecipare alla perizia psichiatrica volta a valutare la pericolosità del soggetto, considerando il concetto stesso di pericolosità un elemento estraneo alla scienza medica e il compito loro assegnato all'interno del processo in contrasto con la funzione e lo spirito della loro professione. Altri ritengono invece che si dovrebbe procedere a modificare quanto è richiesto allo psichiatra in fase di perizia, intervenendo anche sul concetto di pericolosità. Il concetto di pericolosità potrebbe, a detta di questi ultimi, essere sostituito con quello di aggressività, sul quale esistono maggiori margini per una valutazione obiettiva (65).

2.4.2. Manicomio giudiziario e principi costituzionali: il divieto di trattamenti inumani e degradanti e la tutela del diritto fondamentale alla salute

Abbiamo finora parlato delle misure di sicurezza in genere, ci sembra a questo punto necessario affrontare la tematica più specifica della misura di sicurezza del ricovero in manicomio giudiziario. Fin dall'inizio della nostra trattazione abbiamo potuto evidenziare come, nel manicomio giudiziario, alle esigenze di custodia si accompagnino, in un'ottica di difesa sociale, quelle di cura. La questione della salute, a nostro avviso, si pone in due diverse ottiche e in due diversi significati. Da un lato c'è infatti il profilo funzionale: le misure di sicurezza hanno la loro ragione d'essere proprio nella particolare funzione special-preventiva e il manicomio giudiziario in quella terapeutica, che le distingue contenutisticamente - o meglio dovrebbe - dalle pene. Dall'altro lato è necessaria una considerazione circa la garanzia della tutela del diritto inviolabile alla salute in tutte le situazioni, comprese quelle nelle quali il soggetto si trova a subire una restrizione della propria libertà personale come conseguenza di un fatto dalla legge previsto come reato. Questa situazione presenta, ovviamente, delle analogie con la materia della tutela della salute in carcere, difatti, si tratta della garanzia del diritto inviolabile al mantenimento del benessere psico-fisico (66), in una situazione di restrizione della libertà personale. Ai detenuti, così come agli internati, deve garantirsi tale diritto, sia in virtù del fatto che la pena (o la misura di sicurezza) non può limitare il godimento di diritti costituzionali al di là di quelli incompatibili con la detenzione (67), sia in quanto dei trattamenti che violassero l'integrità psico-fisica del soggetto si sostanzierebbero in quei trattamenti vietati dall'art. 27, 3º comma della Costituzione. La peculiarità di questa situazione rispetto a quella delle prigioni si trova proprio in quella differenza che dovrebbe esservi tra la pena e la misura di sicurezza in termini di contenuto e dunque nel carattere spiccatamente rieducativo che l'internamento in manicomio giudiziario dovrebbe assumere. La rieducazione e la prevenzione-speciale, nell'ottica della misura, si specificano come “cura”. Quindi, seguendo lo schema tracciato da Padovani, da un lato l'art. 32 della Costituzione incide su aspetti organizzativi e istituzionali, essendo le misure di sicurezza finalizzate all'intervento terapeutico. Infatti, la risocializzazione in tema di misure di sicurezza si concretizza in un'esigenza curativa. Dall'altro lato, trattandosi comunque di un trattamento sanitario e nella specie di un trattamento coattivo dovrà rispettare i limiti previsti dal secondo comma dell'art. 32 della Costituzione (68). Del resto, si aggiunge, sotto il profilo della garanzia del diritto alla salute, all'interno dei manicomi giudiziari, così come all'interno delle carceri, dovranno essere garantiti ambienti salubri ed interventi medici all'occorrenza (69).

Soffermandoci per il momento sul primo aspetto occorre distinguere due filoni di analisi: da un lato se la funzione del manicomio giudiziario è prettamente terapeutica e la sua giustificazione è data dalle particolari esigenze di terapia che pone il folle reo rispetto al folle comune, la struttura e la sua organizzazione si devono mostrare idonee a svolgere tale funzione almeno al pari delle strutture civili rivolte alla cura dei malati di mente; dall'altro il manicomio giudiziario deve risultare in grado di corrispondere un trattamento adeguato e dunque adeguatamente differenziato dal trattamento penitenziario in senso stretto (70). Dunque il manicomio giudiziario dovrebbe presentare qualità affini ad un ospedale psichiatrico civile. Nel 1978 Padovani rilevava come, al netto della pretesa specificità clinica dei folli rei, il personale addetto al trattamento di questi soggetti dovesse essere altamente qualificato (71).

Se nell'ottica post-costituzionale la misura di sicurezza si trova giustificata e legittimata da istanze terapeutiche, se dunque la giustificazione della sua esistenza e della sua differenziazione dalla pena, si trova nel fatto che il manicomio giudiziario, non deve punire, ma non deve neppure limitarsi a recludere, bensì deve offrire terapia al malato di mente autore di reato e se questa persona non può che essere accolta in un tal genere di struttura in virtù delle presupposte peculiarità della sua patologia, attestate dal compimento dell'atto criminoso; il manicomio giudiziario deve come minimo presentare requisiti analoghi a quelli delle strutture che all'esterno si occupano di provvedere alla salute dei malati di mente (72). In questa logica Padovani criticava la mancata estensione delle disposizioni circa il rapporto numerico tra pazienti e personale medico e sanitario, introdotta dalla legge Mariotti del 1965 ai manicomi giudiziari (73). Nel manicomio (che ha ormai assunto il nome di ospedale psichiatrico (74)) giudiziario, l'organizzazione degli istituti era disciplinata dal regolamento nel 1975 la legge n. 354, recante disposizioni sull'ordinamento penitenziario, che si limitava a stabilire che i singoli istituti dovessero essere organizzati con caratteristiche differenziate in relazione alla posizione giuridica dei detenuti e degli internati e alle necessità del trattamento individuale o di gruppo degli stessi. (75) Il regolamento dell'anno seguente, contenente norme sull'esecuzione dell'ordinamento penitenziario, all'art. 98 precisava che gli operatori professionali e volontari chiamati a svolgere la loro attività nelle case di cura e custodia, negli ospedali psichiatrici giudiziari fossero selezionati con riferimento alle peculiari esigenze di trattamento dei soggetti ivi ospitati (76). La normativa non appariva come rilevava criticamente Padovani coerente con la funzione terapeutica che l'istituzione avrebbe dovuto svolgere. A questo riguardo occorre forse effettuare un passo indietro e ricordare le origini del manicomio giudiziario, questa istituzione nasceva nell'ambito del sistema penitenziario, come istituto di pena speciale, con funzione ad esso «servente» (77), dunque con lo scopo di sottrarre dagli istituti di pena quei soggetti che potevano essere causa di disordini e di confusione (78). Non c'è da stupirsi che questi somiglino più a prigioni che ad ospedali.

A questo punto sembra opportuno inoltre ricordare l'insegnamento di Foucault, se questa serie di istituzioni disciplinari che sono nate con l'età moderna e ne hanno caratterizzato la storia, somigliano al carcere ciò non deve suscitare nessuna meraviglia, sono infatti figlie della stessa microfisica di potere, della stessa tecnica disciplinare, sono figlie anch'esse della logica della prigione.

Guardando all'ordinamento penitenziario, approvato con legge n 354 del 1975, Padovani sollevava alcune perplessità. Il trattamento degli internati risultava plasmato in toto su quello dei detenuti (79). Alcuni istituti mostravano delle differenze ma erano comunque delle piccole variazioni su istituti pensati per i detenuti (80). Se questo poteva da un lato far sperare per un superamento delle rigide categorie ereditate dal positivismo, nella prospettiva di una disciplina più flessibile, d'altro canto poteva tramutarsi in una perpetuazione della realtà precedente, quella di una vera e propria pena manicomiale (81).

Riprendendo il ragionamento di Padovani, anticipato in precedenza, il rispetto dell'art. 32 in rapporto alla misura di sicurezza dell'ospedale psichiatrico giudiziario, non si esaurisce nella garanzia di un trattamento che abbia negli effetti una valenza terapeutica, pena la sua illegittimità nell'assetto costituzionale, ma si configura come necessità ulteriore di garantire il rispetto dei limiti previsti dal comma 2º per i trattamenti obbligatori (82). La misura di sicurezza se, come necessariamente deve essere, ha carattere e funzione di cura, dunque si sostanzia in un trattamento sanitario e d'altronde, mancando il consenso del paziente, deve configurarsi come obbligatorio, deve muoversi nel reticolo dei limiti imposti dall'art. 32 della carta costituzionale (83). La Costituzione prevede due garanzie per l'intervento coattivo sul malato: a) la riserva di legge, ma per quanto riguarda questo aspetto possiamo ritenere che la riserva prevista dall'art 25 della Costituzione in materia di misure di sicurezza garantisca superiormente rispetto a quella prevista dall'art. 32, b) il divieto di trattamenti che violino il rispetto della persona umana (84). Padovani rinviene in questo secondo punto limiti importanti in relazione all'internamento in OPG. Difatti per garantire un pieno rispetto della persona umana trattamenti coattivi possono essere disposti solo per finalità terapeutiche e non perdurare per un tempo superiore a quello in cui perdurano le esigenze di salute (85). Se così non fosse la misura di sicurezza finirebbe per costituire una illegittima strumentalizzazione della persona (86). In questo senso Padovani ritiene illegittima la normativa penale sia relativamente alla presunzione di pericolosità sociale, che non consentiva una valutazione circa l'attualità dell'infermità mentale, sia la disciplina sulla durata minima in quanto permetteva di perpetrare un trattamento non più necessario e persino potenzialmente dannoso per la salute dell'internato (87).

3. La giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di manicomio giudiziario negli anni '60 e '70: la legittimità della presunzione di pericolosità sociale

Nel corso degli anni '60 e '70 furono promosse una serie di questioni di legittimità costituzionale della normativa in materia di manicomi giudiziari, in particolare alcuni giudici ritennero illegittima la presunzione di pericolosità sociale operante nei confronti del folle autore di reato, in relazione ad una serie di parametri costituzionali.

Uno dei primi profili di contrasto ad essere posto all'attenzione della Corte, fu quello relativo all'art. 13 della Costituzione (88). I remittenti partono dalla constatazione che le misure di sicurezza possono essere inquadrate come misure limitative della libertà personale. In quanto tali, ai sensi dell'art. 13 della Costituzione, dovrebbero essere sottoposte alla duplice riserva di legge e di giurisdizione. La riserva di giurisdizione sarebbe limitata, non essendo al giudice lasciato spazio per il libero apprezzamento delle condizioni di pericolosità del soggetto (89). Dunque al giudice sarebbe sottratta la possibilità di pronunciarsi con un atto motivato, come richiesto dalla Costituzione per l'applicazione di misure restrittive della libertà personale. La Corte si espresse sul rilievo in due occasioni, la sentenza n. 19 del 1966 (90) e la sentenza n. 68 dell'anno seguente (91), ritenendo in entrambi i casi, infondate le questioni. Le presunzioni assolute di pericolosità sociale altro non sarebbero, a detta della Corte, che la tipizzazione di condizioni nelle quali è maggiormente probabile la commissione di un fatto dalla legge previsto come reato (92). Il fatto che la misura di sicurezza sia disposta con atto dell'autorità giudiziaria, motivato enunciando la presenza delle condizioni che la legge collega ad una prognosi di futura commissione di un reato (93), è condizione sufficiente a garantire il rispetto dell'art. 13 della Carta costituzionale (94). Come nota Pace, nel commento alla sentenza n. 19 del 1966, dal punto di vista argomentativo la Corte, non pare soffermarsi particolarmente sulla qualifica del provvedimento di applicazione della misura di sicurezza quale atto motivato e sul conseguente rispetto dei requisiti richiesti dall'art. 13 (95). Il fulcro dell'argomentazione appare piuttosto un altro: la possibilità di ricondurre la presunzione legale di pericolosità sociale a quegli elementi, a quelle qualità, che da dati di comune esperienza, consentono di ritenere più probabile la commissione di un futuro atto criminale (96). Peraltro, come avremo modo di vedere, la valutazione della corrispondenza delle condizioni che il legislatore pone come requisiti per far operare la presunzione di pericolosità sociale, con i dati rintracciabili dalla comune esperienza, rappresenta una costante della giurisprudenza della Corte in materia di pericolosità sociale presunta. Del resto la Corte, tornando sul punto l'anno seguente, specificherà la questione, aggiungendo a quanto già sostenuto che la qualità di atto motivato al provvedimento con il quale il giudice applica la misura di sicurezza si può riconoscere per il solo fatto di dichiarare di aver riscontrato la sussistenza dei requisiti previsti per legge per l'applicazione della misura (97).

Se la Corte d'Appello di Genova aveva sollevato la questione dell'illegittimità della presunzione assoluta di pericolosità sociale soltanto con riferimento all'art. 13 della Costituzione, successivamente vengono avanzati una serie di profili di presunto contrasto. Il meccanismo rigidamente presuntivo sembra infatti contrastare anche con il diritto alla difesa, così come sancito dall'art. 24 della Costituzione. I giudici a quo sostengono una violazione del diritto di difesa, se non in senso formale, quanto meno in quello sostanziale (98). Infatti si sarebbe impedito al soggetto da sottoporre a misura di sicurezza una prova dell'assenza di pericolosità sociale. La Corte esclude il contrasto con l'art. 24, difatti il diritto alla difesa è pienamente garantito nella verifica giurisdizionale sull'esistenza di quelle condizioni che la legge predispone come requisiti della fattispecie presuntiva (99). Le norme rispetto alle quali è eccepita l'incostituzionalità non sono norme processuali, non attengono il diritto di difesa, garantito dalla Costituzione all'art. 24.

La presunzione - a detta di alcuni giudici (100) - finiva per contrastare con il principio della tendenza alla rieducazione cui debbono uniformarsi - a detta dei giudici a quo - non solo le pene, come espressamente sancito dalla Carta, ma anche le misure di sicurezza. Su questo punto la Corte motiva così il rigetto: l'art. 27 della Costituzione non fa espresso riferimento alle misure di sicurezza ma solo alle pene (101). Questo si spiega facilmente con il fatto che, mentre le pene si iscrivono in una logica retributiva e dunque appare necessario porre un limite al legislatore attraverso l'iscrizione delle stesse ad una tendenza alla rieducazione, le misure di sicurezza hanno in sé stesse una natura rieducativa, di talché sarebbe apparso superfluo un richiamo da parte del costituente a tale finalità (102). Dunque, a detta della Corte, appariva infondato il richiamo all'art. 27 data la natura intrinsecamente rieducativa della misura prevista dall'art. 222 del c.p. Questa argomentazione, confermata dalla sentenza n. 106 del 1972, appare non particolarmente convincente. Non tanto per la negazione della possibilità di estendere anche alle misure di sicurezza il principio rieducativo, quanto al rilievo che la Corte fa logicamente seguire da questa statuizione, ovvero che stante la natura rieducativa appaia superfluo un sindacato sul rispetto del principio da parte della normativa che concerne le misure di sicurezza (103). Il fatto che le misure di sicurezza abbiano una finalità di prevenzione speciale non esclude di per sé che possano essere attuate con modalità contrarie al senso di umanità (104). Del resto che le misure di sicurezza abbiano finalità rieducative non è sempre e comunque vero, queste talvolta hanno fini eliminativi o cautelari (105) e perciò meriterebbero un esame specifico (106).

La presunzione di pericolosità sociale, nello specifico quella di cui all'art. 222 del codice penale, era stata ritenuta contrastare anche con l'art. 32 della Costituzione (107). Si rilevava come la tutela della salute avrebbe dovuto impedire la reclusione per lungo tempo di una persona sana in un manicomio giudiziario (108). Anche su questo punto la Corte si esprimeva rigettando la questione, difatti la natura terapeutica della misura di sicurezza del ricovero in manicomio giudiziario e ancora prima la sua funzione di controllo sanitario, impedivano che la stessa potesse produrre effetti negativi sulla salute di colui che vi era sottoposto (109). La motivazione che la Corte offriva sul punto del controllo sanitario appare carente, se infatti si poteva pur sostenere tale natura della misura di sicurezza, ciò che i rimettenti ritenevano contrastare con il rispetto della persona umana, era l'automatismo con cui era disposto il ricovero in manicomio giudiziario, in assenza di un accertamento concreto della pericolosità del sottoponendo (110). Sostenere che la misura di sicurezza operi come un controllo sullo stato di salute del soggetto non sembra ammissibile data la durata minima della misura di sicurezza in oggetto (2 anni o persino 10) (111). La Corte prosegue sostenendo che la persona sottoposta a misura di sicurezza non potesse essere considerata persona sana, difatti, la legge richiedeva un accertamento dell'infermità della stessa, sebbene in altra fase processuale (112). Ciò doveva pertanto ritenersi sufficiente ad escludere il contrasto con la tutela della salute così come sancita dalla Costituzione.

Arriviamo infine all'illegittimità del meccanismo presuntivo di cui agli articoli 204 e 222 del c.p. sollevata con riferimento all'art. 3 della Costituzione (113). Sulla questione la Corte si è espressa nella sentenza n. 106 del 1972 (114). Occorre da subito anticipare che questa sentenza ha seguito quella con la quale la Corte, con un mutamento del suo precedente indirizzo, aveva per la prima volta dichiarato l'illegittimità di un meccanismo presuntivo, quello che riguardava i minori non imputabili (minori degli anni 14) (115). L'ordinanza che aveva dato luogo al giudizio (116) per la prima volta aveva avanzato la questione della legittimità costituzionale della presunzione di pericolosità sociale in rapporto all'art. 3 della Costituzione (117). La Corte Costituzionale aveva ritenuto che la presunzione producesse gli effetti di una normativa che tratta irragionevolmente in modo analogo situazioni diverse (118). Con la sentenza n. 106 del 1972 il giudice a quo riteneva che fossero illegittimamente disciplinate situazioni diverse in modo eguale (119). Difatti nel caso di specie si presentava al giudice un soggetto dal consulente tecnico ritenuto non pericoloso, al quale si trovava costretto, dall'automatismo dell'articolato di legge, ad applicare il ricovero in manicomio giudiziario per la durata di 10 anni, una misura che avrebbe rischiato di compromettere la rieducazione e a salute del sottoposto (120). Peraltro si notava che, pur esistendo la possibilità di una revoca anticipata questa non si sostanziava in un vero e proprio correttivo della rigidità della normativa, stante che il potere di revoca era competente al Ministro di Grazia e Giustizia, mostrandosi come un ipotesi eccezionale (121). La Corte, anche in questo caso, rigetta la questione. L'argomentazione ruota attorno al principio dell'id quod plerumque accidit, la presunzione è ritenuta razionale e legittima, in quanto fondata su dati di comune esperienza che confermerebbero la pericolosità dei folli autori di reato (122). Peraltro la Corte non si sofferma sul fatto che il reato, commesso in stato di infermità, potrebbe non essere eziologicamente connesso con la patologia psichiatrica (123). Nessun riferimento è poi volto verso l'irrazionalità di un sistema che fa derivare, con presunzione assoluta, la durata della pericolosità sociale dalla gravità del fatto commesso, quando un fatto anche di lieve entità potrebbe essere sintomo di un ben più grave livello di pericolosità sociale (124).

Note

1. All'aprile del 1956 risale la prima sentenza della Corte Costituzionale, questa era stata istituita con la legge costituzionale n. 1 del 1953 e la legge ordinaria n. 87 dello stesso anno, ma si insediò soltanto il 15 Dicembre del 1965. Per la ricostruzione storica di queste vicende si rinvia a: U. De Siervo, “L'istituzione della Corte Costituzionale in Italia: dall'assemblea costituente ai primi anni di attività della Corte”, in P. Carnavale e C. Colapietro (a cura di), La giustizia costituzionale fra memoria e prospettive. A cinquant'anni dalla pubblicazione della prima sentenza della Corte costituzionale, Torino, Giappichelli, 2008, pp. 75 e ss.

2. Per una ricognizione bibliografica di questa dottrina si rinvia a M. Romano, G. Grasso, T. Padovani, Commentario sistematico del Codice penale. Vol. III. Artt. 150-240, Milano, Giuffrè, 2011, p. 426.

3. M. Pelissero, Il doppio binario nel sistema penale italiano, in UNC School of Law.

4. Ibid.

5. E. Musco, La misura di sicurezza detentiva, cit., pp. 167 e ss.

6. Si veda supra cap. I par. 4.3.

7. E. Musco, La misura di sicurezza detentiva, cit., pp. 167 e ss.

8. Ivi, p. 173.

9. M. Pavarini (a cura di), Codice commentato dell'esecuzione penale. Vol. II, Torino, Utet, 2002, p. 231.

10. Cassazione penale, Sezioni Unite, 15 luglio 1960.

11. M. Pavarini (a cura di), Codice commentato dell'esecuzione penale. Vol. II, Torino, Utet, 2002, p. 231.

12. Ibid.

13. E. Musco, La misura di sicurezza detentiva, cit., pp.172-173.

14. Cassazione, Sezioni Unite, 10 Febbraio 1962.

15. Corte Costituzionale, sentenza del 16 giugno 1970, n. 96.

16. E. Musco, La misura di sicurezza detentiva, op. cit., p.180.

17. D.P.R. 22 Settembre 1988, n. 457.

18. Si veda più diffusamente supra cap. I par. 4.3.

19. M. Romano, G. Grasso, T. Padovani, Commentario sistematico del Codice penale. Vol. III, cit., p. 428.

20. Basti pensare a quanto già anticipato riguardo alla confusione tra criteri retributivi (relativi alla gravità del fatto) e criteri preventivi (relativi alla qualità dell'autore) presenti nell'art. 133 c.p. che disciplina la commisurazione della pena, si veda supra cap. I, par. 4.2.2.3.

21. M. Romano, G. Grasso, T. Padovani, Commentario sistematico del Codice penale. Vol. III, cit., p. 428.

22. La Corte costituzionale ha aderito alla concezione polifunzionale della pena a partire dal 1966 (sentenza n. 12). Nella prima fase la Corte si era orientata su un'interpretazione restrittiva dell'art. 27, 3º comma, ritenendo che il principio rieducativo dovesse interpretarsi come un elemento essenziale della sola fase esecutiva della pena (sentenze: n. 167 del 1973, n. 107 del 1980, n. 104 del 1982, n. 237 del 1984, n. 23 del 1985). Successivamente il principio rieducativo è stato valorizzato e la sua portata è stata estesa, oltre la fase esecutiva (sentenze: n. 364 del 1968 e 322 del 2007). Accolta la funzione special-preventiva, nella sua accezione di rieducazione, come una delle funzioni che la pena è chiamata ad assolvere, la Corte ha stabilito che tra le varie finalità della pena non sia possibile stabilire una gerarchia fissa ed immutabile e che l'equilibrio tra le varie funzioni da parte del legislatore possa comportare una compressione di una delle finalità purché nel minimo indispensabile (sentenza n. 257 del 2006). Si veda V. Manes (a cura di), Principi costituzionali in materia penale (Diritto penale sostanziale). Quaderno predisposto in occasione dell'incontro trilaterale delle Corti costituzionali italiana, spagnola e portoghese. Madrid 13-15 Ottobre 2011, in Corte Costituzionale, pp. 57 e ss.

23. M. Pelissero, Il doppio binario nel sistema penale italiano, UNC School of Law, p. 2.

24. A. Ghiara, “L'esecuzione delle misure di sicurezza secondo la legge e nella realtà”, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1973, pp. 272 e ss.

25. Kohlrausch utilizzò l'ormai celebre espressione nella sua opera Sicherungshaft del 1924.

26. L'applicazione delle misure di sicurezza nei confronti dei non imputabili ha trovato maggiori margini di legittimazione. La distinzione tra pene e misure di sicurezza per i non imputabili sarebbe data dal fatto stesso di essere le une applicabili nei confronti del condannato, le altre nei confronti di soggetti non passibili di sanzione penale.

27. Si vedano: M. Romano, G. Grasso, T. Padovani, Commentario sistematico del Codice penale. Vol. III, cit., p. 432; V. Accattis, L. De Marco, “Il sistema penale del doppio binario con particolare riferimento alle misure di sicurezza”, in Quale giustizia, 29 (1974), pp. 475 e ss.

28. In particolare Musco sostiene che la giustificazione, la legittimazione dell'intervento penale sia da ricercare nella teoria della tutela dei beni giuridici. Dunque il diritto penale svolgerebbe una funzione preventiva, sia generale che speciale, finalizzata a tutelare quei beni giuridici che sono costituzionalmente garantiti. La funzione di prevenzione speciale sarebbe propria non solo della misura di sicurezza ma anche della pena. Dunque non potendosi riconoscere alla misura di sicurezza una reale autonomia, questa rappresenterebbe piuttosto una forma di sanzione chiamata a coprire quegli spazi non riservati alla pena, il sistema sarebbe dunque, a prescindere dalle etichette, sostanzialmente monistico. Da questa considerazione l'Autore fa derivare alcune conseguenze in merito ad alcuni aspetti delle misure di sicurezza che a suo parere necessitano di una modifica. Innanzitutto la misura di sicurezza si troverebbe limitata alle sole ipotesi di misure rivolte ai non imputabili, difatti quelle per imputabili perderebbero la loro giustificazione, così come quelle per i semi-imputabili. Le misure destinate ai non imputabili dovrebbero uniformarsi ad alcuni principi garantisti: avere una durata determinata nel tempo ed essere, dal punto di vista del contenuto, “plasmate” sul soggetto sul quale sono chiamate ad intervenire. E. Musco, La misura di sicurezza detentiva, op. cit., passim.

29. Si veda M. J. Falcon Y Tella e F. Falcon Y Tella, Fondamento e finalità della sanzione: diritto di punire?, Milano, Giuffrè, 2008, pp. 77-83.

30. M. Romano, G. Grasso e T. Padovani, Commentario sistematico del Codice penale. Vol III. Artt. 150-240, cit., pp. 438 e ss.

31. La Nuova Difesa Sociale è un orientamento, una corrente di pensiero che si sviluppò a partire dai primi anni del secondo dopoguerra, sulla scia dell'opera La Nouvelle Défense Sociale di Marc Ancel del 1954. Questo movimento proponeva di porre al centro della politica penale la funzione risocializzante della pena. La società, secondo questi autori, ha un preciso dovere nei confronti del soggetto che delinque: reintegrarlo nella comunità. Il sistema penale deve offrire al reo un percorso mirante a fargli sviluppare un'etica pubblica, partendo dall'assunzione di responsabilità, così da garantire il suo diritto al reinserimento. Si veda: G. Ponti e I. Merzagora Betsos, Compendio di criminologia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2008, pp. 108-109.

32. E. Musco, La misura di sicurezza detentiva, cit., p.183.

33. G. Bettiol, “ I problemi di fondo delle misure di sicurezza”, in Bettiol (a cura di), Stato di diritto e misure di sicurezza, Padova, Cedam, 1962.

34. F. Bricola, “Art. 25”, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione. Rapporti civili, Bologna, Zanichelli, 1981, pp. 303 e ss.

35. Ogni privazione della libertà personale ha di per sé un contenuto afflittivo, si veda M. Pelissero, Il doppio binario nel sistema penale italiano, cit., p. 2.

36. In questo senso si vedano: E. Musco, La misura di sicurezza detentiva, cit.; M. Romano, G. Grasso, T. Padovani, Commentario al Codice penale. Vol. III, cit., pp. 429 e ss.; F. Bricola, “Costituzione e misure di sicurezza”, in M. Cappelletto, A. Lombroso (a cura di), Carcere e società, Venezia, Marsilio Editori, 1976, pp. 37 e ss.

37. Si rinvia a: M. Niro, Misure di sicurezza e alternative all'OPG, cit.; E. Musco, La misura di sicurezza detentiva, op. cit., pp. 280 e ss.; F. Bricola, art. 25, cit., pp. 300 e ss.

38. L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo, Bari, Laterza, 1996, pp. 745-748.

39. Per le ipotesi in cui il codice prevede l'applicazione di queste misure si veda supra par. 2.3.2.

40. L. Ferrajoli, op. cit., pp. 814-818.

41. Ivi, p. 796.

42. Esistono tuttavia voci critiche che avremo modo di esaminare che propendono per l'abolizione dell'intervento penale nei confronti dei non imputabili o quanto meno per una riduzione dello stesso ad extrema ratio.

43. Sugli scandali che hanno investito l'istituzione nella metà degli anni '70 si veda cap. III par. 2.3.

44. Su quanto qui anticipato torneremo diffusamente nel corso del cap. III.

45. Si veda supra cap.I, par. 4.2.2.

46. G. Giordano, La perizia psichiatrica.

47. Ferracuti S. e Lagazzi M., “La perizia psichiatrica e medico-psicologica”, in G. Giusti (a cura di), Trattato di medicina legale e di scienze affini. Volume IV. Genetica, psichiatria forense e criminologia, medicina del lavoro, 2009, Padova, Cedam, p. 84.

48. Ivi, p. 83.

49. Ivi, p.84.

50. Si veda cap.I, par. 4.2.1.

51. G. Giordano, La perizia psichiatrica, cit.

52. T. Bandini, “Il contributo del clinico al dibattito sulla psichiatria e sugli ospedali psichiatrici giudiziari”, in O. De Leonardis, G. Gallio, D. Mauri, T. Pitch (a cura di), Curare e punire. Problemi e innovazioni nei rapporti tra psichiatria e giustizia penale, Milano, Unicopli, 1985, p. 114.

53. G. Ponti, I. Merzargora Betsos, “Imputabilità e pratiche della perizia psichiatrica”, in O. De Leonardis, G. Gallio, D. Mauri, T. Pitch, Curare e punire. Problemi e innovazioni nei rapporti tra psichiatria e giustizia penale, Milano, Unicopli, 1985, p. 81.

54. A. Manacorda, “La perizia psichiatrica: spunti critici e nodi irrisolti”, in M. G. Giannichedda e F. Ongaro Basaglia (a cura di), Psichiatria Tossicodipendenze Perizia. Ricerche su forme di tutela, diritti, modelli di servizio, Milano, Franco Angeli, 1987, p. 352.

55. Si veda cap. V, par. 1.2.1.

56. M. Strano, Manuale di criminologia clinica, Firenze, SEE editrice, 2003, p. 208.

57. T. Bandini, op. cit., pp. 117-118.

58. L. Fornari, “Misure di sicurezza e doppio binario: un declino inarrestabile?”, in Rivista italiana diritto e procedura penale, 1993, pp. 583-584.

59. E. Fungher, La pericolosità sociale nel procedimento del Tribunale di Sorveglianza. Corso di formazione in psicologia giuridica, psicopatologia e psicodiagnostica forense, Associazione Italiana di Psicologia Giuridica, 2012, p. 15.

60. Per queste riflessioni si veda cap. III, par. 2.

61. In parte era così nell'impostazione originaria del Codice penale, in quanto in determinate ipotesi, tra cui la commissione di un delitto punito con la reclusione superiore a 2 anni da parte dell'infermo di mente, la pericolosità era presunta, senza possibilità di un accertamento. Si rinvia al cap. I, par. 4.2.2.3., per quanto concerne la presunzione di pericolosità sociale e al capitolo IV, par.1 per quanto attiene le sentenze della Corte Costituzionale ed il processo di superamento della presunzione di pericolosità sociale.

62. In matematica la probabilità è un dato quantitativo che esprime un rapporto tra i modi di manifestarsi di un fenomeno favorevoli all'evento di cui si sta esprimendo la probabilità ed il numero complessivo di modi in cui questo può manifestarsi. Prendendo l'esempio, spesso utilizzato dell'estrazione di alcune palline da un'urna, possiamo chiarire così il concetto: se volessimo calcolare la probabilità di estrarre (con un solo tentativo) una pallina bianca da un'urna contenente due palline rosse ed una bianca potremmo dire che il fenomeno favorevole al manifestarsi dell'evento è l'estrazione della pallina bianca dall'urna che si esprime con il valore di 1, mentre il numero complessivo di modi di manifestarsi del fenomeno “estrazione della pallina da un'urna” sarà pari a 3 (di cui uno positivo, l'estrazione della pallina bianca e due negativi, l'estrazione di una pallina). Dunque, la probabilità dell'estrazione di una pallina bianca con un solo tentativo da un'urna contenente tre palline di cui una bianca e tre rossi di una pallina bianca, sarà data dal rapporto tra il modo di manifestarsi del fenomeno positivo al prodursi dell'evento (1) e la somma tra i modi favorevoli e quelli sfavorevoli (1+2=3): 1/3. Si rinvia a: B. Ferrara, “Appunti del corso di statistica e calcolo delle probabilità”.

63. Si veda supra cap.I, par. 4.2.2.5.

64. Con questa terminologia il codice tedesco limita la valutazione di pericolosità sociale alla prognosi di commissione di futuri fatti dotati di una certa gravità. Si veda: L. Fornari, Misure di sicurezza e doppio binario: una declino inarrestabile?, cit., p. 580.

65. Per una disamina delle contrapposte posizioni a riguardo si rinvia a S. Ferracuti e M. Lagazzi, “La perizia psichiatrica e medico-psicologica”, in G. Giusti (a cura di), Trattato di medicina legale e di scienze affini. Volume IV. Genetica, psichiatria forense e criminologia, medicina del lavoro, Padova, Cedam, 2009, pp. 88-89. Alcune osservazioni di questo genere si sono peraltro potute ascoltare per voce di alcuni psichiatri nel corso dell'incontro dal titolo “Chiude l'OPG: condivisione di paure e responsabilità”, tenutosi ad Empoli, il 4 Ottobre 2013, organizzato da Menthalia.

66. Nel 1948 l'organizzazione mondiale della sanità (OMS) definiva la salute come: “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” che non consiste “soltanto in un'assenza di malattia o di infermità”, si veda WHO, World Health Organizzation.

67. T. Padovani, “L'ospedale psichiatrico giudiziario e la tutela costituzionale della salute” in U. Breccia e F.D. Busnelli et.al., Tutela della salute e diritto privato, Milano, Giuffrè, 1978, p. 239.

68. Ivi, p. 242-243.

69. Ci sembra utile ricostruire sinteticamente la storia dei diritti riconosciuti alle persone in stato detenzione. In primo luogo occorre notare che, benché la Costituzione enunci alcuni principi quali l'inviolabilità dei diritti umani (art. 2), l'eguaglianza tra i cittadini (art. 3) ed il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27), fintanto che non è stato introdotto nel 1975 l'ordinamento penitenziario, questi principi erano produttivi di ben pochi effetti sulla dimensione pratica della condizione detentiva. Per quanto attiene più specificamente il diritto alla salute, sancito dall'art. 32 della Costituzione, occorre notare che questo si compone di una serie di diritti: quello all'integrità fisica, quello a ricevere trattamenti sanitari, quello all'autodeterminazione sanitaria e infine quello ad un ambiente salubre (G. Muraca, L'accesso ai diritti sociali dei detenuti. Aspetti giuridici e sociologici, Tesi di laurea, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli studi di Firenze, 2009, cap. II).

L'effettività della tutela di questi diritti, soprattutto del diritto a ricevere trattamenti sanitari e quello ad ambiente salubre, dipenderà molto dall'organizzazione e dalle modalità di prestazione dei servizi. A questo riguardo occorre fin da ora anticipare che la sanità penitenziaria, anche a seguito dell'istituzione del Servizio sanitario nazionale è rimasta una competenza dell'amministrazione penitenziaria, fino alla riforma della sanità penitenziaria, il cui iter ha avuto inizio nel 1999. Sulla riforma ritorneremo nel Cap. V par. 3.

70. Ivi, pp. 246 e 250.

71. Ivi, p.246.

72. Ivi, p. 248.

73. Ibid.

74. Si veda cap.III, par. 3.2.

75. Articolo 64 L. n.354 del 1975.

76. Regolamento penitenziario, R.D. 431 del 29.04.1976.

77. L. Daga, Ospedali psichiatrici giudiziari, sistema penale e sistema penitenziario, cit., p. 1-2.

78. Si rinvia alla lettura della Circolare del Ministero dell'interno del 1872 che abbiamo citato all'inizio del nostro lavoro, cap. I, par. 1.5.

79. T. Padovani, op. cit., pp. 256-258.

80. Ibid.

81. Ibid.

82. Ivi, pp.258-259.

83. Ibid.

84. Articolo 32 Costituzione.

85. T. Padovani, op. cit., p. 260.

86. Ivi, p.260.

87. Ibid.

88. Ordinanza della Corte di Appello di Genova del 30 Ottobre 1964, n. 191 del Registro ordinanze del 1964, in Giurisprudenza Costituzionale, 1965, pp. 405 e ss. Lo stesso aspetto di contrasto fu sollevato con ordinanza della Corte di Appello di Genova del 15 Luglio 1965, iscritta al n. 201 Registro ordinanze 1965, pubblicata in Giurisprudenza Costituzionale, 1965, pp. 1011 e ss.

89. Come nota, nel Commento alla sentenza n. 19 del 1966, Pace la Corte d'Appello di Genova ha probabilmente interpretato l'art. 13 nel senso della previsione di una riserva sostanziale e non meramente formale. A riguardo non si riscontra nessuno specifico chiarimento nell'ordinanza di remissione, escluso forse il richiamo all'atto motivato. A. Pace, “Misure di sicurezza e pericolosità sociale presunta”, in Giurisprudenza Costituzionale, 1966, p. 191.

90. Corte Costituzionale, sentenza del 10 Marzo 1966, n. 19, in Giurisprudenza Costituzionale, 1966, I, pp. 189 e ss.

91. Corte Costituzionale, sentenza del 9 Giugno 1967, n. 68, in Giurisprudenza Costituzionale, 1967, I, pp. 740 e ss.

92. Sentenza n. 19 del 1966, cit., pp. 196-197.

93. Ivi, pp.197-198.

94. Sentenza n. 19 del 1966.

95. A. Pace, op. cit., p. 192.

96. Ivi, p. 192.

97. Sentenza n. 68 del 1967, cit., pp. 749-750.

98. Ivi, p. 746.

99. Ivi, p. 753.

100. La questione fu sollevata per la prima volta dalle ordinanze: 1) del giudice istruttore di Siena, del 9 Novembre 1965, iscritta al n. 220 del Registro delle Ordinanze 1965, in Giurisprudenza Costituzionale, 1966, p. 447; 2) del pretore di Pieve di Cadore, del 26 Maggio 1966, iscritta al n. 129 del registro delle ordinanze 1966, in Giurisprudenza Costituzionale, 1966, p. 1306. Riunite (con le 2 ordinanze della Corte d'Appello di Genova, del 15 luglio 1965, cit., e del 16 novembre 1965, iscritta al n. 221 Registro ordinanze del 1965, in Giustizia Costituzionale, 1966, p. 448) nella sentenza n. 68 del 1967, cit.

E' stata successivamente riproposta con ordinanza del 9 settembre 1971 del giudice istruttore del Tribunale di Nuoro, iscritta al n. 465 del Registro delle Ordinanze 1971, in Giurisprudenza Costituzionale, 1972, p. 630.

La questione è stata sollevata successivamente dalle ordinanze riunite nella sentenza n. 139 del 1982, sulle quali si veda infra cap. IV par. 1.

101. Corte Costituzionale, n. 68 del 1967, cit., p. 752.

102. Ibid.

103. G. Vassalli, Le presunzioni di pericolosità sociale davanti alla Corte, Giurisprudenza Costituzionale, 1967, p.749.

104. Ibid.

105. Si ricordano a proposito le parole di Rocco nella relazione a S.M. il Re al Progetto preliminare di Codice civile, si veda a riguardo cap. II, par. 1.

106. G. Vassalli, “Ancora sulla pericolosità presunta dell'infermo totale di mente”, Giurisprudenza Costituzionale, 1972, I, pp. 1215-1216.

107. Si veda nota n. 42.

108. Sentenza n. 68 del 1967, cit., p. 746.

109. Ivi, p. 752.

110. G. Vassalli, “Le presunzioni di pericolosità sociale di fronte alla Costituzione”, Giurisprudenza Costituzionale, 1967, p. 752.

111. Ibid.

112. Ibid.

113. Ordinanza emessa il 9 settembre 1971 dal giudice istruttore del Tribunale di Nuoro, iscritta al n. 465 del registro delle ordinanze del 1971 e pubblicata in Giurisprudenza costituzionale, 1972, 630.

114. Corte costituzionale, sentenza del 15 Giugno 1972, n. 106, in Giurisprudenza Costituzionale, 1972, I, pp. 1203 e ss.

115. Corte Costituzionale, sentenza del 20 Gennaio 1971, n. 1, in Giurisprudenza Costituzionale, 1971, I, pp. 1 e ss.

116. Ordinanza del giudice di sorveglianza presso il Tribunale per i minorenni di Genova del 28 Febbraio 1969, iscritta al n. 147 del Registro delle ordinanze, in Giurisprudenza Costituzionale, 1969, p. 1431.

117. Il principio di ragionevolezza è un principio che si è sviluppato nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, a partire dall'interpretazione del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione. Se in una prima fase la Corte aveva interpretato l'art. 3 restrittivamente come mero divieto di operare discriminazioni sulla base delle situazioni oggettive elencate nell'articolo. Successivamente la Corte ha ritenuto di poter sindacare la ragionevolezza di una normativa e dunque di poterne valutare la legittimità valutando, in riferimento ad un tertium comparationis, se la disposizione oggetto del sindacato regoli una materia in modo eguale quando le condizioni sono diverse o in modo diverso quando le condizioni siano uguali. Per un esame dell'evoluzione del principio di ragionevolezza nella giurisprudenza italiana, si rinvia a: M. Fierro, “La ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale italiana”, in M. Fierro, O. Porchia e B. Randazzo (a cura di), I principi di proporzionalità e ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, anche in rapporto alla giurisprudenza delle corti europee. Quaderno predisposto in occasione dell'incontro trilaterale tra Corte Costituzionale italiana, Tribunale Costituzionale spagnolo e Corte Costituzionale portoghese, Roma, Servizio Studi Corte Costituzionale, 2013, pp. 7 e ss.

118. Sentenza n. 1 del 1971, cit., p. 9.

119. Corte costituzionale, sentenza del 15 Giugno 1972, n. 106, in Giurisprudenza Costituzionale, 1972, I, pp. 1203 e ss.

120. Ivi, p. 1206.

121. Ibid.

122. Ivi, pp. 1213 e ss.

123. F. Falzone, “Brevi note in tema di legittimità costituzionale della pericolosità presunta”, Giurisprudenza Costituzionale, 1972, I, p. 1205.

124. Ivi, p. 1206.