ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo I
Il manicomio giudiziario: l'origine della nuova istituzione

Giulia Melani, 2014

L'oggetto di questo studio è l'ospedale psichiatrico giudiziario (OPG) che riprendendo l'interessante definizione di Manacorda (1), può essere descritto come: un «luogo fisico [...] in cui è ospitata [...] una istituzione. Questa accoglie un certo numero di persone: alcuni che vi lavorano, altri che vi sono reclusi» (2). Concentrandoci sul lato dei soggetti ed in particolare quelli che vi sono reclusi, possiamo schematicamente dire che questi luoghi sono chiamati ad accogliere delle persone che sono state doppiamente etichettate come malate di mente e autrici di reato, con parole che forse possono apparire vetuste: folli e rei.

Gli attuali OPG altro non sono che la prosecuzione di quei manicomi criminali immaginati dalla Scuola Positiva a partire dagli anni '70 del XIX secolo. Esistono tre denominazioni, utilizzate in periodi e contesti storici diversi, che si riferiscono alla medesima struttura: con manicomio criminale si intende l'istituzione ideata ed elaborata dai criminologi positivisti nel corso del XIX secolo, con manicomio giudiziario ci riferiamo invece a quell'istituzione diffusasi inizialmente per prassi dopo l'apertura della prima Sezione per maniaci ad Aversa nel 1876, infine con ospedale psichiatrico giudiziario, più spesso con l'acronimo OPG, vogliamo indicare gli stessi istituti ma dopo il 1975, data in cui è entrato in vigore l'ordinamento penitenziario e la denominazione ospedale psichiatrico giudiziario ha sostituito la previgente.

Obiettivo principale di questo lavoro sarà cercare di cogliere la funzione che queste istituzioni svolgono. In questo capitolo cercheremo di ricostruirne la storia più remota, dalla loro ideazione alla consacrazione normativa con l'introduzione del Codice Rocco. Un primo paragrafo sarà dedicato ad individuare la genesi teorica dell'intervento nei confronti dei malati di mente autori di reato, ricostruiremo il dibattito tra le due scuole penali, classica e positiva, nell'ambito del quale emerse la categoria dei folli rei e il manicomio criminale, quale soluzione al problema rappresentato dalla loro pericolosità. Il dibattito sull'opportunità di questa nuova istituzione sarà inserito nel contesto storico-normativo, attraverso l'analisi della disciplina penale e di quella in materia manicomiale. Nel secondo paragrafo ci occuperemo dell'introduzione, nella prassi, dei primi manicomi giudiziari e delle critiche che seguirono. Infine, il terzo paragrafo sarà dedicato all'analisi delle teorie giuspenalistiche che condussero alla soluzione compromissoria (tra scuola classica e scuola positiva) rappresentata dal doppio binario e della disciplina prevista dal Codice Rocco del 1930.

1. L'invenzione del manicomio criminale negli anni '70 del XIX secolo: la soluzione al nuovo problema dei rei folli e dei folli rei

I manicomi criminali fanno la loro apparizione nel dibattito politico-penale italiano nel corso degli anni'70 del XIX secolo (3). La necessità di adottare queste nuove istituzioni era sostenuta soprattutto dagli esponenti della Scuola Positiva, una nuova scuola penale che si presentava con un indirizzo antitetico rispetto a quello della Scuola Classica che aveva dominato la scena del dibattito giuridico nel corso del XVIII secolo e contribuito all'elaborazione dei codici penali dei primi anni dell'Ottocento. L'opportunità di dar vita a questi speciali asili (4) era proposta come la soluzione al nuovo problema rappresentato dalla gestione della pericolosità di due categorie di devianti: i folli rei e i rei folli. Con rei folli si faceva riferimento a quei soggetti che, a seguito della commissione di un fatto reato, essendo ritenuti imputabili e colpevoli, erano stati condannati e in una fase successiva alla commissione del fatto - fosse essa precedente o meno al procedimento o alla condanna - si riteneva fossero impazziti. Con folli rei si intendevano quei soggetti che, avendo commesso il fatto in stato di «assoluta imbecillità, pazzia o morboso furore» (5), erano stati prosciolti (6).

1.1. Il dibattito giuspenalisitico tardo ottocentesco: Scuola Classica e Scuola Positiva

La Scuola Classica fondava il suo sistema penale su una specifica concezione dello Stato e dei rapporti tra questo e i cittadini/sudditi che derivava dalle teorie contrattualiste: l'uomo, in natura libero e per ciò stesso soggetto ai soprusi posti in essere dai suoi consimili, perennemente in conflitto e nell'insicurezza, rinuncia, con la stipulazione del contratto sociale, ad una parte della propria libertà al fine di poter godere di uno stato di sicurezza (7). In questo contesto, la legge svolge la funzione di garantire «il deposito della salute pubblica contro le usurpazioni particolari» (8). Il castigo risponde ad una duplice finalità: riaffermare l'autorità della legge disconosciuta dalla sua violazione (9) - funzione retributiva - e mostrare al consesso di cittadini le conseguenze certe dell'azione delittuosa, così che ogni singolo si determini a non commettere il crimine - funzione general-preventiva (10). Questa teoria presuppone che ciò che deve definirsi delitto sia qualcosa di naturale, individuabile ricorrendo alla ragione e che il castigo sia strumento efficace nella prevenzione dei delitti (11). Date queste premesse, non resta che trovare il giusto equilibrio, la giusta proporzione tra il danno cagionato dal delitto ed il castigo, così che la pena sia sufficientemente afflittiva - il costo dell'azione, rappresentato dal castigo, sia di poco superiore al beneficio prodotto (12) - senza comprimere i diritti del reo più di quanto non risulti necessario (13).

La pena così elaborata si rivolge ad un modello di uomo razionale, l'uomo illuminista, un individuo in grado, nelle sue scelte, di prevedere le conseguenze delle proprie azioni e ponderare i costi e i benefici che ne discendono, al fine di agire nel modo più conveniente. Il modello antropologico è quello di un soggetto dotato di libero arbitrio, capace e responsabile delle proprie azioni. Alla pena soggiace solo colui che è in grado di determinarsi, ne sono esclusi il folle o l'insensato, per i quali, nelle codificazioni della prima metà del XIX secolo, non si configura il reato (14). Il meccanismo è quello descritto da Foucault con la metafora della porta girevole: «quando il patologico entra in scena, la criminalità, a termini di legge, deve uscirne» (15).

Nel corso della seconda metà del XIX secolo una nuova scienza, la criminologia, aveva fatto il suo ingresso tra le scienze sociali. I criminologi avevano posto al centro del loro studio il crimine o per maggior precisione il criminale, il reato iniziava ad essere percepito come un fenomeno naturale, rispetto al quale era possibile rintracciare le cause e dunque elaborare una forma di sapere positivo, nel senso della filosofia comtiana di una ricerca funzionale a scopi pratici, di un sapere finalizzato alla previsione e dunque alla prevenzione (16). Applicando il metodo empirico-induttivo al fenomeno criminale, i criminologi iniziavano ad individuare alcune cause della condotta delittuosa (17).

Già Beccaria aveva indicato come funzione della legislazione penale quella di eliminare il crimine, funzione che si realizzava attraverso il messaggio che il castigo lanciava alla collettività, per mezzo della minaccia della sanzione (18). I criminologi positivisti ripercorrevano la strada della prevenzione del crimine, trasferendo l'attenzione dalla general-prevenzione alla special-prevenzione, dall'atto criminale all'individuo criminale. La funzione di diminuzione del crimine, aspirazione che Ferri stesso ci ricorda essere propria anche dei classici (19), non può, per gli esponenti della nuova scuola, realizzarsi attribuendo alla pena la sola funzione retributiva. Lo scopo di decrementare i delitti si raggiunge investigando sulle cause del reato. Da queste considerazioni prende avvio la critica ad uno dei capisaldi del sistema delineato dalla Scuola Classica: il libero arbitrio. Il libero arbitrio, per i positivisti, altro non era che una concezione metafisica, astratta e mai provata; sostenendo l'esistenza della libera determinazione dell'uomo con ciò stesso si è esauriva la risposta alla domanda sulle cause del crimine (20). Questa risposta appariva insufficiente. La Scuola positiva, sposando il nuovo sapere criminologico, in chiave critica rispetto alle statuizioni della Scuola Classica, costruiva il suo modello di penalità. La critica, come anticipato, era mossa in primo luogo al concetto di libero arbitrio: l'uomo non pareva libero di compiere le proprie scelte, essendo invece determinato da fattori biologici e sociali che evidenziavano quel quid di criminale che era proprio del soggetto. Il delinquente non si mostrava essere un uomo come gli altri, la sua differenza si sostanziava in un carattere criminale determinato.

Dunque la pena non si poteva fondare sull'imputabilità e sul riconoscimento della responsabilità morale delle proprie azioni. Ammettendo invece che i reati sono atti determinati da particolari condizioni biologiche e sociali, si sarebbe potuta completamente abbandonare l'idea della pena come vendetta, in favore di una pena che, allo scopo di difendere la società, sarebbe stata applicata a prescindere dalla colpevolezza dell'agente, dalla sua capacità; la responsabilità legale si sarebbe venuta a sostituire alla responsabilità morale. Il concetto di colpevolezza perdeva di importanza, in favore di quello della pericolosità sociale, la cui genesi si trova, come vedremo, in quell'intreccio tra psichiatria e giustizia che si è sviluppato a partire dal XIX secolo. La pena non doveva vendicare, non doveva affliggere o riaffermare l'autorità della norma violata, la pena era chiamata soltanto ad impedire il crimine ed eliminare il criminale, non l'individuo in sé, ma quel qualcosa di anormale che lo affliggeva.

In questo contesto, tra le varie categorie di delinquenti emergeva quella del pazzo delinquente, evoluzione del monomaniaco (21), contro la cui pericolosità la società doveva approntare meccanismi difensivi. Non contava che il soggetto non fosse compos sui al momento della commissione del fatto, rilevava piuttosto che il reato aveva dato prova della sua pericolosità. Questa idea può essere ben illustrata con la frase di uno dei maggiori esponenti della Scuola Positiva, Enrico Ferri, il quale nella sua opera, la Sociologia criminale, affermava: «Come da un secolo si ammise, contro le opinioni medievali, che la pazzia non dipende dalla nostra “libera volontà” così ora bisogna riconoscere che non ne dipende nemmeno il delitto. Delitto e pazzia sono due sventure: trattiamoli entrambi senza rancore, ma difendiamoci da entrambi» (22). Analogamente Lombroso - famoso antropologo criminale - sosteneva riguardo alla pena che questa dovesse: «prima che ad ogni altra cosa [...] avere in mira non tanto il dolore del reo, quanto il benessere della società, e non tanto il reato quanto il reo» (23). Così la pena non sarebbe dovuta essere commisurata alla gravità del fatto o al grado di colpevolezza dell'autore, quanto piuttosto alla temibilità del reo (24). La reazione dell'ordinamento al crimine avrebbe dovuto attivarsi anche nei confronti del folle. Nella ricerca eziologica delle ragioni del crimine, alle due categorie, criminale e folle, se ne aggiungevano una costellazione di altre: il delinquente nato, quello abituale, il delinquente d'occasione, quello per passione e il delinquente pazzo; ciascuna portatrice di uno specifico livello di pericolosità, ciascuna necessitante una tipologia di intervento (25). Nell'ottica positivista la pena assumeva principalmente funzione special-preventiva. Erano immaginati una serie di interventi sia ante (26) che post-delictum; tra questi ultimi ve ne erano di riformatori, che avevano in mira l'estirpazione del carattere criminale e la restituzione alla società di un soggetto “guarito” dalla propria criminalità, e di eliminativi (27).

Con questo entriamo nel vivo della soluzione offerta per la nuova categoria dei folli rei: il manicomio criminale, allo stesso tempo votato ad escludere dalla società gli irrecuperabili e a curare coloro per i quali era immaginabile una riabilitazione. La prigione non era adatta a questi individui, si reclamava l'esigenza di un intervento medico. D'altro canto i manicomi sembravano insicuri, non offrivano quelle garanzie richieste dalla pericolosità del folle, che allo stesso tempo era anche criminale. Era necessaria una struttura che avesse un carattere anche carcerario, che garantisse dal pericolo di fuga (28). Così Lombroso immaginava il manicomio criminale come una istituzione con direzione medica e personale carcerario (29).

In questo contesto si originava il progetto di quella struttura contraddittoria che ancora oggi è l'ospedale psichiatrico giudiziario, a metà tra una struttura per folli e una per delinquenti, a metà tra la cura e la custodia, tra la medicina e la giustizia, tra la colpa e la sua totale assenza. Nella prospettiva classica, il folle non commetteva reato e dunque non era soggetto ad alcun castigo, se la pena svolgeva funzione general-preventiva e si rivolgeva ad una platea di cittadini in grado di cogliere il significato della legge penale, il folle appariva irresponsabile delle proprie azioni e dunque non punibile. Costui incontrava un destino diverso: quello dei manicomi.

1.2. Dal meccanismo classico della «porta girevole» alla nuova categoria del pazzo criminale

Nel processo penale fino ad oltre la seconda metà dell'Ottocento - come ci mostra Garland - un individuo era giudicato a prescindere dalla condizione sociale o dalla sua capacità di comprendere la legge penale, per dirla con le sue parole: «[...] gli individui che apparivano di fronte alle corti, per quanto fossero incapaci, incompetenti o socialmente svantaggiati, venivano trattati come se corrispondessero al prototipo illuminista, essendo la sola categoria legale alternativa esistente a quella degli sconvolti, dei pazzi, dei non soggetti [...]» (30). Nel corso del XIX secolo apparve però una categoria, quella dei folli rei, inimmaginabile per i riformatori del XVIII secolo e non prevista dalle codificazioni dei primi anni del XIX secolo. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, i riformatori illuministi, antesignani degli esponenti della Scuola classica, avevano immaginato un sistema penale rigidamente dicotomico, dove il soggetto o era folle oppure responsabile delle proprie azioni. Per i classici dunque, non poteva aversi un soggetto al contempo pazzo e reo. Ci chiediamo come si sia potuti passare dall'ideale illuminista, dal prototipo di una penalità attenta solo al fatto, disinteressata al suo autore, da una rigida dicotomia tra uomo razionale e quindi responsabile ed insensato, ad un soggetto al contempo reo e folle. Il processo si può inquadrare entro una serie di altri processi storici che si sono avvicendati nell'epoca di affermazione dello Stato moderno: l'individualizzazione dell'istanza punitiva, l'emersione della pericolosità sociale, l'intreccio tra psichiatria e giustizia, l'affermazione di una rete carcerocentrica di istituzioni disciplinari. Prima di tutto partiamo dal processo di individualizzazione, dal mutamento di oggetto della punizione; mutamento che consiste nel passaggio da una penalità, come immaginata dai riformatori illuministi e dagli esponenti della Scuola classica, attenta al solo fatto, ad un sistema che giudica e sanziona qualcosa di diverso «istinti, passioni, anomalie, infermità, disadattamenti [...]» (31).

Come ci mostra Foucault, benché nel XVIII secolo sia ancora lontana l'elaborazione di quell'oggetto di un nuovo campo di sapere - la criminologia - costituito dall'homo criminalis (32), l'oggettivazione del criminale, base teorica per la sua futura naturalizzazione, ha origine nelle stesse teorie dei riformisti del XVIII secolo (33). Risulta cruciale infatti, lo spostamento della funzione della pena dalla vendetta sovrana, alla difesa della società e il fondamento della legge nel contratto sociale, che contribuiscono a trasferire gradualmente lo scopo della pena sino a farlo coincidere con l'impedimento della ripetizione del gesto criminale. Se impedire la ripetizione diviene il fulcro dell'intervento penale, ma soprattutto la sua misura e proporzione, la pena inizia a dover essere commisurata non più soltanto alla gravità del fatto come astrattamente configurato o all'intenzione del suo autore, ma alle qualità del soggetto che ha commesso il crimine. Al contempo la nuova economia dell'azione penale, non più una vendetta smisurata con cui il Sovrano replica il crimine, richiede, affianco al «Linneo» dei delitti e dei castighi, una regola di individualizzazione, di applicazione in concreto della legge generale, che offra una misura e un limite. L'attenzione alla recidiva e l'elaborazione della categoria del delitto passionale ci mostrano questo processo di crescente attenzione nei confronti del reo (34). Ma ancora è lontana la categoria del criminale, principale oggetto di indagine per i criminologi e gli esponenti della Scuola positiva, ancora l'individualizzazione si sviluppa sulla dinamica dell'intensità del dolo e della colpa, sulle intenzioni, le passioni e la loro comprensibilità (35). La nozione antropologica di delinquenza si sviluppa - come ci mostra Foucault - nell'intreccio di due processi storici: uno è rappresentato dall'approfondimento del tema del mostro politico, l'altro dall'affermazione della prigione, come baricentro del sistema punitivo, a discapito del variegato panorama di castighi pensato dai riformatori (36). Nella nuova economia delle pene, l'interesse diviene fondamentale unità di misura del castigo (37); ciò che conta dunque, non è più l'intenzione quanto il gioco di interessi che ha spinto l'individuo ad agire in un determinato modo e lo ha trasformato in un criminale (38). L'emergere dell'analisi sul mostro morale è fortemente legata al discorso dei riformatori: se il contratto sociale si pone a tutela degli individui e della loro sicurezza, il mostro politico (39) è al contempo interno alla società e ne minaccia l'esistenza, come non cogliesse l'importanza degli interessi collettivi e facesse prevalere una sorta di bestialità, di naturalità, concetti che appaiono, con uno sguardo a posteriori quasi precursori dell'atavismo lombrosiano (40). In Hobbes, in Rousseau, in Filangeri o in Beccaria, si può osservare la tematizzazione del criminale nemico della società, ostinatamente contrario ai valori sociali e dunque nei confronti del quale la società deve approntare una difesa peculiare (41). Il mostro è il despota, e il criminale altro non è che un piccolo despota egli stesso, incapace di far valere il più semplice principio di ragione (42). Attorno alle figure del crimine incomprensibile la psichiatria, con lo strumento della perizia farà il suo ingresso nel processo penale. Il sistema penale davanti al crimine non intellegibile, del quale non era possibile comprendere la ragione, si trovava in un corto circuito, un punto di arresto. Da un lato le codificazioni richiedono di punire ove non c'è follia, dall'altro l'economia del potere punitivo richiede la comprensione dell'interesse; in questi crimini senza ragione, in questo black out della giustizia, la perizia prende piede, la psichiatria fa il suo ingresso nel procedimento (43). In questo processo di capovolgimento, con cui il crimine diviene il sintomo di una patologia, dove la storia dell'individuo si trasforma nella premessa del crimine che commetterà, dove il criminale ben prima della commissione del reato assomiglia alla mostruosità che andrà a compiere; lì in quell'innesto, emerge il concetto di pericolosità sociale; in quella stessa congiunzione trova spazio la nuova figura del folle reo.

La perizia svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo del concetto di delinquente e in quello di individuo pericoloso, centrali nella storia che stiamo ricostruendo. Fino alla fine del XVIII secolo, la questione follia era sollevata nelle aule di giustizia solo nei casi di demenza o di furia; la nozione giuridica di follia era quella mutuata dal concetto civile di capacità, il folle era colui che non era capace e dunque non aveva responsabilità o colpa per i propri atti. Tra la fine del XVIII e i primi anni del XIX secolo la psichiatria inizia a rivendicare come proprio campo quello dei soggetti che hanno commesso un crimine grave senza apparente motivazione (44). E' questo il contesto in cui, come abbiamo visto, appare la nozione di monomania, dove il criminale ed il patologico si confondono in una zona, come la definisce Foucault dell'«infra-patologico e para-legale o del para-patologico e dell'infra-legale» (45). Dall'investigazione sui mostri nasce la categoria del pazzo-delinquente, figlia della figura del monomaniaco (46).

Abbiamo visto all'inizio come contribuisca ad un trasferimento dell'attenzione sul criminale e dunque all'emergere del concetto di folle reo, non solo l'elucubrazione sulla figura del mostro e l'ingresso della psichiatria nel procedimento, ma un ulteriore fenomeno, un fenomeno dal basso. Questo procedimento dal “basso” è quello dell'affermazione della prigione e delle altre istituzioni tecnico-disciplinari che hanno caratterizzato l'età moderna (47). Spesso ci riferiamo ai manicomi e alle carceri come istituzioni che escludono, dotate di un carattere qualificato da elementi negativi come l'allontanamento, la separazione, il rifiuto, ma il carattere qualificante di queste istituzioni, come ci mostra Foucault, è un carattere positivo. Proprio la positività, incide sulla struttura del processo penale e sulla modifica dell'istanza punitiva, l'affermazione dell'idea preventiva e soprattutto di quella special-preventiva, caratterizzata dalla volontà di incidere non più sul corpo ma sull'anima (48). Il carcere infatti nasce all'esterno dell'ordinamento penale, come misura amministrativa di controllo ed è introdotto nel sistema penale - benché non corrispondente alle teorie dei riformatori illuministi del XVIII secolo (49) - come strumento capace di operare una riforma dell'individuo che ne è assorbito. Le critiche al carcere «fabbrica di delinquenza» sono coeve alla sua affermazione, al suo ingresso nel sistema penale, eppure la prigione diviene il centro del sistema punitivo in quanto contribuisce ad una gestione proficua degli illegalismi che li differenzia, li incasella in categorie, produce la delinquenza, la oggettivizza (50). In questo processo dunque si trovano le basi fertili per la “scoperta” del criminale e di quella specie di criminale rappresentata dal folle reo.

1.3. I manicomi criminali nel panorama internazionale del XIX secolo

Illustrato il modo in cui emerge nel dibattito penale del XIX secolo la figura del pazzo delinquente, passiamo in rassegna le soluzioni che furono adottate in alcuni ordinamenti per questa nuova categoria di soggetti.

Sul finire del XIX secolo quasi tutti gli stati Occidentali presentano istituzioni rivolte alle categorie dei rei folli e dei folli rei. L'Inghilterra è il paese natale di queste istituzioni. Nel corso del XVIII secolo si pose, a seguito di attentati ad alte personalità dello Stato (51), il problema di provvedere a forme di custodia per i prosciolti ritenuti guilty but insane (52). Questi soggetti, in virtù del Vagrancy act del 1744, potevano essere sottoposti ad un regime di custodia all'interno dei manicomi oppure essere affidati alle famiglie e rimanere in stato di libertà (53). Nella prassi, anche se era prevista la possibilità di recludere nei manicomi i malati di mente pericolosi, spesso si verificava che questi fossero affidati alle famiglie (54). Nel 1786 all'interno dell'asilo di Bedlam, in Inghilterra, venne aperta una sezione destinata ad accogliere le persone che avessero commesso un delitto in stato di pazzia, nasceva così l'istituzione del manicomio criminale (55). Nel 1800 con l'Insane offender's act si determinava il regime a cui sottoporre i prosciolti folli, predisponendo per questi una stretta sorveglianza, secondo le modalità stabilite dalla Corte (56). I manicomi criminali, sono dunque un'istituzione che nasce in Inghilterra come soluzione al problema di porre un argine alla pericolosità del folle reo che, dopo il proscioglimento, era spesso rimesso in libertà. Solo in una fase successiva l'istituzione fu chiamata ad accogliere anche i detenuti che nel corso della espiazione della pena fossero stati affetti da un disturbo mentale e ritenuti pazzi (57). Al manicomio di Bedlam seguirono il manicomio criminale di Fisherton-House nel 1844 e quelli di Dudrum in Irlanda nel 1850, Perth in Scozia nel 1858 e Broadmoor in Inghilterra nel 1863 (58).

In Francia l'art. 64 del Codice penale del 1810 escludeva vi fosse crimine ogni qualvolta l'imputato lo avesse commesso in stato di demenza o sotto la spinta di una forza irresistibile. A norma della legge sui manicomi del 1838 i folli pericolosi potevano essere reclusi negli asili, così anche i prosciolti che avessero commesso un reato in stato di pazzia (59). Già pochi anni dopo l'entrata in vigore della legge del 1838 si era aperto il dibattito circa la possibilità di istituire asili speciali per i pazzi che avessero commesso un delitto, in quanto questi soggetti erano ritenuti particolarmente pericolosi e dunque la loro presenza costituiva un potenziale rischio per gli altri pazienti (60). Nel 1876 l'idea di un istituto speciale per folli rei si concretizzava con l'apertura di una sezione speciale per alienati criminali ed epilettici presso la prigione centrale di Gaillon (61). Analogamente altri paesi europei a partire dagli anni '70 del XIX secolo provvidero ad istituire sezioni speciali nei manicomi comuni, così l'Olanda (62). Diversamente, in Germania, tra il 1870 e il 1875 furono aperte apposite sezioni all'interno delle carceri a cui dovevano essere destinati soltanto i rei folli: a Bruchsal, Halle ed Amburgo (63). Anche oltre oceano negli Stati Uniti d'America ed in Canada a partire dalla metà del XIX secolo fu adottata una legislazione per i folli criminali e fu prevista la loro reclusione presso apposite istituzioni, così nel 1855 ad Auburn, nello Stato di New York, fu aperto il primo asilo speciale a cui fecero seguito analoghe strutture nel Massachusetts e in Pennsylvania; similarmente in Canada, nel 1877, fu aperto il primo manicomio criminale (64).

1.4. Il contesto normativo italiano: il codice penale sardo del 1859 e la mancanza di una legge unitaria in materia manicomiale

Come abbiamo anticipato, nel corso degli anni '70 del XIX secolo il manicomio criminale diviene questione ampiamente dibattuta nel contesto nazionale. In questo paragrafo vorremmo chiarire quale fosse il contesto normativo che fece da sfondo al dibattito che andremo a delineare. Innanzitutto l'Italia era unita da quasi dieci anni e in tutti i campi e i settori si era posta l'esigenza di un'uniformazione normativa che, peraltro, costituiva l'occasione per aprire una discussione sui più svariati temi. Trattando il nostro lavoro di soggetti che sono al contempo ritenuti pazzi e criminali, ci interessano due settori normativi: il codice penale e le leggi sui manicomi (65).

Per quanto riguarda il primo, occorre osservare che in quegli anni non esisteva un codice penale unitario. A quasi tutta la penisola era stato esteso il Codice penale sardo del 1859, ma continuavano a fare eccezione: le regioni del sud Italia, alle quali veniva applicato il codice sardo ma con alcune speciali modifiche e l'area del Granducato di Toscana, dove rimaneva in vigore il codice penale toscano del 1853 (66).

Prendiamo in esame quanto era disposto in materia di responsabilità, imputabilità e conseguenze del proscioglimento dell'incapace dal Codice penale sardo del 1859, che comunque era vigente nella maggior parte del territorio dello stato italiano.

Cerchiamo innanzitutto di chiarire cosa fosse stabilito in materia di responsabilità dell'autore di reato che avesse commesso un delitto in una condizione di accertata follia. In queste ipotesi, ovvero nei casi di commissione di un reato in condizioni di «assoluta imbecillità, pazzia o morboso furore» (67), era esclusa la configurazione di un reato, dunque nei confronti dell'imputato era emesso un verdetto di proscioglimento. Lo stesso codice prevedeva anche una forma di responsabilità intermedia: i soggetti che si fossero trovati a compiere il delitto in uno stato di imbecillità, pazzia o morboso furore ad un grado tale da non escludere completamente l'imputabilità dell'azione, sarebbero stati condannati alla pena della reclusione fino ad un massimo di anni 10 e della custodia fino ad un massimo di 20 (68).

Secondo aspetto da prendere in esame è quello relativo alle conseguenze di un verdetto di proscioglimento ai sensi dell'art. 94 del codice penale sardo. A tal riguardo il codice non disponeva niente, semplicemente, colui che era stato ritenuto versare in una delle condizioni suesposte al momento della commissione del fatto, oppure aver agito in virtù di una forza irresistibile, fuoriusciva dal circuito penale. Dunque il non imputabile era lasciato in libertà. Negli anni '70 del XIX secolo il detenuto impazzito scontava la sua pena all'interno degli istituti ordinari. Per quanto concerne invece il folle reo, le possibilità possono così sintetizzarsi: dato che al proscioglimento non faceva seguito un particolare provvedimento, di norma il soggetto era rimesso in libertà; poteva però accadere che l'autorità amministrativa disponesse il ricovero in un asilo, ai sensi delle leggi che in ciascuna Regione regolavano la materia del ricovero in manicomio. Questa possibilità, solo eventuale, era la stessa che per qualsiasi altro alienato e questa procedura non era in alcun modo conseguenza diretta del processo penale.

Analizzando la situazione normativa di altri paesi europei, abbiamo visto come alcuni avessero provveduto ad istituire manicomi criminali senza modificare la legislazione penale (69), ma attraverso la legge in materia psichiatrica. E' pertanto necessario domandarsi se anche nell'Italia post-unitaria si fece ricorso alla normativa sui manicomi civili (70) per la gestione dei folli rei. Nella seconda metà del XIX secolo, ancora non esisteva una normativa unitaria, mentre la Francia aveva regolamentato i propri asili fino dal 1838, in Italia si dovranno attendere gli inizi del XX secolo prima di vedere approvata la “legge sui manicomi e gli alienati”, cosiddetta Giolitti, del 1904 (71). Vari progetti di legge si susseguirono tra la metà dell'800 e i primi anni del XX secolo. I progetti regolamentavano: le procedure di ingresso e di dimissione, la ripartizione delle spese per il mantenimento dei ricoverati indigenti, le modalità di vigilanza sulla gestione interna dei manicomi (72). In particolare i progetti erano tesi a disciplinare le procedure relative agli ingressi coattivi, sì da ricercare un equilibrio tra le esigenze di igiene e sicurezza pubblica e le idonee garanzie per la libertà di questi soggetti, al fine di riparare da forme di reclusione ampiamente arbitrarie.

Alcuni dei progetti facevano riferimento anche ai manicomi criminali. Il progetto Nicotera del 1877, ad esempio, prevedeva alcuni comparti speciali che sarebbero dovuti essere presenti in ciascun manicomio, tra cui una sezione per alienati criminali inviati in manicomio in osservazione (73). Nel progetto Nicotera, sebbene si introducessero sezioni criminali all'interno dei manicomi civili non si contemplava il ricovero in queste strutture anche dei prosciolti folli (74). Nel 1881 Depretis, allora Ministro dell'Interno, presentò un nuovo progetto di legge manicomiale. L'intento di istituire i manicomi criminali appariva dal titolo stesso del Progetto (“Sugli alienati e sui manicomi pubblici, privati e criminali”) (75). Il ricovero nei manicomi giudiziari era statuito non solo per coloro che fossero impazziti nel corso della detenzione ma anche per i folli rei. Questi ultimi avrebbero potuto esservi ricoverati con ordine del tribunale, qualora, sentiti almeno due alienisti, ne fosse risultata la pericolosità sociale (76). Il progetto fu apprezzato dai positivisti al punto che Lombroso manifestò il suo favore nei confronti di un proposta ritenuta di «buonsenso» (77); lo stesso progetto era lodato da Lucchini che, nella sua Rivista Penale, manifestò un parere positivo, in particolare con riguardo alla netta divisione tra queste misure e la pena (78). La misura del ricovero in manicomi giudiziari, nel progetto Depretis, sarebbe restata fuori dal codice penale, ove trovavano disciplina le sole misure repressive; allo stesso tempo, attraverso la reclusione dei prosciolti, si sarebbe garantita la società dal pericolo di lasciare in libertà i soggetti reputati pericolosi (79).

1.5. Le ragioni dei sostenitori del manicomio criminale: custodire i pericolosi, curare i folli, liberare le carceri dai soggetti più difficili

Nel contesto appena delineato alcuni criminologi, psichiatri e giuristi (soprattutto tra le file della Scuola Positiva) rilevavano l'insufficienza, rispetto ai rei folli e ai folli rei, delle istituzioni chiamate ad occuparsi rispettivamente dei pazzi e dei delinquenti: i manicomi e le carceri. La presenza di queste categorie di individui nelle prigioni, rappresentava, per Lombroso, un duplice rischio: rischiava infatti di ingenerare disordini e di danneggiare la disciplina delle case di pena e metteva in pericolo la salute stessa di questi folli, malati che non potevano trovare nel carcere né cura né disciplina idonee al loro stato (80). Del resto, ospitarli nei manicomi comuni poteva generare inconvenienti non meno gravosi: sempre Lombroso sosteneva che questi individui fossero in grado di sconvolgere lo stato di salute e la morale dei poveri pazzerelli comuni che si lasciano spesso influenzare da personalità più forti (81). Difatti il criminologo positivista affermava che i pazzi criminali: «si fanno apostoli di sodomie, di fughe, di ribellioni, di furti a danno dello stabilimento e degli ammalati stessi, a cui coi loro modi osceni e selvaggi, e colla triste nomea che li precede, destano spesso paura e ribrezzo, come li desta nei congiunti il sapere accomunati con essi i propri cari» (82).

Ma la presenza di pazzi criminali nei manicomi comuni non metteva a rischio soltanto l'equilibrio interno di queste strutture, ma esponeva al pericolo l'intera società, stando che «I [...] manicomî sono spesso mal sicuri: sprovvisti, molti, di celle di forza e perfino di celle d'isolamento» (83). Molti dei pazzi criminali, a detta dello stesso autore, erano abili simulatori, in grado di fingere un periodo di calma, e spesso questo causava delle liberazioni improvvide con delinquenti pazzi messi in grado di nuocere e commettere nuovi reati. Non era neanche inusuale - secondo lo studioso - la finzione di pazzia per sfuggire alla pena, finzione che sarebbe stata facilmente evitata predisponendo una misura di ricovero perpetuo in strutture apposite dei pazzi criminali. Altro rischio era costituito dal gran numero di pazzi criminali in libertà che mettevano in pericolo l'intero corpo sociale (84).

Le ragioni della Scuola Positiva erano sostenute anche da un buon numero di psichiatri (85). Tamburini ad esempio riteneva fosse una necessità primaria quella di istituire queste strutture, soprattutto al fine di sottrarre dai manicomi comuni i soggetti più pericolosi (86). Finora ci siamo riferiti indifferentemente ai folli rei e ai rei folli, ma nel dibattito di quegli anni, mentre era abbastanza condivisa l'opinione dei positivisti riguardo ai pazzi condannati, il vero terreno di scontro appariva quello relativo alle soluzioni da approntare nei confronti dei prosciolti folli. Così tra gli psichiatri, Biffi e Bonacossa si mostravano favorevoli all'istituzione di manicomi criminali, nei quali però, dovevano trovare ospitalità solo i condannati impazziti; per i folli rei di contro, sarebbe stato sufficiente il ricovero in manicomi ordinari (87). Dal punto di vista governativo, il Ministero dell'Interno (88) si mostrava aperto alla possibilità di introdurre istituti speciali per i delinquenti pazzi, soprattutto al fine di sottrarli ai penitenziari; in una circolare inviata ai direttori dei manicomi per il tramite delle prefetture nel 1872, giustificava l'intenzione di aprire una casa di cura per delinquenti alienati o furiosi o melanconici, con le seguenti parole: «All'evenienza di qualche fatto che recar potesse dispiacevoli conseguenze per l'ordine, la disciplina, lo stato igienico e la sicurezza interna delle case penali del Regno [...]» (89).

Nel tentativo di riassumere le posizioni favorevoli alla destinazione dei rei folli ad apposite strutture, possiamo così suddividerle: dal lato governativo si sosteneva la necessità di sottrarre questi detenuti dalle case penali ordinarie ove creavano disordini, dal lato psichiatrico era condivisa l'opinione secondo la quale questi soggetti non potevano scontare la loro pena nelle prigioni, ove era completamente assente un aspetto terapeutico, e dai manicomi, ove per la loro pericolosità mettevano a rischio la salute e la vita stessa degli altri ospiti. La destinazione dei detenuti impazziti in appositi istituti, supportata da ragioni di carattere squisitamente pratico (90), trovava un consenso sufficientemente esteso (91). Di contro la scelta di inviare presso questi manicomi i prosciolti che avevano commesso in stato di pazzia i loro delitti, coinvolgeva, come abbiamo visto, questioni di fondo sulla funzione stessa della pena e la legittimazione dell'intervento punitivo, apparendo più controversa. Su questa seconda questione i parlamentari, in gran parte liberali, si mostravano riottosi (92) e l'argomento costituiva uno dei nodi centrali del dibattito tra le due Scuole del diritto penale.

2. L'istituzione dei manicomi giudiziari in Italia

A partire dagli anni '70 del XIX secolo furono inaugurati i primi manicomi giudiziari italiani. Questi nascevano nel contesto normativo già delineato, come istituti di pena speciali presso i quali inviare i detenuti impazziti. Nei decenni successivi furono approvate alcune importanti riforme: nel 1889 vide la luce il Codice penale Zanardelli, due anni dopo fu approvato il regolamento generale delle carceri e a queste riforme seguì - nei primi anni del XX secolo - la legge sui manicomi e gli alienati. Le modifiche normative consentirono di estendere l'accesso al manicomio giudiziario anche ai prosciolti folli ma la mancanza di una disciplina legislativa unitaria, spinse molti autori, anche tra i fautori delle istituzioni psichiatrico-giudiziarie a criticarne la realizzazione.

2.1. L'apertura delle prime strutture psichiatrico-giudiziarie come istituti di pena speciali

Nel 1876 con un atto amministrativo, il direttore generale della carceri Martino Beltrani Scalia, istituiva, presso la casa penale per invalidi di Aversa, diretta all'epoca dal medico Gaspare Virgilio, una sezione per maniaci alla quale venivano, con lo stesso atto destinati, diciannove detenuti impazziti (93). Nasceva così, in assenza di una disciplina legislativa, il primo manicomio giudiziario italiano. Il Codice penale vigente era ancora quello sardo del 1859, dunque per i prosciolti folli non era disposto nessun particolare provvedimento. La sezione per maniaci nasceva per ospitare, tra le due categorie di cui abbiamo parlato fin dall'inizio, solo i rei-folli ed era istituita con un provvedimento del Direttore delle Carceri, come istituto speciale di pena (94). La sezione per maniaci di Aversa rimase per alcuni anni l'unica struttura del genere sul territorio nazionale. Questa si presentava insufficiente ad accogliere i detenuti impazziti provenienti da tutto il Regno e soprattutto il costo dei trasferimenti dal Centro e dal Nord Italia rappresentava un ostacolo alla destinazione di questi soggetti alla sezione di Aversa; così fu proposta l'istituzione di un manicomio giudiziario da collocare nelle aree del centro Italia, in una zona che fosse salubre e isolata, in modo da non creare fastidi agli abitanti del luogo. (95) Nel 1884 fu affidato l'incarico a Leopoldo Conticelli di individuare il luogo migliore ove situare la nuova struttura ed elaborare il progetto. Nel 1886 fu inaugurato a Montelupo Fiorentino, nell'edificio della Villa Medicea, il primo vero e proprio manicomio giudiziario (96).

2.2. I mutamenti normativi

2.2.1. Il Codice penale Zanardelli del 1889

Mentre era già stata istituita una sezione per maniaci e un manicomio giudiziario e il dibattito sui manicomi criminali era all'ordine del giorno, a seguito di oltre 20 anni di discussioni e di un gran numero di progetti (97), nel 1889 venne promulgato il nuovo Codice penale, noto come Codice Zanardelli, dal nome dell'allora Guardasigilli. Il nuovo Codice, in ossequio all'impostazione della scuola classica, mantenne la distinzione tra imputabili e non imputabili; inoltre conservò un'ipotesi di responsabilità intermedia. Ai concetti di «demenza, pazzia e morboso furore» fu sostituita una valutazione circa «la coscienza e libertà dei propri atti» (98). La discussione sulla definizione del concetto di imputabilità fu oggetto di un ampio dibattito: al modello scelto si contrapponeva quello del Codice previgente (99). L'elencazione degli stati nei quali era esclusa l'imputabilità, secondo il modello francese, lasciava un minore spazio di valutazione, mentre il riferimento ai concetti di coscienza e libertà dei propri atti, non circoscriveva a situazioni predeterminate, a categorie prefissate la valutazione circa l'imputabilità (100). Il nuovo codice conservava un'ipotesi di semi-imputabilità, definita anch'essa in termini di coscienza e libertà dei propri atti.

Un'importante novità era prevista sul piano degli effetti della dichiarazione di non imputabilità dell'autore di reato. Il non imputabile, ai sensi dell'art. 46, così come nel sistema previgente, non sarebbe stato sottoposto a sanzione. Il codice del 1859 non disponeva altro riguardo alle sorti del prosciolto folle; il Codice Zanardelli, diversamente, introduceva la possibilità per il giudice di disporre la consegna all'autorità competente per i provvedimenti di legge (101). Requisito perché il giudice potesse agire in questo senso, era rappresentato dalla “pericolosità della liberazione”.

Le disposizioni attuative, agli articoli 13 e 14, chiarivano quale fosse l'autorità competente e quali provvedimenti questa potesse adottare. L'autorità competente era il Presidente del Tribunale civile. In una prima fase la Corte d'Assise disponeva la consegna del prosciolto all'autorità di pubblica sicurezza (102). Quest'ultima provvedeva al ricovero in osservazione in un manicomio (103). A seguito di questo e al netto delle risultanze dell'osservazione, il Presidente del Tribunale adottava, su istanza del Pubblico Ministero, la decisione definitiva (104). Le decisioni che il Presidente del Tribunale poteva prendere erano sostanzialmente tre: qualora dall'osservazione si fosse desunta la non pericolosità della liberazione del soggetto, il Presidente del Tribunale avrebbe disposto la messa in libertà del prosciolto. Nell'ipotesi invece del riscontro di una pericolosità si aprivano due possibili strade: la prima era quella del ricovero definitivo in manicomio, la seconda l'affidamento in custodia ad un familiare che si assumesse la responsabilità e offrisse idonee garanzie (105).

L'art 46 del Codice Zanardelli era stato il frutto di un ampio dibattito parlamentare e in una certa misura di un compromesso. Il primo progetto Zanardelli, introduceva due elementi innovativi epurati nella versione definitiva. Da un lato infatti il progetto del codice penale del 1887, all'art. 47 faceva espresso riferimento ai manicomi criminali, che a seguito dei provvedimenti amministrativi di Beltrani Scalia - quello del 1876 con cui era stata aperta la sezione per maniaci di Aversa e quello del 1886 che aveva dato luogo all'apertura del manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino - erano ormai una realtà. D'altro canto, l'art 47 del progetto introduceva la possibilità per il giudice del dibattimento di disporre nei confronti del prosciolto il ricovero in un manicomio giudiziario (106). Zanardelli non era certo un Ministro vicino a posizioni positiviste, peraltro si avvalse nella redazione del nuovo codice della consulenza di Lucchini, fondatore della Rivista penale e acerrimo critico delle posizioni della Scuola Positiva (107). La posizione di Zanardelli, favorevole all'introduzione nel Codice del manicomio giudiziario, appariva motivata da ragioni di garanzia. Il Ministro riteneva infatti che la decisione giudiziale costituisse una maggior tutela per il prosciolto; non si riteneva che la regolamentazione nel codice penale delle modalità di invio ai manicomi giudiziari, intaccasse la funzione della pena come elaborata dal modello classico-liberale. Il ricovero in manicomio giudiziario, benché disposto dalla medesima autorità giudicante, era da ritenersi misura distinta dalla pena e rispondente a funzioni diverse. Questa impostazione trovò le resistenze della Camera che la considerava un'inaccettabile cessione alle istanze che provenivano dai criminologi positivisti (108). La disposizione dell'art. 46, nella sua versione definitiva, non impedirà comunque, come vedremo, la destinazione anche dei prosciolti folli ai nuovi manicomi giudiziari.

2.2.2. Il regolamento generale delle carceri

Il 1º Febbraio del 1891 fu emanato il Regolamento generale per gli stabilimenti carcerari, R.D. n. 260 del 1891. Il Regolamento fu il primo atto a disciplinare i manicomi giudiziari (109) e, in assenza di una legge, fu anche il primo a prevedere la possibilità dell'invio in queste strutture dei folli rei. I manicomi giudiziari venivano classificati tra gli stabilimenti di pena speciali (art. 4) e ad essi era attribuita funzione di repressione e cura dei condannati impazziti (art. 469). I soggetti che potevano essere ospitati in questi speciali asili, oltre ai detenuti folli, erano: gli accusati che, supposti folli, erano stati inviati in manicomio in stato di osservazione, i quali potevano essere spostati in queste strutture (art. 472); gli inquisiti che avessero dato segno di follia (art. 473); e infine i prosciolti folli per i quali il giudice civile avesse ordinato il ricovero in manicomio, che potevano essere trasferiti in sezioni apposite dei manicomi criminali, con decreto del ministero dell'interno, su proposta dell'autorità di pubblica sicurezza (art. 471).

Con il regolamento, questi speciali asili furono inseriti tra gli stabilimenti di pena, un elemento questo, in contraddizione rispetto alla possibilità di inviarvi i prosciolti che, in quanto non imputabili, non erano destinati ad espiare alcuna pena. Per mezzo delle nuove disposizioni del Regolamento generale delle carceri dunque, i folli rei sarebbero potuti essere inoltrati ai manicomi giudiziari a seguito del proscioglimento, nonostante questo il ricorso alle nuove strutture per questa categoria di soggetti, come testimonia Lombroso, era ancora poco frequente. Nel 1891 quando Lombroso si recò in visita ad Aversa e a Montelupo lamentò il basso numero di prosciolti che vi aveva trovato (110). I manicomi giudiziari per il momento erano solo due, l'anno seguente ne sarebbe stato aperto un terzo a Reggio Emilia. I Presidenti dei Tribunali civili tendevano ad inviare i prosciolti pericolosi presso i manicomi comuni; inoltre l'art. 14 delle disposizioni attuative ancora consentiva al Presidente del Tribunale civile di prendere in considerazione, anche in caso di pericolosità della liberazione, l'affidamento in custodia presso la famiglia. I manicomi giudiziari erano al bivio di quella che Ferri definì «un'esistenza mezza legale, mezza no» (111). Il Regolamento delle carceri era sicuramente viziato in quanto il Governo aveva avuto delega per il «riordinamento dei fabbricati carcerari per l'applicazione del nuovo codice penale» (112) ed il decreto, per stessa ammissione di Beltrani Scalia, andava ben oltre la delega ricevuta (113). Ma questo non appariva il maggiore dei problemi. L'intreccio tra disposizioni codicistiche e regolamentari aveva aperto alla possibilità di ricoverare nelle nuove istituzioni anche i folli rei, ma nella pratica questa appariva ancora una soluzione residuale.

In quasi tutti i paesi europei nella seconda metà del XIX secolo furono creati istituti dedicati alla cura e la custodia dei malati di mente autori di reato. In alcuni paesi furono aperte, analogamente al caso italiano, delle sezioni all'interno degli istituti di pena alle quali destinare principalmente i rei folli, mentre in altri Stati fu prediletto il ricorso a sezioni speciali dei manicomi. Il modello della gestione amministrativa era quello più diffuso: i folli che commettevano un atto criminale fuoriuscivano dalla sfera penale ed entravano, direttamente o passando per un'altra decisione di un altro organo giurisdizionale o amministrativo, in un circuito estraneo per finalità e funzioni a quello penale (114).

Nei primi decenni del XX secolo i manicomi giudiziari si trovavano nella condizione di essere scarsamente regolamentati ed essere inseriti tra gli istituti di pena, benché fra i loro ospiti si trovassero dei prosciolti, la chiave di volta poteva essere rappresentata dalla legge che andava ad unificare le normative locali in materia di asili.

2.3. Le critiche ai manicomi giudiziari da parte degli esponenti della Scuola Positiva

A cavallo tra XIX e XX secolo i manicomi giudiziari furono istituiti ma non si attardarono le critiche anche da parte di coloro che li avevano immaginati e ne avevano a gran voce richiesto l'apertura. In particolare gli esponenti della Scuola Positiva, se salutavano con favore le nuove istituzioni, si scagliavano contro due aspetti: la regolamentazione scarsa che dava luogo ad un ricorso sporadico a tale istituzione e da un punto di vista pratico-gestionale, la grande distanza tra le strutture esistenti e quanto da loro immaginato.

Nel 1889 Enrico Ferri si recò a visitare il nuovo manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino. Nel complesso rimase entusiasta della nuova istituzione che però era suscettibile di alcuni miglioramenti. In particolare - il giurista notava - come la normativa carente in materia producesse non pochi effetti (negativi) anche dal punto di vista pratico. La critica alle disposizioni del Codice penale aveva origine da considerazioni teoriche: infatti - secondo Ferri - data la differenza che la scienza positiva aveva mostrato sussistere tra i pazzi comuni e i pazzi delinquenti, non era ammissibile sottoporre questi ultimi al regime amministrativo, dovendo piuttosto riservare loro un trattamento che rientrasse nella sfera penale (115). Essendosi infatti macchiati di crimini, a detta dell'insigne positivista, non trovava alcuna giustificazione, se non in principi “spiritualisti”, la sottrazione dei colpevoli al diritto penale. La mancata soggezione alle leggi penali, in secondo luogo, produceva l'effetto di non consentire di ricoverare in queste strutture anche la terza categoria di soggetti (oltre a quella dei giudicabili e dei condannati che già vi si trovavano), quella dei prosciolti, i quali secondo Ferri avevano il diritto di non essere sottoposti allo stesso trattamento del delinquente non pazzo ma altresì, dovevano essere sottoposti ad un trattamento diversificato da quello previsto per i folli comuni (116). Dalla mancata recezione legislativa, Ferri faceva derivare anche un'altra conseguenza, a suo avviso nefasta: i condannati restavano nei manicomi giudiziari solo per il tempo della pena da espiare. Questo aspetto appariva in contrasto con la funzione che, per gli esponenti della Scuola Positiva, queste istituzioni erano chiamate a svolgere: se infatti, la funzione era di carattere difensivo e lato sensu terapeutico, non si riusciva a cogliere la ragione di una sua durata predeterminata. L'Autore notava l'incongruenza di questa modalità, chiarendo il suo pensiero con il ricorso ad una metafora che potesse rendere l'idea, la metafora di un dottore che prima di iniziare la cura stabilisca la durata del ricovero di un soggetto malato, una data fissa che non tenga in considerazione il progredire delle condizioni di salute e l'effettività della guarigione. Come accennato all'inizio, la mancata regolamentazione produceva per Ferri anche inconvenienti di carattere pratico; tra gli altri il fatto che gli alienisti che si trovano a dirigere queste strutture per la parte medica, non essendo inquadrati, rischiavano di preferire impieghi meno impegnativi e più degnamente remunerati (117).

Le critiche erano rivolte, non solo alle condizioni di attuazione della normativa, ma anche alle situazioni in cui nella pratica venivano a trovarsi gli internati nel manicomio giudiziario. Prima di cogliere queste critiche è necessario capire come i manicomi criminali avrebbero dovuto essere nell'immaginario dei positivisti che avevano condotto il dibattito per la loro introduzione nell'ordinamento. Partendo dall'elemento soggettivo, potremmo innanzitutto notare come, per i positivisti, nelle strutture avrebbero dovuto trovarsi: i rei folli, con essi volendo comprendere, sia i detenuti impazziti, sia i giudicabili e i folli rei. Abbiamo già avuto modo di constatare come per Ferri uno degli aspetti più critici del manicomio giudiziario (nel 1888) fosse la mancanza della terza categoria tra quelle che vi erano ospitate. Per Lombroso, all'interno dei manicomi criminali avrebbero dovuto essere presenti i seguenti soggetti:

  1. Tutti i carcerati impazziti con tendenze pericolose;
  2. Tutti gli alienati sottoposti a inquisizione giudiziaria sospesa per la riconosciuta alienazione;
  3. Tutti gli imputati di crimini strani, senza un movente chiaro;
  4. Quanti commisero i reati in istato d'epilessia psichica;
  5. Quelli che furono spinti al delitto da un'abituale, evidente, infermità (118).

Dunque la critica dei positivisti ai manicomi criminali della fine del XIX secolo, in relazione ai soggetti che vi si trovavano reclusi, si articolava principalmente sul fatto che ben pochi di questi fossero folli rei. Fino all'introduzione del Regolamento delle carceri del 1891, come abbiamo visto, questa categoria non rientrava tra quelle che potevano trovare nei manicomi giudiziari qualche ospitalità. Dopo l'introduzione del Regolamento nel 1891, la situazione non appariva radicalmente mutata, il regolamento consentiva al giudice civile, competente per il giudizio di cui all'art. 46 del Codice penale, di inviare in manicomio giudiziario il prosciolto folle, ma nella pratica si riscontrava un ricorso assai scarso alla misura, che era nata nell'orizzonte penitenziario, con funzione - come la definisce Daga - ad esso servente (119) e per molto tempo rimase intrappolata in quello stesso orizzonte. I manicomi criminali, all'inizio del XX secolo erano ancora tre: la Sezione per maniaci di Aversa, il manicomio giudiziario di Montelupo e quello inaugurato nel 1892 a Reggio Emilia, dunque insufficienti per ospitare tutti i prosciolti che avrebbero potuto esservi destinati. Peraltro i prosciolti apparivano la categoria per la quale il ricovero in queste strutture era maggiormente necessario: troppo spesso infatti erano lasciati in libertà e troppo spesso, secondo Lombroso, messi nelle condizioni di compiere altri delitti (120). La critica relativa alle categorie di internati non si esauriva in questo singolo aspetto. Lombroso si scagliava anche contro la tendenza a non riconoscere la pazzia nelle sue manifestazioni delittuose. Secondo lo studioso si riscontravano molteplici casi in cui la follia non era riconosciuta nella fase del procedimento, con conseguente condanna ed espiazione della pena ordinaria in luogo del manicomio criminale. Per questo, secondo l'Autore, tutti gli imputati di crimini strani avrebbero dovuto trovare accoglienza in queste strutture che garantivano la società da future condotte pericolose ed assicuravano un trattamento adeguato all'infermo (121).

Riguardo ai soggetti che avrebbero dovuto lavorare in queste strutture, Lombroso immaginava un'istituzione con direzione medica e personale carcerario (122). Dal Regolamento delle carceri del 1891, risultava che questi istituti di detenzione speciale fossero retti da un direttore amministrativo, con ampi poteri, coadiuvato da un direttore medico alienista, al quale era affidato il compito, assieme al giudice civile, di stabilire quando fossero cessate le condizioni per la detenzione (123). Riguardo al personale impiegato e alla struttura direttiva, i positivisti guardavano con plauso il ruolo attribuito al medico alienista, proponendo però alcuni correttivi. Ferri, nel già citato resoconto della visita a Montelupo, avanzava proposte per alcuni miglioramenti della struttura: a suo dire, ad esempio, alle guardie si sarebbero dovuti sostituire infermieri (124).

Per quanto riguarda il funzionamento delle istituzioni, i pazienti sarebbero dovuti essere divisi in piccoli gruppi, la disciplina sarebbe dovuta essere severa, ma il lavoro e lo stile di vita adeguati alla condizione di questi soggetti. (125) I manicomi criminali del XIX secolo presentavano direzione amministrativa e la vita all'interno era regolata come nelle carceri. Il direttore del manicomio di Aversa - in una relazione del 1900 - si lamentava delle condizioni in cui gli istituti si trovavano, soprattutto per la somiglianza alle galere, sostenendo che: «il trattamento alimentare è uguale a quello delle carceri, i giacigli sono gli stessi che si accordano ai detenuti, la disciplina, se non è più rigorosa, non è certo informata e subordinata alle speciali condizioni dei reclusi [...]» (126). Ma ciò che maggiormente infastidiva il Direttore era la mancanza di idonei mezzi terapeutici «indispensabili al trattamento degli psicopatici; difetto che, peraltro non reca altrimenti meraviglia, quando si sappia che la direzione di questi particolari istituti è disimpegnata ad un profano di psichiatria» (127). Nei manicomi criminali non si riscontrava alcuna peculiarità, questi si profilavano solo come «pessime carceri» (128). Tanto che Lombroso nel 1900 dichiarerà criticamente che in Italia si applicano “pene ai pazzi” (129) ed appellerà con l'aggettivo “medioevale” il sistema penale (130).

3. I manicomi giudiziari all'inizio del XX secolo

All'inizio del XX secolo in Italia erano presenti tre manicomi giudiziari, quello di Aversa, quello di Montelupo Fiorentino e quello inaugurato a Reggio Emilia nel 1892. Soltanto negli anni '20 a queste strutture se ne aggiungeranno altre due: una a Napoli aperta nel 1923, l'altra a Barcellona Pozzo di Gotto nel 1925 (131). Il dibattito su queste strutture e sulla necessità di una regolamentazione per via legislativa rimaneva aperto e si prospettava un loro inquadramento in un codice penale plasmato sull'idea positivista della responsabilità legale. Nel frattempo, nei primissimi anni del '900, l'attesa normativa in materia manicomiale era stata promulgata, non incidendo però, come vedremo, sulla realtà degli istituti psichiatrico giudiziari.

3.1. La legge manicomiale del 1904

Nel 1904 fu approvata la prima legge manicomiale, su disegno di legge presentato da Giolitti. La legge cosiddetta Giolitti constava di pochissimi articoli e rinviava a regolamento buona parte della disciplina (132). I manicomi giudiziari non vi trovavano apposita regolamentazione. A queste strutture si faceva riferimento nel solo art. 6 relativo alla ripartizione delle spese, che al secondo comma stabiliva - in deroga alla norma generale - che le spese per gli alienati condannati o giudicabili, ricoverati in manicomi giudiziari o sezioni speciali dei manicomi ordinari, fossero a carico dello Stato, fino all'espiazione della pena per i condannati, fino al giorno in cui l'autorità avesse dichiarato il non luogo a procedere per i giudicabili (133). Questa deroga però, non valeva per coloro che fossero stati inviati nei manicomi giudiziari perché prosciolti folli e pericolosi ai sensi dell'art. 46 del Codice penale. In questa ipotesi, le spese per il mantenimento dei prosciolti rimanevano a carico delle province, così come quelle per i comuni alienati e non a carico dello Stato, come per i condannati o i giudicabili; mentre quelle per il trasporto, spettavano ai comuni (134). Questa disposizione era l'unica che facesse espresso riferimento alla realtà dei manicomi giudiziari e non fu comunque esente da critiche. Tamburini rilevava come, con un inciso apparentemente indifferente, fosse stato favorito l'invio dei prosciolti in manicomi comuni (135). Il rilievo non appariva infondato, i manicomi giudiziari erano pochi - Aversa, Montelupo Fiorentino e Reggio Emilia - ai sensi dell'art. 6 le spese per il trasferimento, che potevano risultare anche ingenti, erano di competenza dei comuni. Poteva accadere che si preferisse disporre che il folle reo fosse ricoverato in un manicomio comune, vicino alla località dove si trovava al momento dell'accertamento, piuttosto che scaricare sul Comune le ingenti spese del trasferimento. Inoltre, il mantenimento del prosciolto era carico delle Province, in particolare della Provincia dove si trovava il manicomio. Dunque, le Province dove si trovavano i manicomi giudiziari, o le sezioni giudiziarie dei manicomi ordinari, avrebbero dovuto accollarsi le spese per il mantenimento di un numero cospicuo di soggetti che, in altre ipotesi, sarebbero stati di competenza di un'altra Provincia.

Negli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo pochi prosciolti venivano inviati a tali istituti, la gran parte era mandata in manicomi comuni oppure lasciata in custodia presso la famiglia. Oltre alle critiche dovute alla normativa incerta, occorre ricordare che molti ancora ritenevano che gli istituti altro non fossero che carceri speciali e dunque il ricovero in tali strutture dei prosciolti fosse assolutamente non legittimato (136).

3.2. Il tentativo di uniformare il diritto penale ai principi della Scuola positiva: il progetto Ferri

Il Codice Zanardelli non aveva soddisfatto le istanze di chi reclamava una regolamentazione dei manicomi giudiziari e fin dalla sua emanazione non erano mancate le proposte di modifica. Da parte degli esponenti della Scuola positiva il codice penale non sembrava avere accolto le istanze volte a finalizzare la pena alla difesa sociale, piuttosto che alla retribuzione. I manicomi criminali, del resto non vi avevano trovato regolamentazione e la pena non era stata sufficientemente personalizzata e individualizzata in ragione della pericolosità sociale.

Nel 1919, a seguito della prima guerra mondiale e sotto la spinta di una richiesta di maggior difesa sociale, Mortara, allora Guardasigilli, affidava ad una commissione presieduta da Ferri il compito di emanare un nuovo codice penale (137). Il progetto Ferri, pronto l'anno successivo, apportava grandi novità all'ordinamento. Il difetto d'imputabilità, in adesione al principio di responsabilità legale, non era contemplato; la mancanza della capacità di intendere e di volere assumeva valore soltanto come elemento nella valutazione della pericolosità del soggetto (138). Il delitto era considerato solo nella sua dimensione di sintomo della pericolosità sociale e proprio alla pericolosità era proporzionata la risposta sanzionatoria (139). Per fronteggiare le esigenze di difesa sociale erano previste una pluralità di sanzioni, così che il trattamento del delinquente potesse essere il più possibile personalizzato, anche se la sanzione detentiva, coniugata in varie forme, rimaneva quella predominante. Trovavano, ovviamente, ampio spazio le categorie di delinquenti, come elaborate dalla Scuola Positiva, per ciascuna delle quali erano predisposti specifici strumenti sanzionatori. La durata della detenzione era ancorata al requisito della permanenza della pericolosità sociale e dunque potenzialmente indeterminata (140).

Il progetto Ferri non trovò attuazione, anche in virtù degli stravolgimenti politici intervenuti nel corso dell'iter di approvazione. Per un nuovo Codice penale si dovrà attendere la promulgazione del Codice Rocco nel 1930.

4. I manicomi giudiziari come misura di sicurezza: il Codice Rocco del 1930

Nella nostra storia siamo arrivati ad un punto di svolta, quello rappresentato dall'introduzione, con il Codice penale del 1930, delle misure di sicurezza ed in particolare di quelle riservate ai non imputabili e ai semi-imputabili a causa del vizio di mente, ovvero del ricovero in manicomio giudiziario e dell'assegnazione ad una casa di cura e custodia.

Nel 1925 la Camera approvò la delega al Governo per l'emanazione di un nuovo codice penale e di procedura, fu istituita una commissione ministeriale e nel 1927 fu presentato il progetto del Codice, noto come codice Rocco, dal nome del Guardasigilli (141).

Con il Codice Rocco, si è avuto quel riconoscimento legislativo dell'istituzione del manicomio giudiziario, nata ormai da mezzo secolo. Con l'elaborazione del Codice, com'è noto, si introduceva il sistema del doppio binario, mettendo in pratica una sorta di compromesso tra le istanze della Scuola Classica e quelle della Scuola Positiva, attraverso il quale si manteneva la centralità dell'imputabilità, sulla quale si fondava l'applicazione della pena e d'altra parte si attribuiva alla pericolosità sociale il ruolo predominante di fondamento per le nuove misure «amministrative» di sicurezza (142).Questo codice è stato da molti considerato il frutto di una Terza scuola, compromesso tra scuola classica e scuola positiva, la Scuola cosiddetta tecnico-giuridica. Grande contributo all'elaborazione del codice fu offerto da Alfredo Rocco, fratello del Guardasigilli e penalista, esponente dell'indirizzo Tecnico-giuridico (143).

4.1. I presupposti teorici: La Terza Scuola o Scuola Tecnico-giuridica

Per introdurre la disciplina prevista dal nuovo codice, ci sembra opportuno anticipare le teorie della Terza Scuola, dal momento che ebbe un ruolo importante nella elaborazione. Essa ha consentito di superare le principali differenze tra scuola classica e scuola positiva, che possiamo così sintetizzare:

  1. Libero arbitrio: per la Scuola classica il fondamento della punizione si trova proprio nel riconoscimento in tutti gli uomini del libero arbitrio, ovvero della capacità degli individui di determinarsi liberamente. La Scuola Positiva critica il libero arbitrio, che ritiene concezione astratta, metafisica, non dimostrabile scientificamente; l'uomo tutt'altro che libero di agire e di compiere scelte autonome, è determinato nelle sue azioni da alcuni fattori biologici e sociali.
  2. Responsabilità: per la Scuola Classica la responsabilità per aver commesso l'illecito può definirsi “morale”, in quanto il soggetto che ha commesso il reato, tra l'azione vietata e un'altra consentita, ha scelto liberamente di porre in essere la seconda e dunque è responsabile “moralmente” nei confronti della società le cui norme ha contravvenuto. In senso diametralmente opposto la Scuola Positiva, ritenendo che l'uomo sia determinato nelle proprie scelte da altri fattori, sposta il piano della responsabilità da quello morale a quello “legale”. La responsabilità c'è per il solo fatto di aver violato la norma e dunque aver dato prova della propria pericolosità.
  3. Imputabilità: dalla seconda affermazione consegue che se per la Scuola Classica l'imputabilità è concetto essenziale, per la Scuola Positiva questo perde qualsiasi attrattività. Difatti per i classici la capacità è requisito essenziale perché possa riconoscersi la responsabilità delle azioni compiute e dunque si possa procedere con il castigo; per la Scuola Positiva, non essendo nessuno libero, il fatto commesso rappresenta il sintomo della pericolosità, vero requisito per applicare la sanzione.
  4. Funzione della pena: per i classici fondamentalmente general-preventiva e retributiva, per i positivisti special-preventiva nelle varie forme dell'eliminazione, dell'impedimento, della terapia, della rieducazione.

Entrambe le scuole presentavano una visione monistica della pena, dunque un unico genere di risposta penale all'illecito con funzione diversa, per una monistico-retributiva e per l'altra monistico-preventiva. La Terza Scuola effettuava un'operazione di mediazione tra le due opposte posizioni, che consisteva nel salvare l'impianto della pena retributiva e colmare quel vuoto di sicurezza percepito attraverso altre misure, che si basavano sulla pericolosità sociale e svolgevano funzione special-preventiva. La Terza scuola italiana guardava con molta attenzione alle teorie elaborate dalla Scuola sociologica tedesca, in particolare alla teoria di scopo elaborata da Franz Von Liszt. Secondo questo autore la pena nasceva - in origine - per rispondere all'istinto di conservazione della specie e di autoconservazione; quando la potestà punitiva si era trasferita dal singolo all'autorità statale, si era assistito ad un processo di obiettivazione che si sostanziò in una prima autolimitazione della potestà punitiva. La pena, in questo processo, si era plasmata sull'idea di scopo, quindi era divenuta uno strumento al servizio della tutela di beni giuridici. La funzione retributiva era rifiutata per il suo fondamento metafisico e l'accento era spostato sullo scopo difensivo della pena (144). Nell'impostazione di Von Liszt, la risposta penale all'illecito rimaneva unitaria e funzionale allo scopo di difesa, che si realizzava con tre diverse forme a seconda della tipologia di reo: neutralizzazione per gli irrecuperabili, risocializzazione per i delinquenti abituali, intimidazione per quelli occasionali.

Se Von Liszt, attraverso il ricorso al concetto di scopo aveva elaborato una teoria monistica, Exner e Stoos - giuristi ed estensori rispettivamente del Codice penale prussiano e dell'avanprogetto svizzero - traslando lo scopo special-preventivo da funzione della pena a buon indirizzo di politica criminale, avevano ideato un modello dualistico. Per i due studiosi lo scopo special-preventivo non era una funzione propria della pena che rimaneva ancorata alla general-prevenzione, piuttosto però era un obiettivo da perseguire ma con uno strumento diverso: le misure amministrative di sicurezza (145).

A questo modello dualistico fecero riferimento gli esponenti del tecnicismo-giuridico di matrice italiana, tra tutti Arturo Rocco - fratello di Alfredo, Guardasigilli e promulgatore del codice penale del 1930 - che elaborò una visione della scienza giuridica in contrasto sia con quella della Scuola classica che con quella della Scuola positiva. Tale contrasto aveva origine da una critica metodologica. Infatti, come possiamo leggere nelle Prolusioni sassaresi del 1910, la scuola classica appariva troppo ancorata alle speculazioni metafisiche, mentre quella positiva era viziata da una confusione tra la scienza giuridica ed altre scienze umane (146). L'indirizzo della scuola tecnico-giuridica, di cui Rocco fu uno dei maggiori esponenti nella materia penale (147), mirava ad ottenere una separazione tra questa e altre discipline. Lo studio del diritto doveva essere concentrato sul dato positivo, non su un diritto astratto ed universale, come nei classici, né un diritto infestato dalle scienze antropologiche, sociali e psicologiche, come nei positivisti (148). Partendo da questo approccio metodologico, Rocco posticipava le riflessioni circa il fondamento della pretesa sanzionatoria ed arrivava a ripudiare il fondamento retributivo, stando che la sanzione penale scattava qualora il bene offeso non fosse passibile di un ripristino (149). Nella sistematica di Rocco la pena, come del resto qualsiasi altro istituto giuridico, era imperniata ad uno scopo. Per cogliere lo scopo della pena era necessario suddividere il problema in due momenti, nelle due fasi in cui si articolava la sanzione penale: il monito e l'applicazione. La funzione che la pena assumeva nella prima fase era in tutta evidenza una funzione general-preventiva. Nella fase dell'applicazione, invece individuare lo scopo poteva apparire più arduo. Si sarebbe potuto pensare alla retribuzione ma questa altro non era che il modo di essere della pena, il cui scopo era evitare tre condotte che potevano far seguito all'azione delittuosa: la replica, l'emulazione e la vendetta (150). La retribuzione dunque, uscita dalla porta della funzione della pena, entrava dalla finestra della natura, del modo di essere. La pena svolgeva la funzione difensiva nella forma della reazione ad un fatto commesso da un individuo colpevole, dunque non poteva prescindere dal fatto né dalla colpevolezza dell'autore. Ciò non escludeva che l'ordinamento adempisse anche, con misure amministrative, allo scopo di difesa dal crimine. Così si immaginavano le misure di prevenzione e quelle di sicurezza, entrambe con natura amministrativa, entrambe misure di polizia, l'una ante delictum, l'altra post.

Riprendendo la schematizzazione iniziale, indichiamo per ciascuno dei punti in elenco la posizione di Arturo Rocco:

  1. Libero arbitrio: non assume un importanza centrale interrogarsi sulla sussistenza del libero arbitrio, appare piuttosto fondamentale per una scuola come quella tecnico-giuridica definire alcuni concetti normativi ed utilizzare le conoscenze dell'antropologia e della sociologia al fine di poter cogliere i meccanismi psicologici attraverso i quali la pena funziona (151).
  2. Responsabilità: rimane fedele al brocardo nulla poena sine culpa, non per questo rinunciando a misure amministrative che possano giungere ove la pena non può per sua natura arrivare.
  3. Imputabilità: centrale per l'applicazione delle pene, ininfluente per le misure di sicurezza, il cui presupposto è rappresentato dalla pericolosità sociale.
  4. Funzione della pena: preventiva di condotte criminose sia attraverso il monito che l'impedimento. Lo Stato, soggetto di diritto, pone dei precetti che è obbligo degli individui rispettare; nell'ipotesi di non osservanza dei precetti è diritto dello Stato punire e dovere dell'individuo sottostarvi (152).

La teoria di Arturo Rocco non può sicuramente liquidarsi in modo semplice come una teoria volta a favorire le necessità dello Stato fascista, benché sia innegabile che l'attenzione agli aspetti pragmatici, la centralità del soggetto statale, la concentrazione su scopi preventivi e di difesa sociale e il giuspositivismo, si confacessero alle concrete esigenze del Regime autoritario. Del resto una tendenza autoritaria deve riconoscersi nelle teorie del fratello Alfredo Rocco e di un più vasto filone di pensatori e giuristi che alla fine del XIX secolo, in forte critica con il socialismo penale, si ponevano su una linea autoritaria, nazionalista ed esprimevano alacremente il dissenso nei confronti della politica debole dello stato liberale nell'epoca giolittiana (153).

4.1.1. Il compromesso tra Scuola Classica e Scuola positiva: il doppio binario

Il codice Rocco adottò il modello delineato dalla Terza Scuola, mantenendo la pena con funzione retributiva e introducendo le misure di sicurezza. Alfredo Rocco, Guardasigilli, illustrava la posizione in cui si poneva il codice rispetto al dibattito tra le due Scuole, con queste parole: «Il nuovo codice ha ritenuto opportuno prendere da ciascuna scuola soltanto ciò che in esse vi è di buono e di vero - cercando di creare- un sistema che tutte le scuole componesse nell'unità di un più alto organismo atto a soddisfare i reali bisogni e le effettive esigenze di vita della società e dello Stato» (154). Si conservavano dunque alcuni principi della Scuola Classica, tra cui: la distinzione tra imputabili e non, la pena subordinata alla sussistenza di imputabilità e colpevolezza, in adesione alla concezione di responsabilità morale. Cifra caratteristica dell'indirizzo assunto con il nuovo codice, era proprio quella di puntare ad obiettivi di utilità, tralasciando la riflessione filosofica in favore di un'accentuata ricerca di corrispondere ad alcune esigenze concrete, tra tutte quella di offrire strumenti efficaci di difesa sociale. Questi strumenti, non rompendo con la tradizione classica e mantenendo la struttura della pena pressoché invariata, furono accettati anche dagli esponenti liberali, poco inclini ad accogliere le istanze positiviste. Senz'altro il Codice rispondeva anche alla logica e alle finalità di uno stato autoritario, l'accentuarsi della risposta sanzionatoria, sia attraverso la criminalizzazione di una vasta area di comportamenti, sia attraverso l'espansione dello strumento repressivo in aree ove non poteva precedentemente giungere: sono segni di una deriva autoritaria. Le misure di sicurezza, ad esempio, soprattutto ove rivolte a coloro che sono suscettibili di soffrire la sanzione penale, si dimostrano come null'altro che un aggravio di pena.

Il codice Rocco adotta un modello dualistico che si presenta come via intermedia tra il modello monistico-retributivo della scuola classica e quello monistico-preventivo predisposto dal progetto Ferri. La Corte di Cassazione, chiamata ad esprimere il proprio parere sul nuovo Codice, manifestava il suo favore per la decisione di lasciare intatto il principio della responsabilità morale, dichiarando che: «Il principio cardinale che informa il vigente codice penale è rispettato ond'è che la responsabilità penale resta ferma sulla base dell'imputabilità morale» (155).

Alle esigenze di difesa sociale, d'altro canto rispondevano le misure di sicurezza, subordinate al requisito della pericolosità. La Corte d'appello dell'Aquila, commentando con favore il progetto, affermava che: «Pur ammessa la libera determinazione delle azioni umane [...] era pur logico e necessario tener conto delle esigenze della difesa sociale e coordinare questa alle condizioni differenziate dell'individuo [...]» (156). Questa osservazione ci offre una cifra della posizione assunta dai giuristi nei confronti del nuovo codice, si coglie da un lato la connessione con il passato, con la gloriosa tradizione dei classici, dall'altro la novità costituita dall'attenzione ad altre esigenze che si mostrano come emergenze alle quali occorre trovare un rimedio, quelle appunto di difesa sociale, di protezione dalla pericolosità di alcun soggetti. Del resto come ci mostra il seguito del commento non si avvertiva contraddizione tra il riconoscimento del libero arbitrio e la contemporanea predisposizione di strumenti di difesa sociale. Difatti, la suddetta Corte d'Appello sosteneva che:«Quando l'abitualità o professionalità del delitto, od il profilo antiumano dello stesso e gli spiccati caratteri di degenerazione [...] possono essere assunti come indici di una cospicua lacuna della nozione etica [...] non è più possibile seguire il criterio esclusivo della morale responsabilità, né mantenere i rimedi punitivi comuni» (157). Dunque, se rimaneva pur valida la nozione di libero arbitrio e di conseguenza il fondamento della pena nella responsabilità morale del soggetto, quando situazioni peculiari - indici di pericolosità - lo richiedevano non era possibile ancorare la risposta sanzionatoria alla sola responsabilità morale, occorreva predisporre strumenti diversi. Quindi pur mantenendo il principio di colpevolezza, si riteneva che su alcuni soggetti il monito della pena si fosse rivelato inefficace, dato che erano recidivi o delinquenti abituali; per questi la pena si mostrava insufficiente e la risposta dell'ordinamento era quella della sottoposizione ad una misura di sicurezza di durata indeterminata. Così per i non imputabili, non colpevoli e dunque non soggetti alla sanzione penale, si predisponevano idonee misure. Nel sistema cosiddetto del doppio binario pene e misure di sicurezza si trovano applicate prendendo in considerazione presupposti e valutazioni di carattere diverso. Dunque, avendo presupposti applicativi diversi e che non si escludono vicendevolmente, in alcune ipotesi la misura di sicurezza non va a sostituire la pena ma vi si somma.

4.2. La normativa del Codice Rocco

Abbandonando per il momento la prospettiva storica, passiamo ad illustrare la normativa del Codice Rocco.

4.2.1. L'imputabilità

In ossequio all'impostazione dualistica, fedele al brocardo nulla poena sine culpa, l'art. 85 del codice penale dispone che non sia punibile colui che non è imputabile. I presupposti positivi sono individuati dallo stesso articolo nelle due capacità di intendere e di volere, non ulteriormente specificate e per questo soggette ad essere diversamente definite dai vari giuristi. Tali definizioni rischiano, per la natura vaga dei concetti, di risolversi in espressioni tautologiche e perciò prive di ulteriore utilità (158). Volendo provare a chiarire il contenuto: con capacità di intendere ci riferiamo all'attitudine a cogliere il significato dell'atto che il soggetto sta compiendo e le possibili ripercussioni sull'esterno e sugli altri, con quella di volere, alla possibilità di frenare i propri impulsi (159). Non tutti gli autori sono peraltro concordi nel ritenere che le due capacità siano scindibili e suscettibili di una valutazione separata, stante che si tende a considerarli come elementi inseparabili del processo intellettivo (160).

Come le moderne scienze hanno contribuito a chiarire, nessun soggetto è completamente libero di autodeterminarsi (161), dunque le capacità di intendere e di volere non si può interpretare in senso assoluto, ma dovrà considerarsi in rapporto ad uno standard, un livello medio, di “normalità”. Questo livello può ricavarsi in positivo da una lettura sistematica delle condizioni che il codice indica come cause che diminuiscono od escludono l'imputabilità. Queste condizioni - da alcuni ritenute tassative (162) - sono da ricondurre a due tipologie di fattori: età ed anomalie psichiche. Dunque possiamo dire che all'agente, perché sia ritenuto imputabile, dovrà potersi ascrivere un livello di capacità corrispondente a quello medio dell'adulto sano.

Le condizioni che limitano od escludono la capacità sono elencate dagli articoli 88 e ss.

Per quanto concerne l'età, i soggetti si possono suddividere in 3 categorie: i minori dei 14 anni, i soggetti di età compresa tra i 14 e i 18 ed infine i maggiorenni. Per la prima categoria vi è una presunzione iuris et de iure di incapacità, quindi il minore degli anni 14 è sempre e comunque ritenuto non imputabile (Art. 97 c.p.). Per quanto riguarda i secondi, il giudice sarà chiamato a valutare in concreto la sussistenza della capacità di intendere e di volere (Art. 98c.p.) (163). Infine vi è la terza categoria, per la quale vige una presunzione relativa di capacità, dunque, in assenza di un vizio di mente o di un intossicazione, l'adulto sarà normalmente ritenuto imputabile (164).

Se passiamo dall'immaturità all'infermità di mente, in questa categoria si possono distinguere condizioni patologiche e condizioni di intossicazione. Della prima categoria fanno parte il vizio di mente (artt. 88 e 89 c.p.) e il sordomutismo (Art. 96 c.p.), nella seconda rientrano invece l'ubriachezza derivata da caso fortuito o forza maggiore (Art. 91 c.p.) e la cronica intossicazione da alcool e sostanze stupefacenti (Art. 95 c.p.).

Gli artt. 88 e 89 definiscono le ipotesi di vizio di mente totale e parziale. Il codice stabilisce che si debba considerare non imputabile per vizio di mente il soggetto che, nel momento in cui ha commesso il fatto, si trovava, in ragione di un'infermità, in uno stato di mente tale da escludere la capacità di intendere e di volere. Il legislatore dunque ha optato per una definizione empirico-normativa della incapacità per vizio totale di mente. Come emerge dalla lettura del dispositivo, l'infermità non è di per sé requisito sufficiente per ritenere inverata l'esclusione dell'imputabilità, rendendosi necessario che questa abbia dato luogo ad uno stato mentale tale da compromettere completamente la capacità di intendere e di volere. In primo luogo cerchiamo di chiarire cosa debba intendersi con infermità. In dottrina, soprattutto a seguito della crisi di certezza delle scienze medico-psichiatriche attorno al concetto di malattia mentale (165), si è sostenuto che l'infermità rappresenti un concetto più ampio di quello di malattia, ricomprendendo non solo le nevrosi e le psicopatie ma anche quei disturbi psichici non strettamente patologici (166). Difatti il termine infermità appare meno tecnico e dunque suscettibile di estendersi a quelle anomalie che non possono strettamente definirsi malattie psichiatriche (167). Autorevole dottrina concorda nel ritenere che il vizio di mente possa essere causato anche da una infermità fisica - a sostegno di questa tesi il dato letterale, dal momento che l'art. 88 si riferisce ad una generica infermità - purché con gli stessi effetti sulle capacità intellettive, come ad esempio una febbre alta che causi uno stato di alterazione mentale (168). Abbiamo anticipato come il Codice adotti un modello misto non puramente empirico né puramente normativo, dunque la sussistenza di una patologia non sia di per sé sufficiente ad escludere la capacità di intendere e di volere. Alcuni autori hanno ritenuto che fosse per ciò necessario accertare che la condotta criminosa seguisse temporalmente la manifestazione patologica. Altri hanno invece ritenuto necessario valutare l'ulteriore requisito della sussistenza di un nesso eziologico tra la malattia e la condotta, soprattutto in presenza di quei disturbi psichici che non escludono in assoluto la capacità di intendere e di volere (169). L'infermità psichica nella normativa codicistica può incidere sulla capacità in due diversi gradi: il vizio totale di mente, che comporta il proscioglimento e il vizio parziale, cui segue la condanna ad una pena ridotta.

Tra le cause che possono incidere sull'imputabilità dell'agente, il codice Rocco annovera anche il fenomeno del sordomutismo. Tale impostazione è figlia del fatto che all'epoca della redazione del codice non esistevano per i sordomuti strumenti, tecnologie e servizi che consentissero loro di colmare lo svantaggio connesso alla loro inabilità (170). Anche per quanto concerne i sordomuti, come già visto per le infermità psichiche, non esiste alcun meccanismo presuntivo, dunque l'incapacità dovrà essere soggetta a dimostrazione.

Per quanto concerne gli stati di intossicazione da alcool o sostanze stupefacenti il Codice prevede una disciplina articolata, con una serie di ipotesi nelle quali l'uso di sostanze stupefacenti o alcool può a seconda dei casi influire sull'imputabilità - escludendola o scemandola - oppure andare ad incidere sul quantum di pena, aggravandola (171). Questa impostazione, con la quale attraverso il ricorso a fictiones iuris, si presume l'imputabilità anche quando naturalisticamente questa si dovrebbe ritenere non sussistente, è frutto di una logica repressiva, volta a sanzionare il consumo di dette sostanze (172). L'uso di sostanze stupefacenti per causa fortuita o forza maggiore e la cronica intossicazione da alcool o sostanze stupefacenti sono tra le condizioni che il Codice indica come potenziali escludenti della capacità di intendere e di volere; mentre l'ubriachezza volontaria o colposa, per espressa previsione codicistica non incide sull'imputabilità, infine l'uso preordinato alla commissione e l'uso abituale comportano un aumento di pena.

4.2.2. Le misure di sicurezza

Con il Codice Rocco si adotta il modello dualistico del doppio binario. Alla pena retributiva sono affiancate le misure di sicurezza, con funzione special preventiva, applicate ai soggetti ritenuti socialmente pericolosi. Le misure di sicurezza possono essere ordinate sia nei confronti di soggetti non imputabili, in alternativa alla sanzione, sia nei confronti di soggetti imputabili in aggiunta a questa.

4.2.2.1. I principi: legalità e successione nel tempo

Alle misure di sicurezza che, nell'ottica del legislatore del '30 sono misure di natura amministrativa, è esteso il principio di legalità (Art. 199 c.p.). Si stabilisce dunque che nessuno possa essere sottoposto ad una misura di sicurezza fuori dai casi previsti dalla legge né possa applicarsi una misura non espressamente stabilita. L'estensione di questo principio alle misure di sicurezza potrebbe apparire contraddittoria con la natura non penale che il legislatore voleva attribuire a queste. Del resto lo stesso Rocco nella relazione al progetto illustra le motivazioni dell'espansione della garanzia, le misure di sicurezza presentandosi come provvedimenti gravi richiedono l'affermazione del principio di legalità, in primo luogo come garanzia non per l'individuo, bensì per lo Stato (173). La funzione principale del principio di legalità non era quella di baluardo a garanzia della libertà individuale, bensì quella di limitare la discrezionalità del giudice, frutto di una diffidenza nei confronti del potere giurisdizionale che ritroviamo in svariati passi del codice.

Per quanto riguarda l'applicazione delle misure di sicurezza rispetto al tempo, l'art. 200 c.p. sancisce il principio della retroattività della legge in materia di misure di sicurezza. Tale impostazione è coerente con il fatto che si tratta di una misura amministrativa con funzione difensiva collegata all'esistenza e persistenza della pericolosità sociale e non alla commissione di un fatto dalla legge previsto come reato (174). La misura di sicurezza quindi, ai sensi del 1º comma, si può applicare a fatti commessi prima dell'introduzione della normativa che la riguarda. La retroattività è confermata anche dall'art. 55 delle disposizioni transitorie del c.p. dove si stabilisce che possa applicarsi la misura di sicurezza per fatti commessi prima dell'entrata in vigore del codice (175). Il secondo comma chiarisce che si debba applicare alla misura di sicurezza la legge in vigore al tempo dell'esecuzione, la quale prevale sulla legge in vigore al tempo della commissione (176).

4.2.2.2. I presupposti per l'applicazione delle misure di sicurezza: la commissione del reato e la pericolosità sociale

Le misure di sicurezza sono applicate in presenza di due presupposti, uno oggettivo, l'altro soggettivo. Il presupposto oggettivo consiste nella commissione di un fatto dalla legge previsto come reato. Il codice stabilisce che le misure di sicurezza possano essere applicate anche in assenza di questo presupposto nelle ipotesi previste dalla legge (177). Si tratta nello specifico delle situazioni disciplinate dall'art. 49, i quasi-reati, ovvero il reato erroneamente supposto e quello impossibile (178), nonché l'accordo per commettere un reato, o l'istigazione a delinquere, cui non abbia fatto seguito la commissione dell'illecito, ai sensi dell'art. 115 del codice (179). Molti studiosi si sono interrogati nel corso dei decenni sulla «posizione del fatto nella fattispecie di sicurezza» (180), soprattutto in considerazione della funzione special-preventiva delle misure. Alcuni hanno ritenuto il fatto una mera occasione per l'intervento su un soggetto pericoloso, altri invece hanno sostenuto che si trattasse di un presupposto della fattispecie complessa della misura, costituita da un elemento oggettivo ed uno soggettivo (181). Sicuramente, ciò che possiamo affermare è che proprio questo elemento consente di distinguere le misure di prevenzione dalle misure di sicurezza. Nell'ottica del codice Rocco, infatti, sia le misure di prevenzione ante delictum che quelle di sicurezza si caratterizzano per essere misure amministrative, di polizia, finalizzate entrambe alla difesa sociale e alla prevenzione speciale nei confronti di soggetti ritenuti pericolosi. La sostanziale differenza tra le due consisterebbe proprio nel presupposto della commissione di un fatto-reato, presupposto che dunque attiverebbe l'intervento difensivo nell'ipotesi della misura di sicurezza. Prevedendo l'elemento oggettivo, il legislatore del 1930 ha scelto di porre un argine a misure che altrimenti avrebbero potuto essere applicate potenzialmente in modo arbitrario e senza alcuna limitazione. Del resto, l'idea scientista della possibilità di riconoscere l'individuo pericoloso solo per alcuni segni esteriori o di carattere psicologico, era già stata abbandonata o comunque aveva perso buona parte del suo appeal, all'inizio del XX secolo (182).

Sempre riguardo alla posizione dell'elemento oggettivo nella fattispecie, possiamo soffermarci sulle conseguenze delle vicende relative al reato e alla pena, disciplinate dall'art. 210 del codice. Per le vicende del reato si stabilisce che l'estinzione dello stesso impedisca l'applicazione delle misure di sicurezza. Anche l'estinzione della pena impedisce l'applicazione, con eccezione di quelle che: possono essere ordinate in ogni tempo, sono già state ordinate dal giudice come misure accessorie ad una condanna alla pena superiore ad anni dieci e della colonia agricola, in questo caso però viene sostituita con la libertà vigilata (183).

L'elemento soggettivo di applicazione della misura di sicurezza è rappresentato dalla pericolosità sociale, definita dall'art. 203 come probabilità di commettere nuovi fatti previsti dalla legge come reato. Come abbiamo visto, l'introduzione e la valorizzazione del concetto di pericolosità sociale, rappresentano delle chiavi di volta della penalità moderna. La funzione difensiva che la pena viene ad assumere, già nelle teorie dei riformatori liberali e che rappresenta un fulcro delle idee positiviste, anima quello spostamento di oggetto della penalità che fa migrare l'attenzione dal fatto commesso all'autore e al suo carattere di soggetto pericoloso. Con il Codice Rocco si opera un'accentuazione dell'individualizzazione e della funzione special-preventiva, non solo attraverso l'introduzione delle misure di sicurezza e del doppio binario, ma anche con la valorizzazione di elementi relativi alle qualità dell'autore nella commisurazione della pena. E' opportuno analizzare l'art. 133 del codice che, in primo luogo, fissa i criteri di commisurazione della pena. Il giudice ha un ampio potere discrezionale nel determinare in concreto il quantum di pena, tra il minimo ed il massimo edittale. Il legislatore però, determina le condizioni, gli indici, le circostanze di cui dovrà tenere conto in questa operazione. Tali circostanze, previste dal succitato articolo, si distinguono in due gruppi. La prima si riferisce alla gravità del fatto e comprende i seguenti elementi:

  1. la natura, la specie, i mezzi, l'oggetto, il tempo, il luogo ed ogni altra modalità dell'azione;
  2. la gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato;
  3. l'intensità del dolo o il grado della colpa.

La seconda ha ad oggetto la capacità a delinquere dell'autore e fa riferimento ai seguenti indici:

  1. i motivi a delinquere e il carattere del reo;
  2. i precedenti penali e giudiziari e, la condotta e la vita del reo, antecedenti al reato;
  3. la condotta contemporanea o susseguente al reato;
  4. le condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.

Questa seconda categoria è il sintomo di quella individualizzazione della pena, della crescente commistione nella stessa di fattori estranei ad una logica puramente retributiva. Peraltro l'art. 203 indica come circostanze dalle quali desumere la pericolosità sociale le stesse previste dall'art. 133.

Questa disposizione pone alcuni problemi per quanto concerne il rapporto tra la capacità a delinquere e la pericolosità. Alcuni autori ritengono che la prima debba intendersi come genus, di cui la pericolosità sociale rappresenterebbe una species. Secondo altri invece la capacità di delinquere deve valutarsi con uno sguardo rivolto al passato, mentre la pericolosità sarebbe una prognosi proiettata sul futuro. L'opzione per un'interpretazione o per l'altra ha delle conseguenze nelle ipotesi di applicazione cumulativa. Laddove infatti, si ritenesse che la pericolosità altro non fosse che una capacità a delinquere qualificata, sarebbe contraddittorio escludere la capacità a delinquere in fase di commisurazione della pena e al contempo applicare una misura di sicurezza (184).

4.2.2.3. La pericolosità sociale presunta

La pericolosità, al fine dell'applicazione delle misure di sicurezza, nella formulazione del Codice Rocco era presunta in alcune ipotesi, disciplinate dall'art. 204 (185); ove si disponeva che le misure di sicurezza fossero in linea generale applicate solo previo accertamento della pericolosità sociale del soggetto. La pericolosità sociale nei casi previsti dalla legge era presunta, salvo fossero trascorsi dalla data di commissione del fatto determinati lassi di tempo (10 anni per gli infermi di mente e 5 negli altri casi). L'accertamento si imponeva anche in fase di esecuzione qualora fossero trascorsi oltre 10 anni (nel caso di non imputabili infermi di mente, 5 anni negli altri casi) dalla sentenza, senza che la misura ordinata fosse stata eseguita. La presunzione operava nei confronti di:

  1. Minori condannati per un delitto commesso durante l'esecuzione di una misura di sicurezza disposta in precedenza (art. 225 co. 2).
  2. Minori che avessero commesso delitti non colposi per cui la legge stabiliva la pena di morte, l'ergastolo o la reclusione non inferiore nel minimo a 3 anni (art. 224 co. 2).
  3. Prosciolti per vizio di mente o cronica intossicazione da alcool o sostanze stupefacenti o sordomutismo salvo la commissione di delitti colposi, contravvenzioni, altri delitti con pena edittale inferiore nel massimo a due anni (art. 222 co. 1).
  4. Condannati a pena diminuita per semi-infermità, cronica intossicazione da alcool o sostanze stupefacenti o sordomutismo che abbiano commesso un delitto per il quale la pena edittale non sia inferiore nel minimo a cinque anni (art. 219 co. 1).

La presunzione non era soltanto una presunzione di esistenza della pericolosità sociale del soggetto ma persino una presunzione di durata, di persistenza. L'infermità mentale e la conseguente pericolosità erano presunte perdurare fino al momento dell'applicazione della misura di sicurezza, con una debita eccezione nel caso in cui tra la commissione del fatto e l'applicazione della misura di sicurezza fosse decorso un tempo tale da far riaffiorare un onere di accertamento giudiziale. Non solo, la pericolosità era presunta persistere per un tempo equivalente alla durata minima della misura di sicurezza, con una presunzione difficilmente superabile dal momento che fino al 1974 la revoca della misura di sicurezza poteva essere disposta soltanto dal Ministro di Grazia e Giustizia (186).

La disciplina delle misure di sicurezza risponde alla logica compromissoria della Terza scuola che permea il Codice Rocco. Queste misure infatti, pur essendo finalizzate alla difesa sociale, mantengono una serie di elementi tipici della logica retributiva. Se osserviamo le presunzioni di pericolosità appena esaminate ad esempio, potremo notare come un elemento della fattispecie presuntiva sia costituito dalla gravità del fatto commesso, non tanto nei suoi elementi concreti, bensì nella sua configurazione astratta, in particolare prendendo in considerazione il massimo edittale. In questa stessa logica si comprende la presunzione di durata della pericolosità sociale, ancorata anche questa alla gravità del reato commesso piuttosto che ad elementi inerenti la personalità del reo.

Nelle fattispecie presuntive la qualità di persona pericolosa era desunta da elementi quali: la commissione di particolari tipologie di reato o la condanna ad una pena di almeno una certa entità oppure la sussistenza di determinate qualità personali e al contempo la commissione di un reato per il quale, in termini astratti, fosse previsto almeno un quantum di pena. Nelle fattispecie che più direttamente ci riguardano il fatto di essere un soggetto affetto da patologie psichiatriche e l'aver commesso un reato erano ritenuti condizioni sufficienti per far operare una presunzione iuris et de iure, non suscettibile di prova contraria. La previsione delle ipotesi presuntive appariva coerente con le teorie dei fautori dell'istituzione del manicomio giudiziario, i criminologi positivisti, difatti la presunzione di pericolosità appare perfettamente calzante con una concezione deterministica del reato, ove questo diviene il sintomo di una anormalità. Dunque la presenza accertata di una patologia psichiatrica e la commissione di un reato di almeno una certa gravità appaiono elementi sufficienti per esprimersi circa la pericolosità dell'autore (187).

4.2.2.4. Le misure di sicurezza: tipologie

Le misure di sicurezza previste dal Codice Rocco si possono distinguere in diverse categorie. Innanzitutto si possono ripartire le misure di sicurezza a seconda dei soggetti a cui sono applicate, distinguendole in: destinate ai soggetti maturi e sani e destinate ai non imputabili o semi-imputabili. Nella prima categoria rientrano quelle misure rivolte a soggetti imputabili e al contempo ritenuti pericolosi, ovvero ai delinquenti abituali (Artt. 102, 103 e 104 c.p.) (188), professionali (Art. 105c.p.) (189) o per tendenza (Art. 108 c.p.) (190). Queste sono: la colonia agricola e la casa di lavoro (191) e vengono applicate a seguito dell'espiazione della condanna. Le misure di sicurezza che si applicano ai non imputabili o ai semi-imputabili sono: il ricovero in manicomio giudiziario (Art. 222 c.p.), l'assegnazione ad una casa di cura e custodia (Art. 219 c.p.) e il ricovero in riformatorio giudiziario (Artt. 224-225 c.p.) (192).

Un'altra classificazione delle misure si può ottenere avendo riguardo al loro contenuto, distinguendo così le misure in personali e patrimoniali e tra le prime, in detentive e non detentive (193). Le patrimoniali sono: cauzione di buona condotta (Art. 237 c.p.) (194) e confisca (Art. 240 c.p.) (195). Le personali non detentive sono: libertà vigilata (Artt. 228-231 c.p.) (196), divieto di soggiorno (Art. 233 c.p.) (197), divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcooliche (Art. 234) (198) ed espulsione dello straniero dal territorio dello stato (Art. 235 c.p.) (199).

Infine vi sono le misure di sicurezza personali detentive, tra le quali rientrano le già citate misure dell'assegnazione ad una colonia agricola o casa di lavoro, del ricovero in manicomio giudiziario, dell'assegnazione ad una casa di cura e custodia e del ricovero in un riformatorio giudiziario.

Il ricovero in manicomio giudiziario è una misura di sicurezza personale detentiva prevista per i prosciolti in-imputabili per: vizio totale di mente, sordomutismo, cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti. Nell'originaria impostazione del Codice Rocco, anche i minori, qualora avessero commesso il reato in uno stato di infermità dovuto ad una delle condizioni per cui era prevista la misura di sicurezza del ricovero in manicomio giudiziario, erano soggetti a questa misura, in luogo di quella a loro riservata del riformatorio giudiziario (200). L'applicazione della misura non era subordinata ad un accertamento in concreto della pericolosità del soggetto e rientrava tra le ipotesi presuntive, difatti all'art. 222 si leggeva che, in caso di proscioglimento per infermità psichica, è sempre ordinato il ricovero in manicomio giudiziario per un periodo di almeno 2 anni. Facevano eccezione a questa regola generale le ipotesi di commissione di contravvenzioni, delitti colposi, e delitti dolosi per i quali il massimo di pena edittale non fosse superiore a due anni (art. 222, 1º co.).

L'assegnazione a casa di cura e custodia è invece la misura di sicurezza che il codice dispone per i condannati a pena diminuita a causa della ridotta capacità di intendere e di volere, cagionata da infermità, sordomutismo, cronica intossicazione da alcool e sostanze stupefacenti. Anche in questa ipotesi la pericolosità è presunta, qualora per il reato commesso la legge stabilisca una pena non inferiore nel minimo a cinque anni di reclusione, ovvero la condanna all'ergastolo o alla pena di morte (art. 219, 1º e 2º co.). Per i riconosciuti ubriachi abituali o dediti all'uso di sostanze stupefacenti non vige la presunzione. A questi è applicata tale misura qualora non debba esserne disposta una diversa. Inoltre, se la pena inflitta è inferiore ai tre anni, la misura detentiva può essere sostituita con la libertà vigilata. (art. 221 c.p.). L'assegnazione a una casa di cura e custodia è eseguita, come previsto dall'art. 220 del codice, a seguito dell'espiazione della pena. Questa previsione pone non pochi problemi. La logica che sottende alla precedenza della pena rispetto alla misura di sicurezza è facilmente comprensibile se abbiamo riguardo alle misure rivolte ai soggetti imputabili. Infatti la pena svolgerebbe la sua funzione retributiva nella prima fase e persistendo la pericolosità sociale, verrebbe a scattare lo strumento amministrativo con funzione difensiva, ovvero la misura di sicurezza. Per “proteggere” la società dai rischi connessi alla re-immissione nella stessa di un soggetto reputato pericoloso, questo sarebbe destinato, nonostante il fatto di aver “pagato il suo debito con la società”, ad una misura di sicurezza, ad un prolungamento della limitazione della libertà personale. Se questa logica sottende alla sequenza pena-misura di sicurezza per quanto concerne gli imputabili, risulta più difficile cogliere il senso della stessa avuto riguardo ai semi-imputabili. Infatti, ammettendo che la misura di sicurezza adempia ad una funzione terapeutica, non si capisce perché il soggetto dovrebbe prima essere sottoposto alla pena e solo successivamente - con il rischio nel frattempo di aggravare le proprie condizioni di salute psichica - ad una misura di sicurezza. Proprio in ragione del rischio per la salute del sottoposto a misura di sicurezza, il legislatore del '30 tempera il rigido principio della successione nel tempo di pene e misure di sicurezza con la previsione di cui all'art. 220 del codice penale, che consente al giudice di anticipare l'applicazione della misura. Aspetto critico di questa eccezione sta nel fatto che la possibilità è estremamente ridotta, risulta applicabile ai soli semi-imputabili per vizio parziale di mente, rimanendo da ciò esclusi gli altri soggetti sottoposti all'assegnazione ad una casa di cura e custodia, come ad esempio i cronicamente intossicati da alcool e sostanze stupefacenti (201).

4.2.2.5. La durata delle misure di sicurezza

Le misure di sicurezza hanno una durata potenzialmente indeterminata, perdurano fintanto che non sia cessata la pericolosità sociale. Questa previsione appare coerente con la funzione difensiva alla quale le misure risultano informate. Infatti se la loro funzione precipua è quella di proteggere la società dai soggetti pericolosi, la loro durata non può che essere vincolata alla permanenza o alla cessazione della pericolosità. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare in precedenza, la disciplina delle misure di sicurezza è il frutto più evidente del compromesso operato dalla Terza Scuola. In questa ottica si comprende come, ai criteri aderenti alla funzione special-preventiva, se ne accostino altri che sembrano ispirati da una visione retributiva. Così all'indeterminatezza temporale si aggiunge un limite minimo di durata che è commisurato con la gravità del fatto commesso. Volendo trovare una giustificazione ed un principio di coerenza a questa previsione, si potrebbe sostenere che la commissione di fatti gravi sia il sintomo di una maggiore pericolosità sociale che dunque necessita di un intervento più duraturo, se non addirittura di una neutralizzazione e dunque di una reclusione senza fine (202). Non sembra rispondere a questo genere di logica la disciplina tracciata dal Codice: difatti non vi è riferimento alla pena commisurata in concreto, che consentirebbe di prendere in considerazione alcuni elementi relativi alle modalità di commissione del fatto che potrebbero rappresentare indici di una maggiore pericolosità, ma semplicemente il riferimento al massimo edittale di pena e dunque alla configurazione astratta del reato. Il frutto di questa logica di compromesso è una disciplina di particolare svantaggio per i soggetti non imputabili i quali si trovano sottoposti ad una misura di sicurezza potenzialmente illimitata nel tempo ma con una durata minima. Ci sembra dunque plausibile sostenere con Manacorda che il codice sia uniformato all'intento di far espiare almeno una parte della misura afflittiva anche al non imputabile (203).

La durata minima della misura è connessa al quantum edittale di pena previsto per il reato, per il ricovero in OPG secondo il seguente schema (204):

Tabella 1: Schema durata minima ricovero in manicomio giudiziario
Previsione edittale Durata minima ricovero in MG
Non inferiore a 2 anni nel massimo Due anni
Non inferiore a 10 anni nel minimo 5 anni
Ergastolo / Pena di morte (205) 10 anni

Come si può notare i reati per i quali è applicata la misura di sicurezza possono suddividersi in tre categorie: reati con massimo edittale non inferiore a 2 anni, reati con minimo edittale non inferiore a 10, reati per i quali è previsto l'ergastolo o la pena di morte. Se rapportiamo le categorie di reati alla durata minima della misura di sicurezza ci accorgiamo di un maggiore sfavore per i prosciolti che abbiano commesso reati con pena edittale inferiore (i meno gravi in prima approssimazione). Ipotizziamo che lo stesso reato con pena non inferiore a 2 anni nel massimo, ad esempio oltraggio a pubblico ufficiale (206), sia commesso da un soggetto affetto da un'infermità mentale e per questo giudicato non imputabile e prosciolto e da un soggetto pienamente capace di intendere e di volere e per questo condannato. Il primo, stando alla disciplina originaria del Codice Rocco, sarebbe stato automaticamente sottoposto alla misura di sicurezza del ricovero in manicomio giudiziario per una durata minima di due anni. Il secondo avrebbe scontato una pena al massimo di due anni. Se invece ipotizziamo la commissione di un fatto per il quale il Codice preveda una pena non inferiore nel minimo a anni 10, ad esempio l'omicidio (207), possiamo notare come il non imputabile sarebbe stato sottoposto ad una misura di sicurezza della durata minima di 5 anni, mentre l'imputabile sarebbe stato condannato a scontare almeno 21 anni di reclusione. Da questo esempio possiamo facilmente notare come la disciplina risulti sfavorevole per l'infermo di mente che commetta un reato con un pena edittale minore, rispetto a quello che ne commetta una con un quantum superiore (208).

Per quanto riguarda invece la misura di sicurezza della casa di cura e custodia questa è disposta per una durata minima secondo il seguente schema (209):

Tabella 2: Schema durata minima assegnazione in casa di cura e custodia
Limiti edittali Durata minima assegnazione in CCC
Pena inferiore a 5 anni nel minimo 6 mesi senza presunzione di pericolosità
Pena non inferiore a 5 anni nel minimo 1 anno
Pena non inferiore a 10 anni nel minimo 3 Anni
4.2.2.6. La revoca anticipata

Il Codice all'art. 207 prevede la facoltà di revocare anticipatamente la misura di sicurezza, qualora il soggetto risulti non più pericoloso. Questa era attribuita al solo Ministro della Giustizia. La limitazione al solo potere governativo della facoltà di revoca anticipata, oltre a ridurre notevolmente il ricorso a questa possibilità nelle situazioni concrete, è sintomatico di uno spirito che sembra permeare l'intero codice: la diffidenza nei confronti del potere giudiziario e dunque la compressione delle sfere di intervento discrezionale del giudice. Del resto attribuire il potere di revoca anticipata al Ministro è del tutto in linea con l'architettura di uno stato autoritario che conferisce all'esecutivo un potere pregnante in molte sfere. Inoltre l'attribuzione al Ministro della Giustizia della facoltà di revoca appare funzionale ad una utilizzazione in chiave politica delle misure di sicurezza, come modalità di riduzione al silenzio di minoranze ed opposizioni. Una tale facoltà stride però con i principi che dovrebbero fondare e muovere la misura. Rappresenta una grave e ingiustificata compressione dei diritti individuali e in particolare della libertà personale, la previsione di una misura di sicurezza che si protragga oltre la cessazione della pericolosità sociale dell'individuo sottoposto a misura di sicurezza e dunque quando viene a mancare il presupposto soggettivo per l'applicazione della stessa.

Se facciamo un bilancio della normativa relativa alle misure di sicurezza rivolte ai non imputabili, prendendo in considerazione sia la presunzione di pericolosità, che la durata minima delle misure di sicurezza, che il potere di revoca prima dello scadere del termine solo in capo al Ministro della Giustizia, il quadro ci pare quello di una misura per certi aspetti simile alla pena, per altri diversa, sempre in un senso sfavorevole all'internato. La logica che vi sottende, piuttosto che la pura logica della prevenzione speciale, sembra essere quella di garantire che comunque il prosciolto per infermità di mente sia sottoposto almeno ad un quantum minimo di internamento, che il proscioglimento non possa costituire un modo per aggirare la sanzione penale, che almeno un minimo di questa “pena speciale” sia scontato (210).

4.2.3. I manicomi giudiziari oltre la misura di sicurezza: le categorie di internati

Finora abbiamo fatto riferimento ai manicomi giudiziari come ai luoghi ove è eseguita la misura di sicurezza del ricovero in manicomio giudiziario. Se questi istituti principalmente erano chiamati ad accogliere coloro che dovevano eseguire la suddetta misura, in una sorta di ribaltamento rispetto al momento della loro creazione (ricordiamo che inizialmente vi erano destinati soltanto i rei folli), i loro ospiti erano anche altri, non limitandosi solo a questa cerchia di soggetti. Vediamo sinteticamente quali categorie vi erano ospitate (e in buona parte si potrebbe utilizzare il presente e dire vi sono ospitate). Prima di tutto in manicomio giudiziario erano accolti coloro per i quali era stata ordinata la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, non solo in via definitiva, ma anche provvisoriamente ai sensi dell'art. 206 del codice. L'art. 206 definisce i soggetti cui può applicarsi in via provvisoria una misura di sicurezza (211), circoscrivendone l'applicazione alle seguenti categorie: minori di età, infermi di mente, ubriachi abituali, persone dedite all'uso di sostanze stupefacenti e soggetti in stato di cronica intossicazione. La misura di sicurezza era provvisoriamente applicata al soggetto nei confronti del quale vi fossero indizi sulla sua non imputabilità e al contempo che fosse ritenuto in prima battuta socialmente pericoloso.

Secondariamente nei manicomi giudiziari si trovavano coloro che erano sottoposti alla misura di sicurezza dell'affidamento ad una casa di cura e custodia. Difatti, benché le case di cura e custodia fossero previste anche dal codice previgente come luoghi ove poteva scontare la pena il condannato a pena diminuita ai sensi dell'art. 47, queste non sono mai esistite come autonome strutture. Le case di cura e custodia sono sempre state sezioni di manicomio giudiziario, adibite ad ospitare i sottoposti a questa misura. Analogamente a quanto detto riguardo all'applicazione provvisoria del ricovero in manicomio giudiziario, anche questa misura poteva essere applicata provvisoriamente durante il giudizio ai sensi dell'art. 206.

Finora abbiamo fatto riferimento a due categorie che rientrano nella specie di quelli che all'inizio del nostro lavoro avevamo chiamato folli rei, cosa dire invece di coloro che all'introduzione del manicomio giudiziario ne erano gli unici destinatari, i rei folli? La risposta si trovava nell'art. 148 del codice penale, il quale disponeva che il condannato ad una pena restrittiva della libertà personale, al quale fosse sopravvenuta - in una fase precedente all'esecuzione della pena o nel corso della stessa - un'infermità psichica tale da non consentire di proseguire l'esecuzione, fosse per ordine del giudice ricoverato in un manicomio giudiziario. Il giudice in questi casi sospendeva o differiva la pena (212). Gli effetti di questo provvedimento erano particolarmente negativi per il condannato affetto da un patologia psichiatrica in quanto, in ipotesi di guarigione, egli tornava a scontare la propria pena senza che fosse computato come pena espiata quel periodo trascorso in manicomio giudiziario (213). La giustificazione di un tal genere di normativa si trovava nella volontà di evitare i casi di simulazione di follia, timore peraltro poco plausibile dato che comunque il tempo trascorso in manicomio giudiziario non rappresentava certo un periodo vissuto in un regime privo di afflittività, anzi alla disciplina del carcere, nel manicomio giudiziario, si sommava quella giustificata dalle necessità terapeutiche, istanze che hanno consentito ad ogni genere di pratica repressiva di trovare una valida giustificazione (214).

Dunque nei manicomi giudiziari si trovavano i rei folli e i folli rei, seppure in una posizione ribaltata rispetto alle originarie previsioni. Nonostante ciò, le istituzioni conservavano la loro natura e il loro aspetto carcerario.

Ma queste due categorie non completavano il quadro dei soggetti presenti in manicomio giudiziario, vi si aggiungevano infatti: gli imputati a procedimento sospeso ai sensi dell'art. 88 del Codice di procedura penale del 1931, i sottoposti a perizia, i detenuti (sia condannati che imputati) che ai sensi dell'art. 106 del regolamento penitenziario del 1931 potevano essere inviati in osservazione, i condannati infermi di mente ad un grado che non fosse tale da sospendere la pena e ai sensi del 5º comma dell'art. 148 c.p. venivano inviati in manicomio giudiziario in espiazione della pena, i sottoposti a misura di sicurezza trasformata in ragione dell'infermità psichica sopravvenuta (art. 212 c.p.).

4.3. Le prime critiche dottrinarie al sistema dualistico

All'indomani dell'approvazione del Codice Rocco, tra la generale soddisfazione per le novità introdotte dal legislatore (215), emersero le voci critiche di alcuni autorevoli giuristi. Se l'idea di dover tenere conto anche della pericolosità sociale nell'applicazione della sanzione penale aveva fatto breccia nella cultura giuridica della prima metà del XX secolo e sela visione di un diritto penale attento più all'individuo che al fatto non si trovava messa in discussione, la critica verteva piuttosto sul carattere dualistico dell'ordinamento penale. Occorre ricordare che con il Codice Rocco da un lato era stata operata una sorta di contaminazione tra la colpevolezza e la pericolosità sociale, nella fase della commisurazione della pena. Dall'altro lato il codice aveva introdotto misure il cui presupposto applicativo era costituito dalla pericolosità sociale dell'autore (accompagnata alla commissione di un fatto che avrebbe dovuto rappresentare soltanto l'occasione dell'intervento penale). Tra gli autori critici, l'obiezione si rivolgeva a questa seconda operazione. Se dunque era accettato che la funzione special-preventiva fosse diventata uno scopo essenziale del sistema penale e se era positivamente accolta la nuova attenzione alle qualità dell'autore, la critica verteva sulla separazione tra pene e misure di sicurezza. Pene e misure di sicurezza si mostravano, osservandole nella fase applicativa, tanto simili da diventare difficili da distinguere. Prendendo in esame, ad esempio, la casa di lavoro o la colonia agricola era facile notare la somiglianza tra le strutture ove queste erano eseguite e gli stabilimenti di pena ordinari. Non solo gli stabilimenti destinati all'esecuzione delle misure di sicurezza erano così simili agli istituti penitenziari ma si poteva osservare un trattamento del tutto analogo (216). La vicinanza delle due risposte sanzionatorie non poteva, secondo Antolisei, attribuirsi ad alcune pecche dell'Amministrazione delle carceri, bensì era connaturata allo stesso modo di essere di pene e misure di sicurezza (217). Difatti da un lato la durezza del trattamento penale è soggetta ad attenuazioni conseguenti alla buona condotta del detenuto, dall'altra il carattere afflittivo delle misure di sicurezza è un elemento ineliminabile (218). Dunque si prospetta, a partire da queste critiche, l'opportunità di unificare pene e misure di sicurezza, ricorrendo ad una sola sanzione, determinata nel minimo in proporzione della gravità del fatto commesso e indeterminata nel massimo, così da poter costituire un argine alla pericolosità del reo (219).

Se alcuni avanzavano una critica alle misure di sicurezza in generale, altri rilevavano come aspetto negativo del doppio binario la possibilità dell'applicazione congiunta di pene e misure di sicurezza per gli imputabili. Secondo Delitala era apprezzabile, nel nuovo codice, sia la separazione delle pene dalle misure di sicurezza, sia il fatto di vincolarle ai due rispettivi presupposti della colpa e della pericolosità sociale. Ciò che invece appariva incongruente era il fatto di aggiungere, per imputabili e semi-imputabili pericolosi, alla pena la misura di sicurezza, inoltre seguendo una precisa successione temporale. Difatti, data l'afflittività identica delle risposte sanzionatorie, l'applicazione cumulativa, non avrebbe rappresentato altro che un aggravio di pena difficile da giustificare (220).

Dunque era messo in discussione il modello dualistico, soprattutto per quanto concerneva gli imputabili e l'applicazione cumulativa di pena e misure di sicurezza.

Note

1. Occorre per correttezza notare che Manacorda con la sua definizione si riferiva ai manicomi giudiziari. Questi, nell'anno in cui l'Autore scrive il suo volume, già avevano mutato la loro denominazione in quella attuale di ospedali psichiatrici giudiziari. Manacorda continua ad utilizzare il precedente appellativo per una scelta lato sensu politica, che lo stesso autore chiarisce: egli ritiene che al cambiamento nel nome, non abbia fatto seguito un corrispondente mutamento nella sostanza della misura di sicurezza e predilige la locuzione che per più lungo tempo aveva indicato queste istituzioni e che peraltro è l'unica a cui fa riferimento il Codice penale. La scelta operata nel mio lavoro, prescindendo dalla condivisione o meno della critica che Manacorda rivolge alla riforma del 1975, sulla quale avremo modo di ritornare, è stata di un altro tipo. Si è scelto, dato il carattere scientifico del presente lavoro, di utilizzare le tre terminologie che possono riferirsi a questo tipo di istituzioni, in base a quello che è stato il loro uso nei rispettivi periodi e contesti storico-culturali. Cfr. A. Manacorda, Il Manicomio giudiziario: cultura psichiatrica e scienza giuridica nella storia di un'istituzione totale, Bari, De Donato, 1982, p.8.

2. A. Manacorda, Il manicomio giudiziario, op. cit., p. 50.

3. Per la ricostruzione storica della nascita dei manicomi giudiziari si vedano: A. Borzacchiello, “Alle origini del manicomio criminale” in G. Pugliese e G. Giorgini (a cura di), Mi firmo per tutti. Dai manicomi criminali agli ospedali psichiatrici giudiziari, un'inchiesta e una proposta, Roma, Datanews, 1997, pp. 71 e ss.; A. Borzacchiello, I luoghi della follia. L'invenzione del manicomio criminale, 2007; R. Canosa, Storia del manicomio in Italia dall'Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1979; I. Cappelli, “Manicomio giudiziario (voce)”, in Enciclopedia del diritto, XXV, Varese, Giuffrè, 1975; F. Colao, “Un'«esistenza mezza legale mezza no». Il manicomio giudiziario nell'Italia liberale”, in F. Colao et al., Perpetue appendici e codicilli alle leggi italiane, Macerata, EUM, 2011, pp. 439 e ss.; A. Manacorda, Il manicomio giudiziario, cit.; Paolella F., “Alle origini del manicomio criminale”, in Rivista sperimentale di freniatria, 75 (2011), 1, pp. 33-43; G. Simonetti, Ospedale psichiatrico giudiziario: aspetti normativi e sociologici, tesi di laurea, Facoltà di giurisprudenza, Università degli studi di Firenze, 2003.

4. Il termine asilo nel XIX secolo era utilizzato come sinonimo del termine manicomio, dunque speciali asili stava ad indicare dei manicomi destinati ad accogliere particolari categorie di folli, nel nostro contesto i manicomi criminali.

5. L'espressione è quella utilizzata dal Codice penale sardo del 1859, all'art. 94, per delineare gli stati e le situazioni che escludevano che il reato si potesse configurare, in ottemperanza al principio fissato dal brocardo nullum crimen sine culpa.

6. Per la distinzione tra rei folli e folli rei è stata utile la lezione dal titolo “Verso la chiusura dell'ospedale psichiatrico giudiziario?” del Dott. Franco Scarpa, tenuta il 22/02/2013 durante lo svolgimento del Corso di formazione per volontari penitenziari Law in action, organizzato dall'associazione L'altro diritto. Cfr. anche A. Manacorda, Il manicomio giudiziario, cit., p.9; A. Manacorda, “Il manicomio giudiziario. Aspetti di raffronto tra l'Italia e gli altri paesi europei”, in G. Pugliese e G. Giorgini, Mi firmo per tutti, op. cit., p. 96; F. Scarpa, OPG: ospedale psichiatrico giudiziario, in Psychiatry on line Italia.

7. In questa breve sintesi delle teorie contrattualiste non è possibile dar conto delle notevoli differenze che intercorrono tra i vari pensatori che nel corso del XVII e XVIII secolo hanno elaborato teorie che possono rientrare nella definizione di “contrattualiste”. In particolare la nostra descrizione appare più rispondente alle teorie hobbesiane che non alla elaborazione lockeana. Infatti, per Hobbes lo stato di natura è uno stato di guerra perpetua, bellum omnium contra omnes, dal quale l'uomo può uscire solo attraverso il contratto sociale e la cessione dei propri diritti, illimitati nello stato di natura, ad un sovrano assoluto, che impone le leggi e detiene il monopolio dell'uso della forza (vd. N. Abbagnano, G. Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Vol. 2A, Milano, Mondadori, 2007, pp. 354 e ss.). Diversamente per Locke la libertà è già limitata nello stato di natura dalla legge naturale la quale stabilisce un vincolo all'esercizio della libertà individuale nel rispetto di quella altrui. Lo stato di natura non è uno stato di guerra, solo potenzialmente lo può diventare, quando uno o più uomini, violando la norma naturale pretendano di controllare la vita, la libertà o i beni di altri. Lo stato nasce a garanzia dei diritti naturali e l'uomo con il contratto sociale non cede la propria libertà bensì accetta, in aderenza allo stesso principio di libertà - o meglio al modo in cui questa viene a configurarsi quando esiste la società - di non sottostare ad altra legge o ad altro potere che non sia quello stabilito per consenso dai cittadini. (Vd. N. Abbagnano, G. Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Vol. 2A, Milano, Mondadori, 2007, pp. 379 e ss.). Chiari riferimenti ad Hobbes si trovano in uno dei testi più importanti della tradizione dei riformatori illuministi, Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, vd. C. Beccaria, Dei Delitti e delle pene, Milano, Feltrinelli, 2012, p. 37.

8. C. Beccaria, Dei Delitti e delle pene, Milano, Feltrinelli, 2012, p.38.

9. La funzione retributiva nella storia delle teorie giuspenalistiche ha assunto due diverse sfumature, una è quella della retribuzione giuridica, alla quale si fa riferimento nel testo, l'altra la retribuzione morale. Se la retribuzione giuridica risponde ad una logica interna alla norma, secondo il sillogismo hegeliano (norma-tesi, violazione-antitesi, punizione-sintesi), la retribuzione morale pone al centro l'individuo che ha violato la norma che per questo merita la punizione che è prima di tutto un'esigenza etica, irrinunciabile, della società. Cfr. F. Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, Giappichelli, 2008, pp. 21-23; G. Castellana, La funzione rieducativa della pena e il detenuto straniero. Aspetti sociologici e costituzionalistici, tesi di laurea, Facoltà di giurisprudenza, Università degli studi di Firenze, a.a. 2003, cap. I.

10. F. Palazzo, op. cit., pp. 16 e ss.

11. E. Santoro, Carcere e società liberale, Torino, Giappichelli, 2004, p.3.

12. Beccaria si esprime così a riguardo: «Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male dev'essere calcolata l'infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe» (C. Beccaria, op. cit., p.78). La pena non deve perciò essere crudele, in quanto un castigo crudele ma non infallibile non produce un effetto deterrente maggiore di un castigo meno efferato ma certo.

13. L'estrema crudeltà dei castighi è avversata da Beccaria in quanto mina il principio di proporzionalità tra delitto e castigo centrale nel sistema così delineato, inoltre i supplizi cruenti non possono essere la base di un sistema generalizzato e dunque creano impunità. Cfr. C. Beccaria, op. cit., p.79.

14. Un esempio della non configurazione del reato nel caso di commissione di un atto da parte di un folle è dato dalla formulazione dell'art. 94 del Codice penale sardo del 1859, che recitava «Non vi è reato se l'imputato trovavasi in istato di assoluta imbecillità, pazzia o morboso furore quando commise il fatto». Una formula del tutto analoga si trova nell'art. 64 del code pénal français del 1810, ove si può leggere:«Il n'y a ni crime ni délit, lorsque le prévenu était en état de démence au temps de l'action, ou lorsqu'il a été contraint par une force à laquelle il n'a pu résister».

15. M. Foucault, Les anormaux. Cours au collège de France. 1974-1975, Paris, Gallimard, 1999, tr. it., Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Milano, Feltrinelli, p.37.

16. E. Santoro, op. cit., p. 32.

17. Possiamo notare, con Garland, come dal punto di vista metodologico un approccio induttivo risulti scientificamente poco fondato. Attraverso l'osservazione dei singoli dalla quale si traggono le leggi universali, è infatti possibile attribuire le qualità di cause ad un infinità di fattori; del resto può risultare agevole osservare, dando uno sguardo alle edizioni della Sociologia criminale di Ferri, che mentre le prime constavano solo di un paio di centinaia di pagine l'ultima arrivava a contarne oltre 1000. Si veda: D. Garland, Punishment and Welfare. A History of Penal Strategy, Gower, Adershot, 1985, pp. 95 e ss.

18. Cfr. C. Beccaria, op. cit., pp. 38, 54, 108-109.

19. Enrico Ferri è stato un illustre giurista ed uno dei maggiori esponenti della Scuola Positiva.

20. E. Ferri, La scuola criminale positiva. Conferenza del Prof. Enrico Ferri nella Università di Napoli, Napoli, Enrico Detken, 1885, p. 6.

21. Il concetto di monomania fu elaborato nel corso del XIX secolo ad opera di psichiatri come Esquirol ed utilizzato al fine di offrire una ragione a quei crimini rispetto ai quali risultava difficile cogliere l'interesse sottostante e che erano commessi da soggetti che non offrivano sintomi di un vero e proprio stato di demenza. Dunque la monomania giunge a spiegare questi crimini; quello che avrebbe dovuto essere il sintomo della malattia, ovvero la commissione del reato, finiva per diventarne la spiegazione stessa, difatti la monomania, in particolare quella omicida, era una patologia che, senza aver offerto segni precedenti di disturbo, si scatenava in un singolo atto criminale. Cfr. M. Foucault, “About the concept of 'Dangerous individual' in 19th Century legal Psychiatry”, in Journal of law and psychiatry, vol. I, 1978, tr. it., “L'evoluzione della nozione di 'individuo pericoloso' nella psichiatria legale del XIX secolo”, in Archivio Foucault 3, Milano, La Feltrinelli, 1998, pp. 43 e ss.

22. E. Ferri, Sociologia criminale, IV ed., Torino, Fratelli Bocca, 1900, p.870.

23. C. Lombroso, op. cit., p. 1778.

24. Idem.

25. Quelle richiamate sono le tipologie delinquenti individuate da Ferri (E. Ferri, La sociologia criminale, cit., pp. 194 e ss.).

26. Tra tutti i noti sostitutivi penali di Ferri (E. Ferri, La sociologia criminale, cit., pp. 394 e ss.).

27. D. Garland, Punishment and Welfare, cit., pp. 95 e ss.

28. C. Lombroso, L'uomo delinquente. In rapporto all'antropologia, alla giurisprudenza ed alla psichiatria, V edizione, 1897, ristampa, 2013, Milano, Bompiani Editore, pp. 1798 e 1826.

29. Ivi, p. 1831.

30. D. Garland, Punishment and modern society, Oxford, Clarendon Press, 1990, tr. it. in E. Santoro, Carcere e società liberale, op. cit., pp.341-342.

31. M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Parigi, Gallimard, 1975, tr. it., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1993, p. 20.

32. Ivi, p. 111.

33. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pp. 108-112; si veda G. Campesi, “L'«individuo pericoloso». Saperi criminologici e sistema penale nell'opera di Michel Foucault”, in Materiali per una storia della cultura giuridica, XXXVIII, n. 1, giugno 2008, Bologna, Il Mulino, pp.125-126; P. Marchetti, “Le «sentinelle del male». L'invenzione ottocentesca del criminale come nemico della società tra naturalismo giuridico e normativismo psichiatrico”, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 38, 2009, Tomo II, Milano, Giuffrè, pp. 1020 e ss.

34. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pp. 100-110.

35. G. Campesi, op. cit., p. 129.

36. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pp. 100-110.

37. Ricordiamo l'idea di Beccaria, secondo cui il castigo deve rappresentare uno svantaggio di poco più grande rispetto al vantaggio che il crimine è in grado di procurare. Cfr. C. Beccaria, op. cit. Cfr. M. Foucault, Gli anormali, cit., p.86.

38. M. Foucault, Gli anormali, cit., pp.83-86.

39. Foucault ponendo l'attenzione sull'elaborazione del mostro morale, centrale nel passaggio dalla concezione di crimine come malattia del corpo sociale - tipica del XVI sec. - a quella di criminale come malattia - che appare a partire dal XVIII sec., ci mostra come sia proprio la figura del mostro politico, la prima a calcare la scena dell'elaborazione della figura del mostro morale, il despota e il popolo sanguinario accompagneranno il discorso sui mostri per tutto il XVIII secolo, alimentando quel passaggio da mostruosità sintomo del crimine a crimine sintomo di mostruosità. Cfr. M. Foucault, Gli anormali, pp. 79-91.

40. Lombroso, riprendendo la teoria della degenerazione di Morel, aveva individuato tra le cause della criminalità l'atavismo. Con atavismo intendeva la presenza negli individui criminali di caratteri che sarebbero tipici di una fase precedente dell'evoluzione umana, dunque caratteri primitivi, a titolo d'esempio la fossetta occipitale, gli archi sopraccigliari sporgenti, la fronte sfuggente (C. Lombroso, L'uomo delinquente, cit., pp. 195 e ss.).

41. P. Marchetti, “Le 'sentinelle del male'. L'invenzione ottocentesca del criminale nemico della società tra naturalismo giuridico e normativismo psichiatrico”, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 38, 2009, Tomo II, Milano, Giuffrè, pp. 1020-1022.

42. M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 92.

43. M. Foucault, Gli anormali, cit., pp.109-110.

44. M. Foucault, “About the concept of 'Dangerous individual' in 19th Century legal Psychiatry”, in Journal of law and psychiatry, vol. I, 1978, tr. it., “L'evoluzione della nozione di 'individuo pericoloso' nella psichiatria legale del XIX secolo”, in Archivio Foucault 3, Milano, La Feltrinelli, 1998, pp. 43 e ss.

45. M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 28.

46. M. Foucault, L'evoluzione del concetto di 'individuo pericoloso', cit., pp. 43 e ss.

47. G. Campesi, L'individuo pericoloso, cit., pp. 132 e ss.

48. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 110.

49. La prigione non corrisponde al sistema di sanzioni ideato dai pensatori illuministi i quali immaginavano in primo luogo che le pene dovessero essere il più possibile variegate e rendere noto in modo immediato a chi assisteva alla loro esecuzione il tipo di reato commesso (un sistema penale simile al contrappasso dantesco), così da veicolare meglio il messaggio trasmesso; inoltre avrebbero dovuto essere eseguite in luoghi accessibili e visibili al pubblico così da diffondere il loro monito ad un vasto numero di soggetti. Come sostiene Foucault, i riformatori illuministi avevano immaginato una città punitiva, dove si sarebbero trovati: «Agli incroci, nei giardini, sui bordi delle strade che vengono rifatte o dei ponti che vengono costruiti, nei laboratori aperti a tutti, nel fondo delle miniere che si vanno a visitare; mille piccoli teatri di castighi», M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit. p. 123.

50. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pp. 304-305.

51. Re Giorgio III subì, nel giro di pochi anni due attentati da parte di due persone ritenute pazze, il primo nel 1786 quando ad attentare alla sua vita fu Margaret Nicholson, il secondo commesso da John Frith nel 1790. Nel corso del XIX secolo subirono attentati anche alcuni importanti politici: Lord Palmerston, Edward Drummond e Robert Peel. Simili attentati subì la Regina Vittoria. Lo stesso Lombroso fa riferimento a questi avvenimenti. Cfr. Lombroso C., L'uomo delinquente, cit., pp.1793-1795.

52. Questa formula indica coloro che con successo hanno sollevato la defence of insanity, adducendo l'assenza di mens rea al momento della commissione del fatto. Cfr. S. Vinciguerra, Diritto penale inglese comparato, Padova, Cedam, 2002, pp.328-329.

53. Il Vagrancy act era una legge in materia di vagabondaggio, non si occupava espressamente del problema dei folli rei, stabiliva in generale che, per quelle persone che in ragione della loro alienazione mentale fossero risultate pericolose, due giudici potessero disporre l'accompagnamento e la custodia in un luogo sicuro, cfr. N. Glover-Thomas, Reconstructing mental health law and policy, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, cap. I.

Questa legge prima del 1800, anno della promulgazione dell'Insane offender's act era stata utilizzata da alcuni giudici per disporre la custodia dei prosciolti con clausola guilty but insane. Cfr. V. Argent, Counter revolutionary panic and the treatment of insane 1800, in Andrew Roberts' Web Site, cap. II.

54. Cfr. V. Argent, op. cit., cap. II.

55. Il 1786 non rappresenta una data casuale, si tratta infatti dell'anno dell'attentato a Re Giorgio III da parte di Margareth Nicholson, prosciolta perché ritenuta inferma di mente.

56. I. Cappelli, Manicomio giudiziario (voce), in Enciclopedia del diritto, XXV, (1975), Milano, Giuffrè, nota n.3 al paragrafo 2.

57. Con il Trial of lunatics act del 1885 si destinano alle nuove sezioni criminali all'interno degli asili i detenuti che nel corso della detenzione avessero dato segni di pazzia. Nei decenni successivi in tutta la Gran Bretagna furono aperti dei criminal lunatics asylums, cfr. G. Simonetti, op. cit., cap. 1, par. 1.

58. A. Borzacchiello, op. cit., p. 72.

59. L. Michel, B. Brahmy, Guide de la pratique psychiatrique en milieu pénitentiaire, Paris, Heures de France, 2005, p. 49.

60. Il progetto di istituire questi manicomi speciali fu avanzato già a partire dal 1846 da Bierre de Boismont. Il progetto fu discusso solo 20 anni dopo, al Congresso della Società medico-psicologica francese degli anni 1868-1869, Cfr. L. Michel, B. Brahmy, op. cit., pp. 49-50.

61. Ibid.

62. La legislazione sugli alienati criminali non era uniforme nei vari stati europei, soprattutto non tutti gli Stati prevedevano il medesimo trattamento per rei folli e per folli rei. In alcuni Stati gli accusati di un crimine ritenuti non colpevoli perché affetti da una patologia psichiatrica, erano sottoposti alla medesima legislazione prevista per i folli comuni: in Belgio ad esempio i prosciolti in ragione della loro follia erano ricoverati in asili comuni, come previsto per gli alienati pericolosi; così in Germania a seguito dell'assoluzione il prosciolto era rimesso in libertà, salvo apposito intervento dell'autorità amministrativa; lo stesso anche in Olanda dove i malati di mente, ordinari e criminali potevano essere ricoverati con ordine del Tribunale. In altri Stati era prevista una normativa specifica per gli alienati criminali, in Danimarca all'assoluzione faceva seguito un giudizio sulla pericolosità nel corso del quale poteva essere disposta la custodia presso l'autorità amministrativa. Analogamente, in Spagna il Tribunale ordinava il ricovero in manicomio o la custodia presso la famiglia dell'alienato, purché avesse fornito le idonee garanzie. In Portogallo all'assoluzione poteva seguire per ordine dell'autorità giudiziaria il ricovero in manicomio. Una disciplina simile era prevista in Austria. Tra i Paesi appena citati solo l'Olanda era dotata di una struttura speciale per folli rei. Per quanto concerne i rei folli alcune legislazioni prevedevano la possibilità di ricoverarli negli asili comuni, così in Austria, in Ungheria e in Croazia; altre avevano introdotto speciali sezioni, destinate a questi individui, all'interno delle carceri come la Germania e il Belgio; altri infine, in particolare l'Olanda avevano istituito veri e propri manicomi criminali ove erano ospitati sia rei folli che folli rei. Si veda F. Desportes, Enquête sur la législation relative aux aliénés dits criminels, A. Chaix & Cie., 1878, pp. 955 e ss.

63. A. Borzacchiello, op. cit., p. 72.

64. Ibid.

65. In questo contesto vogliamo riferirci alla legge sui manicomi in generale, non ad una legge apposita per i manicomi criminali.

66. Fino al 1871 fece eccezione anche il Veneto al quale continuava ad essere applicata la previgente codificazione austriaca. Cfr. G. Vassalli, “Codice penale (voce)”, in Enciclopedia del diritto, VII, Varese, Giuffrè, 1960.

67. Art. 94 Codice penale 1859.

68. Art. 95 Codice penale 1859.

69. In Olanda, ad esempio, il prosciolto folle, al pari del folle comune, poteva essere ricoverato in manicomio per ordine del Tribunale. La legislazione manicomiale, inoltre, prevedeva appositi asili per i rei folli. Si veda supra nota n. 69.

70. Riferendomi ad un periodo nel quale ancora non erano stati istituiti i manicomi giudiziari (o comunque a cavallo della loro nascita) può apparire improprio l'utilizzo del termine “manicomi civili” che presuppone l'esistenza di strutture manicomiali diverse. La scelta di adottare comunque tale terminologia è dettata dall'esigenza di fare chiarezza e di distinguere la normativa sui manicomi in genere da quella che concerne, più specificamente, i manicomi giudiziari.

71. R. Canosa, op. cit., p. 100; Per un'analisi della normativa predisposta dalla Legge Giolitti, si veda infra par. 3.1.

72. I progetti disciplinavano diversamente i suddetti aspetti. Per quanto concerne i meccanismi d'ingresso e d'uscita i progetti oscillavano tra quelli che attribuivano ai medici il potere di decidere sul ricovero e sulle dimissioni (Petizione Bonacossa al progetto Bertini del 1848) e quelli che delineavano una procedura giurisdizionale alla quale il medico prendeva parte attraverso la produzione di un certificato che doveva accompagnare la domanda di ricovero, effettuata dalla famiglia o da chi ne avesse interesse (Progetto Nicotera del 1877), infine alcuni prediligevano un sistema misto, con l'intervento del giudice - nella fase delle dimissioni - solo in presenza di parere contrastante tra famiglia e medico (Progetto Crispi del 1890). Alcuni progetti, inoltre, configuravano l'ipotesi di ingresso volontario (Progetto Nicotera del 1877).

Le spese risultavano ripartite tra province e comuni seguendo criteri diversi: dal grado di avanzamento della malattia alle ripartizioni in percentuali fisse.

In merito alla sorveglianza si spaziava dalla predisposizione di una Commissione provinciale che vigilasse sull'andamento dei manicomi ad affidare direttamente al Ministero dell'interno tale controllo, cfr. R. Canosa, op. cit., pp. 100-118.

73. R. Canosa, op. cit., pp. 105-106.

74. Ibid.

75. R. Canosa, op. cit., pp. 111-113.

76. F. Colao, “Un'esistenza mezza legale mezza no”, op. cit., p. 445.

77. C. Lombroso, “La proposta di legge sui manicomi criminali”, in Archivio di psichiatria, 1881, pp. 184, cit. in F. Colao, op. cit., p. 445.

78. Lucchini, “Speciali asili del Ministero degli Interni per gli alienati criminali”, in Rivista penale, 1892, p. 179, cit. in F. Colao, op. cit., p. 445.

79. F. Colao, “Un'esistenza mezza legale mezza no”, op. cit., p. 444.

80. C. Lombroso, L'uomo delinquente in rapporto all'antropologia, alla giurisprudenza, alla psichiatria (cause e rimedi), cit., pp. 1797 e ss.

81. Ivi, p. 1797-1798.

82. Ibid.

83. Ibid.

84. Ivi, pp. 1799-1800.

85. Occorre notare che molti criminologi ed esponenti della Scuola Positiva, tra i quali lo stesso Lombroso, erano psichiatri. Per una ricostruzione della biografia del noto antropologo criminale si rinvia a G. Lombroso, Cesare Lombroso: storia della vita e delle opere, Bologna, Zanichelli, 1921.

86. A. Tamburini, “i manicomi criminali” in rivista di discipline carcerarie, 1873, pp.35 e ss. Cit. in R. Canosa, Storia del manicomio, op. cit., p.138.

87. R. Canosa, op. cit., pp.137-138.

88. Con lo sguardo dei contemporanei può apparire inusuale che delle questioni relative alle prigioni si occupasse il Ministero dell'Interno, ma fino a tempi relativamente recenti è stato il Ministero dell'Interno ad avere la competenza sulle carceri. Solo con la legge n. 1601/1922 si attuerà il passaggio della Direzione Generale delle carceri dal Ministero dell'interno a quello della Giustizia. Sulla riforma si veda, S. Sepe, “Il Ministero dell'interno nella storia unitaria”, in S. Sepe, L. Mazzone (a cura di), Pagine di storia del Ministero dell'interno, Roma, Scuola superiore dell'amministrazione dell'interno, 1998, p. 18.

89. Parte del testo della circolare è riportato in R. Canosa, Storia del manicomio in Italia dall'Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1979, p.136.

90. Le ragioni pratiche a cui si è fatto riferimento sono comunque indizi di una nuova visione che individua nella commissione del crimine un aspetto sintomatico di un livello di pericolosità superiore, che attribuisce una nuova e maggiore importanza al delinquente, indici dunque di uno spostamento dell'oggetto della penalità dal fatto alla persona che lo ha commesso.

91. Canosa riporta, nella sua opera di ricostruzione della storia del manicomio in Italia, due pareri a riguardo: uno di S. Biffi, medico psichiatra che si assesta sulla posizione favorevole alla collocazione dei detenuti impazziti nei manicomi criminali ma manifesta il suo dissenso riguardo alla destinazione nelle stesse strutture dei prosciolti folli; l'altro è dato dalla risposta del Ministro Mancini all'interrogazione dell'onorevole Righi. Il Ministro Mancini dichiara l'intenzione del Governo di adottare per i detenuti impazziti il sistema Belga - consistente nella predisposizione di sezioni speciali nei manicomi comuni - ma si esprime negativamente riguardo all'ipotesi dell'introduzione di misure destinate ai prosciolti. vd. R. Canosa, Storia del manicomio in Italia dall'Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 138-140.

92. Le opinioni contrarie alla destinazione dei prosciolti folli in manicomio criminale emersero soprattutto nel corso del dibattito parlamentare sull'approvazione degli articoli 46 e 47 del Progetto di codice penale di Zanardelli. Nel primo progetto era infatti prevista la facoltà, per il giudice del dibattimento, di disporre con la sentenza di proscioglimento il ricovero in manicomio giudiziario del folle reo. Su questi articoli si espresse in senso sfavorevole la Commissione della Camera dei deputati incaricata dell'esame, durante il dibattito in aula l'On. Pellegrini sosteneva che il giudizio sul ricovero in strutture manicomiali fuoriuscisse dal magistero del giudice penale, analogamente l'On De Maria, si opponeva in quanto non era ammissibile la reclusione in queste strutture di persone assolte in quanto giudicate non imputabili. Si veda R. Canosa, op. cit., pp. 143-145.

93. A. Borzacchiello, Alle origini del manicomio criminale, cit., p. 78.

94. Il manicomio criminale sarà regolato come istituto speciale di pena con il Regolamento delle carceri del 1891, del resto erano consapevoli di questa natura dell'istituzione anche personaggi di spicco del mondo politico, tra tutti Giolitti. Cfr. R. Canosa, Storia del manicomio, op. cit., p. 147.

95. A. Borzacchiello, p.79.

96. Sulla storia del manicomio giudiziario di Montelupo Fiorentino si rinvia a: A. Borzacchiello, op. cit., p. 82; G. Simonetti, op. cit., cap. II; D. Vanni, “OPG: un inquadramento storico”, in Atti della Fondazione Giorgio Ronchi, 59, 2004, 4, pp. 567 e ss.

97. Si ricordano ad esempio: il progetto De Falco del 1864, quello del 1870 ad opera della Commissione nominata da Pironti, il Progetto Vigliani del 1874 e quello Mancini del 1876, Cfr. G. Vassalli, Codice penale, cit.

98. Art. 46 Codice penale 1889.

99. F. Rotondo, Il tentativo di medicalizzazione della penalità in Italia sul finire del XIX secolo, Tesi di Dottorato, Università degli studi di Napoli, a.a. 2006-2007, pp. 26 e ss.

100. Questo meccanismo lasciava aperta la possibilità di far rientrare tra le ipotesi di non imputabilità tutte quelle condizioni dell'infrapatologico e del paralegale o dell'infralegale e parapotologico (M. Foucault, Gli anormali, op. cit., pp. 28), quelle condizioni a cui abbiamo fatto riferimento nel paragrafo 1.3., che non rientrano nel concetto di follia in senso stretto ma rispetto alle quali si verifica un cortocircuito data la incomprensibilità della ragione del delitto. A questo si aggiungeva anche la previsione della semi-imputabilità, concetto da sempre molto controverso ma che era già presente nel codice previgente.

101. Art. 46 Codice penale 1889.

102. Art. 13 Disposizioni attuative del Codice penale del 1889.

103. Art. 13 Disposizioni attuative del Codice penale del 1889.

104. Art. 14 Disposizioni attuative del Codice penale del 1889.

105. Ibid.

106. Art. 47 Progetto Codice penale.

107. Per la ricostruzione delle critiche sferrate da Rivista penale di Lucchini ai positivisti si veda F. Rotondo, Il tentativo d medicalizzazione, cit., pp. 16 e ss.

108. R. Canosa, Storia dei manicomi, cit., pp. 146-147.

109. Ci siamo già soffermati in precedenza sulle denominazioni e sulla differenza tra manicomio criminale, inteso come progetto teorico promosso da psichiatri e criminologi positivisti e manicomio giudiziario come istituzione effettivamente posta in essere sul finire del XIX secolo in Italia. In questo contesto vorremmo soffermarci sulla scelta da parte di Beltrani Scalia della denominazione, di qui la nostra domanda: perché manicomio giudiziario? Lo stesso Direttore delle Carceri fornisce a riguardo una risposta: il manicomio giudiziario non era chiamato ad accogliere solo servi di pena impazziti, dunque soggetti condannati e correttamente appellabili criminali, ma anche soggetti giudicabili, dunque nei confronti dei quali non appare possibile utilizzare il termine criminale, tutti però sono soggetti all'autorità giudiziaria, dunque l'aggettivo giudiziari appare il più idoneo a qualificare queste strutture, F. Colao, Un'esistenza mezza legale mezza no, op. cit., p. 439.

110. F. Colao, Un'esistenza mezza legale mezza no, op. cit., p. 446.

111. E. Ferri, Manicomio criminale di Montelupo, in «Archivio di psichiatria», 1887, pp. 523 ss, cit. in F. Colao, Un'esistenza mezza legale mezza no, op. cit., pp. 439 e 446.

112. In questo senso si veda I. Cappelli, “Manicomio giudiziario” (voce) in Enciclopedia, XXV, 1975, Milano, Giuffrè.

113. F. Colao, Un'esistenza mezza legale mezza no, cit. p. 446.

114. A. Manacorda, Il manicomio giudiziario. Aspetti di raffronto, cit., pp. 95 e ss.

115. E. Ferri, “Manicomio criminale di Montelupo”, in Archivio psichiatria, 1888, p. 526-528.

116. Ibid.

117. Ibid.

118. C. Lombroso, L'uomo delinquente in rapporto all'antropologia, alla giurisprudenza, alla psichiatria (cause e rimedi), cit., p. 1830.

119. L. Daga, “Ospedali psichiatrici giudiziari, sistema penale e sistema penitenziario: appunti sulla funzione dell'OPG”, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 1-3, 1985.

120. C. Lombroso, L'uomo delinquente, cit., pp. 1801 e ss.

121. Ivi, p. 1830.

122. Ivi, p. 1831.

123. G. Simonetti, Ospedale psichiatrico giudiziario: aspetti normativi e sociologici. Il caso di Montelupo Fiorentino.

124. E. Ferri, Manicomio criminale di Montelupo, cit., p. 527.

125. C. Lombroso, L'uomo delinquente, cit., pp. 1830 e ss.

126. G. Simonetti, op. cit.

127. Ibid.

128. F. Saporito, “Manicomi criminali”, in La scuola positiva, 1907, p. 168, cit. in F. Colao, “Un'esistenza mezza legale mezza no”, op. cit., p. 446.

129. C. Lombroso, “Pene ai pazzi e sistemi medievali di loro custodia nel XX secolo”, in La Scuola positiva, 1902, Id., Sul momento attuale, Milano, 1903, p. 94., cit. in F. Colao, “Un'esistenza mezza legale mezza no”, op. cit., p.447.

130. Ibid.

131. D. Vanni, “O.P.G. italiani: un inquadramento storico”, in Atti della Fondazione Giorgio Ronchi, 59, 2004, 4, pp. 574-575.

132. R. Canosa, op. cit., pp. 100 e ss.

133. Articolo 6 Legge n. 36 del 1904.

134. Articolo 6 Legge n. 36 del 1904.

135. A. Tamburini,“ Relazione al primo convegno della Società italiana di antropologia e diritto criminale”, in La Scuola Positiva, 1914, pp. 391 e ss., cit. in R. Canosa, op. cit., p.147.

136. In questo senso si espresse chiaramente al Presidente del Consiglio, Il Ministro Giolitti, vedi R. Canosa, op. cit., p. 147.

137. G. Vassalli, Codice penale, cit.

138. Ibid.

139. A dimostrazione di quanto detto circa il valore meramente sintomatico che il fatto veniva ad assumere si consideri che nel Progetto Ferri erano abolite le distinzioni tra delitto consumato e delitto tentato. Vedi G. Vassalli, Codice penale, cit.

140. Ibid.

141. S. Musio, La vicenda del Codice Rocco nell'Italia repubblicana, Tesi di laurea, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Firenze, a.a. 1999.

142. Le misure di sicurezza sono dal Codice penale definite amministrative. Attraverso questa definizione e la conseguente distinzione dalla pena che è propriamente una misura penale si giustifica l'applicazione delle stesse a prescindere dalla colpevolezza, pur rimanendo fedeli ai principi del diritto penale liberale. A lungo nel corso del XX secolo in dottrina si è dibattuto sulla correttezza della classificazione come amministrative delle misure di sicurezza. In questa sede non è possibile ripercorrere tutte le fasi del dibattito, sarà sufficiente richiamare il fatto che ad oggi la dottrina prevalente ritiene le misure di sicurezza sanzioni di natura penale, infatti sono applicate dal giudice penale, nel corso di un procedimento giurisdizionale e non amministrativo, e si qualificano come risposte dell'ordinamento alla commissione di un fatto-reato che hanno una innegabile dimensione afflittiva e comportano la compressione di alcuni diritti fondamentali. Da tale tesi è derivata la riflessione circa la necessità di estendere alcune garanzie del diritto penale anche alle misure di sicurezza. Tra i principi alcuni autori ritengono possa essere esteso anche quello della proporzionalità al fatto commesso, anche se la proporzionalità rimane pur sempre relativa, stando la durata potenzialmente indeterminata delle misure. Per i riferimenti bibliografici sia della dottrina che sostiene la natura amministrativa, sia di quella che predilige la configurazione come sanzione penale rinviamo a D. Spuri, “Della natura giuridica delle misure di sicurezza”, in Cassazione Penale, 10, 2012, pp. 3417 e ss.; Per inquadrare il dibattito in una chiave internazionale e comparata si rinvia a J.L.G. Dalbora, Pene e misure di sicurezza. Profili concettuali, storici e comparatistici, Trento, Università degli Studi di Trento, 2009, pp. 103 e ss.

143. G. De Francesco, “Arturo Rocco (voce)”, in Contributo italiano alla storia del pensiero - Diritto, Treccani, 2012.

144. F. Von Liszt, Der Zweckgedanke in Strafrecht, Guttentag, Berlin, 1905, tr. it. a cura di A.A. Calvi, La teoria dello scopo nel diritto penale, Milano, Giuffré, 1962; Si veda inoltre E. Musco, La misura di sicurezza detentiva. Profili storici e costituzionali, Milano, Giuffrè, 1978, p. 33-37.

145. E. Musco, La misura di sicurezza detentiva, cit., pp. 38-50.

146. Arturo Rocco, “Il metodo della scienza del diritto penale”, in Rivista di diritto e procedura penale, I, 1910, pp. 497 e ss.

147. Il tecnicismo-giuridico infatti è un indirizzo di matrice giuspositivista che si diffuse in tutte le branche del diritto nei primi decenni del XX secolo, come reazione alle contaminazioni della scienza giuridica con altre scienze ad opera dei positivisti. Si veda A. Manna, Corso di diritto penale. Parte generale, Padova, Cedam, 2012, pp. 9 e ss.

148. Arturo Rocco, Il metodo della scienza nel diritto penale, cit., pp. 497 e ss.

149. G. De Francesco, “Arturo Rocco” (voce), in Il contributo italiano alla storia del pensiero- Diritto, Treccani, 2012.

150. Art. Rocco, Opere giuridiche. Volume I. L'oggetto del reato e della tutela giuridica penale. Contributo alle teorie generali del reato e della pena, Torino, Fratelli Bocca, 1913, rist. Roma, Società Editrice del Foro italiano, 1932, pp. 442-467.

151. A. Rocco, Il metodo della scienza nel diritto penale, cit., p. 498.

152. Art. Rocco, Opere giuridiche, cit., pp. 442 e ss.

153. S. Musio, La vicenda del codice rocco, cit.

154. Alfredo Rocco, “Relazione a Sua Maestà il Re”, in Testo del nuovo codice penale con relazione a Sua Maestà il Re del Guardasigilli, Roma, Tipografia Le Mantellate, 1930.

155. Corte di Cassazione in Osservazioni e proposte di carattere generale sul progetto definitivo di codice penale, Roma, Tipografia Le Mantellate, 1930, p. 9.

156. Corte d'Appello di Aquila in Osservazioni e proposte di carattere generale sul progetto definitivo di codice penale, Roma, Tipografia Le Mantellate, 1930, p.15.

157. Corte d'Appello di Aquila in Osservazioni, cit., p.15.

158. G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte Generale, Bologna Zanichelli, 2011, p. 329.

159. Per consentire un utile raffronto tra le varie definizioni, ne riportiamo di seguito alcune:

  1. Aleo offre di capacità di intendere la seguente definizione: «attitudine a comprendere il significato sociale dei comportamenti ed orientare le proprie scelte in relazione a un sistema di valori», mentre quella di volere come «attitudine a tradurre in comportamenti le valutazioni e le scelte effettuate», S. Aleo, Diritto Penale. Parte generale, Padova, Cedam, 2010, p. 520.
  2. Manna ritiene che la capacità di intendere debba considerarsi come: «capacità di rendersi conto del significato del fatto, nel senso del suo disvalore, già da un punto di vista etico-sociale e non giuridico», mentre quella di volere dovrebbe qualificarsi come «capacità di autodeterminazione, cioè capacità di resistere agli impulsi», A. Manna, Corso di diritto penale, cit., p. 321.
  3. Palazzo fornisce delle due una definizione unitaria come: «capacità di comprendere il mondo esteriore e la capacità di autodeterminarsi in conseguenza», F. Palazzo, Corso di diritto penale, cit., p. 436.

160. A favore dell'unitarietà G. Fiandaca, E. Musco, op. cit., p. 328; contra M. Romano e G. Grasso, Commentario sistematico del codice penale. Art. 85-149, Milano, Giuffrè, 2012, p.15. Questi ultimi non solo ritengono che le due capacità siano suscettibili di essere distinte ma che una costituisca presupposto necessario per la sussistenza dell'altra, ritengono infatti che in assenza di capacità di intendere non possa darsi capacità di volere, mentre sarebbe possibile il contrario, ovvero la mancanza di capacità di volere, in presenza della capacità di intendere.

161. Peraltro un'assoluta autodeterminazione sarebbe, come osservò Ross, poco funzionale anche al sistema delineato dai classici, stante che se un soggetto non fosse influenzato da niente di ciò che lo circonda, non avrebbe alcun effetto su di lui il monito rappresentato dalla norma penale. Si veda G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale, cit., p. 325.

162. Per la letteratura che sostiene questa ipotesi si rinvia a: M. Romano, G. Grasso, Commentario sistematico del Codice penale. Vol. II. Artt. 85-149, Milano, Giuffrè, 2011, pp. 7-9.

163. La sussistenza della capacità di intendere e di volere per il soggetto con età superiore ai 14 ma inferiore ai 18, è per orientamento consolidato parametrata sul concetto di maturità e non di infermità. La maturità non è intesa soltanto o tanto come sviluppo delle capacità cognitive, affettive e volitive, quanto come possibilità di comprendere il significato etico-sociale della propria condotta. Si veda G. Fiandaca e E. Musco, op. cit., p. 330.

Questa osservazione peraltro, rende comprensibile la possibilità prevista dal Codice che il giudice si esprima sull'infermità di mente del minore (ultraquattordicenne) applicando, in luogo delle misure di sicurezza specifiche per i minorenni, il ricovero in manicomio giudiziario. Su questa misura vedi infra par. 2.3.3.

164. M. Romano, G. Grasso, T. Padovani, Commentario sistematico al Codice penale. Vol. II, cit., pp. 10.

165. Nel corso del XX secolo ad una nozione di malattia mentale medico-biologista si è andata sostituendo prima una concezione psicologica e successivamente una sociologica, si veda al riguardo A. Manna, Corso di diritto penale. Parte generale, Padova, Cedam, 2012, p. 324.

166. G. Fiandaca e E. Musco, op. cit., p. 332; A. Crespi, “Imputabilità”, in Enciclopedia del diritto penale, XX, Milano, Giuffrè, 1970, pp. 763 e ss.

167. M. Romano e G. Grasso, Commentario sistematico del codice penale. Art. 85-149, Milano, Giuffrè, 2012, p. 33.

168. A. Crespi, op. cit.; M. Romano e G. Grasso, op. cit., pp. 34 e ss.; G. Fiandaca e E. Musco, op. cit., pp. 332 e ss.

169. I. Merzargora Betsos, “Imputabilità, pericolosità sociale e capacità di partecipare al processo”, in G. Giusti (a cura di), Trattato di medicina legale. Vol. IV: Genetica, psichiatria forense e criminologia, medicina del lavoro, Padova, Cedam, 2009, pp. 162-163.

170. A. Manna, op. cit., p.336.

171. G. Simonetti, op. cit.

172. A. Manna, op. cit., p.331.

173. Relazione ministeriale, cit. in E. Musco, op cit., p. 132.

174. La commissione di un fatto reato costituisce un presupposto per l'applicazione della misura, ma non ne costituisce il fondamento. La ratio per cui la misura è applicata è l'esistenza o la persistenza della pericolosità sociale. Il fatto, rappresenta l'occasione per l'intervento o il sintomo della pericolosità del soggetto. Del resto la misura di sicurezza non risponde al classico principio di proporzionalità rispetto alla gravità del fatto commesso, piuttosto appare proporzionata al grado di temibilità dell'autore.

175. M. Romano, G. Grasso, T. Padovani, Commentario sistematico. Vol. III, cit., p. 456.

176. Alcuni autori hanno ritenuto che la retroattività debba interpretarsi come relativa alle sole norme che concernono le modalità di esecuzione. Infatti, l'intera materia della successione delle leggi penali nel tempo sarebbe regolata dall'art. 2 del c.p., ove si fa riferimento non solo alle pene ma più in generale alle sanzioni, potendovi ricomprendere anche le misure di sicurezza. Si veda G. Fiandaca e E. Musco, Diritto penale, cit., p. 810.

177. Art. 202 Codice penale.

178. L'art. 49 dispone:

«Non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella supposizione erronea che esso costituisca reato.
La punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell'azione o per l'inesistenza dell'oggetto di essa, è impossibile l'evento dannoso o pericoloso.
Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti, se concorrono nel fatto gli elementi costitutivi di un reato diverso, si applica la pena stabilita per il reato effettivamente commesso.».
Nel caso indicato nel primo capoverso, il giudice può ordinare che l'imputato prosciolto sia sottoposto a misura di sicurezza.

179. L'art. 115 stabilisce che:

«Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell'accordo.
Nondimeno, nel caso d accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare una misura di sicurezza.
Le stesse disposizioni si applicano nel caso di istigazione a commettere un reato, se l'istigazione è stata accolta, ma il reato non è stato commesso.
Qualora l'istigazione non sia stata accolta, e si sia trattato di istigazione a un delitto, l'istigatore può essere sottoposto a misure di sicurezza.».

180. E. Musco, op. cit., p. 132.

181. Ibid.

182. Ivi, pp. 132 e ss.

183. Ivi, pp. 109-110.

184. M. Romano, G. Grasso, T. Padovani, Commentario al Codice penale. Vol. III, cit., pp. 468 e ss.

185. La presunzione di pericolosità è stata abrogata con la Legge n. 663 del 1986, nota come legge Gozzini, per una trattazione approfondita dell'iter che ha portato all'abrogazione si rinvia al Cap. IV, par. 1.3.

186. Sulla revoca vedi infra par. 4.2.2.6.

187. A tale riguardo si ricorderà che tra le categorie di soggetti che Lombroso immaginava di destinare ai manicomi criminali vi erano, ad esempio, coloro che avevano commesso un delitto e presentavano determinate patologie, tra tutti, gli epilettici (si veda supra par. 2.3.).

188. La categoria del delinquente abituale ha origine dall'assunto criminologico secondo il quale, ripetendo più volte una condotta criminosa si attenuerebbero i freni inibitori e dunque il soggetto diverrebbe più portato a ripetere la condotta. L'abitualità era di due tipologie: presunta e valutata dal giudice. La presunzione operava nei confronti del soggetto che, dopo la condanna alla reclusione di almeno 5 anni per tre delitti non colposi della stessa indole, riportasse, entro 10 anni dalla commissione dell'ultimo, una condanna per un altro delitto non colposo della stessa indole. Il giudice poteva altresì dichiarare l'abitualità a seguito della terza condanna per delitto non colposo di eguale indole qualora dalla gravità del fatto e da elementi relativi alla persona del reo si potesse desumere la dedizione al delitto. G. Volpatti, “La pericolosità qualificata”, in P. Pittaro (a cura di), Scuola Positiva e sistema penale: quale eredità?, Trieste, Edizioni Università di Trieste, 2012, pp. 35-38.

Occorre notare che a seguito della Legge Gozzini del 1986 le presunzioni di pericolosità sociale sono state abolite, per la trattazione di questo aspetto ci permettiamo di rinviare infra Cap. IV, par. 1.2. e 1.3.

Per quanto riguarda le pericolosità «specifiche» ovvero abitualità, professionalità o tendenza, alcuni autori hanno ritenuto che la presunzione permanesse anche a seguito della Legge 663 del 1986 ma si tramutasse da assoluta in relativa. In realtà appare più coerente con il dettato normativo ritenere abrogata la presunzione. Si veda a riguardo G. Fiandaca e E. Musco, op. cit., pp. 818-819.

189. Il delinquente professionale è una species del genus delinquente abituale. Si tratta del soggetto che essendo nelle medesime condizioni per la dichiarazione di abitualità debba ritenersi viva dei proventi del reato. G. Volpatti, La pericolosità qualificata, cit., p. 38.

190. Il delinquente per tendenza rappresenta una delle categorie maggiormente discusse in quanto è stata ritenuta priva di fondamenti criminologici. Si tratta del soggetto che ha commesso un reato contro la vita o l'incolumità individuale e riveli una particolare inclinazione al delitto. G. Volpatti, op. cit., p. 39.

191. L'assegnazione ad una colonia agricola e quella ad una casa lavoro sono due misure di sicurezza destinate ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza. La durata minima di queste misure non può essere inferiore ad un anno e varia a seconda del livello di pericolosità del soggetto. Secondo alcuni autori non si tratterebbe di due misure di sicurezza distinte ma soltanto di due modalità esecutive della medesima misura d sicurezza. E. Gallucci, “Delle misure amministrative di sicurezza”, in G. Lattanzi, E. Lupo (a cura di), Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina. Vol. V. La modificazione, applicazione ed esecuzione della pena. L'estinzione del reato e della pena, le sanzioni civili e le misure amministrative di sicurezza, Milano, Giuffrè, 2010, pp. 996-997.

Il giudice ha ampia discrezionalità di scelta tra le due misure che si dovrebbero distinguere per la tipologia di lavoro svolto, nell'una agricolo, nell'altra artigianale manifatturiero. In realtà non solo non sono concretamente distinguibili, ma sono eseguite negli stessi istituti dove è scontata la pena, spesso in assenza di opportunità lavorative e anche ove queste siano offerte si limitano a quelle mansioni di servizio degli istituti penitenziari che occupano un minima parte della giornata del detenuto.

Si veda A. Ghiara, “L'esecuzione delle misure di sicurezza secondo la legge e nella realtà”, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1973, pp. 272 e ss.

192. Il ricovero in riformatorio giudiziario è la misura di sicurezza destinata ai minori, in particolare gli artt. 224 e 225 stabiliscono che la misura debba applicarsi al:

  1. minori dei 14 anni o minore dei 18, riconosciuto non imputabile, che abbiano commesso un delitto doloso, preterintenzionale o colposo e siano considerati socialmente pericolosi;
  2. minori di età compresa tra i 14 e i 18 condannati a pena diminuita;
  3. minori dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza;
  4. minori condannati per un delitto commesso durante l'esecuzione di una precedente misura di sicurezza;
  5. trasformazione della misura di sicurezza precedentemente applicata del ricovero in manicomio giudiziario a seguito della cessazione dello stato di infermità.

Tutta la materia è stata ampiamente riformata, restringendo le ipotesi di applicazione della misura di sicurezza detentiva, dal D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, sul processo penale minorile. Difatti, se nel codice penale all'art. 224 si disponeva che al minore pericoloso fosse applicabile - in alternativa al ricovero in riformatorio giudiziario - la misura di sicurezza non detentiva della libertà vigilata; con il D.P.R. 448/1988 si limita la possibilità di applicare la misura di sicurezza detentiva alle sole ipotesi di commissione di uno dei reati previsti dall'art. 23 dello stesso D.P.R., cioè delitti non colposi per i quali la legge preveda una pena non inferiore nel massimo a nove anni, ovvero i delitti di cui all'art. 380 co.2 del c.p.p. lett. e), f), g), h), ovvero il delitto di violenza carnale.

Si veda M. Ingrascì, Il minore e il suo processo. D.P.R. 448/1988, Torino, Giappichelli, 2005, pp. 165 e ss.

193. E. Musco, “Misure di sicurezza (voce)” in Enciclopedia giuridica, Agg.I, 1997, Milano, Giuffrè.

194. La cauzione di buona condotta consiste nel deposito presso la Cassa delle ammende di una somma (nella versione originaria compresa tra 1000 e 20000 £, oggi compreso tra 103 e 2065 euro) ovvero della prestazione di una garanzia, le quali, al termine della misura di sicurezza vengono restituite (l'ipoteca è cancellata e la fideiussione estinta) se il soggetto ha mantenuto la buona condotta. Ha una durata compresa tra un anno e cinque. Si applica: a) ai liberati da casa lavoro o colonia agricola se il giudice non ordina la libertà vigilata, b) ai trasgressori degli obblighi della libertà vigilata, c) ai trasgressori del divieto di frequentare osterie e spacci di bevande alcooliche. Si veda G. Lozzi, “Cauzione di buona condotta” (voce), in Enciclopedia giuridica, 1960, Milano, Giuffrè.

195. La confisca consiste nell'espropriazione da parte dello Stato delle cose che servirono per commettere il reato o dei prodotti o profitti derivanti dallo stesso. E' stata oggetto di dibattito nella dottrina la qualificazione della confisca come misura di sicurezza, essendo da molti ritenuta una sanzione sui generis. Il requisito per l'applicazione è costituito dalla pericolosità della cosa, intesa come possibilità che la stessa, se mantenuta nelle mani del reo, possa essere un incentivo alla commissione di nuovi illeciti. Si veda G. Fiandaca e E. Musco, op. cit., pp. 833 e ss.

196. La libertà vigilata è una misura di sicurezza consistente nella limitazione della libertà personale del soggetto mediante l'imposizione di una serie di prescrizioni che il codice non elenca in modo tassativo e sono dunque rimesse alla discrezionalità del giudice (il codice si riferisce genericamente alle «prescrizioni idonee ad evitare le occasioni di nuovi reati»). La libertà vigilata è ordinata obbligatoriamente nei casi disciplinati dall'art. 230 c.p. e facoltativamente in quelli di cui all'art. 229 c.p. Ha una durata minima di un anno. M. Secci, “Libertà vigilata” (voce), in Enciclopedia giuridica, 1974, Milano, Giuffrè.

197. E' una misura di sicurezza destinata ai colpevoli di delitti contro la personalità dello Stato, contro l'ordine pubblico, ovvero commessi per motivi politici. Ha una durata minima di un anno e il contenuto, come facilmente intuibile dalla denominazione della misura, consiste nel divieto di soggiornare in uno o più comuni o in uno più province designate dal giudice. Questa misura di sicurezza pone dubbi di costituzionalità in quanto l'art. 16 della Costituzione ammette limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno soltanto per motivi di sanità e di sicurezza, escludendo espressamente le limitazioni per ragioni di carattere politico. G. Fiandaca e E. Musco, op. cit., p. 830.

198. E' una misura che si applica ai condannati per la contravvenzione di ubriachezza abituale, nonché a coloro che abbiano commesso una contravvenzione o un delitto in stato di ubriachezza dichiarata abituale. Il contenuto consiste nel divieto di frequentare in modo regolare o assiduo tali locali, non essendo invece prescritto il divieto di recarvisi in modo sporadico. I luoghi cui si riferisce il divieto sono chiariti dall'art. 86 del testo unico delle leggi sulla pubblica sicurezza (T.U.L.P.S.) che vi comprende tutti gli esercizi presso i quali sono venduti alcoolici. La durata minima della misura è di un anno. G. Fiandaca e E. Musco, op. cit., p. 830.

199. L'espulsione dello straniero dal territorio dello Stato come misura di sicurezza si qualifica, tra le espulsioni come avente natura giudiziaria, in quanto per l'appunto è disposta da un giudice e non da un'autorità amministrativa. Originariamente l'art. 235 prevedeva che fosse espulso lo straniero condannato alla pena della reclusione non inferiore a 10 anni. Il testo dell'articolo è stato oggetto di modifiche nel 2008 ad opera della legge 24 Luglio 2008, n. 125 di conversione del D.L. 23 maggio 2008, n. 92. A seguito di queste modifiche la misura di sicurezza è applicata solo nei confronti degli stranieri non cittadini di un Paese dell'Unione Europea. La legge è intervenuta anche sul quantum di pena che giustifica l'adozione della misura che è sceso dal tetto di 10 anni a 2 anni di reclusione. L'espulsione come misura di sicurezza è disciplinata anche da altre leggi che prevedono una serie di ipotesi ulteriori in cui questa è applicabile, si fa riferimento in particolare all'art. 15 del T.U. sull'immigrazione (D.Lgs. 25.07.1998, nº 286) che prevede l'espulsione come misura di sicurezza per i condannati per i reati di cui agli artt. 380 e 381 c.p.p. e all'art. 86 del T.U. stupefacenti (D.P.R. 9 Ottobre 1990, n. 309) che prevede l'applicazione di detta misura di sicurezza per i condannati per i reati di cui agli artt. 73, 74, 79 e 82 dello stesso T.U. Si vedano: G. Fiandaca e E. Musco, op. cit., p. 831; E. Zanrosso, Diritto dell'Immigrazione. Manuale pratico in materia di ingresso e condizione degli stranieri in Italia, Napoli, Simone, 2012, pp. 367 e ss.

200. La possibilità di inviare i minori presso gli ospedali psichiatrici giudiziari è stata ritenuta illegittima dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 24 Luglio 1998, n. 324, per la cui trattazione ci permettiamo di rinviare a cap. IV par. 2.

201. E. Musco, p. 136.

202. Del resto anche Lombroso, fautore di questa istituzione, includeva tra i soggetti da sottoporre a misura di sicurezza coloro che fossero stati accusati di crimini strani (si veda supra par.2.3.). Nell'impostazione della Scuola positiva, dunque, il fatto commesso conservava una sua rilevanza, sebbene come sintomo di una qualità individuale del criminale.

203. A. Manacorda, Il manicomio giudiziario, cit., p. 32.

204. Art. 222 c.p.

205. La pena di morte si cita in quanto ci stiamo riferendo alle ipotesi previste dal Codice nella sua veste iniziale, la pena di morte è stata soppressa e sostituita con l'ergastolo con il D.Lgs.Luogotenenziale n.224 del 10 agosto 1944 e il D.Lgs. n. 21 del 22 Gennaio 1948.

206. Reato originariamente previsto dall'art. 341 del Codice penale, per il quale era stabilito un quantum di pena compreso tra un minimo di 6 mesi ed un massimo di 2 anni. Il reato è stato abrogato con la legge 25 giugno 1999, n. 205 e poi reintrodotto all'art. 341 bis del c.p. con la legge n. 94 del 2009. Oggi il reato è punito con la reclusione fino a 3 anni.

207. Punito con la reclusione non inferiore ad anni 21 (Art. 575 c.p.).

208. A. Manacorda, Il manicomio giudiziario, cit., p. 27.

209. Art. 219 c.p.

210. In questo senso A. Manacorda, Il manicomio giudiziario: Cultura psichiatrica, cit., p. 32.

211. Non tutte le misure di sicurezza possono essere applicate in via provvisoria, l'art. 206 limita questa possibilità a tre tipologie di misure: il ricovero in riformatorio giudiziario, il ricovero in manicomio giudiziario, l'assegnazione ad una casa di cura e custodia.

212. Questo articolo è stato dichiarato illegittimo, con la sentenza della Corte Costituzionale n. 146 del 1975, nella parte in cui prevede che il giudice, nel disporre il ricovero in manicomio giudiziario del condannato caduto in stato d'infermità psichica, ordini la sospensione della pena. Si veda cap. III, par. 3.3.

213. F. De Ferrari e C.A. Romano, Sistema penale e tutela della salute, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 195 e ss.

214. Ibid.

215. Voci di apprezzamento e di entusiasta soddisfazione possono leggersi nelle Osservazioni e proposte di carattere generale sul progetto definitivo di codice penale (cit.), ove esprimono parere favorevole per l'impianto del nuovo Codice sia la Magistratura che i docenti universitari delle facoltà giuridiche italiane. Tra gli autori che manifestano una simile posizione si possono citare Grispigni, Maggiore e Petrocelli, per l'analisi delle cui posizioni ci permettiamo di rinviare a E. Musco, La misura di sicurezza detentiva, cit., pp. 126-127.

216. F. Antolisei, “Pene e misure di sicurezza”, in Rivista italiana di diritto penale, 1933, p.133.

217. Ivi, pp. 133-134.

218. Ivi, pp. 134 e 140.

219. Ivi, pp. 141 e ss.

220. G. Delitala, “Criteri direttivi del nuovo Codice penale”, in Rivista italiana di diritto penale, 1935, pp. 593 e ss.