ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo II
Le tutele previdenziali e assistenziali nella realtà carceraria

Giacomo Muraca, 2009

1. I diritti dei soggetti detenuti

Come abbiamo già accennato all'inizio del capitolo I il soggetto recluso nonostante l'influenza esercitata dallo stato detentivo non perde il suo status di cittadino e rimane perciò titolare dei diritti sociali. Prima di analizzare in maniera specifica in che modo la realtà carceraria possa influire su queste posizioni crediamo sia utile tracciare una breve mappa dei vari diritti spettanti ai soggetti reclusi.

La sentenza della Corte costituzionale n. 349 del 1993 al riguardo recita: "Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte delle sue libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l'ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale" (1).

Rimane quindi da comprendere quali spazi la detenzione lasci alle libertà e ai diritti dei soggetti reclusi. Dal punto di vista storico infatti abbiamo assistito ad una vera e propria evoluzione della materia nel corso del tempo dettata talvolta dalle felici intuizioni del legislatore nazionale e talaltra favorita da previsioni di carattere internazionale sui diritti dell'uomo o sui diritti dei detenuti.

L'ordinamento penitenziario del 1931, così come quelli che lo avevano preceduto, era inspirato alla filosofia per cui solo la sofferenza e la privazione potevano condurre il soggetto al ravvedimento (2). In tal senso quindi si operava una netta separazione tra i diritti della persona all'esterno e all'interno delle mura carcerarie. Una volta sottoposta all'autorità dell'ordinamento penitenziario la persona veniva a perdere ogni sua soggettività (3) e con essa anche ogni diritto. Come hanno osservato alcuni autori (4), infatti, sono tre i fattori che accomunano i regimi penitenziari dell'epoca liberale, fascista e repubblicana fino alla riforma del 1975: l'impermeabilità e l'isolamento del carcere rispetto al mondo libero, la violenza che permeava tutti i rapporti interni alle carceri ed infine una struttura burocratica e rigidamente centralizzata e verticista dell'amministrazione penitenziaria (5). L'avvento della nuova Carta costituzionale non riuscì ad influire in modo sostanziale su questa situazione. Benché, come vedremo in modo approfondito più avanti, enunci principi quali l'umanità e lo scopo rieducativo della pena (art. 27), l'inviolabilità dei diritti dell'uomo (art. 2) e l'uguaglianza tra i soggetti (art. 3) in assenza di una riforma dell'ordinamento penitenziario (6) questi nella realtà detentiva sortirono ben poco effetto (7). Una commissione parlamentare di inchiesta istituita nel 1949 al fine di indagare circa le condizioni di vita dei detenuti e riferire al Parlamento presentò un progetto di riforma che era sostanzialmente la copia esatta dell'ordinamento penitenziario vigente. Solo un'illuminata circolare dell'allora Ministro della Giustizia Zoli permise nel 1951 di dare nuova dignità alle persone detenute e ai loro diritti con previsioni come quella che stabiliva che i detenuti fossero chiamati per nome e cognome, che i colloqui con i parenti si svolgessero separati solo da una grata e che si potesse tenere in cella l'occorrente per scrivere e le foto dei congiunti (8). Il fallimento dei successivi tentativi di riforma può essere imputato al fatto che questi venissero affidati all'iniziativa degli uffici ministeriali della Direzione Generale per gli istituti di prevenzione e pena, i quali erano però inclini a non mutare l'assetto già esistente dal momento che questo permetteva un rapporto di totale soggezione del detenuto rispetto all'istituzione (9).

La legge n. 354 del 1975, ispirata dalle sensibilità sovrannazionali sul tema che vedremo, tentò finalmente di risolvere l'annoso contrasto tra le previsioni costituzionali e l'ordinamento penitenziario, cercando di conciliare le due istanze: quella punitiva e quella garantista. La nuova discussione si riduce quindi all'analisi della portata effettiva delle garanzie sancite da questo nuovo sistema formato da costituzione, legge n. 354 e disposizioni di carattere internazionale.

1.1 Diritti dei detenuti tra Costituzione e ordinamento penitenziario

Volendo costruire una mappa dei diritti delle persone detenute non possiamo fare a meno d'illustrare in prima battuta gli elementi fondamentali del sistema normativo che ne è alla base. Per cercare inoltre di dare coerenza sistematica all'analisi prenderemo in considerazione alcune tipologie di ripartizioni dei diritti dei detenuti elaborate dalla dottrina, non mancando di osservarne pregi ed aspetti critici.

Per quanto riguarda il sistema di norme che disciplina i diritti dei detenuti dobbiamo subito notare come questo abbia natura complessa. Si ritrovano infatti al suo interno tanto le previsioni derivanti da fonti internazionali (10), quanto quelle derivanti dalla Carta costituzionale e dall'ordinamento penitenziario (11). Analizzare una di queste fonti disgiuntamente dalle altre rischia di fornire un quadro incompleto dell'attuale situazione. Proprio per questo abbiamo deciso di effettuare solo una divisione nella trattazione tra previsioni nazionali e sovrannazionali, ben consci del fatto che i richiami tra le due sono pressoché continui e che questa suddivisione ha un'utilità solo schematica. Il sistema che si viene in questo modo a creare è quello di un connubio inscindibile tra fonti caratterizzato dal fatto che le previsioni costituzionali sui diritti dei soggetti possono essere limitate e modificate dalle norme dell'ordinamento penitenziario (12), e del relativo regolamento di esecuzione (13), per esigenze di sicurezza e di trattamento. D'altro canto lo stesso ordinamento penitenziario, sulla stregua di quanto previsto dall'art. 27 c. III Cost. può costituire in capo ai soggetti detenuti dei veri e propri diritti a loro spettanti non in quanto cittadini ma in quanto soggetti sottoposti ad una pena.

1.1.1 Le ripartizioni dottrinali dei diritti dei detenuti

Come abbiamo già accennato quella dei diritti dei soggetti detenuti è una materia estremamente complessa e per questo abbiamo deciso di analizzare in via preliminare delle ripartizioni dottrinali che ci possano essere d'aiuto.

Tra queste ripartizioni la prima che esaminiamo è quella prospettata da Pennisi (14) il quale sostiene che il primato della persona umana e dei suoi diritti, tale da non permettere un disconoscimento generale delle posizioni soggettive a seguito della sua restrizione della libertà personale (15), porta ad analizzare due diversi riferimenti normativi di rango costituzionale dai quali discenderebbero due diverse tipologie di diritti dei soggetti detenuti. Da una parte si avrebbe la previsione dell'art. 27 c. III la quale, stabilendo che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del detenuto" dà vita ad una vera e propria serie di diritti fruibili dal soggetto uti captivus (16). Si tratterebbe quindi di diritti che non spettano alla persona in qualità di cittadino ma in qualità di soggetto sottoposto ad una pena.

L'art. 27 c. III sancisce al riguardo un limite negativo, posto nel senso dell'umanità della pena, ed uno positivo, posto nel senso della finalità rieducativa della detenzione. Riguardo al primo, quello dell'umanità della pena, possiamo riscontrare come chiari siano le connessioni, delle quali prima dicevamo, con le varie previsioni di carattere internazionale, e di come questa si debba esplicare nel diritto dei detenuti "a che la sanzione detentiva, nel perseguire il mantenimento dell'ordine e della sicurezza degli istituti penitenziari non intacchi determinati ambiti della vita carceraria che attengono intimamente alla personalità individuale del detenuto e la cui restrizione, pertanto, avrebbe solo natura afflittiva" (17). Oltre a ciò la previsione positiva che vede nella rieducazione il fine del trattamento dà luogo a tutta una serie di diritti in capo al detenuto, come quelli di fruire delle misure murali e extramurali nelle quali tale finalità si esplica. Esisterebbe quindi in capo al soggetto recluso un vero e proprio diritto al trattamento così come configurato dall'ordinamento penitenziario (18). La presenza di tale diritto sarebbe ribadita anche dall'art. 13 c. III o.p. che impone non una generalizzazione dei programmi di trattamento ma una strutturazione degli stessi sulla base delle caratteristiche del soggetto. Esisterebbe inoltre un diritto del soggetto, in presenza dei requisiti stabiliti dalla legge, ad ottenere misure alternative alla detenzione e misure premiali comunque riconducibili alla finalità rieducativa (19).

Ovviamente, come abbiamo già detto, la costruzione effettuata dall'art. 27 Cost. viene a trovare concretezza nelle previsioni dell'ordinamento penitenziario le quali ribadiscono, già nel primo articolo la necessità dell'umanità (c. I-III (20)), dell'imparzialità (c. II), e della finalità rieducativa (c. VI) del trattamento, tenendo bene a mente come questo debba inoltre rispondere alla personalità e alle caratteristiche del soggetto (art. 13 c. III o.p.). La funzione del trattamento, come prontamente precisa anche l'art. 1 o.p., deve però essere diversificata a seconda che il destinatario sia un condannato o un imputato (21). Mentre infatti per il primo vi è la finalità rieducativa della quale abbiamo detto, per il secondo vige un generale principio di non colpevolezza, tale da incidere anche sulla sfera trattamentale (22). La struttura delle attività trattamentali così delineata mette una netta linea di demarcazione rispetto all'ordinamento del 1931. Con la legge penitenziaria del 1975 infatti oltre a dare finalmente voce, come abbiamo visto, a quelle istanze già presenti nell'art. 27 Cost., si riprende con l'art. 1 l'impostazione che aveva connotato le Regole minime per il trattamento dei detenuti approvate nel 1973 dal Comitato dei ministri del consiglio d'Europa (23) ed in particolare il primo articolo di queste. La persona detenuta viene così ad acquistare un nuovo ruolo all'interno del sistema carcerario in quanto fulcro al quale tutta la struttura deve essere improntata.

Come abbiamo accennato, in base alla ripartizione adottata (quella di Pennisi), vi sarebbe poi un secondo ordine di diritti riguardante i soggetti detenuti non in virtù della particolarità del loro status, ma in virtù del loro essere prima di tutto cittadini. Questi saranno quindi diritti loro attribuiti uti civis, derivanti dalle stesse previsioni costituzionali e normative che attribuiscono posizioni soggettive attive alle persone libere (24). I diritti di questo tipo non nascono quindi 'dall'interno delle mura del carcere', ma provengono dall'esterno e dovranno convivere con i limiti da esso derivanti. Tra questi senza dubbio quelli connessi alle esigenze di ordine e di disciplina che saranno validi sia per i soggetti condannati/internati che per quelli imputati, e alle esigenze giudiziarie indispensabili per gli imputati (25). Sancisce infatti l'art. 1 c. III o.p. che si debba operare una differenziazione dei limiti imposti ai diritti spettanti a queste due categorie di soggetti (26).

In verità, come lo stesso Pennisi chiarisce prontamente, sarebbe erroneo ritenere del tutto separate le categorie di diritti uti civis e uti captivus poiché vi sono dei momenti di contatto fra le due (27). Gli elementi di criticità di questa bipartizione sono infatti molti e tenteremo adesso di illustrarli. In primis vi sono diritti ed attività che rispondono tanto a diritti uti civis che uti captivus; si pensi ad esempio al diritto al lavoro, all'istruzione (che poi rivedremo più avanti), alla giurisdizione, che oltre ad essere diritti di rango costituzionale e destinati alla genericità dei soggetti fanno anche parte del trattamento carcerario in senso lato, rientrando così in entrambe le catalogazioni (28). Questa complicanza ha, a ben pensarci, natura logica: il percorso carcerario cui è sottoposto il soggetto detenuto ha come scopo quello rieducativo, del reinserimento della persona nella società. Nel fare ciò la tendenza è quella di adottare schemi propri della società libera (29) rendendo quindi difficile, se non del tutto inutile, la distinzione circa i diritti derivati dallo stato di detenzione e quelli derivati dalla qualità di cittadino. Nella fruizione dei diritti che gli derivano direttamente dal suo essere cittadino, inoltre, la persona reclusa è spesso tenuta ad adempimenti o modalità talmente diversi e particolari rispetto a quelli normalmente richiesti da poter pensare che si tratti di diritti di natura specifica (30).

Anche un'altra previsione di estrema importanza sembra accomunare le due tipologie: l'art. 4 o.p. stabilisce infatti una norma speciale in base alla quale "I detenuti e gli internati esercitano personalmente i diritti loro derivanti dalla presente legge anche se si trovano in stato di interdizione legale". Lo scopo di tale previsione è quello di poter mettere in condizione di fruire direttamente dei propri diritti sia detenuti che internati. Prevedere diversamente avrebbe voluto dire creare un nuovo elemento di scissione tra mondo libero e mondo carcerario, non permettendo a quest'ultimo di intervenire nella sfera del primo a causa dell'interdizione. Questa previsione, pur richiamando esplicitamente i diritti contenuti nell'ordinamento penitenziario si deve in verità considerare riferita, tramite interpretazione estensiva, a tutte quelle previsioni normative che disciplinano direttamente i diritti delle persone ristrette (31). In tal senso ovviamente non viene effettuata alcuna distinzione tra i diritti che le norme penitenziarie attribuiscono al soggetto in quanto detenuto e quelli che gli derivano invece dalla sua condizione di cittadino (32). Per questo anche la previsione dell'art. 4 è da considerarsi trasversale alla ripartizione adottata.

Un'ultima considerazione riguarda infine un grave eccesso di semplificazione della bipartizione uti civis-uti captivus. Lo stesso autore mostra infatti come i diritti uti civis appartengano al detenuto in qualità di cittadino e in quanto compatibili con lo stato di detenzione. In verità però questa titolarità in base alla cittadinanza crea una duplice serie di problemi. Da un lato infatti non tutti i diritti che Pennisi analizza sono da ricondurre alla cittadinanza del soggetto, taluni appartengono alla persona umana indipendentemente da altre qualità anagrafiche. Parlare di diritti inviolabili, diritto alla libertà personale e diritto alla giurisdizione, solo per fare alcuni esempi, come diritti derivanti dalla cittadinanza del soggetto piuttosto che dal suo essere persona porterebbe infatti a conseguenze disastrose e del tutto in contrasto con i valori proclamati dalla nostra Carta costituzionale e da svariate disposizioni di carattere internazionale (33). Si deve considerare inoltre, come vedremo anche in seguito, che il sistema carcerario crea un vero e proprio sconvolgimento all'interno del sistema di attribuzione dei diritti, specie di natura sociale, nei confronti dei cittadini stranieri. Il soggetto privo di qualsiasi titolo di soggiorno, che nella società libera è escluso dalla loro fruizione, all'interno della realtà carceraria, durante la detenzione, può accedere, ad esempio, ai diritti di natura previdenziale, connessi all'attività lavorativa, e a quelli di natura sanitaria. Lo stato di detenzione crea infatti un regime di soggiorno obbligato che riesce a far sorgere in capo al soggetto clandestino, in presenza di determinati requisiti, la titolarità di taluni diritti sociali (34). Problemi si vengano a creare al momento della scarcerazione, momento nel quale la persona, ormai non più coperta dalla 'regolarità' creata dallo stato detentivo, rientra nuovamente nell'irregolarità (35).

In sostanza sarebbe quindi stato più corretto dividere i diritti spettanti ai soggetti detenuti in uti persona (per quei diritti riguardanti la persona in sé, senza alcuna altra necessità di regolarità o meno del soggiorno), uti civis (per tutti quei diritti basati invece sulla presenza del requisito della cittadinanza o di un titolo di soggiorno) ed infine uti captivus (per tutti quei diritti derivanti ai soggetti dallo stato di detenzione; in quest'ultima categoria inoltre non sarebbe forse stato errato includere anche i diritti spettanti agli stranieri irregolari in virtù del soggiorno obbligatorio dato dalla detenzione (36)).

Rimane adesso da vedere quali siano in concreto i diritti che possono dirsi estesi anche ai soggetti detenuti, specie tra quelli che finora abbiamo definito uti civis o persona, per analizzare in quale maniera e grado lo stato di detenzione incide su quest'ultimi. Il problema nasce però a questo punto dalla possibilità di coordinamento tra la teoria strutturata da Pennisi e le varie teorie che ripartiscono i singoli diritti dei soggetti detenuti. Abbiamo deciso di analizzare al riguardo le schematizzazioni adottate sull'argomento tanto dal testo curato da Grevi quanto dal manuale di Canepa e Merlo (37). Elemento centrale della questione è che entrambe queste trattazioni non adottano uno schema bipartito sulla scorta della divisione finora vista (38), o almeno non di tipo identico. Questo ovviamente crea non pochi problemi di conciliabilità tra le varie prospettive.

Per quanto riguarda il testo di Grevi possiamo notare come l'autore tenda a non effettuare una netta distinzione tra diritti spettanti ai soggetti detenuti in quanto persone e diritti loro spettanti in quanto sottoposti ad una pena. Si ritiene infatti che "il concetto costituzionale di trattamento penitenziario non possa prescindere dal riconoscimento e dalla garanzia ai detenuti dei diritti inviolabili dell'uomo" (39) poiché questi rappresentano la soglia minima di conformità dettata dall'art. 27 c. III nello stabilire che "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità". Vi è quindi uno stretto connubio tra disposizioni di carattere generale, quale quella sui diritti inviolabili dell'uomo (art. 2 Cost.), e disposizioni di carattere 'galeotto' come quella dell'art. 27. Oltre a ciò la garanzia dei diritti inviolabili risulta essere presupposto, base applicativa, per quel processo di trattamento rieducativo stabilito sempre dall'art. 27. Secondo Grevi distinguere del tutto le due posizioni, sulla scorta di quanto inizialmente fatto da Pennisi, risulta essere, oltre che semplicistico, dannoso ai fini di una corretta analisi. La compenetrazione tra i diritti provenienti dall'esterno e i diritti nascenti dall'interno delle mura carcerarie è infatti l'unico modo di dare concretezza al trattamento carcerario. Il soggetto non può infatti fare a meno di integrare in sé la figura del detenuto e quella della persona, e quindi i corrispettivi diritti che ne derivano.

Il testo in analisi non si limita però a dare nuovo inquadramento alla ripartizione uti captivus-uti persona e compie un'ulteriore distinzione (40) tra i diritti spettanti ai soggetti reclusi in quanto tali, quindi sia imputati che detenuti, e quelli spettanti ai soli detenuti in virtù della funzione rieducativa dell'attività trattamentale diretta nei loro confronti (41). La schematizzazione si effettuerebbe quindi in questo caso tra diritti uti persona da una parte e diritti uti imputati (42) e uti detenuti dall'altra. Ovviamente la distinzione tra i primi ed i secondi dovrebbe considerarsi come blanda dato il connubio funzionale e di valori (si pensi agli art. 27 e 2 Cost.) che tra questi si viene a creare. L'autore all'interno del testo quindi utilizza una ripartizione di questo tipo:

  1. umanizzazione della vita penitenziaria e diritti fondamentali dei detenuti:
    1. tutela della libertà personale e disciplina delle comunicazioni;
    2. libertà religiosa e diritto all'istruzione;
    3. garanzie formali e sostanziali in materia disciplinare;
  2. trattamento rieducativo e diritti dei condannati:
    1. il lavoro penitenziario;
    2. rapporti con la famiglia e con l'ambiente esterno;
    3. le misure alternative come strumenti di risocializzazione.

Indubbio merito di questa analisi è quello di vedere come i diritti relativi alla persona non siano del tutto scissi dai diritti connessi al trattamento. Contestabile può invece essere considerata la volontà di dividere nella ripartizione il diritto all'istruzione e il diritto al lavoro, essendo entrambi sia diritti costituzionalmente protetti che facenti parte dell'attività trattamentale penitenziaria (ai sensi dell'art. 15 o.p. infatti tanto il lavoro che l'istruzione rientrano tra gli elementi di trattamento). Salvo alcune particolarità del lavoro carcerario, che vedremo nei prossimi paragrafi, sarebbe stato comunque ingiusto relegare queste due attività nella sola sfera trattamentale. Sarebbe stato più corretto, e conforme alle disposizioni di carattere internazionale, prevederle all'interno dei diritti uti persona, descrivendo le particolarità derivanti, specie per il lavoro, dalla particolare posizione del soggetto intestatario (43). Infine niente viene detto, come avevamo già notato nella schematizzazione precedente, circa la distinzione tra diritti derivanti dall'essere persona (uti persona) e diritti derivanti dalla cittadinanza (uti civis), per mostrare poi come quest'ultimi vengano mutati nella loro struttura nomale dalla situazione di detenzione.

Ultima ripartizione alla quale riteniamo importante accennare è quella prospettata dagli autori Canepa e Merlo (44) che vede i diritti dei detenuti suddivisi in:

  1. diritti relativi all'integrità fisica;
  2. diritti relativi alla salute mentale;
  3. diritti relativi alla tutela dei rapporti familiari e sociali;
  4. diritti relativi all'integrità morale e culturale.

Come si può facilmente notare tra quelle analizzate sinora questa sembra essere la meno attenta alle problematiche circa l'origine dei diritti. I due studiosi infatti, senza effettuare alcuna disamina circa l'appartenenza di taluni diritti alla sfera giuridica della persona in quanto tale piuttosto che della persona come soggetto detenuto, riconoscono che vi sono "diversi ordini di diritti chiaramente individuabili sulla base della normativa costituzionale, recepita da quella ordinaria". La stessa elencazione lascia inoltre spazio ad alcune perplessità. Pur dando per scontata l'assenza di pretese d'esaustività non si può infatti fare a meno di considerare come siano del tutto assenti diritti e norme di primissimo ordine. L'assenza di ogni riferimento al diritto alla libertà personale (art. 13 Cost.) sembra del tutto ingiustificata, come anche quella rispetto ai generali diritti inviolabili dell'uomo (art. 2 Cost.). Poco comprensibile sembra inoltre la totale mancanza di ogni citazione riguardo al diritto al lavoro e ai relativi diritti che da esso discendono. Quest'ultimo infatti, come in parte abbiamo già visto e in parte vedremo in seguito, rappresenta, oltre ad un fondamentale elemento di trattamento, uno dei perni attorno a cui si articola lo status di detenuti e la sua equiparazione a quello dei cittadini liberi. Infine dobbiamo ricordare, ma in questo caso sembra scontato vista la ristrettezza degli elementi analizzati in maniera da questi autori, che nemmeno questo tipo di analisi prende in considerazione la differenziazione tra diritti delle persone e diritti dei cittadini.

Dopo aver effettuato questa breve disamina delle teorie e delle ripartizioni effettuate in materia dalla dottrina non rimane quindi che delineare una breve mappa delle previsioni inerenti a questi diritti. Come abbiamo già accennato nel fare ciò sembra corretto mettere in continuo confronto le previsioni costituzionali e quelle dell'ordinamento penitenziario. Si tratterà quindi di una breve ricostruzione di carattere non certo esaustivo ma capace di dare una visione d'insieme del sistema dei diritti dei detenuti, con particolare attenzione a quelli che più ci interessano ai fini della nostra trattazione. Viste le critiche mosse alla ripartizione di Pennisi non seguiremo tale schematizzazione in questa trattazione ma faremo anzi spesso notare i punti in cui le istanze trattamentali proprie dei soggetti reclusi si fondono con quelle dei diritti della persona in quanto tale, sulla base delle teorie di Grevi.

1.1.2 Diritti inviolabili dell'uomo (art. 2 Cost.) e diritto alla libertà personale (art. 13 Cost.)

Nell'iniziare l'analisi dei singoli diritti delle persone detenute consideriamo due previsioni che accomunano e fondano gran parte delle teorie dottrinali in materia: l'art. 2 e l'art. 13 Cost. L'art. 2 conferisce ai soggetti detenuti la garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo (45). I valori ai quali questo articolo risulta essere connesso, come abbiamo già notato per il concetto di umanità dell'art. 27, sono informati ad istanze di necessità di difesa della persona umana di carattere sovrannazionale (46), poi riprese anche dall'art. 1 o.p. nella sua previsione di conformità del trattamento alla dignità e all'umanità della persona (47). I diritti riconosciuti dall'art. 2 fanno parte quindi di quel "patrimonio irretrattabile della personalità umana: diritti che appartengono all'uomo inteso come essere libero" (48). Si tratterebbe di diritti non solo inviolabili da parte del legislatore ordinario, in quanto quest'ultimo non può violare alcun diritto costituzionalmente sancito, ma anche dallo stesso legislatore costituzionale, in quanto "la Costituzione è insuscettibile di emendamenti riduttivi ed essenziali negli articoli che si riferiscono a questi diritti" (49). Elementi fondanti dello stesso Stato sociale e di diritto, ma non per questo non suscettibili di alcuna restrizione.

Due concetti discendono quindi da questa previsione: l'importanza della dignità della persona umana, che accomuna tanto l'art. 2 che l'art. 27 Cost. (50), e l'impossibilità di considerare ancora il sistema carcerario come un luogo in cui vige un regime di extraterritorialità rispetto alle garanzie fondamentali assicurate dallo Stato. In quest'ultimo senso indubbio aiuto deriva anche dall'art. 3 della Costituzione, il quale proclamando il principio di uguaglianza formale e sostanziale dà sostegno a questa concezione. Affermare l'operatività dell'art. 3 anche nei confronti della realtà carceraria porta infatti ad un duplice ordine di valutazioni. Da una parte vuol dire fare in modo che non possa operare nei confronti dell'ambito carcerario il concetto di 'supremazia speciale' (51) il quale porterebbe a riconoscere, come abbiamo accennato, una sorta di extraterritorialità all'ambiente carcerario anche per quanto riguarda le disposizioni fondanti i diritti più essenziali. Dall'altra si deve riconoscere l'operatività del principio di eguaglianza anche all'interno dell'istituzione carceraria stessa (e non solo nel rapportarsi di questa col mondo libero), nei singoli aspetti della vita detentiva (52). In questo modo si riesce a garantire un sempre più diretto parallelo tra società extra ed intramuraria, parallelo che tanto giova al buon esito del trattamento rieducativo. Entrambe le norme, tanto l'art. 2 quanto l'art. 3, devono essere considerate dei veri e propri colpi inferti al principio di separatezza della realtà carceraria (53). Si assiste quindi, già grazie a queste previsioni, ad un vero e proprio ingresso, almeno formale, dei valori propri della società libera all'interno della realtà carceraria.

Nell'analisi della possibilità per i diritti inviolabili dell'uomo di essere soggetti a restrizione ottima chiave di lettura ci deriva dal dettato dell'art. 13 Cost. riguardante la libertà personale. Oltre ad essere un diritto inviolabile dell'uomo quello alla libertà personale sembra essere uno tra i più colpiti dallo stato detentivo. Tale libertà deve essere intesa non solo come libertà fisica, ma come libertà psicofisica del soggetto, "libertà della mente e del corpo nella sua indissolubile unità" (54). La possibilità di coazione esercitabile su di essa da parte dello stato detentivo potrà quindi ridursi ad alcuni suoi aspetti (si pensi alla libertà di circolazione), ma non eliminarla del tutto (55). Questa capacità di limitazione infatti, di cui lo Stato è titolare, non può avvenire "se non in determinate circostanze e col rispetto di talune forme" (56). Lo stesso articolo 13 fornisce infatti tutela in tal senso prevedendo che vi debba essere una riserva di legge e di giurisdizione riguardo alle limitazioni imposte alla libertà personale dei soggetti. La riserva di legge, come abbiamo più volte accennato, sarebbe adesso formalmente soddisfatta dalla natura dell'ordinamento penitenziario del 1975, approvato, come è stato sottolineato, a differenza di quello del 1931, con legge ordinaria (57). Sarebbero soggetti a questo tipo di riserva non solo i diritti attribuiti ai detenuti in quanto persone, ma anche quelli loro attribuiti uti captivus (58) dei quali abbiamo in precedenza parlato.

Quanto invece alla riserva di giurisdizione il discorso si complica alquanto. È stato più volte rilevato dalla dottrina, infatti, come parlare di diritto alla tutela giurisdizionale in capo ai soggetti detenuti sia materia alquanto aleatoria. I mezzi offerti a queste persone per poter far valere i loro diritti mancano spesso di quei caratteri giurisdizionali che ne dovrebbero costituire elemento di garanzia (59). Ciò avviene non solo con riguardo alla possibilità di ricorso per questioni attinenti alla libertà personale, ma per la tutela di qualsiasi altro diritto (60). Come è stato osservato, il diritto alla tutela giurisdizionale, non limitato solo alla previsione dell'art. 13 ma ripreso e sancito anche dall'art. 24 Cost., offre la propria tutela a tre settori:

  1. l'area della restrizione della libertà personale (art. 13 Cost.);
  2. l'area della funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.);
  3. l'area dei diritti soggettivi del detenuto (art. 24 e 113 Cost.) (61).

L'analisi non può quindi limitarsi alle previsioni dell'art. 13 ma deve piuttosto estendersi ad ogni aspetto della vita del soggetto recluso degno di tutela (62). Si comprende immediatamente come l'enunciazione formale di un diritto senza un apposito apparato che ne renda effettiva la fruizione divenga una sterile enunciazione di principio (63). Purtroppo la condizione di alcune previsioni in materia ad oggi, ad oltre 30 anni dall'approvazione dell'ordinamento penitenziario, rispecchia spesso realtà di questo tipo, specie per quanto riguarda la generale sottoposizione dei detenuti alla discrezionalità delle istituzioni penitenziarie, complice la non attivabilità dei loro diritti.

Giova ricordare infine come lo stesso art. 13 al suo c. IV stabilisca una norma a favore delle persone che si trovino "comunque sottoposte a restrizioni della libertà" verso le quali "è punita ogni violenza fisica e morale". Si tratta secondo parte della dottrina dell'ultimo baluardo di difesa della dignità umana, anche qualora le limitazioni, imposte secondo i canoni che abbiamo finora visto, siano talmente ampie da lasciare ben poco spazio alla libertà della persona. Una previsione di tutela della libertà personale ad hoc per i soggetti che sono già limitati nell'espressione della propria da uno stato restrittivo. Troppo spesso però nella realtà delle carceri anche questa, che dovrebbe essere una previsione quasi dal carattere residuale (rispetto ai ben più ampi diritti che sarebbero garantiti), viene prontamente disattesa.

1.1.3 Diritto all'identità personale e altri diritti connessi alla personalità del soggetto ristretto

Passando adesso ad altri diritti di portata fondamentale possiamo vedere come elemento critico della realtà carceraria sia quello relativo al diritto all'identità della persona detenuta. In questo ambito sicuramente svolta epocale è stata quella fornita dall'art. 1 c. IV dell'ordinamento penitenziario vigente, il quale ha sancito in via legislativa quanto già previsto dalla circolare di Zoli del 1951, cioè che i detenuti siano "chiamati o indicati con il loro nome". Stabilisce inoltre l'art. 70 reg. esec. (d.p.r. n. 230/2000) che nei reciproci contatti tra detenuti e operatori penitenziari debba essere usato il "Lei". Se questo è un primo riconoscimento dell'identità del soggetto detenuto, ed una forma di argine contro la spersonalizzazione e l'annullamento del soggetto recluso, non può costituire la soluzione definitiva a quella cancellazione dell'identità che è da sempre connessa all'istituzione carceraria. La sporadicità e la brevità dei contatti con l'esterno, la privazione di ogni tipo di contatto di natura fisica con i propri cari (64), la violazione sistematica della privacy del soggetto (65) non possono però essere compensati dal sentirsi appellati col proprio nome.

Il diritto della persona alla propria identità personale comporta infatti, se inteso in maniera lata, tutta una serie di diritti collaterali atti a sviluppare la personalità del soggetto (66). Si tratterebbe, solo per citarne alcuni, di diritti quali quelli previsti dagli art. 29, 30 e 31 Cost. circa la tutela della famiglia e dei minori, quello sulla libertà della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione (art. 15 Cost.) e sulla libertà del soggetto a esprimere il proprio pensiero e professare la propria religione (art. 19-20-21-33 Cost.) (67). È quindi il caso di analizzare brevemente questi diritti in quanto garanzie dello sviluppo della personalità del soggetto detenuto.

I diritti connessi ai rapporti con la famiglia all'interno dell'ordinamento penitenziario trovano appositi riferimenti nelle previsioni dell'art. 28 (rapporti con le famiglie), dell'art. 18 (colloqui e corrispondenza con le famiglie), dell'art. 45 (assistenza alle famiglie) e dell'art. 15 (il rapporto con la famiglia come elemento di trattamento (68)). A ben guardare le forme in cui tali diritti si sviluppano sono spesso altamente spersonalizzanti e frustranti tanto per il detenuto che per le famiglie stesse. I rigidi limiti imposti dalle esigenze di sicurezza (69) e dall'ottusità degli adempimenti burocratici fanno sì che il distacco del soggetto detenuto rispetto al nucleo familiare sia sentito in maniera netta, incidendo così negativamente tanto sul diritto a tali rapporti, quanto sul buon esito del processo rieducativo.

La libertà di comunicazione così come stabilita dall'art. 15 Cost., oltre a far parte dei diritti inviolabili della persona viene ad essere, all'interno della realtà carceraria, utile strumento di rieducazione (70). Tramite i contatti con i propri cari e con la realtà esterna si cerca infatti di mantenere vivo il circolo di affettività e il senso di appartenenza alla società che lo stato detentivo tende ad annullare. Se questi sono gli scopi cui la comunicazione sarebbe preposta le modalità con cui questa si sviluppa all'interno del carcere non sembrano affatto adatte. Qualunque sia infatti la tipologia di comunicazione utilizzata (colloqui, telefonate, posta) nessuna sembra adatta a garantire al soggetto una reale costanza di rapporti col mondo esterno o comunque una reale esplicazione dei propri affetti e dei propri interessi. Per quanto riguarda i colloqui, ad esempio, varie sono i problematiche che si possono riscontrare. La breve durata, le cadenze e le modalità (71) con cui questi si svolgono non possono dirsi certo soddisfacenti. Inoltre i parenti sono spesso costretti a lunghi spostamenti qualora la persona cara si trovi in un istituto lontano dal luogo di residenza. I problemi ovviamente risultano ancor più gravi nel caso i parenti del soggetto recluso di trovino in stato di clandestinità, in questa ipotesi risulta impossibile ogni tipo di colloquio (72), e non è infatti raro che soggetti in tali condizioni riescano e rivedere i propri familiari solo una volta espiata tutta la pena.

Riguardo poi alla possibilità di effettuare telefonate la situazione non risulta affatto migliore, i tempi concessi sono infatti, anche in questo caso, estremamente ristretti (73). Oltre a ciò gli adempimenti burocratici ed i costi risultano essere un grande impedimento specie per i detenuti straneri (74). Non è infatti raro neppure in questo caso che, come spesso accade per i colloqui, alcuni soggetti affrontino tutta la detenzione senza telefonare ai propri cari.

Tanto per i colloqui che per le telefonate la competenza all'autorizzazione è del giudice che procede fino al processo di primo grado nel caso di soggetti imputati. Per condannati, internati e imputati dopo il processo di primo grado, la competenza è invece del direttore dell'istituto. Proprio nel passaggio da una competenza all'altra purtroppo le autorizzazioni vengono spesso interrotte per lunghi periodi.

Tra le tre modalità di comunicazione la più utilizzata risulta essere quindi quella per via postale dati i minor costi e non avendo generalmente il detenuto alcun limite nell'invio e ricezione di lettere. Ovviamente questo vuol dire avvalersi di un mezzo di comunicazione alquanto lento ed arcaico, il quale non sempre risulta un tramite soddisfacente (75).

È facilmente comprensibile quindi come la libertà di comunicazione sia fortemente limitata all'interno delle istituzioni penitenziarie, specie con riguardo i detenuti stranieri, e sia così danneggiato in maniera incisiva anche il processo rieducativo del soggetto.

Riguardo infine alla libertà di pensiero e di religione del soggetto detenuto troviamo importanti riscontri nell'art. 21 Cost. e 19 Cost. (76). Il diritto alla libera manifestazione del proprio pensiero non sembra, in base al dettato dell'art. 21, subire alcun tipo di limitazione con riguardo allo stato detentivo; quest'ultimo può semmai incidere sulle modalità attraverso cui questa viene espressa (si pensi a quanto detto circa corrispondenza, colloqui e telefonate). Vero è però che l'esplicazione del proprio pensiero, anche nella forma più basilare, quella della libertà di parola, rischia, all'interno di un ambito come quello carcerario, di essere motivo di sanzioni disciplinari. Basti considerare come l'art. 77 reg. esec. nell'elencare i motivi di infrazioni disciplinari prevede al n. 4 il generico "atteggiamenti e comportamenti molesti nei confronti della comunità" e al n. 15 "atteggiamento offensivo", entrambe fattispecie che, data la loro indeterminatezza ben possono derivare dall'espressione del proprio pensiero (77). Quanto poi alla libertà di professare la propria fede religiosa (art. 19 Cost.) questa sembra mantenersi intatta, senza particolari limitazioni, all'interno degli istituti penitenziari. L'art. 26 o.p sancisce infatti che "i detenuti e gli internati hanno libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto". A tal fine è prevista la presenza di un cappellano di culto cristiano-cattolico in ogni istituto e la celebrazione dei relativi riti. Gli appartenenti a religioni diverse da quella cattolica hanno invece il diritto di ricevere, su loro richiesta, l'assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti. Tali riti trovano ovviamente limite nell'ordine e la sicurezza dell'istituto e nella non contrarietà alla legge (art. 58 reg. esec.) (78).

L'analisi degli elementi finora passati in rassegna non può dirsi utile solo relativamente alla ricerca del quantum libertatis lasciato allo sviluppo della personalità del soggetto detenuto, ma dovrebbe essere intesa come vera e propria chiave di lettura del trattamento penitenziario. Quest'ultimo infatti risulterà tanto meno efficace nella funzione attribuitagli dall'art. 1 reg. esec. quanti meno metodi di sviluppare e modificare il suo essere il soggetto avrà a disposizione. La limitatezza delle tutele che abbiamo visto ci induce a riflettere sul fatto che non sia ancora del tutto superata quella concezione che vedeva nell'extraterritorialità del suolo carcerario e nell'annullamento e spersonalizzazione del soggetto i capisaldi della pena detentiva.

1.1.4 Diritto alla salute

Passiamo adesso ad esaminare un altro punto cardine del regime detentivo: il diritto alla salute. Questo diritto fondamentale trova la sua base costituzionale nell'art. 32 Cost. Dobbiamo subito notare come il diritto alla salute costituzionalmente tutelato si articoli in una molteplicità di diritti, tra i quali: il diritto all'integrità psico-fisica, ai trattamenti sanitari, all'autodeterminazione sanitaria e ad un ambiente salubre. Diverso sarebbe anche l'inquadramento di questi diritti: mentre infatti la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale hanno da tempo recepito quello all'integrità fisica come un diritto direttamente azionabile (tutela dell'integrità psicofisica da attentati provenienti da pubblici poteri o da privati), con una struttura simile ai diritti di libertà, tutti gli altri aspetti (trattamenti sanitari e ambiente salubre) atterrebbero invece alla categoria dei diritti sociali (79). Questa doppia qualificazione del diritto alla salute è deducibile dallo stesso dettato costituzionale che vede quello la salute sia come diritto dell'individuo che come interesse della collettività. Si capisce bene quindi come una trattazione unitaria dell'argomento potrebbe risultare inadatta e come sia più corretto effettuare un'analisi ripartita sulla base di ogni singolo aspetto.

Per quanto riguarda il primo aspetto, diritto all'integrità fisica (80), vi sono espliciti riferimenti all'interno dell'ordinamento penitenziario che disciplinano l'uso della forza da parte del personale di polizia penitenziaria (art. 41- 42 bis), in modo che questa non venga applicata in modo indiscriminato (81). Devono inoltre essere tenute di conto quelle previsioni che richiedono, in caso di particolari esigenze di cura della persona il trasferimento presso un altro istituto penitenziario (art. 42 c. I o.p.) o, quando neppure questo sia adatto, presso ospedali civili o altri luoghi esterni di cura (art. 11 c. II o.p.) (82). Se infine le condizioni del soggetto sono tali da non essere assolutamente compatibili con lo stato detentivo avverrà la revoca della custodia cautelare in carcere o il differimento dell'esecuzione della pena (art. 275 c. 4 bis c.p.p. e 147 c.1 n. 2 c.p.).

Per quanto concerne poi il diritto ai trattamenti sanitari dobbiamo accennare brevemente alle alterne vicende che hanno colorito l'esistenza del servizio sanitario all'interno del carcere. L'art. 11 o.p. prevedeva infatti che ogni istituto fosse dotato di un proprio servizio medico e farmaceutico. La riforma del 1978 (legge n. 833) istituendo il Servizio sanitario nazionale (Ssn), entrò in diretto contrasto con questa previsione, poiché ci si chiedeva se il nuovo servizio dovesse prendersi carico anche della medicina penitenziaria oppure no. Per lunghi anni la medicina penitenziaria è rimasta in questa sorta di limbo che vedeva i suoi operatori come dipendenti del Ministero della Giustizia. Il d.lgs n. 230 del 22 giugno 1999 ha deciso il trasferimento della sanità penitenziaria sotto il Ssn e quindi sotto la diretta competenza delle locali Asl (83). Il trasferimento al momento è ancora in corso di esecuzione e sta procedendo a lenti passi, oltre che per gli scontati problemi di natura burocratica, anche per la peculiarità della medicina penitenziaria rispetto a quella generale (84). Detto ciò dobbiamo notare come al soggetto detenuto venga prospettata un'offerta sanitaria del tutto simile, forse da ora in poi ancora di più (85), rispetto a quella data ai cittadini liberi. Vi sono però alcune particolarità: in base all'art. 1 c. VI della citata riforma, per evitare ogni impedimento di tipo burocratico e dare più diretta attuazione a questo diritto, i soggetti reclusi sono esentati dal pagamento del ticket per le prestazioni delle quali fruiscono (86). Vi è inoltre, come abbiamo più volte accennato, una differenza di natura sostanziale tra la situazione esterna e quella carceraria. Vi sono infatti tutele rispetto alle quali lo stato detentivo funge, come vedremo anche per i diritti connessi al lavoro, da vero e proprio elemento 'regolarizzatore' rispetto a quei diritti che spetterebbero solo, o principalmente, ai cittadini. Il soggetto privo di ogni titolo da soggiorno che si trovi in stato di detenzione sarà preso in carico dal Ssn per tutto il relativo periodo, risolvendo così la querelle tra clandestinità e diritto al servizio sanitario. In questo caso operano infatti, per quanto riguarda il carcere, previsioni del tutto diverse rispetto a quelle esterne connesse alla regolarità o meno del soggiorno della persona (87). Ricordiamo infine come il diritto all'assistenza sanitaria si esplichi anche nella libertà per i soggetti reclusi di farsi visitare da un sanitario di loro fiducia purché a proprie spese e all'interno del carcere (art. 11 c. XI o.p. e art. 17 c. III reg. esec.).

Passando poi al diritto all'autodeterminazione sanitaria dobbiamo notare fin da subito come l'art. 32 c. II-III dispone che "nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge" e che "la legge non può comunque violare i limiti disposti dal rispetto della persona umana". Come abbiamo più volte ripetuto l'ordinamento penitenziario è una legge ordinaria e come tale adatta a rispondere alla riserva posta dall'art. 32 c. II. Vi sono alcuni casi infatti in cui il trattamento sanitario è previsto come obbligatorio (88). Il limite all'autodeterminazione del soggetto non è infatti rappresentato dalle sue condizioni di salute quanto piuttosto dall'incidenza di queste sul diritto alla salute degli altri (89). È ben comprensibile allora come, se questo è l'indirizzo, il perenne sovraffollamento delle strutture penitenziarie e la convivenza forzata tra soggetti non può che portare ad una limitazione ulteriore di questo diritto rispetto alla situazione presente all'esterno (90).

Strettamente connesso alla questione delle esigenze di tutela della salute della generalità dei soggetti è anche l'ultimo 'diritto sanitario' che vediamo: il diritto ad un ambiente salubre. Questo diritto si riscontra in alcune previsioni circa le qualità degli ambienti e delle strutture che devono ospitare i reclusi (artt. 6 ss. o.p. e artt. 6 ss. reg. esec.) e la qualità della vita dei soggetti (91). Purtroppo le ingenti risorse necessarie per la manutenzione ordinaria degli istituti e il generale disinteresse della società esterna circa le reale qualità di vita dei condannati fanno sì che le condizioni dei vari ambienti siano spesso al limite della vivibilità (92).

Concludendo questa breve carrellata sul tema possiamo notare come i vari aspetti inerenti al rapporto tra salute e carcere sembrino spesso entrare in conflitto. Sotto l'aspetto della tutela dell'integrità psicofisica le norme poste a controllo dell'uso della forza non sembrano essere una sufficiente garanzia in un ambiente, come quello carcerario, dominato ancora da un carattere di supremazia speciale delle proprie regole, scritte e non, su quelle della società libera. Anche la separatezza, e la conseguente difficoltà di comunicazione, rispetto all'ambiente esterno garantisce che abusi in tal senso siano, se non una normale routine, quantomeno spesso impuniti. Quanto poi agli elementi che connotano gli altri diritti connessi alla salute (diritto al trattamento sanitario, all'autodeterminazione, all'ambiente salubre) non è un caso che nel momento in cui la competenza della sanità carceraria è passata alle Asl, e queste hanno fatto ingresso nei vari istituti, siano state riscontrate situazioni disastrose sia in punto di attrezzature, che di servizi offerti e di salubrità degli ambienti. Non è raro infatti che gli stessi operatori sanitari interni riconoscano nel carcere non solo l'assenza di qualunque salubrità, ma la sua funzione di vero e proprio focolaio, fucina di patologie. Proprio per questo ad una lunga detenzione si devono spesso accomunare, purtroppo ancora oggi, le varie patologie che da questa derivano in maniera più o meno diretta (93).

1.1.5 Diritto al trattamento

Dopo aver analizzato gli elementi fondamentali attinenti ai diritti del soggetto in quanto tale è il momento di volgere brevemente lo sguardo verso il diritto alla rieducazione al quale in parte abbiamo già accennato (ed ai connessi diritti all'istruzione e al lavoro). Come abbiamo visto l'art. 27 della Costituzione introduce la previsione per cui la pena, oltre a rispettare i canoni di umanità dei quali abbiamo già detto anche con riguardo all'art. 2 Cost., deve tendere alla rieducazione del condannato. Elemento centrale viene ad essere la figura del condannato(/internato) rispetto a quella del soggetto imputato. Analizzando il combinato disposto degli artt. 1 o.p. e 1 reg. esec. ci possiamo rendere conto di come il trattamento in questione sia nettamente differenziato a seconda che il destinatario sia un imputato invece di un condannato. Nel primo caso vige infatti il criterio di non colpevolezza (art. 1 c. V o.p. e 27 c. II Cost.) il quale ovviamente non può non influire sulla finalità correlata al trattamento. Se la persona non è stata ancora sottoposta a giudizio il suo 'disvalore rispetto alle regole della società civile' non può dirsi ancora valutato e di conseguenza non sarà la rieducazione il fine del trattamento a lei offerto. Nel caso del condannato invece questa necessità di rieducazione si dà come appurata dalla sentenza che ne ha decretato la condanna. Proprio in virtù di ciò non meraviglia che l'art. 1 reg. esec. stabilisca che il trattamento nei confronti dei soggetti imputati "consiste nell'offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali" al fine, come è stato considerato, di assicurare loro durante il periodo della custodia in carcere "una condizione di vita non indegna di un innocente" (94). Il concetto è inoltre richiamato dall'art. 15 o.p. nel quale si stabilisce che l'imputato è ammesso a partecipare alle attività trattamentali su sua richiesta.

Del tutto diversa invece la situazione prospettata per il condannato. Il trattamento a lui riservato infatti è informato alla rieducazione e, benché non possa avere carattere direttamente coercitivo stante l'inutilità e l'impossibilità di una rieducazione coatta, lo è in alcuni dei suoi aspetti (95). L'art. 1 reg. esec. prevede in questo caso che lo scopo dell'attività trattamentale sia "diretto a promuovere il processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale".

Verso entrambi queste categorie di soggetti si potrà parlare di diritto al trattamento, ma il contenuto di questo sarà estremamente diverso nell'uno e nell'altro caso (96). Sarà quindi il trattamento offerto alla persona detenuta ad essere, con il suo scopo rieducativo, al centro del nostro interesse.

Come ci mostra l'art. 15 o.p. elementi del trattamento sono l'istruzione, il lavoro, la religione, le attività culturali, ricreative e sportive, l'agevolazione degli opportuni contatti con il mondo esterno e con la famiglia. Ripetiamo quindi come vi sia una commistione tra i diritti del soggetto che gli derivano dal suo essere persona e quelli che gli derivano dall'attività trattamentale, dal suo essere detenuto. Il processo rieducativo inoltre è informato ai criteri di imparzialità e di non discriminazione (art. 3 Cost., art. 1 c. II o.p.) oltre a quello della individualizzazione, sulla base delle caratteristiche del soggetto, delle modalità di attuazione (art. 13 o.p.). Come tutti i diritti rimane da chiedersi quale sia la possibilità dell'azionabilità del diritto alla rieducazione e dei diritti ad esso connessi. In capo al soggetto detenuto sussiste infatti un diritto ad "usufruire, sussistendone le condizioni stabilite dalla legge, di quelle misure extramurarie attraverso le quali la rieducazione assume connotati prettamente risocializzanti: liberazione condizionale, affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà, liberazione anticipata" (97). In questo caso il procedimento di sorveglianza circa la concessione delle misure alternative, stabilito dagli art. 666 e 678 c.p.p., risulta garantire la tutela di questa posizione tramite adeguati caratteri di giurisdizionalità (98). Diversa portata ha invece la seconda, e più generale, forma di garanzia stabilita dall'ordinamento penitenziario. In base all'art. 69 c. V o.p. il Magistrato di sorveglianza ha la possibilità di approvare o restituire il programma di trattamento qualora ravvisi in esso elementi che costituiscano violazione dei diritti del condannato e dell'internato. Il magistrato inoltre può, sempre in base allo stesso articolo, impartire, nel corso del trattamento, disposizioni dirette a eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati. Si tratta però in entrambi quest'ultimi casi di tutele prive, come spesso accade, di ogni carattere di giurisdizionalità.

Tra il diritto al trattamento inteso in modo generale e il diritto alle varie misure che lo costituiscono, previste dall'art. 15, quest'ultimo sembra quindi quello maggiormente tutelato (99) in quanto protetto da procedimenti aventi carattere di maggiore giurisdizionalità.

1.1.6 Diritto all'istruzione

Per quanto riguarda l'istruzione dobbiamo subito notare il mutamento da questa subito nel passaggio dalla normativa del 1931 a quella del 1975. Nell'ordinamento fascista l'istruzione del detenuto era legata a doppio filo con la religione (100) ed aveva entro certi termini carattere obbligatorio (101). Si vedeva infatti nell'elevazione del grado di istruzione uno strumento necessario per la diminuzione dei comportamenti criminali. Si trattava quindi di una sorta di indottrinamento coattivo della persona reclusa. Con la riforma del 1975 si decise, in virtù anche delle statuizioni costituzionali al riguardo, di non far valere più il suddetto obbligo, limitandosi a favorire l'istruzione delle persone detenute con vari mezzi. Il fine non era quindi più quello dell'indottrinamento, grazie anche al diverso rapporto che nel mentre si era venuto a delineare nelle dottrine criminologiche tra istruzione e criminalità (102), ma quello del trattamento e della garanzia del rispettivo diritto del soggetto recluso (103). Con l'approvazione della Costituzione infatti il diritto all'istruzione veniva ad acquistare nuovo valore all'interno della schiera dei diritti sociali, anche in virtù della sua funzione di rimozione degli ostacoli che si frappongono al libero sviluppo della personalità del soggetto (art. 3 c. II). Gli art. 33 e 34 hanno stabilito infatti il dovere dello Stato di istituire scuole di ogni ordine e grado, di garantire la libertà e laicità del sistema scolastico, di favorire tramite appositi mezzi l'istruzione e di renderla obbligatoria e gratuita per un percorso di 8 anni.

Come abbiamo già detto l'obbligatorietà non è stata ripresa all'interno dell'ordinamento penitenziario del 1975 (104) ma si è deciso di creare un sistema di forte incentivazione del soggetto alla frequenza dei vari corsi. L'art. 19 o.p. stabilisce infatti al riguardo che "Negli istituti penitenziari la formazione culturale e professionale è curata mediante l'organizzazione dei corsi di scuola dell'obbligo e di corsi di addestramento professionale" (105). Per quanto riguarda quindi questo primo livello possiamo riconoscere come l'inciso "è curata" sia dal leggere, alla luce della Costituzione, nel senso di "è assicurata al meglio": esiste un obbligo per lo Stato di assicurare quantomeno l'istruzione inferiore (106). Per quanto riguarda invece i corsi di istruzione secondaria questi "possono" essere organizzati (art. 19 c. III o.p.), mentre gli studi universitari ed equiparati sono semplicemente "agevolati" (art. 19 c. IV o.p.) (107). Vi è quindi una diversa configurazione del diritto alla studio del soggetto in relazione ai vari gradi di istruzione. Ciò si nota anche nelle disposizioni del regolamento di esecuzione che raccomandano alle direzioni di favorire la più ampia partecipazione possibile ai corsi di primo livello (art. 41 c. IV reg. esec.), mentre l'ammissione ai corsi di livello secondario è riservata ai detenuti che "manifestano seria aspirazione allo svolgimento degli studi" (art. 43 c. II reg. esec.) (108). Particolare cura, ai sensi dell'art. 19 c. II o.p., deve essere riservata alla formazione culturale e professionale dei minori di anni 25.

Dobbiamo considerare inoltre come vi siano una serie di previsioni tese a favorire l'istruzione in maniera più o meno diretta. Gli stessi artt. 41 e seguenti del regolamento penitenziario stabiliscono, ad esempio, che sono da evitare, per quanto possibile, i trasferimenti dei detenuti - studenti in altri istituti e, qualora questi vengano effettuati, devono comunque essere rivolti, sempre se possibile, verso istituti che permettano continuità didattica sia per i frequentanti i corsi d'istruzione primaria che i corsi di formazione (109). I corsi devono essere possibilmente strutturati in orari che siano compatibili con l'attività lavorativa (artt. 41 c. IV e 42 c. IV) e vi può inoltre essere, su richiesta dello studente universitario o di scuola superiore (artt. 43 c. VI e 44 c. III (110)), il suo esonero da ogni tipo di incarico lavorativo. Altri benefici sono poi previsti tanto sotto l'aspetto dell'ammissione alle misure alternative alla detenzione (111) che dei benefici economici. Sotto quest'ultimo aspetto l'art. 45 reg. esec. stabilisce la possibilità di erogazione di fondi, con lo scopo di garantire un effettivo diritto allo studio ai soggetti in disagiate condizioni economiche (c. IV) e incentivare la partecipazione dei detenuti ai corsi scolastici (c. III-VI-IV).

Da quanto appena detto si potrebbe configurare in capo al detenuto "il diritto di essere ammesso al servizio scolastico con le modalità e alle condizioni previste dalla legge" (112), diritto che non potrebbe essere limitato da alcuna forma di discriminazione (art. 34 Cost. e art. 1 o.p.). Tale pretesa potrebbe essere difesa attraverso il procedimento per reclamo previsto dall'art. 14 ter o.p. e 69 comma VI lett. a) o in alternativa mediante la giustizia civile (113). È però vero che, al di là della struttura normativa impostata in modo complessivamente soddisfacente (114), la realtà carceraria mostra svariate problematiche connesse alla carenza di personale docente, all'assenza o scarsità di fondi al riguardo, ai trasferimenti dei detenuti e al sovraffollamento, tali da far realmente dubitare della possibilità di configurazione effettiva di un diritto in tal senso.

1.1.7 Il diritto al lavoro (e alle posizioni ad esso connesse)

Come abbiamo più volte detto il diritto al lavoro ha natura del tutto speculare e analoga rispetto al diritto all'istruzione. Entrambi infatti hanno natura bicipite, a metà tra elemento trattamentale e diritto della persona in quanto tale. Il diritto al lavoro dei detenuti ed i diritti ad esso strettamente connessi saranno temi discussi in maniera approfondita nei prossimi paragrafi, le cui trattazioni verteranno sui vari aspetti del lavoro carcerario (par. 2) e sui diritti previdenziali e assistenziali dei soggetti detenuti (par. 3). Non per questo dobbiamo astenerci dal delineare qui un quadro generale circa questi aspetti.

Il lavoro dei soggetti detenuti, come abbiamo già visto, è uno dei fondamentali elementi di trattamento previsti dall'art. 15 o.p. ed è anche un valore profondamente radicato all'interno della nostra Carta costituzionale, la quale lo difende sotto vari aspetti. Lo Stato infatti "tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni" (art. 35 Cost.), tutela il diritto al lavoro quale mezzo per concorrere "secondo le proprie possibilità e la propria scelta al progresso materiale o spirituale della società" (art. 4 Cost.) e per "assicurare a sé e alla propria famiglia un'esistenza libera e dignitosa" (art. 36 c. 1) anche per il tramite di una "retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro". Oltre a queste norme ne esistono altre relative ai diritti connessi all'attività lavorativa, quali il diritto di sciopero, di associazione sindacale, il diritto al riposo e alle ferie, il diritto alla copertura assicurativa e previdenziale e tutti gli altri diritti che discendono da quella che comunemente viene definita la disciplina protettiva del lavoro. La questione verte quindi sulla possibilità di applicare questi diritti al lavoro carcerario, date le peculiarità di quest'ultimo. Come avremo modo di analizzare meglio nel paragrafo 2 infatti vi sono una serie di elementi che differenziano, anche in maniera notevole, il lavoro carcerario da quello libero. Si tratta di elementi quali: il regime di obbligatorietà al quale è sottoposto, la funzione rieducativa che si trova ad assolvere, il collidere di alcuni diritti lavorativi con le esigenze proprie degli istituti penitenziari (115), la sua diversa impostazione nei confronti dei soggetti privi di ogni titolo di soggiorno rispetto al lavoro libero (116) ed altri suoi aspetti peculiari (117). Oltre a ciò l'analisi deve però considerare come, in campo di diritti del detenuto lavoratore, non ci si può limitare a parlare di generico 'lavoro carcerario'. Esistono infatti varie forme di attività lavorativa che un soggetto in stato di detenzione può essere chiamato a svolgere (118).

Queste ai fini della nostra analisi possono essere divise in base alla collocazione spaziale nella quale l'attività viene a svolgersi e in base al datore di lavoro dal quale il detenuto dipende. Nel primo caso si distinguerà tra attività intra e extramurarie, nel secondo caso tra lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria e lavoro alle dipendenze di terzi (119). Ognuna di queste tipologie di lavoro presenterà maggiori o minori caratteristiche distintive rispetto al lavoro libero. Così ad esempio l'obbligo di lavoro e l'istituto della mercede graverà sull'attività alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria ma non su quello alle dipendenze di terzi, d'altro canto le esigenze di sicurezza e ordine dell'istituto non saranno presenti nel lavoro extramurario alle dipendenze di terzi. La presenza di alcuni fattori di differenziazione piuttosto che di altri porta quindi ad incidere sui diritti che dalla relativa attività di lavoro possono derivare (120).

Si potrebbe quindi tentare di abbozzare, come poi vedremo approfonditamente, una sorta di graduatoria delle tipologie di lavoro più simili a quello libero (e quindi comportanti il riconoscimento di un paniere di diritti analogo a quelli ad esso connessi). In questo caso, consci della dovuta semplificazione, ritroveremo al primo posto il lavoro all'esterno alle dipendenze di terzi (121), al secondo il lavoro intramurario alle dipendenze di datori terzi (122), ed infine il lavoro intramurario alle dirette dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, come tipologia affetta dal maggior numero di peculiarità nei suoi contenuti e nella possibilità di applicazione dei vari diritti lavorativi.

Effettuate queste prime importanti considerazioni possiamo iniziare ad analizzare le varie posizioni giuridiche attive che dall'attività lavorativa possono discendere per il detenuto. Il primo elemento da considerare è quello del diritto al lavoro, che si traduce "non in una pretesa del singolo ad ottenere un determinato posto di lavoro, bensì nella generica possibilità di avere accesso, ricorrendone i requisiti, ai posti disponibili" (123). La dottrina ha a lungo dibattuto circa la possibilità di configurare questa posizione di vantaggio anche per i soggetti detenuti, stante la previsione dell'art. 4 Cost. in combinato disposto con quella dell'art. 35 e con le previsioni, che analizzeremo in seguito, dell'art. 15 c. II e c. III o.p. (rispettivamente sulla configurabilità di un diritto al lavoro per detenuti/internati e imputati). La discussione ha implicazioni circa la possibilità di configurare, a fronte di un obbligo lavorativo per il soggetto detenuto, un corrispettivo obbligo per l'amministrazione penitenziaria di messa al lavoro attraverso il rispetto di determinati parametri (art. 20 c. VI) e la possibilità per il detenuto di tutelarsi in caso di un eventuale inadempimento (124).

Passando ai diritti connessi all'attività lavorativa dobbiamo rilevare come uno dei più importanti sia quello ad una retribuzione che risponda ai caratteri di cui all'art. 36 Cost. (125). Nel caso dei lavoratori alle dipendenze di terzi non si pone alcun problema stante l'applicabilità dei CCNL (Contratti collettivi nazionali del lavoro). Problemi si pongono invece nel caso di lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria (126). In quest'ultimo caso infatti le mercedi possono essere ridotte a 2/3 dei minimi stabiliti dai CCNL (127); questo però, a dire della Corte Cost., non intaccherebbe il diritto del detenuto poiché i 2/3 sarebbero commisurati alla qualità e quantità del lavoro e garantirebbero comunque un'esistenza dignitosa. Tali considerazioni, già discutibili nel momento in cui adducono la 'particolarità' del lavoro carcerario rispetto a quello libero come motivo del trattamento economico inferiore (128), non giustificano affatto però altri comportamenti come ad esempio l'ormai più che decennale mancato aggiornamento delle mercedi.

Per quanto riguarda poi il diritto ai trattamenti assicurativi e previdenziali per i detenuti dipendenti da datori terzi vale sempre la generale equiparazione (129) con i lavoratori liberi mentre nel caso di lavoro sotto l'amministrazione penitenziaria vi sono alcune particolarità, sia del rapporto lavorativo che di quello assicurativo, tali da non rendere del tutto equiparabile questo diritto a quello dei cittadini liberi (130). Si è infatti a lungo discusso in dottrina, e spesso si sta in alcuni casi ancora dibattendo, circa la possibilità di erogare prestazioni quali pensioni, disoccupazioni o assegni familiari ai soggetti detenuti che lavorino alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria (131). Vi è ancora quindi un lungo percorso ancora da effettuare per poter raggiungere la totale equiparazione in questo campo.

Altri diritti hanno poi comportato accese discussioni dottrinali: mentre infatti il diritto alla durata massima delle prestazioni e quello al riposo festivo (art. 36 Cost.) sono stati pacificamente accolti dalla normativa penitenziaria (art. 20 c. XVII o.p.), problemi si sono avuti fino al 2001 circa l'applicazione del diritto alle ferie, diritto poi definitivamente esteso anche a questi lavoratori. Gran parte delle differenziazioni tra il trattamento dei lavoranti presso l'amministrazione penitenziaria e quello dei lavoranti presso terzi derivano dall'applicazione da parte di certa dottrina (132) del principio dell'ubi voluit dixit al dettato dell'art. 20 c. XVII, interpretando così come tassativa l'elencazione dei diritti in esso contenuta (133).

Particolari problematiche sono sorte anche relativamente ai diritti di natura sindacale (134), specie per quanto riguarda le attività svolte all'interno delle mura del carcere (135). Essi sembrano essere connessi più alla collocazione spaziale del posto di lavoro che non alla sola identità del datore. Il lavoratore esterno infatti risulta essere ammesso a partecipare alle attività politiche e sindacali purché queste si svolgano sul luogo di lavoro ed entro l'orario previsto per il rientro in istituto. Il soggetto potrà inoltre aderire ad uno sciopero ma non per questo potrà usare la misura di cui all'art. 21 per fini diversi da quelli per i quali è prevista (136) che si tradurranno in una sua presenza o sul posto di lavoro o in istituto.

Per i lavoratori intramurali invece la situazione sembra essere nettamente diversa. I diritti sindacali sotto alcuni aspetti non sembrano infatti riscontrare alcun problema nella loro applicazione inframuraria (si pensi ad esempio al diritto di iscriversi o fondare una sigla sindacale), mentre sotto altri (si pensi a sciopero e riunioni) sono ancora oggetto di discussione. A lungo si è dibattuto infatti sulla configurabilità in capo ai lavoratori alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria del diritto di sciopero, stante anche il loro contrapposto obbligo lavorativo (137). Nonostante infatti tale diritto sia costituzionalmente previsto (art. 40 Cost.) secondo alcuni autori andrebbe a scontrarsi con le esigenze di ordine e sicurezza interne agli istituti e con l'obbligatorietà dell'attività lavorativa (138). Per quanto riguarda poi la possibilità di effettuare attività sindacali di natura collettiva (quali ad esempio assemblee) è stato più volte rilevato come le stesse regole carcerarie escluderebbero tali attività (139). I momenti collettivi all'interno delle mura carcerarie sono infatti strettamente sanciti dall'ordinamento e in questi non è prevista la presenza di tutta la popolazione detenuta, e nemmeno di una rappresentanza eletta della stessa, ma solo di soggetti estratti a sorte (140). Accade quindi che proprio il lavoro in quanto elemento rieducativo, finalizzato alla risocializzazione della persona detenuta, venga ad essere privato di un momento di forte socialità come quello delle riunioni, delle assemblee, delle rappresentazioni, dei referendum (141).

Dedicheremo un apposito paragrafo di questo capitolo ad analizzare le garanzie offerte ai detenuti lavoratori dalle relative possibilità di tutela, sulla base della generale aspirazione di giurisdizionalizzazione dei procedimenti a difesa dei diritti dei detenuti espressa dalla Corte cost. nella sentenza n. 26 dell'11 febbraio 1999 che prescrive l'adozione di una specifica procedura giurisdizionale in merito ai reclami dei detenuti al magistrato di sorveglianza.

1.1.8 La condizione degli stranieri extracomunitari all'interno della realtà carceraria relativamente alla fruizione delle tutele sociali

La detenzione rappresenta per gli stranieri extracomunitari una condizione alquanto particolare che determina un sistema di tutele sociali parzialmente ed incisivamente diverso rispetto a quello dei cittadini liberi.

Gli stranieri privi di titolo di soggiorno non possono, nella società libera, svolgere alcun tipo di lavoro regolare, né fruire, a causa della loro clandestinità, di diritti sociali quali quelli propri della tutela protettiva del lavoro o quelli sanitari (142). Tale situazione muta però profondamente all'interno della realtà penitenziaria poiché questi soggetti vengono ad essere 'regolarizzati' dallo stato di detenzione. La detenzione infatti costituisce una condizione di soggiorno obbligatorio che permette alla persona priva di titolo di soggiorno di essere regolarmente impiegata nelle attività lavorative carcerarie (143) e di fruire di taluni diritti sociali che all'esterno le erano negati (144) (si pensi ad esempio alle prestazioni di disoccupazione e di assegni per il nucleo familiare). È normale quindi che i soggetti irregolari sperimentino per la prima volta all'interno del carcere i diritti sociali che sono connessi all'attività lavorativa (145).

Ovviamente fornire ai soggetti in questione una serie di diritti dei quali all'esterno erano privi ha una funzione più prettamente tecnica che general preventiva. Non si può considerare le tutele assegnate in quest'ambito come un assaggio, una promessa di ciò che potrebbe essere un'esistenza coperta da una regolarità del soggiorno e da una vita non criminosa. Spesso, infatti, queste persone non sono oggetto di alcun reinserimento ed una volta scarcerate vengono a rientrare, anche qualora non siano direttamente allontanate dal nostro paese, in quella inesistenza sociale che è connaturata all'irregolarità del soggiorno (146).

Gli scopi di questa particolare forma di strutturazione delle tutele sociali (che vede ad esempio il soggetto irregolare preso in carico dal Ssn per il periodo della detenzione e capace di fruire delle tutele previdenziali connesse ad un'eventuale attività lavorativa carceraria) devono, piuttosto, essere ricercati in considerazioni di tipo tecnico. Abbiamo infatti esposto nel capitolo I come i soggetti irregolari, anche qualora si trovino in stato di detenzione, non possono fruire di una serie di prestazioni di natura assistenziale fornite invece ai cittadini ed ai soggetti a loro equiparati (147) (tra i quali ovviamente i titolari permesso di soggiorno (Pds) per soggiornanti di lungo periodo). Per quanto riguarda invece le prestazioni di natura prettamente previdenziale (connesse cioè in maniera diretta alla posizione contributiva) queste persone fruiscono di tutele del tutto assimilabili a quelle dei cittadini (almeno finché perdura lo stato di detenzione). Vi è una vera e propria differenza strutturale tra questi due tipi di diritti nel loro rapportarsi con la situazione carceraria. Si è infatti considerato come:

"La legislazione socio - previdenziale italiana è di natura aperta e il lavoratore o la lavoratrice stranieri non vengono esclusi da nessun tipo di prestazione la cui erogazione è basata sui contributi versati durante l'esercizio dell'attività. Lo stesso, invece, non avviene per quanto riguarda le prestazioni, anche di natura pecuniaria, che sono qualificate più assistenziali che previdenziali, per le quali vengono equiparati ai cittadini italiani solo quelli che hanno ottenuto la carta di soggiorno" (adesso Pds CE per soggiornanti di lungo periodo) (148).

Si ha, quindi, una situazione in cui, in base all'attività lavorativa svolta, il clandestino detenuto riesce a fruire di tutta una serie di benefici connessi ad essa quali ad esempio le prestazioni contributive, gli Anf e le prestazioni assicurative. Ovviamente tale disposizione sembra essere del tutto in simbiosi con le previsioni dell'art. 15 e 20 o.p. che vogliono il lavoro carcerario come attività rieducativa (e quindi da estendere a tutti i soggetti indipendentemente dalla loro regolarità o meno) strutturata in maniera del tutto simile al mondo esterno (149).

D'altro canto le prestazioni di natura assistenziale saranno sottratte al soggetto clandestino talvolta per l'assenza di un regolare titolo di soggiorno (si pensi ad esempio ad assegno sociale e invalidità/inabilità civile) ma, altre volte, a causa di ulteriori e diversi fattori. Si può notare infatti come i motivi di esclusione dei clandestini detenuti da questo tipo di tutele non si limitino più alla regolarità del soggiorno ma chiamino in gioco, specie in tempi recenti, elementi di analisi che, fino a qualche anno fa, sembrava del tutto sconveniente tenere in considerazione. Così, ad esempio, per il "Bonus bebè", prestazione di carattere assistenziale e temporaneo per le famiglie alle quali nasceva un figlio (istituita con la finanziaria 2006 (150)), era richiesta non solo la residenza in Italia ma anche il possesso della cittadinanza italiana o comunitaria (151). Sullo stesso modello anche il Bonus straordinario famiglie che esige, come vedremo, la residenza nel territorio italiano del richiedente. Infine la Social card per la quale pure si richiede la cittadinanza italiana e la residenza sul territorio (oltre ad escludere automaticamente, almeno nella modalità over 65, i soggetti detenuti). La tendenza di queste tutele 'assistenziali' è stata quindi quella di un'esclusione sempre più marcata non solo dei soggetti irregolari (e, ultima tendenza, reclusi) ma, anche, dei soggetti che, pur avendo un valido titolo di soggiorno, non potevano vantare una residenza o addirittura la cittadinanza (152).

Non si può quindi certo affermare che con la detenzione la situazione previdenziale del soggetto irregolare divenga delle più rosee. Quest'ultimo verrà a trovarsi alle strette in una condizione nella quale le prestazioni assistenziali, che, come vedremo, di solito sono l'unica via percorribile per i lavoratori detenuti, gli sono precluse in virtù della sua irregolarità, e quelle previdenziali risultano spesso un traguardo difficile da raggiungere in virtù della peculiarità del lavoro alle dipendenze dell'A.P. (153).

L'accesso degli stranieri irregolari detenuti ai diritti sociali connessi al lavoro è strettamente legato alla loro possibilità di accedere alle misure alternative, che, come è utile ricordare, sono funzionali allo svolgimento delle attività lavorative extramurarie (154).

Fino alla pronuncia della Corte cost. n. 78 del 2007 si è a lungo dibattuto su questo argomento. Al riguardo la sentenza n. 30130 del 17 luglio 2003 della prima sezione della Cassazione penale stabiliva che:

"l'affidamento in prova al servizio sociale e, in genere, tutte le misure extramurarie alternative alla detenzione, non possono essere applicate allo straniero extracomunitario che si trovi in Italia in condizioni di clandestinità, atteso che tale condizione rende illegale la sua permanenza nel territorio dello Stato e non può, d'altra parte, ammettersi che l'esecuzione della pena abbia luogo con modalità tali da comportare la violazione e l'elusione delle norme che rendono configurabile tale illegalità".

Secondo la Corte vi era incompatibilità tra la fruizione delle misure alternative e la condizione di irregolarità del soggiorno dello straniero. Tale impostazione sembrava però contrastare con il generale valore rieducativo della pena sancito dall'art. 27 e con il principio di non discriminazione nel trattamento proprio dell'art. 1 o.p.

Dopo varie pronunce contrastanti la sentenza n. 14500 del 28 marzo 2006 delle Sezioni Unite ha stabilito che la condizione di irregolarità non doveva essere considerata ostativa alla concessione delle misure alternative (155).

La Corte costituzionale ha provveduto infine a dare una risposta conclusiva alla questione con la sentenza n. 78 del 5 maggio 2007 (156). Il Tribunale di Sorveglianza di Cagliari aveva sollevato questione di legittimità costituzionale, lamentando la violazione del principio della finalità rieducativa della pena di cui all'art. 27 c. III Cost., avverso l'ordinanza della Corte di Cassazione (157) che annullava la concessione della misura dell'affidamento in prova ai servizi sociali ad un cittadino extracomunitario, perché privo di permesso di soggiorno. Il Giudice delle leggi, dopo aver accertato la rilevanza della questione, ha considerato le due discordanti posizioni assunte dalla Cassazione ed ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 o.p. (158) rispetto all'art. 27 c. III qualora fossero interpretati negando allo straniero privo di ogni titolo di soggiorno l'accesso alle misure alternative da essi previste.

È stata quindi definitivamente sancita la possibilità per i soggetti irregolari di fruire delle misure alternative e, quindi, di poter essere impiegati in attività lavorative extramurarie in regime di semilibertà o di affidamento in prova ai servizi sociali (159).

Pur avendo finora analizzato la situazione dei soggetti che già al momento della carcerazione erano privi di ogni titolo di soggiorno dobbiamo far presente come lo stato detentivo (rectius: la condanna penale) abbia risvolti anche sulla condizione dei soggetti titolari di permesso di soggiorno. Tali soggetti, a differenza di quanto abbiamo visto per i clandestini, prima della loro carcerazione potevano svolgere regolare attività lavorativa e fruire dei diritti sociali connessi alla presenza del titolo di soggiorno (160). Potranno quindi generalmente vantare posizioni contributive già strutturate e l'attività lavorativa carceraria non rappresenterà necessariamente per loro la prima forma di lavoro regolare (161).

La condanna penale comporta però per queste persone dei profondi mutamenti nel loro status di regolarità, mutamenti che saranno diversi a seconda che il soggetto fosse originariamente titolare di un permesso di soggiorno o di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo. In base al d. lgs. 25 luglio 1998 n. 286 (Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), così come modificato dalla legge n. 189 del 30 luglio 2002 (Legge Bossi-Fini), sono stati infatti previsti una serie di reati ostativi al rinnovo del permesso di soggiorno. L'art. 5 c. V del T.U. stabilisce infatti che "il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato, quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l'ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato". Tra questi requisiti, in base all'art. 4 c. III, il fatto che il soggetto non "risulti condannato, anche a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per i reati previsti dall'articolo 380, commi 1 e 2 (162), del codice di procedura penale ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina verso l'Italia e dell'emigrazione clandestina dall'Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite" (163).

Dato che i reati previsti, cosiddetti 'reati ostativi', sono un cospicuo gruppo sono molti i soggetti che, a seguito di condanna penale, perdono la possibilità di rinnovare il proprio titolo di soggiorno. Un'eccezione a tale disciplina deriva però dalla possibilità per il buon esito dell'affidamento di annullare gli effetti ostativi del reato (164). Salva quest'ultima ipotesi, una volta scarcerati questi soggetti si troveranno a soffrire delle conseguenze dello stato di irregolarità, e non potranno più fruire di quei diritti sociali che prima della detenzione gli erano garantiti. Questa disciplina crea non pochi punti di attrito rispetto alla previsione dell'art. 27 c. III Cost. che vuole la detenzione informata alla finalità rieducativa. Togliendo infatti al soggetto, a seguito della condanna penale, la possibilità di fruire di un regolare titolo di soggiorno lo si esclude definitivamente dalla possibilità di reingresso nella società, rendendo così sterile ogni istanza di tipo rieducativo. La previsione propria del 'reato ostativo', qualora non riesca nel suo principale intento di allontanamento del soggetto dal territorio italiano, sembra quindi essere destinata ad aggiungere agli effetti della stigmatizzazione dovuta alla detenzione quelli dell'esclusione sociale dovuta all'irregolarità, spingendo il soggetto sempre più in limine societatis, col rischio, tra l'altro, che tale condizione lo induca alla commissione di nuovi reati (165).

La Corte costituzionale chiamata dal T.a.r. Lombardia (166) a pronunciarsi sulla legittimità del combinato disposto dell'art. 4, comma III, e dell'art. 5, comma V, del d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286 in riferimento agli articoli 2, 3, 24 e 97 Cost. ha ribadito la validità di tali previsioni (sentenza n. 148 del 16 maggio 2008) (167).

Disciplina analoga, ma non del tutto identica, a quella sinora illustrata riguarda i titolari di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo. Al riguardo l'art. 9 del T.U. immigrazione stabilisce che questo tipo di permesso non possa essere rilasciato, e qualora sia stato rilasciato deve essere revocato, a soggetti che risultino:

"pericolosi per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. Nel valutare la pericolosità si tiene conto anche dell'appartenenza dello straniero ad una delle categorie indicate nell'articolo 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come sostituito dall'articolo 2 della legge 3 agosto 1988, n. 327, o nell'articolo 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, come sostituito dall'articolo 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646, ovvero di eventuali condanne anche non definitive, per i reati previsti dall'articolo 380 del codice di procedura penale, nonché, limitatamente ai delitti non colposi, dall'articolo 381 del medesimo codice" (168).

A differenza di quanto avviene per i normali permessi di soggiorno la revoca di quello CE per soggiornanti di lungo periodo non comporta l'automatica ricaduta del soggetto in uno stato di irregolarità, dal momento che, ai sensi dell'art. 9 c. IX del T.U. immigrazione, qualora non debba essere disposta l'espulsione, al soggetto potrà essere rilasciato un permesso di soggiorno di altro tipo. Dal punto di vista delle tutele sociali tale passaggio da un permesso di soggiorno CE ad uno di altro genere porterà la persona, sulla base di quanto abbiamo detto nel par. 7 del cap. I, a non poter fruire più di talune prestazioni di carattere assistenziale, quali ad esempio l'assegno sociale. Il soggetto potrà però sempre, anche dopo la carcerazione, svolgere regolare attività lavorativa e fruire delle prestazioni previdenziali ad essa connesse.

Si tratta quindi di una condizione estremamente diversa rispetto a quella vista in precedenza, che permette al soggetto di rientrare, a fine della pena, a far parte della società e di fruire dei vari diritti di natura sociale (salvo quelli connessi alla titolarità di permessi CE).

Gli elementi esaminati in questo paragrafo, dalla 'regolarizzazione carceraria' ai 'reati ostativi', ci saranno molto utili nell'analisi delle singole tutele sociali. Solo tenendo conto di tutti questi aspetti infatti è possibile ricostruire una valida mappa delle tutele sociali fornite ai detenuti extracomunitari.

1.2 Diritti dei detenuti e fonti sovrannazionali

La tutela dei diritti dell'uomo in generale e delle persone private della libertà personale è da sempre al centro delle previsioni dei vari organismi di carattere internazionale ed europeo. Specie dopo la seconda guerra mondiale le grandi proclamazioni a favore dei diritti dell'uomo hanno cercato di tutelare giuridicamente i valori propri persona umana. Tra questi diritti ha un ruolo preminente quello all'integrità e alla dignità della persona umana. Proprio in questo contesto si sono andate ad inserire le disposizioni contro i trattamenti inumani e degradanti delle persone sottoposte a privazione della libertà. Ovviamente, oltre ad atti di carattere generale (si pensi ad esempio alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo o la Convenzione europea sui diritti dell'uomo e le libertà fondamentali) si possono riscontrare atti contenenti apposite regole relative alla situazione penitenziaria (si pensi alla Convenzione europea per la prevenzione della tortura e dei trattamenti disumani e degradanti o alle Regole penitenziarie europee). Come abbiamo già detto all'inizio di questo capitolo, la scelta di trattare separatamente la normativa sovrannazionale da quella nazionale ha funzione puramente espositiva dato che in verità continui sono i rimandi tra i due tipi di fonti (169). Volendo quindi illustrare brevemente il quadro sovrannazionale in materia di diritti delle persone sottoposte a regime privativo alla libertà personale non potremmo fare a meno di richiamare la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 con il suo art. 5 (170), dovremmo inoltre riportare come a livello europeo la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e le libertà fondamentali sancisca esattamente gli stessi valori nel suo art. 3 (171). Sempre gli organi delle Nazioni Unite furono artefici di altri importanti documenti in materia, tra i quali: i Draft Principles adottati nel 1962 sul diritto di ogni uomo contro l'arresto e la detenzione arbitrari (172), il Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966) (173), la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti (New York 1984) (174), le risoluzioni n. 663 C (XXIV) del 31 luglio 1957 e n. 2076 (LXII) del 13 maggio 1977 circa i principi e le regole minime di trattamento delle persone detenute (175), la Carta delle Nazioni Unite dei principi di protezione delle persone sottoposte ad ogni forma di detenzione o imprigionamento (approvata con risoluzione n. 43/173 del 9 dicembre 1988 dall'Assemblea Generale (176)), le risoluzioni approvate dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 14 dicembre 1990 recanti l'una (n. 45/111) i Principi fondamentali delle persone detenute, e l'altra (n. 45/110) le Regole minime delle Nazioni Unite in materia di misure alternative alla detenzione (177).

Spesso, come vedremo, gli atti creati in sede internazionale dalle Nazioni Unite hanno avuto un riscontro diretto in ambito europeo con l'adozione di corrispettivi atti di portata regionale (178). Si tratta di previsioni che, benché più limitate nella loro portata geografica, riescono spesso, in virtù della comunanza di valori e somiglianza di istituti proprie dell'area europea, a garantire livelli di salvaguardia maggiori (179). In quest'ambito ruolo fondamentale è stato quello svolto dal Consiglio d'Europa il quale si è occupato di creare nuovi riferimenti normativi in materia e rielaborare i testi prodotti dalle Nazioni Unite al fine di renderli più aderenti alla situazione europea. La stessa somiglianza tra la Dichiarazione universale dell'O.N.U. e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti è indice di questa profonda collaborazione e comunanza di intenti. A seguito infatti della approvazione della Convenzione dell'O.N.U. contro la tortura, solo tre anni dopo (il 26 novembre 1987) gli stati membri del Consiglio d'Europa hanno adottato analogo atto sotto il nome di 'Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti' (180).

Emblematiche del rapporto tra gli atti delle Nazioni Unite e quelli del Consiglio d'Europa sono le vicende delle Regole penitenziarie europee. Volendo effettuare una breve ricostruzione storica possiamo vedere come il merito della creazione del primo complesso di regole appositamente previste a favore delle persone detenute, le Regole minime per il trattamento dei detenuti approvate dalla Società delle Nazioni nel 1934, è da attribuire all'azione dei movimenti internazionali di riforma penale sviluppatisi a cavallo tra XIX e XX secolo e, soprattutto, al lavoro svolto dalla Commissione Internazionale Penale e Penitenziaria (C.I.P.P.) che ne elaborò il testo. Tale atto, anche se ancora non era suscettibile di creare diritti o situazioni giurisdizionalmente protette, riportava già in forma embrionale i principi di legalità sostanziale e processuale e la possibilità di far reclamo ad autorità esterne alla prigione (181).

Subito dopo la seconda guerra mondiale il gruppo internazionale dei penalisti convocato dall'Organizzazione delle Nazioni Unite nel 1949 decise per una revisione del testo originale dando così vita alle Regole minime standard per il trattamento dei detenuti adottate con la risoluzione del 30 agosto 1955. Nel 1957 Il Consiglio economico e sociale ne approvò il testo (Risoluzione 663 C-XXIV) invitando i vari governi a seguirne i principi e a presentare ogni tre anni relazione al riguardo al Segretario Generale delle Nazioni Unite. Elemento portante di queste Regole rispetto alla versione precedente era la previsione, analoga a quella già vista nei Draft Principles, che voleva il detenuto informato dei propri diritti e doveri al momento del ingresso in istituto (art. 35) e messo nella condizione di poter effettuare richieste e reclami non solo all'autorità dirigente della prigione o all'amministrazione centrale ma anche all'autorità giudiziaria o ad altre autorità competenti (art. 36).

I risvolti a livello europeo non tardarono e nel 1957 fu istituito il Comitato europeo per i problemi criminali (C.E.P.C., poi divenuto C.D.P.C., Comitato direttivo per i problemi criminali) che nel 1968 fu incaricato di adattare il testo delle Regole minime standard al contesto europeo (182). Alla fine di questi lavori i delegati dei Ministeri degli Esteri dei paesi del Consiglio d'Europa adottarono, nel gennaio 1973, la Risoluzione (73)5 recante Regole minime per il trattamento dei detenuti (183). Tale testo ha subito in seguito ulteriori modificazioni che hanno portato alla Raccomandazione R(87)3 del 12 febbraio 1987 (184) approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa e all'attuale Raccomandazione R(2006)2 sulle Regole penitenziarie europee (185).

Proprio quest'ultimo atto rappresenterebbe lo stato attuale dell'arte, la summa maxima delle norme poste a tutela dei diritti delle persone detenute. È quindi il caso di vedere brevemente quale sia il contenuto delle sue principali previsioni.

Lo stesso art. 1 delle Regole non lascia alcun adito a dubbi di sorta circa l'ispirazione ai principi di umanità e dignità della persona umana cui il regime privativo della libertà deve informarsi (186). Gli art. 2 e 3 stabiliscono inoltre quali siano i limiti alle restrizioni e alle limitazioni dei diritti propri dello stato di detenzione. Viene ribadita in questo senso la valenza del principio che abbiamo visto connotare l'ordinamento penitenziario del 1975 rispetto a quello del 1931: lo stato di detenzione non può comportare un generale assoggettamento dei diritti del detenuto ad ogni tipo di restrizione poiché queste restrizioni devono essere previste in maniera tassativa (187). La previsione dell'art. 4 inserisce inoltre una vera e propria clausola di salvaguardia rispetto ai valori espressi dai primi tre articoli. Viene sancito infatti che: "La mancanza di risorse non può giustificare condizioni detentive lesive dei diritti dell'uomo". Lo stato di detenzione infatti non può assolutamente trasformare questi diritti da inviolabili ad economicamente condizionati alla disponibilità di risorse, il valore dei diritti dell'uomo rimane lo stesso tanto fuori quanto dentro le mura degli istituti. Con questa previsione si toglie quindi ai governi nazionali una troppo comoda giustificazione a fronte dei loro inadempimenti.

Il mondo carcerario deve essere permeabile da parte della società esterna sia in un senso (partecipazione della società civile alle attività carcerarie, art. 7) che in un altro (contatti col mondo esterno, art. 24). Il parallelo risulta quindi diretto rispetto alle previsioni dei nostri artt. 17 (68 reg. esec.), 18 e 29 (solo per citarne alcuni) o.p., i quali prevedono rispettivamente la partecipazione della comunità esterna all'azione rieducativa, le comunicazioni con la famiglia e l'esterno. Sono spesso, come abbiamo visto, le modalità e gli adempimenti necessari ad ostacolare nel nostro sistema interno la fruizione di questi diritti da parte dei detenuti.

Una previsione sembra inoltre superare nettamente quanto previsto dal nostro ordinamento interno: l'art. 5 delle Regole. Mentre infatti l'ordinamento penitenziario italiano stabilisce, all'interno delle modalità di trattamento, che il lavoro debba essere organizzato e gestito nella maniera più simile possibile rispetto all'esterno, questo articolo delle Regole si spinge ben oltre stabilendo che "La vita in carcere è adeguata il più possibile agli aspetti positivi della vita all'esterno del carcere". Si instaura quindi un necessario rapporto di similitudine tra mondo carcerario e mondo libero non solo riguardo all'attività lavorativa ma ad ogni aspetto della vita. Si trova insomma il coraggio di abbattere in maniera definitiva la separatezza ancora presente tra i due mondi, impostando una, seppur formale e generale, corrispondenza.

Proseguendo si deve notare come sia stabilita nella previsione europea, analogamente a quanto avviene nell'ordinamento penitenziario italiano, una separazione e un diverso regime tra imputati e condannati (artt. 95- 96) anche per quanto riguarda il rapporto con l'attività lavorativa (art. 100) (188). Ulteriore elemento di garanzia è quello posto dall'art. 30 della Raccomandazione che prevede, in parallelo con quanto stabilito dai nostri artt. 32 o.p. e 69 reg. esec., che al momento dell'ingresso in istituto la persona sia informata dei propri doveri attinenti al regolamento, ma anche dei propri diritti. Per quanto riguarda invece il trattamento dei detenuti all'interno degli istituti il dettato europeo, come pure quello nazionale (art. 1 c. II o.p.), sancisce che questo debba essere improntato all'assoluta imparzialità e assenza di discriminazioni (art. 13 Raccomandazione).

Se da una parte si può notare una sostanziale corrispondenza delle previsioni italiane con quelle del Consiglio d'Europa, data anche dalla genericità di quest'ultime, con riguardo a lavoro ed istruzione (artt. 26, 28, 100), differenze sembrano invece riscontrabili per quanto riguarda sanità e infrazioni disciplinari. Il rispetto dell'art. 40 (Raccomandazione) che sancisce la stretta correlazione dell'assistenza sanitaria carceraria con "l'amministrazione generale del servizio sanitario della comunità locale o dello Stato", sembra essere stato raggiunto in Italia solo col passaggio della medicina carceraria al Servizio sanitario nazionale grazie alla riforma del 1999.

Ad una attenta analisi si possono inoltre riscontrare delle profonde innovazioni per quanto riguarda l'applicazione delle sanzioni disciplinari. Prima di tutto si riconosce le procedure disciplinari come meccanismi di ultima risorsa (art. 56) e si stabilisce che il diritto interno debba determinare, tra l'altro, "le azioni o le omissioni dei detenuti che costituiscono infrazione disciplinare" (art. 57). Nessuna delle due previsioni sembra essere rispettata dal nostro ordinamento in quanto non è prevista un'esplicita funzione residuale della sanzione disciplinare, che è al contrario abbondantemente utilizzata, e le previsioni che determinano le azioni o omissioni alle quali dovrebbe conseguire detta sanzione sono spesso così generiche da favorire una forte discrezionalità in materia (189).

Si potrebbe infatti avere la sensazione di una pressoché totale rispondenza e unanimità di intenti tra il nostro ordinamento e le normative internazionali. Una forte influenza di questi testi sull'ordinamento penitenziario è innegabile, basti pensare che la nostra legge penitenziaria fu approvata sulla scorta del primo documento europeo in materia di diritti dei detenuti, quello del 1973. Non per questo la normativa carceraria italiana può essere liquidata come esente da qualsiasi forma di contraddizione e di problematica.

Indubbiamente i passi compiuti dalla riforma del 1975 sono stati enormi rispetto al previgente regime, ma si deve comunque considerare che, se è vero che l'attuale sistema penitenziario non si basa più su un sistema che "nega ogni diritto del detenuto salvo le facoltà di volta in volta concesse" ma presuppone piuttosto, in linea di principio, in capo al detenuto "l'intero patrimonio dei diritti individuali, ad esclusione di quelli la cui soppressione o limitazione è essenziale all'esecuzione della pena" (190), viene ad esserci una continua esigenza di controllo della reale fruibilità dei vari diritti all'interno del sistema penitenziario, controllo da effettuarsi non sul piano teorico ma su quello strettamente fattuale (191). Vi è insomma la necessità di un perenne ed attento controllo fattuale di compatibilità (tra la situazione di detenzione e la fruizione dei vari diritti) affinché non si ricada, abbagliati dalle enunciazioni formali della normativa, in quella soggezione tout court che era propria dell'ordinamento del 1931.

Oltre a ciò si deve considerare come profondi mutamenti siano avvenuti nella stessa tipologia di soggezione cui il soggetto recluso è sottoposto. Per mezzo della riforma del 1975 infatti "il recluso è diventato, da soggetto passivo di repressione, soggetto attivo di auto-repressione cui si chiede di collaborare alla violenza che su di lui si commette e di guadagnarsi premi e benefici di pena con prove quotidiane del progressivo ravvedimento" (192). L'attuale regime carcerario sarebbe quindi indubbiamente più umano e meno afflittivo, ma "non meno illiberale e totalizzante" (193), poiché ha sostituito alla coercizione fisica quella morale, "alla durezza delle condizioni di vita, il condizionamento persuasorio delle coscienze, alla sorveglianza e alla disciplina dei corpi, l'osservazione e la sottomissione delle anime" (194). Si tratta di un nuovo assetto nel quale la violazione spesso non appare esplicitamente, ma deve essere attentamente ricercata nella realtà più minuta. È quindi proprio questa l'impostazione che seguiremo nell'analisi delle tutele sociali che ci siamo proposti di esaminare, al fine di poter valutare, al di là della formale enunciazione, la loro effettiva portata (195).

2. Il lavoro carcerario

La disanima delle singole tutele sociali che effettueremo nel par. 3 sarebbe difficilmente comprensibile senza aver prima illustrato gli aspetti più salienti della disciplina del lavoro carcerario. Come accennato la presenza di peculiarità nell'attività lavorativa carceraria (specie alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria (196)) rispetto a quella comune può dirsi ormai un dato appurato e sancito dalle varie previsioni normative a riguardo. La stessa necessità di analisi delle tutele sociali offerte ai lavoratori detenuti non sarebbe sorta se non vi fosse stata una reale differenziazione rispetto alla disciplina giuslavoristica e previdenziale generale. Dobbiamo quindi ricercare quali siano le caratteristiche che portano a questa differenza. Dovremo inoltre analizzare se tali particolarità concernono i lavori carcerari tout court o solo alcune tipologie di essi. Elementi sui quali focalizzare la nostra attenzione saranno quindi quelli relativi al carattere rieducativo del lavoro carcerario, alla natura del rapporto che si viene ad instaurare tra datore di lavoro e lavoratore, alle caratteristiche delle varie tipologie lavorative e, infine, alle problematiche di natura tecnica derivanti dalla realtà carceraria stessa.

2.1 Dall'afflittività alla rieducazione

Elemento caratterizzante del lavoro carcerario, così come strutturato all'interno dell'ordinamento penitenziario del 1975, è il definitivo abbandono di quelle istanze afflittive che avevano contraddistinto il regolamento generale degli stabilimenti carcerari del 1891 e il regolamento del 1931 per passare a finalità di stampo rieducativo (197). Fino alla riforma del 1975 infatti l'attività lavorativa è stata componente essenziale della pena anche, e soprattutto, sotto l'aspetto general preventivo. Il carattere di afflittività rischia però di essere un concetto sfuggente al quale conviene dare una corretta determinazione. Secondo alcuni autori la stessa natura obbligatoria del lavoro carcerario, della quale a breve parleremo, rende l'attività lavorativa una componente del trattamento sanzionatorio (198). Per tale dottrina quindi le previsioni di cui all'art. 20 c. II e c. III dell'ordinamento penitenziario, che recitano rispettivamente "il lavoro non è afflittivo" e "il lavoro è obbligatorio", sarebbero tra loro palesemente contraddittorie (199).

Secondo correnti maggioritarie invece più corretto sarebbe riscontrare il carattere sanzionatorio solo nelle modalità attraverso le quali il rapporto di lavoro si svolge. In questo caso si dovrebbe però considerare che in alcun modo l'attività lavorativa, così come descritta dall'art. 20 c. V (con organizzazione e metodi che riflettono quelli del lavoro nella società libera) dell'ordinamento penitenziario, potrebbe avere tale carattere. Se punto cruciale della discussione sono le modalità lavorative la previsione dell'art. 20 statuendo "L'organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera" eliminerebbe ogni prospettiva sanzionatoria (200). In verità si potrebbero però ritrovare modalità di tipo afflittivo in alcune connotazioni genetiche e fattuali del lavoro carcerario. La scarsa remunerazione, le degradanti modalità nelle quali si esplica connesse alla saltuarietà che spesso lo caratterizza portano non solo ad un fallimento riguardo alla finalità rieducativa, della quale parleremo tra poco, ma anche ad una vera propria reverve del suo carattere sanzionatorio. D'altro canto è utile riportare come invece all'interno degli istituti il lavoro sia visto da parte dei soggetti detenuti e da parte dell'Amministrazione stessa in una prospettiva di tipo più premiale (201) che afflittivo, sia per le occasioni di svago che offre sia per la remunerazione, seppur spesso di lieve entità, che ne deriva.

Con la riforma del 1975, come abbiamo accennato, nuovo valore viene dato all'attività lavorativa carceraria. Se base della società italiana viene considerato il lavoro (202) questo deve fare necessariamente parte anche dei metodi di reinserimento del soggetto detenuto. Lo stesso art. 15 dell'ordinamento penitenziario elenca infatti tra gli elementi propri del trattamento l'attività lavorativa (203). Tale previsione viene successivamente specificata con riguardo alle modalità dall'art. 20 che, come abbiamo detto, prevede la non afflittività, l'obbligatorietà e modalità similari del lavoro carcerario rispetto al lavoro 'libero'. Proprio l'adozione di un'organizzazione e di metodi di lavoro analoghi a quelli esterni garantirebbe l'efficacia della funzione rieducativa (204). Lo svolgimento dell'attività lavorativa viene quindi ad essere considerato, sotto molteplici aspetti, un vero e proprio elemento di valutazione nel percorso di rieducazione effettuato dal soggetto (205). Ovvia conseguenza di ciò è l'assunto per cui più le modalità di lavoro differiscono da quelle proprie del mondo libero e minore è l'efficacia rieducativa. Tale efficacia verrà meno anche nel caso la carenza di lavoro sia tale da poter garantire solo a pochi soggetti di svolgere attività lavorative. Purtroppo spesso entrambi questi fattori negativi sono riscontrabili all'interno degli istituti penitenziari italiani rendendo così la previsione rieducativa dell'art. 15 quanto meno ottimistica.

2.2 Obbligatorietà e peculiarità del lavoro carcerario

Elemento di parziale continuità dell'ordinamento del 1975 rispetto alle previsioni precedenti, anche se in senso lato, è la previsione dell'obbligatorietà del lavoro per il soggetto condannato. Ovviamente, nonostante la persistenza di tale previsione, non si può fare a meno di notare il suo mutato valore. Tale cambiamento lo si può riscontrare quantomeno sotto una duplice serie di aspetti: da una parte l'obbligo non è più dettato da intenti di natura afflittiva quanto da intenti rieducativi (206); dall'altra a fronte di quest'obbligo è stata prevista, in base all'art. 15, una situazione giuridica attiva del soggetto detenuto (207). Che l'obbligatorietà derivi dall'attuazione del percorso rieducativo imposto dall'art. 27 c. III Cost. lo si può dedurre anche dal fatto che questa sia prevista soltanto per i condannati e i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro (208), mentre gli imputati, in virtù del fatto che non devono essere sottoposti al trattamento rieducativo ex art. 13 o.p. (209), possono essere ammessi al lavoro solo su loro espressa richiesta (210). Si deve considerare come vi siano altre previsioni (oltre a quelle per gli imputati) che fanno venire meno o limitano fortemente il contenuto obbligatorio dell'attività lavorativa. In base all'art. 20 c. IV o.p. infatti "i sottoposti alle misure di sicurezza della casa di cura e custodia e dell'ospedale psichiatrico possono essere assegnati al lavoro quando questo risponda a finalità terapeutiche" senza che si possa parlare di un vero e proprio obbligo (211). Dobbiamo precisare, come rilevato da più autori (212), che per i soggetti che vi sono sottoposti l'obbligatorietà viene ad essere determinata dalla necessità che il detenuto una volta ammesso al lavoro (ed accettata l'offerta lavorativa) compia gli incarichi affidatigli anche se questi non corrispondono alle sue aspirazioni o alle sue attitudini (213). Tale istituto quindi non riguarda la condotta di chi, fin dall'inizio, rifiuti una certa attività lavorativa offerta dall'amministrazione penitenziaria (214) quanto la condotta di colui che, dopo aver accettato l'offerta, rifiuti di svolgere l'attività. Solo quest'ultima fattispecie sarà quindi suscettibile di sanzione disciplinare. Questo per evitare un utilizzo strumentale del lavoro, tale da far usufruire i soggetti dei vantaggi connessi al lavoro senza poi svolgerlo realmente, sottraendo per di più posti agli altri aspiranti.

Come abbiamo accennato, inoltre, a fronte di un obbligo di lavorare la normativa conferisce ad alcuni soggetti una posizione giuridica attiva di carattere soggettivo. Così l'art. 15 c. II sancisce che "salvo casi di impossibilità, al condannato e all'internato è assicurato il lavoro" (215). Proprio questa previsione ha creato un annosa querelle nella dottrina, indaffarata ad analizzare se da ciò potesse discendere un vero e proprio diritto al lavoro da parte del detenuto. Purtroppo al riguardo, a tutt'oggi, la giurisprudenza si è espressa solo in via incidentale (216) poiché tutte le questioni finora sollevate erano inerenti a rapporti lavorativi già costituiti.

Gli autori che sostengono la presenza di un vero e proprio diritto riportano spesso, a titolo esemplificativo, la somiglianza del connubio obbligo-diritto, previsto per il lavoro carcerario, con analogo connubio previsto dall'art. 34 Cost. riguardo all'istruzione. Sia la rieducazione del detenuto che l'istruzione delle persone sarebbero elementi talmente importanti da giustificarne la sottrazione della disponibilità al loro intestatario, costituendo così contemporaneamente tanto un diritto quanto un obbligo (217). Per tale interpretazione la previsione che determina "salvo casi di impossibilità" offrirebbe quindi una garanzia e una conferma del carattere di diritto soggettivo del lavoro carcerario. Si costituirebbe quindi, a fronte dell'attività lavorativa un duplice obbligo, sia da parte del detenuto che da parte dell'amministrazione penitenziaria. Solo infatti qualora sussistano casi di oggettiva impossibilità il diritto del detenuto può essere sacrificato. In questa visione quello al lavoro diverrebbe un "diritto azionabile a contenuto patrimoniale" (218) che potrebbe portare ad un risarcimento per danni quali: il mancato percepimento della mercede, la perdita o menomazione della capacità e della qualificazione professionale.

Per i sostenitori della tesi che vede nella previsione dell'art. 15 solo un interesse legittimo (219) invece i casi in cui l'amministrazione penitenziaria si può esimere dall'obbligo di fornire lavoro sono talmente ampi, in base alle formulazioni di "caso di impossibilità" per i condannati e "giustificato motivo" per gli imputati (220), da non garantire la presenza di un vero e proprio diritto per i detenuti. Altro dubbio spesso sollevato, e che porterebbe ad optare per l'interesse legittimo, è quello derivante dalla non azionabilità diretta dell'interesse in caso di mancata messa al lavoro. Nel caso cioè in cui non fossero rispettate le graduatorie stabilite dalle apposite tabelle circa il 'collocamento interno' dei detenuti l'unica soluzione prospettabile sarebbe quella del reclamo al magistrato di sorveglianza ex art. 69 sesto comma o.p., che condurrebbe ad un'ordinanza impugnabile soltanto in Cassazione, il cui valore però rimarrebbe, secondo molti, solo quello di impulso per l'Amministrazione (221).

Quale delle due posizioni sia quella da noi accolta non possiamo comunque esimerci dal considerare la differenza che si viene a creare tra i casi di lavoro alle dirette dipendenze dell'amministrazione penitenziaria e quelli alle dipendenze di soggetti terzi. Il dovere, infatti, dell'organizzazione penitenziaria di offrire possibilità di lavoro al soggetto avrebbe natura più stringente nel caso di lavoro alle sue dirette dipendenze e si risolverebbe invece solo nella ricerca, nella promozione di nuovi impieghi, per quanto riguarda il lavoro presso terzi. È stato infatti osservato che "in questi ultimi casi quella dell'amministrazione penitenziaria è un'obbligazione di mezzi" poiché essa sarebbe tenuta solamente a favorire il più possibile l'incontro della domanda e dell'offerta lavorativa (222).

Indubbiamente quanto finora analizzato costituisce, e lo si noterà meglio in seguito analizzando le varie tutele sociali, una caratteristica propria del lavoro penitenziario. La natura obbligatoria del rapporto lavorativo porta come corollario, infatti, la non necessaria volontà di svolgere lo stesso, la quale a sua volta rileva sotto molteplici aspetti. Sarà necessario quindi apportare una serie di limitazioni e di modifiche a tutte quelle previsioni che abbiano come presupposto la volontarietà della prestazione lavorativa (223). Se non vi fosse stato un adattamento della disciplina protettiva del lavoro alla particolare natura obbligatoria di questo tipo di attività, il soggetto si sarebbe trovato a veder lese una serie di sue legittime aspettative in virtù di una volontà non sua.

Al pari dell'obbligatorietà anche un altro elemento rende peculiare la disciplina del lavoro carcerario e le relative tutele sociali: il rapporto intercorrente tra pena e lavoro o, sotto un altro aspetto, tra datore di lavoro e soggetto incaricato del trattamento punitivo. È di facile intuizione infatti come, più questi due elementi del rapporto vengano ad unirsi tra di loro e maggiori peculiarità presenterà la relativa disciplina lavorativa e previdenziale. Quella punitiva risulta infatti essere una sfera altamente influente sulle discipline che con essa entrano in contatto, al punto di mutarne gli elementi in maniera proporzionale alla loro vicinanza (224). Proprio per questo la differenziazione della tutela applicata ai detenuti lavoratori rispetto alla tutela comune sarà diversa a seconda della natura del lavoro nel quale saranno impiegati (225). Appare quindi ovvio che, come già sottolineato, i rapporti di lavoro alle dipendenze di terzi comportino un minor numero di peculiarità rispetto a quelli alle dirette dipendenze dell'amministrazione penitenziaria (226). Solo in quest'ultimo caso infatti si riscontra:

"l'assenza di quella trilateralità tipica di ogni altro tipo di lavoro carcerario. Infatti, manca, in questa ipotesi, un datore di lavoro distinto dall'amministrazione, così che la fondamentale distinzione tra rapporto punitivo e rapporto di lavoro appare molto più difficile da individuare nei suoi esatti contorni; allo stesso modo, risulta difficile, in concreto, identificare il momento di esercizio del potere derivante dall'uno e dall'altro rapporto da parte del medesimo soggetto che è titolare di entrambi" (227).

Vi è quindi, nel lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, una vera e propria fusione tra il soggetto titolare del rapporto punitivo e il datore di lavoro. Da tale strutturazione derivano una serie di conseguenze di notevole portata. Come nota Vitali (228) infatti è difficile comprendere dove finisca l'incarico punitivo dell'amministrazione e dove inizi quello lavorativo, ed altrettanto accade con la figura del detenuto (229). Al riguardo basti pensare alla differenza di conseguenze in caso di inadempimento lavorativo qualora questo avvenga alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria e qualora invece avvenga alle dipendenze di terzi. Nel primo caso la commistione pena-lavoro porterà alla diretta duplice conseguenza di provocare una infrazione disciplinare ex art. 77 d.p.r. n. 230 del 2000 e la risoluzione del rapporto in oggetto. Un analogo comportamento compiuto a fronte di un lavoro alle dipendenze di terzi comporterà solo la possibilità di licenziamento del lavoratore (e le conseguenze lavoristiche ad esso connesse) ma non anche un potere diretto di tipo disciplinare. Potremmo aggiungere come, oltre ai due aspetti finora mostrati che caratterizzerebbero il lavoro carcerario (230), vi sia un terzo fattore determinato dal necessario rapportarsi della realtà lavorativa, sotto una serie di aspetti tecnici ed operativi, con quella carceraria. Si tratta sostanzialmente di un elemento che potremmo definire quasi residuale rispetto ai due precedenti, capace di raccogliere al suo interno tutti quei fattori che non siano direttamente riconducibili all'obbligatorietà o all'assenza di trilateralità, quanto piuttosto ad una generica influenza dello stato detentivo sul rapporto (231).

In considerazione dell'analisi finora effettuata non meraviglia quindi riscontrare nel lavoro alle dirette dipendenze dell'amministrazione penitenziaria la tipologia più particolare ed anche quella foriera delle maggiori antinomie. Proprio per questo motivo spesso le analisi che saranno compiute nel corso dei paragrafi sulle singole tutele saranno riferite a questo tipo di lavoro penitenziario (232). Non bisogna infine dimenticare che, se da una parte è stata notata la peculiarità ontologica del lavoro carcerario, ed in particolare di quello alle dirette dipendenze dell'amministrazione penitenziaria (233), non si può d'altro canto tralasciare che "l'idea secondo la quale la restrizione della libertà personale comporta come conseguenza il disconoscimento delle posizioni soggettive, attraverso un generalizzato assoggettamento all'organizzazione penitenziaria, è estranea al vigente ordinamento costituzionale, atteso che questo è basato sul primato della persona umana e dei suoi diritti" (234). Si tratterà quindi, come in parte abbiamo già fatto, di analizzare fino a che punto la detenzione e tutti i fattori ad essa connessi possano influire in maniera limitativa sulla comune disciplina lavorativa e delle tutele sociali.

2.3 Natura del lavoro carcerario

La qualificazione del lavoro carcerario come rapporto di natura pubblicistica piuttosto che privatistica ha forte influenza sulla possibilità di estendere ad esso la comune disciplina protettiva del lavoro (235).

Parte della dottrina (236), fino alla pronunce di cui parleremo più avanti, ha sostenuto la natura pubblicistica del lavoro carcerario in virtù del fatto che questo deriva, più che da una volontà delle parti, da un'obbligatorietà dettata dalla legge. Non sarebbe quindi una tipologia di lavoro di tipo subordinato, regolato da disciplina privatistica, ma di diritto pubblico. In questo modo ai soggetti detenuti non sarebbero applicabili le tutele proprie del rapporto di lavoro subordinato di natura privatistica. La remunerazione ad essi corrisposta quindi "non avrebbe natura di retribuzione in senso proprio, ma si tratterebbe di un corrispettivo sui generis" (237).

A questa posizione è stato obiettato che la natura non contrattuale del rapporto di lavoro non esclude a priori il rapporto di subordinazione e l'applicazione della disciplina lavorativa di diritto comune (238). Anche qualora la derivazione del rapporto lavorativo dalla legge costituisse un reale problema ai fini della configurazione del rapporto di subordinazione si dovrebbe comunque tenere conto del fatto che la legge "non 'crea' essa stessa il rapporto bensì vincola determinati soggetti (nella specie: Amministrazione e detenuto) ad instaurare un rapporto di lavoro" (239).

Altra parte della dottrina ha deciso invece di analizzare la questione distinguendo varie tipologie di lavoro carcerario (240). Si è giunti così ad affermare che il lavoro presso terzi (tanto intra quanto extra-moenia) è del tutto riconducibile al modello di lavoro subordinato ed è quindi totalmente applicabile ad esso la disciplina lavorativa comune (241). La distinzione dei lavoranti presso uno stesso datore di lavoro in 'lavoratori liberi' e 'lavoratori detenuti', con conseguenti differenze di trattamento, è stata infatti ritenuta del tutto inaccettabile poiché si tratterebbe di una discriminazione basata sullo stato di libertà dei primi rispetto a quello di detenzione dei secondi. Risolto in questo senso il problema riguardo ai datori di lavoro esterni rimane da configurare l'attività lavorativa alle dipendenze dirette dell'Amministrazione penitenziaria. Anche sull'argomento i pareri non risultano concordi. Taluni ritengono infatti che l'amministrazione penitenziaria non abbia i caratteri propri del datore di lavoro nel rapporto subordinato di cui all'art. 2094 c.c. Non avrebbe infatti quel potere disciplinare datoriale che caratterizza tale figura (242) e il rapporto sarebbe quindi da inquadrarsi come di diritto pubblico, con le conseguenze alle quali abbiamo già accennato. Le tesi che configurano come pubblicistico il lavoro alle dirette dipendenze dell'amministrazione penitenziaria hanno però carattere nettamente minoritario. Varie pronunce giurisdizionali hanno infatti riportato anche il lavoro alle dipendenze dell'Amministrazione sotto l'egida del modello dell'art. 2094 c.c. Tra le obiezioni allo schema pubblicistico sicuramente possiamo annoverare quella che, richiamando l'art. 35 della Costituzione, sosteneva che, a meno di non voler contestare la natura lavorativa delle prestazioni dei detenuti, a queste andavano estese le tutele offerte ai cittadini liberi (243). Si è sostenuto inoltre, sulla scia dell'impostazione di Pera (244), che la nascita del rapporto dalla legge non ne comprometteva la possibilità di essere configurato come subordinato. Altre posizioni ancora hanno invece affermato che, nonostante l'obbligo imposto dalla legge, il rapporto non potrebbe sorgere senza una certa volontà del detenuto lavoratore a intraprendere ed effettuare l'attività lavorativa. Proprio la presenza di questo tipo di volontà renderebbe il lavoro soggetto alla disciplina di diritto privato in quanto subordinato (245).

Anche la giurisprudenza, come avevamo accennato, sembra ormai aver abbandonato ogni remora per abbracciare la tesi del lavoro dei detenuti come lavoro subordinato. Al riguardo si è infatti pronunciata la sentenza della Corte costituzionale n. 103 dell'11 aprile 1984 (246) secondo la quale non vi sarebbe alcun giustificato motivo per distinguere tra il normale lavoro subordinato e quello di detenuti ed internati. La medesima impostazione è stata poi ripetuta in Sent. Cass. n. 8055 del 19 luglio 1991 riguardo al lavoro svolto da un detenuto addetto alle pulizie, nella già citata sentenza n. 26 dell'8 febbraio 1999 della Corte costituzionale (247) e, infine, nella sentenza della Corte cost. n. 341 del 2006 (che ha attribuito al giudice del lavoro la competenza a decidere circa il rapporto di lavoro instauratosi tra l'A.P. e detenuti).

La prospettazione del lavoro dei detenuti alle dipendenze della Amministrazione come lavoro subordinato sembra quindi ormai accertata. Più precisamente sembra corretto considerare questo tipo di attività come facente parte dei cosiddetti rapporti speciali di lavoro che, pur afferendo alla disciplina lavoristica comune, presentano talune particolarità (248). Particolarità che deriverebbero in gran parte dalla condizione di detenzione del soggetto lavoratore (249).

2.4 Struttura del lavoro penitenziario

Come abbiamo detto esistono varie tipologie di lavoro carcerario ed ognuna presenta delle caratteristiche che influiscono, in maniera maggiore o minore, sulla possibilità di applicazione della comune disciplina protettiva del lavoro. Senza alcuna pretesa di completezza, data la vastità della materia, riteniamo quindi utile una breve trattazione delle varie modalità nelle quali il lavoro dei soggetti detenuti si articola. Un'analisi di questo tipo ci può aiutare infatti a considerare meglio le varie problematiche di natura previdenziale e assistenziale che sono elemento centrale di questa tesi.

Possiamo utilizzare per il lavoro carcerario, come abbiamo già visto nel par. 1, almeno due tipi di ripartizione. Una prima che distingue tra lavoro alle dipendenze di terzi e lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria e una seconda che distingue tra lavoro intra e extra-murario. Mentre la seconda distinzione si basa su caratteri dettati generalmente dalla sicurezza e dall'ordine dell'istituto (250), la prima sembra avere natura più complessa e riguardare da vicino un maggior numero di diritti. Le implicazioni derivanti dall'avere come datore di lavoro l'amministrazione penitenziaria anziché un soggetto terzo non sono connesse solo a quella assenza di trilateralità della quale abbiamo parlato nei paragrafi precedenti (251), ma anche ad un continuo stentare dei diritti di questi lavoratori ad emergere. Tale difficoltà deriva dal fatto che il lavoro alle dipendenze dell'amministrazione è stato riconosciuto come rapporto di lavoro subordinato, privatistico, solo molto tempo dopo, e in maniera meno pacifica, rispetto al lavoro alle dipendenze di terzi.

Si deve però considerare che, anche qualora si riconosca l'estensione della disciplina lavorativa comune ai lavoratori detenuti, rimangono tutta una serie di elementi critici dovuti all'eccessiva vicinanza, alla quasi identità, della sfera punitiva con quella lavorativa. La prima funge infatti nei confronti della seconda come una sorta di magnete, provocandone un'attrazione, una distorsione, tanto più forte quanta più è la vicinanza tra i due elementi. In questo modo le peculiarità proprie della vita carceraria e della condizione di reclusione operano come fattori di diversità strutturale impedendo, nonostante l'applicazione della comune disciplina lavoristica, il raggiungimento di un livello di tutela analogo a quello degli altri lavoratori (252).

Effettuate queste premesse circa i vari elementi di diversità iniziamo la nostra breve analisi introduttiva suddividendo il lavoro carcerario in: lavoro domestico (il lavoro compiuto alle dipendenze dirette dell'amministrazione penitenziaria che si occupa di garantire i servizi dell'istituto), lavorazioni (attività lavorative di natura industriale che possono essere organizzate e gestite sia dall'amministrazione penitenziaria che da datori esterni), lavoro all'esterno (attività che si possono svolgere attraverso l'ammissione al beneficio del lavoro all'esterno ex art. 21 o.p. o delle misure alternative della semilibertà ex art. 48 o.p. e dell'affidamento in prova ai servizi sociali ex art. 47 o.p.). Oltre a queste tipologie di strutturazione del lavoro carcerario ne esistono poi altre, di impiego più limitato, che vedremo a parte.

2.4.1 Il lavoro domestico

Il lavoro carcerario più diffuso è, generalmente, il lavoro domestico. Questo tipo di impiego, che occupa circa il 79% dei lavoranti carcerari (253), consiste in tutte quelle attività, svolte alle dirette dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, che servono alla gestione e al mantenimento delle strutture carcerarie stesse (254). Una serie di elementi portano questa tipologia di lavoro a differenziarsi, in maniera più netta rispetto agli altri impieghi carcerari, dalla tutela lavorativa comune. Un primo elemento di criticità, come abbiamo più volte accennato, è la commistione rapporto punitivo-rapporto lavorativo che in questo modello risulta essere massima (255). Non vi è, infatti, solo un'identità tra datore di lavoro e soggetto incaricato del trattamento penitenziario (256), ma vi è anche un'unicità spaziale data dal fatto che questi lavori vengono svolti all'interno delle mura del carcere. La fusione in un unico soggetto della figura del datore di lavoro e di quella dell'incaricato del trattamento punitivo, come sicuramente non giova al rapporto di lavoro, non giova neppure alla gestione previdenziale ed assicurativa dello stesso (257). I problemi di organizzazione e di carenza del personale di custodia che spesso affliggono le varie attività carcerarie, tra le quali il lavoro, si ripercuotono infatti anche sugli adempimenti assicurativi e previdenziali (258).

Oltre a quello derivante dalla natura del datore di lavoro un altro importante elemento di criticità viene a nascere dal fatto che l'organizzazione di queste attività lavorative è strettamente connessa alle disponibilità finanziarie dell'amministrazione penitenziaria. In assenza di adeguate risorse si assiste spesso, da parte delle direzioni degli istituti, a tagli del personale messo al lavoro, riduzioni degli orari lavorativi e utilizzo di turnazioni maggiormente serrate negli incarichi. Nessuno di questi effetti sembra essere in linea con le istanze di tipo rieducativo cui l'attività lavorativa carceraria dovrebbe essere informata. Una strutturazione di questo genere risponde piuttosto ad istanze di tipo emergenziale, atte a calmare la popolazione detenuta offrendole lavoro in maniera saltuaria e una piccola fonte di reddito (259).

La distanza da ogni tipo di funzione rieducativa è inoltre sancita anche dal carattere arcaico di queste attività, del tutto incapaci di offrire una qualche preparazione professionale o garantire al soggetto un adeguato inserimento nel mondo lavorativo. Il lavoro domestico si esplica infatti in incarichi che, non richiedendo alcun tipo di preparazione professionale data la loro estrema semplicità, non sono capaci di offrire al lavoratore alcun tipo di apprendimento.

Illustrate le principali problematiche di quest'attività lavorativa vediamo adesso quali siano le sue caratteristiche proprie, a cominciare dalle modalità di accesso.

L'accesso alle attività lavorative penitenziarie è stato riformato dalla legge n. 296 del 12 agosto 1993 ma presenta ancora molti caratteri critici (260). Nella sua prospettazione teorica il metodo adottato sembrerebbe rispondere perfettamente ai canoni di efficienza e trasparenza, permettendo l'incontro della domanda con l'offerta lavorativa e garantendo la 'genuinità' di entrambe le parti contraenti. Dal lato dell'offerta infatti, per evitare le problematiche di sfruttamento dell'attività dei detenuti che prima del 1975 sembravano prendere corpo nel cosiddetto appalto di manodopera, si è istituita una apposita Commissione regionale per il lavoro penitenziario (art. 25 bis o.p.) con il compito di ricercare e strutturare le possibili attività che i detenuti potranno svolgere. La composizione stessa di questa Commissione, formata da figure specializzate in ambito lavorativo, sembrerebbe tesa a garantirne un corretto funzionamento (art. 25 bis c. I) (261). I posti di lavoro a disposizione della popolazione penitenziaria dovranno essere elencati in un'apposita tabella la quale distingua quelli relativi alle lavorazioni interne industriali e agricole, quelli relativi ai servizi di istituto, ma anche i posti disponibili all'esterno presso imprese pubbliche o private e presso società cooperative, nonché i posti che quest'ultime intendono creare relativamente a lavorazioni interne all'istituto stesso (262).

Dal lato della domanda l'art. 20 prevede la creazione di apposite liste dei soggetti ammessi al lavoro alle dipendenze dell'Amministrazione ('liste lavoranti') in base ai parametri oggettivi delle graduatorie (art. 20 c. VI) (263). Alla formazione di tali liste dovrebbe essere preposta un'altra apposita commissione contenente, tra l'altro, un rappresentante della popolazione detenuta estratto a sorte.

Tale sistema di incontro della domanda e dell'offerta di lavoro risulta carente sotto due aspetti fondamentali: da un lato l'eccessiva macchinosità e complessità del metodo di collocamento strutturato sulle due apposite commissioni non sembra affatto funzionale. Dall'altro si rileva spesso la mancata costituzione della seconda tipologia di commissioni, quelle atte a stilare le apposite graduatorie per la messa a lavoro dei soggetti. Ciò accade non tanto per un'assenza di volontà operativa nelle direzioni dei vari istituti quanto, piuttosto, per quella concezione, propria del mondo penitenziario, che vede nella messa al lavoro di un soggetto un affare prettamente interno, nel quale non ci deve essere alcuna ingerenza o controllo dall'esterno. Troppo spesso infatti le graduatorie delle quali stiamo parlando non vengono rispettate, permettendo a soggetti di avanzare in violazione dei parametri oggettivi previsti dalla legge. Questo avviene soprattutto quando si utilizza la messa al lavoro come mezzo per il mantenimento dell'ordine interno. Non è affatto raro, infatti, che a fronte di gesti di autolesionismo o di avanzate patologie depressive venga decisa la messa al lavoro di un soggetto al di fuori del rispetto delle normali graduatorie stabilite. La violazione delle normali regole di impiego può però non essere connessa solo a scopi così 'positivi', ed essere invece il mezzo per azioni vessatorie nei confronti di alcuni soggetti, impedendo loro di poter fruire dello svago e del reddito fornito dall'attività lavorativa.

Riguardo all'utilizzo delle 'liste lavoranti' è d'obbligo un'altra annotazione: queste sono suddivise in due parti, l'una generica e l'altra basata sulla qualifica o il mestiere del soggetto. Questa ripartizione non ha solo influenza sulla modalità di collocamento ma crea, come avremo modo di ripetere più avanti, un vero e proprio sistema bipartito, dal punto di vista retributivo e assicurativo, all'interno del lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria. Capita infatti comunemente che le lavorazioni cui sono destinati i soggetti della lista generica siano sottoposte ad una maggior rotazione turnativa e diano luogo a redditi inferiori. Questo incide in maniera sfavorevole oltre che sulla loro situazione economica anche sulla loro posizione contributiva. I soggetti 'qualificati' hanno invece incarichi di maggior gratificazione, modalità di lavoro più similari a quelle esterne, una maggior stabilità lavorativa e, soprattutto, un trattamento retributivo e contributivo di miglior livello. Si crea in questo modo, nel lavoro domestico, un vero e proprio sistema a due velocità. I risvolti di questa situazione sulla condizione previdenziale, come vedremo nell'apposito paragrafo sulle pensioni, specie per i soggetti condannati a pene di lunga durata, sono tutt'altro che insignificanti.

Dal punto di vista fiscale i lavoranti alle dipendenze dell'amministrazione risultano inquadrati come operai fuori ruolo dello Stato (264). Ovviamente ciò non corrisponde ad un trattamento previdenziale e assicurativo analogo a quello dei dipendenti statali poiché l'istituto carcerario, in qualità di datore di lavoro, si comporta, e viene ad essere inquadrato in sede fiscale in maniera del tutto simile ad una datore di lavoro privato (265). Se, sotto l'aspetto lavorativo, l'amministrazione penitenziaria figura come un datore privato altrettanto avviene anche con riguardo agli adempimenti previdenziali (266).

Nonostante l'inquadramento privatistico del rapporto di lavoro esistono per i soggetti reclusi tutta una serie di particolarità che li distinguono notevolmente dal lavoratore comune (267), prime tra tutte quelle inerenti al compenso lavorativo.

Il compenso offerto ai detenuti lavoranti alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria risulta infatti estremamente diverso rispetto a quello dei lavoratori comuni.

In origine l'art. 23 dell'ordinamento penitenziario prevedeva una trattenuta dei 3/10 sul compenso (rectius mercede) di imputati e condannati (268). Si introduceva così la distinzione tra mercede e remunerazione (che corrispondeva alla mercede privata dei 3/10). Tale trattenuta era versata nella Cassa per l'assistenza e il soccorso alle vittime del delitto e, dopo l'abolizione della suddetta Cassa, continuò ad essere effettuata e versata a Regioni ed enti locali. La definitiva abrogazione di questo istituto avvenne solo con la legge Gozzini (269), a far data dal 31 ottobre 1986 (270).

Veniva in questo modo soppressa una prima distinzione tra lavoro libero e lavoro dei detenuti, riportando anche le relative posizioni contributive di quest'ultimi a situazioni più accettabili.

Pur avendo abolito la differenziazione tra mercede e remunerazione rimaneva, e purtroppo rimane tutt'oggi, un altro problema di non poca importanza. Come si può dedurre dall'art. 22 o.p., nel caso di lavoro alle dirette dipendenze dell'amministrazione penitenziaria il compenso viene definito come 'mercede', sottintendendo così una distinzione rispetto alla normale retribuzione fornita ai lavoratori alle dipendenze di datori terzi. La mercede risulta essere stabilita "in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro". Tale possibile decurtazione di un terzo rispetto ai Contratti collettivi nazionali di lavoro (C.c.n.l.) deriva da risalenti concezioni che vedevano nel lavoro di questo tipo qualità e quantità inferiori rispetto al lavoro libero. Più di una volta sono stati sollevati dubbi sulla compatibilità di questa previsione normativa con gli artt. 3 e 36 della Costituzione. Una delle pronunce più importanti al riguardo è stata senza ombra di dubbio la sentenza n. 1087 del 1988 (271) con la quale la Corte dichiarò infondata la questione di legittimità derivante dalla differenziazione di retribuzione tra lavoro carcerario e lavoro esterno. Il Giudice delle leggi arrivò infatti a prospettare una differenziazione di natura ontologica tra i due tipi di lavoro, tale da giustificare la differenza di trattamento economico. La tutela fornita dai criteri di proporzionalità e sufficienza della retribuzione di cui all'art. 36 Cost. opererebbe infatti solo qualora si prevedesse una paga "di gran lunga inferiore alla normale retribuzione, in quanto sarebbe certamente diseducativa e controproducente; il detenuto non troverebbe alcun incentivo a lavorare e, se lavorasse ugualmente, non avrebbe alcun interesse ad una migliore qualificazione professionale" (272). Tale pronuncia (la n. 1087) risulta utile, ai fini della discussione in atto, perché introduce la distinzione tra lavoro svolto alle dipendenze di terzi e lavoro svolto sotto le dipendenze dell'amministrazione penitenziaria. Solo quest'ultimo caso presenterebbe peculiarità e finalità così distintive da poter giustificare una differenza di trattamento economico. Se ai lavoratori alle dipendenze di soggetti terzi potesse essere offerta una paga inferiore a quella stabilita dai contratti collettivi si creerebbe infatti una discriminazione tra il lavoratore libero e quello recluso, discriminazione basata esclusivamente sullo stato detentivo di quest'ultimo (273).

La disamina finora compiuta ci porta quindi a considerare che, anche volendo supporre l'assenza di problematiche proprie dei lavori carcerari (274) e volendo prendere per valida una totale estensione ad essi delle tutele previdenziali e assicurative comuni, rimarrebbe comunque, per il soggetto dipendente dell'amministrazione penitenziaria, una diversa base contributiva rispetto al lavoratore esterno (275). Il lavoratore alle dipendenze dell'Amministrazione patirebbe infatti, quantomeno, lo scompenso previdenziale e assicurativo causato dalla differenza della mercede rispetto alla paga sindacale (276).

Infine, per onore di completezza, si deve ricordare come, qualora l'apposita commissione preposta a stabilire annualmente l'importo delle mercedi (commissione ex art. 22 o.p.) non provveda ad aggiornare i minimi sindacali da considerare ai fini del calcolo delle stesse, il detenuto pagherebbe un doppio dazio: il primo derivante dalla decurtazione prevista dall'art. 22 (quella di 1/3 sui Ccnl) e il secondo causato dal mancato aggiornamento della base retributiva (277).

Si riesce quindi a comprendere quante e quali siano le problematiche connesse al lavoro dei detenuti alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria e, conseguentemente, il motivo per il quale questo sia spesso il nostro parametro di riferimento nella trattazione delle singole tutele.

2.4.2 Le lavorazioni

Un secondo metodo di organizzazione del lavoro carcerario è quello delle lavorazioni. Queste consistono in attività lavorative organizzate su base industriale, svolte tanto all'interno che all'esterno degli istituti, che possono essere gestite tanto dall'amministrazione penitenziaria che direttamente da datori di lavoro esterni (278). Qualora sia l'Amministrazione a gestire direttamente una lavorazione questa andrà utilizzata principalmente per la produzione delle "forniture di vestiario e di corredo, nonché per le forniture di arredi e quant'altro necessario negli istituti" (279). Prima della riforma del 1975 era in uso presso l'amministrazione penitenziaria l'appalto di manodopera detenuta a ditte esterne (280). Tale prassi però portò ben presto ad un vero e proprio sfruttamento dell'attività lavorativa dei detenuti. Proprio per ovviare a ciò con il nuovo ordinamento penitenziario si abolì la possibilità per imprenditori esterni di organizzare lavorazioni interne al carcere, lasciando tale possibilità solo all'Amministrazione. L'art. 45 del Regolamento di esecuzione del 1976 prevedeva infatti che le lavorazioni penitenziarie fossero gestite e organizzate, secondo le direttive dell'amministrazione penitenziaria, dalle direzioni degli istituti, le quali potevano avvalersi della collaborazione di imprese pubbliche (281). In questo caso la gestione fiscale e assicurativa del soggetto doveva essere compito dell'Amministrazione, con tutte le conseguenze che questo comportava. Ben presto ci si rese però conto della pressoché totale incapacità dell'Amministrazione a gestire lavorazioni di questo tipo e si decise di aprire nuovamente le porte del carcere agli imprenditori esterni. Con la riforma del 1993 (legge n. 296) furono quindi istituite le Commissioni regionali per il lavoro penitenziario con lo scopo di procacciare nuove opportunità di lavoro alla popolazione detenuta e furono apportate ingenti modifiche alle precedenti disposizioni normative in materia. Il c. I del nuovo art. 20 o.p. stabilisce infatti che "possono essere istituite lavorazioni organizzate e gestite direttamente da imprese pubbliche o private". La nuova previsione dell'art. 20 bis permette inoltre al Provveditore regionale di affidare, con contratto d'opera, la direzione tecnica delle lavorazioni a soggetti esterni all'amministrazione penitenziaria. Si vengono ad avere in questo modo tre diversi tipi di lavorazioni: quella sotto l'Amministrazione penitenziaria, quella organizzata e gestita da imprese pubbliche o private, quella organizzata dall'amministrazione penitenziaria e gestita da imprenditori esterni (propria dell'art. 20 bis). Delle tre modalità organizzative solo una risulta avere come datore l'Amministrazione.

Il fatto che il lavoro sia svolto alle dipendenze della direzione dell'istituto o alle dipendenze di datori terzi porterà ovviamente a diverse conseguenze sotto l'aspetto previdenziale e lavorativo. Gli addetti alle lavorazioni alle dipendenze dell'Amministrazione infatti saranno sottoposti a tutte le problematiche che abbiamo analizzato con riguardo al lavoro domestico. Visto il carattere più professionale che queste lavorazioni hanno rispetto agli incarichi domestici le uniche differenze che si potranno riscontrare saranno relative alla minor turnazione lavorativa effettuata (per la difficoltà di reperimento e preparazione dei lavoratori), ad un miglior trattamento retributivo (282) e ad una maggior capacità rieducativa dell'attività svolta (sulla base di una preparazione professionale più specifica). Si avrà una situazione del tutto diversa invece qualora la lavorazione sia organizzata e diretta da datori di lavoro terzi. In questo caso gran parte delle problematiche precedentemente illustrate svanirebbe, anche in virtù della necessaria applicazione dei minimi di paga sindacali e di un'autonoma gestione assicurativa e previdenziale da parte dell'azienda (283) anziché del carcere. Si viene quindi a reinstaurare, nel caso di lavorazioni gestite da terzi, quella trilateralità (284) che tanto giova ai diritti dei lavoratori. In questo caso infatti, anche qualora l'attività si svolga all'interno delle mura del carcere, vi sarà distinzione tra il datore di lavoro e il soggetto preposto al rapporto punitivo.

Ovviamente non si può dire che sia sparito del tutto il timore dello sfruttamento del lavoro dei detenuti che aveva caratterizzato l'ordinamento del 1975, tant'è che l'art. 20 c. XIII (introdotto dalla legge n. 193 del 22 giugno 2000 'Legge Smuraglia') stabilisce che le amministrazioni penitenziarie stipulino apposite convenzioni con i soggetti pubblici o privati o cooperative sociali che vogliano fornire ai detenuti opportunità di lavoro. Tali convenzioni disciplinano, tra l'altro, anche l'oggetto, le condizioni di svolgimento dell'attività lavorativa e il trattamento retributivo. In questo modo, pur avendo aperto la strada all'ingresso degli istituti di pena nel mercato del lavoro esterno, si cerca di tutelare il soggetto debole (285), il lavoratore, da eventuali soprusi (286). Sempre allo stesso scopo, inoltre, l'art. 47 del d.p.r. n. 230 prevede che il datore di lavoro dimostri alla direzione dell'istituto di pena l'adempimento degli obblighi assicurativi e previdenziali. Non potendo infine esserci una consegna diretta dello stipendio al detenuto (in virtù del generale divieto di avere in cella contati, assegni o altri valori di tal genere) questo viene versato alla direzione dell'istituto, al netto delle ritenute previste, assieme all'importo degli assegni per il nucleo familiare dovuti al soggetto (287).

La situazione retributiva e contributiva del detenuto impiegato nelle lavorazioni muta quindi con riguardo non all'attività svolta ma al datore di lavoro dal quale si dipende, sia esso l'Amministrazione o un datore terzo. Tra l'una e l'altra condizione le differenze sono davvero notevoli dato che a coloro che lavorano presso terzi, come abbiamo già detto, è concesso un trattamento pressoché parificato rispetto ad ogni altro lavoratore comune.

2.4.3 Il lavoro extramurario

La possibilità di svolgere un'attività lavorativa all'esterno del carcere è connessa a due diverse soluzioni percorribili. Da un lato ci si può rifare ad una particolare modalità di organizzazione del lavoro carcerario denominata 'lavoro all'esterno' (288), dall'altro si può seguire la via dell'accesso ad una misura alternativa, quale ad esempio la semilibertà o l'affidamento in prova al servizio sociale (289), che punti ad un reinserimento del detenuto nella società attraverso un suo percorso lavorativo (290). Anche se la disamina puntuale di questi istituti non compete alla nostra ricerca quel che ci interessa notare è come queste tre opzioni, pur partendo da caratteri e natura sostanzialmente diversi, giungono, dal punto di vista previdenziale e lavorativo, a conclusioni molto simili tra di loro.

Le attività lavorative che da queste tre misure prendono vita, infatti, non possono dirsi particolarmente singolari né quanto al rapporto di lavoro che si costituisce tra il detenuto e il datore di lavoro, né quanto al trattamento assicurativo e previdenziale che ne consegue. Come abbiamo in precedenza detto in questi lavori non vi è confusione tra soggetto incaricato della pena e datore di lavoro, non vi è neppure identità spaziale tra luogo di reclusione e luogo di lavoro; conseguenza ne è che la disciplina lavorativa e assicurativa viene modificata solo in minima parte dalle istanze di tipo punitivo. Tra queste modifiche, ad esempio, quelle inerenti alla difficoltà di applicare la normativa giuslavoristica sul lavoro notturno e le trasferte ad un regime così rigido come può essere quello della semilibertà e del lavoro all'esterno. Riguardo ai soggetti ammessi al lavoro all'esterno l'art. 48 c. XI del d.p.r. 230 recita infatti "I detenuti e gli internati ammessi al lavoro all'esterno esercitano i diritti riconosciuti ai lavoratori liberi con le sole limitazioni che conseguono agli obblighi che conseguono all'esecuzione della misura privativa della libertà". Stessi limiti sono previsti con riguardo ai semiliberi (art. 54) e agli affidati in prova.

Pur essendo disciplinati in maniera quasi del tutto identica una distinzione di non poco conto tra i tre regimi (lavoro all'esterno, semilibertà, affidamento in prova) riguarda, invece, gli aspetti retributivi e contributivi dei rispettivi rapporti di lavoro. Qualora infatti il soggetto non sia in stato di libertà ma sia ancora detenuto o sottoposto in qualche modo, seppur parzialmente, a regime detentivo, il datore di lavoro è tenuto a versare la retribuzione comprensiva dell'importo degli assegni familiari alla direzione dell'istituto e a dimostrare il regolare adempimento degli obblighi relativi alla tutela assicurativa e previdenziale (291). Questo, quindi, avviene nel caso di detenuti ammessi al lavoro all'esterno e di semiliberi, in quanto soggetti sempre sottoposti, purché in maniera limitata, allo stato di detenzione. Non accade invece nel caso di attività lavorativa svolta durante l'affidamento in prova ai servizi sociali. Il soggetto sottoposto a quest'ultimo tipo di misura, per quanto gravato da stringenti prescrizioni, è infatti in stato di libertà (292).

Proprio sulla necessità del versamento delle retribuzioni, per semiliberi e lavoranti all'esterno, direttamente agli istituti di appartenenza, la giurisprudenza di merito e di legittimità si sono spesso scontrate. Già l'art. 51 del previgente regolamento penitenziario, (d.p.r. n. 431 del 29 aprile 1976) che prevedeva tale obbligo di versamento, aveva provocato dibattiti. Mentre la giurisprudenza di merito, infatti, sosteneva la non applicabilità della disposizione in quanto illegittima sotto vari profili (293) la Corte di cassazione sosteneva il non contrasto dell'obbligo con la ratio della semilibertà (294). La conferma di quest'ultima impostazione è in seguito derivata da disposizioni interne del Dipartimento dell'Amministrazione (295) che negavano la possibilità di versamento diretto, nonché dalle previsioni del d.p.r. 230 del 2000 al riguardo (296).

Ai fini di una ricerca nel campo delle tutele sociali quindi i soggetti in affidamento risultano di ben poco interesse essendo praticamente del tutto assimilabili ad un qualsiasi lavoratore libero. I soggetti in semilibertà e in lavoro all'esterno potrebbero, invece, essere un miglior spunto di analisi. La posizione di quest'ultimi è infatti molto simile, in virtù del persistere dello stato detentivo, a quella dei soggetti che lavorano all'interno del carcere alle dipendenze di terzi.

2.4.4 Ulteriori modelli di organizzazione del lavoro

Dalla breve disamina finora compiuta sono rimasti esclusi due modelli di organizzazione del lavoro non direttamente rientranti in nessuno dei tre sottoinsiemi nei quali abbiamo diviso il mondo lavorativo carcerario. Il primo modello è quello del lavoro a domicilio, il secondo è quello delle attività intellettuali artigianali e artistiche di cui all'art. 20 c. XV o.p. (297).

Il lavoro a domicilio (298) è una particolare forma di lavoro alle dipendenze di terzi. La sua regolamentazione in ambito carcerario risulta essere limitata a due sole norme: l'art. 52 del regolamento penitenziario e l'art. 19 della legge n. 56 del 1987. La prima norma prevede che "Il lavoro a domicilio all'interno dell'istituto penitenziario può essere svolto, nel rispetto della normativa in materia, anche durante le ore destinate al lavoro ordinario, con l'osservanza delle modalità e condizioni di cui all'art. 51 (sulle attività artigianali, artistiche ed intellettuali)" (299). Il compenso fornito a questi lavoratori non potrà essere inteso nei termini di mercede (dato che la loro attività vede un terzo soggetto come datore di lavoro) ma dovrà essere stabilito "sulla base di tariffe di cottimo pieno risultanti dai contratti collettivi di categoria" o, in mancanza di questi, da un'apposita commissione regionale (art. 8). La struttura generale rimane poi quella prevista dalla legge n. 877 del 1973 (normativa generale sul lavoro a domicilio), quella cioè dell'attività che il lavoratore "con vincolo di subordinazione, esegue nel proprio domicilio o in locale di cui abbia disponibilità [...] utilizzando materie prime o accessorie e attrezzature proprie o dello stesso imprenditore, anche se fornite per il tramite di terzi" (300).

La seconda norma alla quale abbiamo accennato è invece l'art. 19 della legge n. 56 la quale sostiene, come abbiamo già visto accadere in tutti i casi di lavoro alle dipendenze di terzi (301), la necessità che il datore versi direttamente all'istituto "le somme dovute al lavoratore al netto delle ritenute previste dalle leggi vigenti, dimostrando ad essa l'adempimento degli obblighi relativi alla tutela assicurativa, previdenziale ed infortunistica" (302). Come si può facilmente comprendere la situazione di questi soggetti sarà del tutto analoga, dal punto di vista assicurativo-previdenziale, alle lavorazioni interne alle dipendenze di terzi. Si avrà quindi una totale estensione della normale disciplina protettiva del lavoro.

Passando alle attività intellettuali, artigianali e artistiche (303), in base all'art. 20 c. XV o.p., i detenuti e gli internati "che mostrino attitudini artigianali, culturali o artistiche, possono essere esonerati dal lavoro ordinario ed essere ammessi ad esercitare per proprio conto, attività artigianali, intellettuali o artistiche". Attività di questo tipo, in verità, secondo l'art. 51 del regolamento possono avere una duplice impronta. Possono essere svolte sotto forma di hobby, fuori dagli orari di lavoro, o possono essere considerate un vero e proprio sostituto dell'attività lavorativa e, quindi, essere svolte nei medesimi orari delle altre attività lavorative. Quest'ultima ipotesi è possibile solo quando ricorrano contemporaneamente i requisiti di cui all'art. 20 c. XV e quello della professionalità dell'attività previsto dall'art. 51 reg. esec. In tal caso, infatti, l'obbligo lavorativo può considerarsi esaurito da questa attività e quindi il direttore può disporre l'esonero del soggetto da ogni altro lavoro (304). Secondo la giurisprudenza di legittimità è proprio questo esonero (art. 20 c. XIV), disposto dal direttore, a conferire all'attività valenza lavorativa e a permettere l'utilizzo di strumenti quali il reclamo al magistrato di sorveglianza, di cui all'art. 69 c. VI, riguardo alle norme che disciplinano il lavoro penitenziario (305).

A fronte di questo tipo di lavoro vi è una specifica problematica di natura assicurativa. Questi soggetti, come si era già notato in epoca risalente, in virtù della loro attività, non sono dipendenti dell'amministrazione penitenziaria, ma dovrebbero essere iscritti ed assicurati presso le apposite gestioni (gestione artigiani qualora svolgano un'attività di questo tipo, oppure presso le varie assicurazioni, generalmente di natura privata, concernenti le altre due categorie: artisti ed intellettuali) (306).

La questione rimane a tutt'oggi un nodo spinoso del lavoro penitenziario poiché, qualora le amministrazioni non si attivino per effettuare una pronta iscrizione di questi soggetti presso gli appositi albi e le relative gestioni assicurative, si avrà una vera e propria attività svolta al nero e priva di ogni tipo di tutela (307).

Se da una parte quindi l'attività artigiana, intellettuale ed artistica può essere considerata importante elemento di un percorso rieducativo, l'assenza della corrispettiva copertura assicurativa non favorisce certo il reinserimento del soggetto al momento della scarcerazione (308).

2.5 I diritti dei detenuti lavoratori (brevi cenni)

La questione dell'estensione dei diritti lavorativi alle attività svolte dai detenuti è stata, ed è tuttora, uno dei punti fondamentali delle discussioni dottrinali in materia. Come infatti stabilisce l'art. 20 c. V "l'organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera" in maniera da poter perseguire la finalità rieducativa e garantire il reinserimento nella società. Una pesante decurtazione di questi diritti non garantirebbe quindi il perseguimento di questo scopo, facendo fallire del tutto l'istanza rieducativa.

Sotto questo aspetto quindi si dovrebbe aspirare ad un'estensione di tutti i diritti lavorativi anche alla popolazione detenuta, ma non si può negare che lo stato detentivo, con tutte le limitazioni che comporta, abbia su di essi una forte influenza.

Questi diritti, come abbiamo già accennato, si sviluppano infatti nelle varie tipologie di lavoro carcerario sulla base di due fattori (309):

  • la qualità del datore di lavoro (sia esso amministrazione penitenziaria o datore terzo);
  • l'ambiente nel quale il lavoro si svolge (a seconda che sia intra o extramurario (310)).

Da ciò deriva, come già sottolineato, che il lavoro extramurario alle dipendenze di datori terzi è la tipologia lavorativa che meno risente dell'influenza dello stato detentivo ed alla quale sarà quindi applicabile in maniera estesa la disciplina protettiva del lavoro. Risentirà invece della sola influenza data dall'ambiente lavorativo il lavoro intramurario alle dipendenze di terzi.

Per quanto riguarda infine il lavoro intramurario alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria la dottrina non sempre è risultata unanime. Alcuni autori a fronte delle espresse previsioni dell'ordinamento penitenziario circa taluni diritti connessi al lavoro (311) hanno prospettato la possibilità che il legislatore, riguardo a queste posizioni soggettive, ubi voluit dixit (312). Tale impostazione sembrava confermata, inoltre, dalla generale estensione di tutela stabilita invece espressamente per il lavoro all'esterno (313). Una posizione del genere avrebbe portato a negare ai soggetti ristretti la fruizione di una serie di diritti che, pur costituzionalmente protetti e generalmente estesi alla popolazione lavorante, non erano espressamente citati dalle previsioni penitenziarie (314).

Si deve d'altro canto notare come le posizioni opposte, secondo le quali i diritti derivanti dalla disciplina del lavoro sarebbero estensibili tout court ai lavoratori detenuti, sembrano eccessivamente generiche. Se un regime come quello detentivo ha infatti la capacità di influenzare anche il lavoro gestito all'esterno degli istituti da terzi soggetti, sarà indubbiamente più forte la sua influenza nell'attività interna alle dipendenze dirette dell'amministrazione penitenziaria. Non è un caso infatti, come abbiamo già detto e continueremo a ripetere, che proprio la tipologia di lavoro più 'vicina' alla sfera punitiva (per datore di lavoro e per ambiente di lavoro), quella del lavoro 'domestico' (315), sia quella che presenta le maggiori peculiarità e problematiche.

Per quanto concerne i diritti connessi all'attività lavorativa carceraria dobbiamo notare come le norme previste dalla comune disciplina protettiva del lavoro in tema di durata massima del lavoro e di riposo festivo sono estese a tutte le tipologie di lavoratori carcerari dal momento che i lavoratori 'domestici' hanno la copertura dell'art. 20 c. XVII, mentre per quelli alle dipendenze di datori terzi è sufficiente il generale rinvio alle norme in materia. Discussioni sono sorte riguardo alla possibilità di estensione della disciplina delle ferie annuali retribuite ai lavoratori detenuti. Sembrava infatti del tutto inspiegabile che pur prevedendo il riposo festivo le norme penitenziarie nulla dicessero di quello annuale. Mentre da una parte i soggetti impiegati presso terzi potevano fruire di questo diritto, in virtù della parità di trattamento più volte riconosciuta rispetto ai loro colleghi liberi, i lavoranti sotto l'amministrazione penitenziaria ne rimanevano esclusi. Non poteva essere una giustificazione a tale impostazione né l'impossibilità di fruirne realmente a causa dello stato detentivo, né il tentativo di vederne una sostituzione per mezzo dei permessi premio. Il diritto alle ferie infatti, così come stabilito dall'art. 14 dello Statuto dei lavoratori (316), è "volto a difendere esigenze fisiche e morali di riposo che sussistono per tutti i lavoratori". Non si capisce quindi per quale motivo il lavoratore detenuto non avrebbe dovuto avvertire questo tipo di esigenza ed ottenere la relativa tutela. Nel 2001 la Corte costituzionale, a seguito di una lunga querelle dottrinale e di una lunga rimostranza da parte dei lavoratori detenuti, è intervenuta dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 20 c. XVI o.p. nella parte in cui "non riconosce il diritto al riposo annuale retribuito al detenuto che presti la propria attività lavorativa alle dipendenze dell'amministrazione carceraria" (317). Veniva infatti osservato che:

"Il diritto al riposo annuale integra una di quelle posizioni soggettive che non possono in alcun modo essere negate a chi presti attività lavorativa in stato di detenzione. La garanzia del riposo annuale imposta in ogni rapporto di lavoro subordinato, per esplicita volontà del Costituente non consente deroghe e va perciò assicurata 'ad ogni lavoratore senza distinzione di sorta' (sentenza n. 189 del 1980), dunque anche al detenuto, sia pure con differenziazione di modalità" (318).

Già il Magistrato di sorveglianza di Agrigento, infatti, nel sollevare la suddetta questione di legittimità costituzionale aveva considerato (ordinanza del 5 maggio 1999) che il recupero delle energie fisiche e mentali deve essere garantito anche al lavoratore detenuto non solo perché previsto dalla Costituzione come diritto di tutti i lavoratori, ma anche perché l'assenza di tale previsione renderebbe il lavoro penitenziario "sicuramente più afflittivo", pregiudicandone così la funzione rieducativa (319).

Passando ai diritti sindacali dobbiamo notare, come avevamo già accennato nel par. 1, che l'elemento che maggiormente influisce su di essi sembra essere quello relativo alla collocazione spaziale del luogo di lavoro (intra o extramoenia) e non quello riguardante la natura del datore di lavoro. Per effettuare una corretta analisi è necessario però distinguere in cosa si concretizzi l'esplicazione dei diritti sindacali.

Il diritto del lavoratore detenuto ad iscriversi o fondare una sigla sindacale non sembra infatti trovare ostacoli né nel lavoro domestico, né nel lavoro interno alle dipendenze di terzi, né in quello esterno (320). L'organizzazione di attività sindacali di tipo partecipativo riscontra invece il proprio limite nella sicurezza dell'istituto e, quindi, sarà difficilmente applicabile alle attività lavorative intramurarie, siano queste alle dipendenze di terzi o dell'amministrazione. Infine il diritto di sciopero, pacifico per i dipendenti di datori terzi, secondo la dottrina maggioritaria dovrebbe essere esteso anche ai lavoratori alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, in quanto diritto costituzionalmente garantito. Dottrine minoritarie hanno invece sollevato dubbi circa l'opportunità di estensione dello stesso ai lavoratori detenuti, dato il contrasto con l'obbligatorietà dell'attività lavorativa e la presenza di conflittualità tra tale diritto e la sicurezza degli istituti (321).

Dal punto di vista normativo gli articoli 48 c. XI e 54 c. II prevedono, con riguardo ai lavoranti extra-moenia (semiliberi, lavoranti all'esterno, affidati in prova), la possibilità di applicazione dei diritti sindacali in virtù del solito generale richiamo effettuato da questi articoli ai "diritti riconosciuti ai lavoratori liberi". Ovviamente tale previsione dovrà essere parzialmente moderata in base alle esigenze dello stato detentivo o semidetentivo in corso. Riguardo ai lavoratori intra-moenia, invece, si è stabilita solo la possibilità di ingresso delle sigle sindacali all'interno del carcere (tramite la loro partecipazione alle commissioni di cui all'art. 20 c. VII e 22 c. IV), senza dire niente sulla possibilità di esercizio dei relativi diritti da parte dei detenuti.

Tra la posizione del lavoratore alle dipendenze dell'Amministrazione e quella del lavoratore all'esterno si colloca il lavoratore intra-murario alle dipendenze di terzi. Nonostante il datore di lavoro sia un soggetto terzo rilevano, sempre secondo una parte della dottrina minoritaria, anche in questo caso, le esigenze di sicurezza dell'istituto. Proprio tali esigenze non permetterebbero perciò attività quali assemblee o scioperi (322). Dal momento che, come abbiamo detto, per i diritti sindacali ciò che rileva maggiormente sembra essere la collocazione spaziale dell'ambiente lavorativo si comprende come, in questo caso, la categoria dei lavoratori intramurari dipendenti da terzi non sarebbe assimilabile a quella dei lavoratori esterni (con i quali solitamente condivide la generale estensione della disciplina giuslavoristica comune) ma rischierebbe di essere accomunata ai lavoratori 'domestici' proprio a causa della sua attività intra moenia.

Quanto ai diritti non aventi rango costituzionale, ed in specie alla previsione di cui all'art. 2103 c.c. riguardante il diritto del lavoratore a non essere adibito a mansioni inferiori, possiamo semplicemente considerare come questa norma, pur trovando applicazione nel caso di lavoro alle dipendenze di terzi, non dia luogo ad alcun utile riscontro nel caso di lavoro domestico alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria. I lavori di quest'ultimo tipo consistono spesso, infatti, in "compiti professionalmente semplici e di livello equivalente" sottoposti inoltre ad un complesso sistema di collocamento che non permetterebbe il rispetto del principio della parità di mansioni (323).

Per quanto riguarda infine i diritti previdenziali offerti ai lavoratori detenuti possiamo dire che, mentre l'art. 20 c. XVII sembra estendere la loro fruibilità ai detenuti lavoratori tout court, questa è realmente possibile ed equiparabile a quella dei lavoratori liberi solo nel caso dei lavoratori alle dipendenze di terzi. Nel caso di lavoro alle dipendenze dell'Amministrazione una serie di fattori, in parte già analizzati, limita e modifica queste tutele nei termini che vedremo nei parr. 3 ss. Tra questi l'assenza di trilateralità nel rapporto e l'obbligatorietà del lavoro svolgono, come già detto, un importante effetto. Vi sono, inoltre, altri elementi propri dello stato di detenzione, che vedremo nel prossimo paragrafo, che inficiano ulteriormente la possibilità di questa equiparabilità (324).

2.6 Ulteriori elementi della vita carceraria che influiscono sul lavoro penitenziario

Come ha notato una parte della dottrina (325) la vita carceraria presenta degli ostacoli congeniti ad una strutturazione del lavoro penitenziario che sia del tutto simile a quella comune. Tra questi elementi possiamo riscontrare:

  1. l'eccessiva mobilità dei soggetti detenuti tra i vari istituti;
  2. le frequenti turnazioni cui alcuni tipi di attività lavorativa sono sottoposti;
  3. il problema degli 'alias' dei soggetti ammessi al lavoro.

Questi fattori, incidendo sull'attività lavorativa dei soggetti, hanno risvolti anche sulla loro posizione contributiva, limitando spesso la fruizione dei relativi diritti previdenziali.

Per quanto riguarda la prima problematica dobbiamo rilevare come le persone recluse siano frequentemente soggette a trasferimenti da un istituto di pena ad un altro. I fattori che possono causare il trasferimento di un detenuto sono infatti molteplici e quasi mai connessi ad esigenze lavorative (326). Questa eccessiva mobilità influisce sul lavoro carcerario, mutandone il carattere, estinguendo o creando forzatamente rapporti. Capita spesso, infatti, che un soggetto che all'interno dell'istituto di provenienza era regolarmente addetto ad un'attività lavorativa una volta trasferito debba attendere di raggiungere nuovamente la cima delle liste interne per la messa al lavoro, trascorrendo così lunghi periodi di inattività. Altrettanto si può dire dei soggetti che, pur provvisti di una specializzazione tecnica da poter utilizzare nelle lavorazioni di un certo carcere, si ritrovano, invece, per ragioni del tutto estranee a quelle lavorative, destinati ad un altro. La situazione di perenne sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani, inoltre, non ha fatto che peggiorare le condizioni, portando a trasferimenti continui ed irrazionali in una logica lavorativa. Le ragioni di sicurezza e organizzazione dell'ambiente detentivo vengono infatti ad avere il sopravvento sull'istanza lavorativa e, conseguentemente, su quella rieducativa che ad essa è connessa.

Se un lavoro strutturato in questo modo non risulta affatto utile sotto il profilo rieducativo, risulta altrettanto dannoso per la posizione contributiva del soggetto e la difesa dei suoi diritti sociali. La prima infatti verrà ad essere estremamente frastagliata e saltuaria, al punto da non poter fornire un'utile copertura contributiva. I secondi saranno, invece, vittime di un doppio inconveniente: da una parte sarà estremamente difficile fruirne data la situazione contributiva che abbiamo appena illustrato (327), dall'altra il soggetto, spostato continuamente da un istituto all'altro, si troverà a richiedere sempre le stesse tutele ad interlocutori sempre diversi (quali, ad esempio, le varie sedi Inps locali, le direzioni dei vari istituti di pena e gli operatori carcerari), senza che queste siano esaudite prima di un nuovo trasferimento.

Per quanto riguarda poi le turnazioni lavorative si deve riconoscere come queste riguardino in maniera specifica il lavoro domestico. Le altre tipologie di lavoro infatti, specie quelle alle dipendenze di datori terzi, non sembrano soffrire di questo male. Le direzioni degli istituti, come abbiamo accennato, utilizzano spesso l'attività lavorativa come elemento di controllo della popolazione detenuta, di mantenimento dell'ordine interno. Mettendo a lavoro i soggetti danno loro motivo di svago e una piccola fonte di reddito. Nel fare ciò vengono applicate generalmente, specie negli istituti di grandi dimensioni, delle turnazioni lavorative molto serrate, spesso anche di carattere mensile. Questo tipo di strutturazione dell'attività lavorativa rischia però da una parte di tradire ogni tipo di istanza rieducativa (328) e, dall'altra, di dar vita a situazioni contributive estremamente frammentarie e poco utili. I diritti previdenziali, specie quelli di lungo periodo come le prestazioni pensionistiche, rischiano infatti di essere profondamente lesi dallo svolgimento di un'attività così saltuaria (329).

L'ultimo fattore da tenere in considerazione, la presenza di alias in capo ai soggetti reclusi, esplica i suoi effetti più sulla situazione previdenziale che non direttamente sull'attività lavorativa. Avviene frequentemente che i soggetti tratti in arresto, specie di nazionalità straniera, dichiarino false generalità nel tentativo di sfuggire alle conseguenze penali della presenza di recidive. Qualora non ci si accorga del fatto, e non lo si contesti prontamente alla persona, questo porta ad una 'immatricolazione' (330) del soggetto con generalità diverse da quelle che aveva all'esterno o da quelle dichiarate in una precedente carcerazione. La direzione del carcere, in seguito, al momento della messa al lavoro del soggetto, chiederà all'Agenzia delle entrate l'attribuzione del codice fiscale sulla base dei dati derivanti dall'immatricolazione. In questo modo in capo al soggetto verrà aperta una posizione contributiva del tutto nuova rispetto a quella che aveva all'esterno o in una precedente carcerazione (331).

La persona dichiarando false generalità riuscirà, qualora non venga scoperta, a non patire la presenza di precedenti penali ma metterà a repentaglio la completezza della sua posizione contributiva. Non capita infatti di rado di riscontrare, a fronte di soggetti ormai abituati al consueto entra-ed-esci dal carcere (332), la presenza, presso l'Agenzia delle entrate e l'Inps, di una molteplicità di posizioni contributive talmente frastagliate da limitare pesantemente l'accesso ad alcune tutele sociali (333).

Un analogo problema si pone non solo per chi, ogni volta, dichiara volontariamente un nome diverso, ma anche per chi, sine culpa, ha un nome talmente complesso da causare dubbi circa le modalità di scrittura. Questo accade soprattutto nei confronti di persone straniere dai nomi estremamente articolati. L'immatricolazione del soggetto e la successiva richiesta di codice fiscale viene infatti effettuata sulla base dei dati del verbale di arresto. L'errore originario riportato nella compilazione di quest'ultimo (334) rischia di inficiare tutti i passaggi successivi e la posizione contributiva del soggetto (335). Se al momento della convalida dell'arresto la persona non fa notare al magistrato l'errore nella scrittura del proprio nome, sarà in seguito difficilissimo riacquistare la propria posizione previdenziale (se non facendosi carico di una imputazione per false generalità ex artt. 495-496 c.p).

3. Le tutele sociali in carcere

Prima di passare alla trattazione delle singole tutele sociali appare opportuno dedicare un breve spazio al tema della loro evoluzione all'interno degli istituti penitenziari. Poi nei singoli paragrafi, riservati ai vari istituti sociali, parleremo anche delle modifiche subite nel corso del tempo da ogni tutela.

Abbiamo in parte già accennato a quale fosse la concezione del lavoro carcerario sotto il codice penale del 1889 e il regolamento generale degli stabilimenti carcerari del 1891. Il suo valore afflittivo e la sua natura strettamente connessa all'istanza punitiva lasciavano ben poco spazio alle tutele che da esso derivavano. In un momento storico che, come abbiamo visto nei primi paragrafi del capitolo I, iniziava a dare una costruzione sistematica alle istanze sociali dei soggetti lavoratori, quelle dei lavoratori detenuti sembravano essere totalmente ignorate. La netta separatezza costruita tra il sistema carcerario e il mondo esterno faceva in modo che non solo tutele di tipo sociale potessero difficilmente nascere dall'interno ma, anche, che potessero difficilmente traversare le mura del carcere quelle già perfettamente costituite all'esterno. Non è un caso, come vedremo anche nel paragrafo 3.3, che il r.d.l. n. 1422 del 1924 vietasse il pagamento delle pensioni ai condannati ad una pena superiore ad un anno che non avessero moglie o figli (336). Il soggetto detenuto era segregato in un mondo a sé stante privo di ogni risposta alle richieste di tutele assistenziali o previdenziali, specie qualora queste riguardassero solo lui e non anche i suoi familiari.

La successiva riforma del 1931 non abbandonò la concezione afflittiva del lavoro carcerario e neppure intaccò il muro che separava il mondo esterno da quello penitenziario (337). Il nuovo lavoro penitenziario infatti, come hanno sostenuto alcuni autori, era basato, se non più palesemente su istanze di tipo punitivo, sul modello della "locatio hominis" (338) che permetteva al creditore di lavoro di avere piena discrezionalità nel "disporre delle modalità di impiego e delle energie psico-fisiche altrui" (339). Così concepita l'attività lavorativa era spesso a metà tra un obbligo e una benevola concessione dell'Amministrazione, e anche la mercede risultava in parte avere questo carattere. Non si può dimenticare come, ad esempio, non vi fosse un legame diretto tra quantità, qualità delle prestazioni rese e mercede ricevuta. Era infatti possibile per l'Amministrazione aumentare l'importo della stessa a titolo di graziosa concessione per la condotta meritevole.

Quanto poi agli aspetti riguardanti più strettamente le tutele sociali fu notato come "gravi inconvenienti si registravano inoltre nella copertura assicurativa dei detenuti lavoranti. L'organizzazione del lavoro carcerario era a sé stante, svincolata da leggi economiche del mercato e dalle norme giuridiche in esso vigenti" (340). Il nuovo ordinamento infatti prevedeva al suo art. 123 che "Ai detenuti che lavorano sono applicabili tutte le norme riguardanti il riposo festivo, le assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro, l'invalidità, la vecchiaia e la tubercolosi" (341). Si trattava quindi di un'elencazione tassativa di tutele applicabili e dovevano quindi ritenersi escluse tutte le altre non esplicitamente menzionate (342). Questa impostazione sicuramente confermava le opinioni dei molti che ritenevano che il lavoro carcerario, per la sua assenza di fine economico per l'Amministrazione e la sua strutturazione (molto più conforme alla disciplina penitenziaria, punitiva, che non a quella lavorativa), non potesse essere equiparabile al lavoro libero. Veniva infatti spesso considerato assolutamente illecito che il condannato fruisse di condizioni equiparabili a quelle del cittadino libero (343). In quest'ottica sembrava quindi del tutto corretto, ad esempio, nonostante alcuna norma statuisse al riguardo, escludere gli ergastolani dall'assicurazione per la vecchiaia, l'invalidità e i superstiti (344). Si aveva perciò una bipartizione della popolazione detenuta: da una parte i detenuti comuni ai quali, in virtù dell'interpretazione puntuale dell'art. 123, venivano negate tutele quali quelle contro le malattie, la disoccupazione, gli assegni familiari, la nuzialità e la natalità; dall'altra i condannati a pena perpetua che si vedevano sottratte non solo queste tutele ma anche quelle inerenti a vecchiaia, invalidità e superstiti (345).

Anche qualora la formale applicazione di una tutela fosse stata prevista, si pensi ad esempio alle pensioni per i condannati a pene temporanee, i suoi caratteri erano spesso limitati e la sua portata era inferiore rispetto a quella delle tutele applicate ai lavoratori liberi (346). Solo nel 1962 una convenzione tra Inps e Amministrazione penitenziaria apportò una parziale soluzione a tale situazione discriminatoria stabilendo l'estensione dell'assicurazione contro la tubercolosi a tutti i detenuti e dell'assicurazione contro l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti ai condannati a pena perpetua (347). Rimanevano però ancora vigenti esclusioni non di poco conto come quella dall'assicurazione contro la malattia, la disoccupazione e le prestazioni di natalità e nuzialità (348).

Anche se si era ancora ben lontani dall'approvazione di un nuovo ordinamento che riuscisse a risolvere tutte le problematiche rimaste in sospeso, iniziarono ad essere rilevati contrasti tra le previsioni della Costituzione e le limitazioni poste ai diritti dei detenuti, anche in campo sociale. Non fu però possibile per il Giudice delle leggi, a causa di un motivo formale, pronunciarsi al riguardo per di ridare dignità al lavoro dei soggetti reclusi. Come infatti fu notato, anche dalla Corte stessa, il regolamento del 1931 non aveva forma di legge (349) e quindi non poteva essere soggetto a giudizio di costituzionalità (350). Non mancarono per questo pareri incidentali ed indiretti sul tema (351).

Solo con l'approvazione del nuovo ordinamento, ad opera della legge n. 354 del 1975, si è superata, almeno sul piano formale, la separatezza tra lavoratori detenuti e lavoratori liberi. L'art. 20 c. XVII (originariamente ultimo comma) o.p. stabilisce infatti che ai lavoratori detenuti "alla stregua delle leggi vigenti in materia di lavoro [...] sono garantite le tutele assicurative e previdenziali" (352). Ribadivano inoltre le disposizioni del regolamento del 1976 agli artt. 46 e 51 che i detenuti ammessi al lavoro all'esterno ed in regime di semilibertà potevano fruire di tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori liberi "con le sole limitazioni che conseguono agli obblighi inerenti alla esecuzione della misura privativa della libertà". A differenza dell'impostazione del regolamento del 1931 non si aveva più l'estensione di singole tutele tassativamente previste ma della disciplina protettiva del lavoro in generale, capace perciò di equiparare totalmente, almeno sul piano teorico, i due tipi di lavoratori. Il sistema delle tutele sociali risultava quindi essere mutato e, in ciò, grande aiuto era derivato anche dalla nuova concezione del lavoro penitenziario: con l'ordinamento del 1975 l'attività lavorativa diviene elemento rieducativo e si deve svolgere secondo l'organizzazione e i metodi propri del lavoro libero (art. 15 e art. 20 o.p.).

In virtù dell'importanza delle previsioni della riforma del 1975 sarebbe quindi il caso di considerare quale sia la loro reale portata. Se realmente il lavoro carcerario avesse i caratteri del lavoro comune una trattazione come quella che noi stiamo effettuando sarebbe del tutto inutile. Per di più sarebbero state del tutto inutili le distinzioni, in campo di diritti e tutele, tra il lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria e quello alle dipendenze di terzi. Sembra per ciò più realistico ritenere, rebus sic stantibus, la portata dell'art. 20 c. XVII come programmatica, di indirizzo, specie per i lavori alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria. Forse, infatti, sarebbe stato più corretto, invece di sancire una generale ed astratta corrispondenza tra lavoro libero e lavoro carcerario, far presente come le peculiarità proprie di quest'ultimo possono determinare limitazioni all'applicazione della comune disciplina protettiva del lavoro (353). D'altro canto il testo legislativo, qualora avesse adottato un'impostazione di questo genere, avrebbe sicuramente sortito minor effetto nell'evoluzione delle tutele lavorative. Permettendo infatti la possibilità di eccezioni, in virtù delle peculiarità del lavoro carcerario (354), si sarebbe autorizzata l'eterna differenziazione tra quest'ultimo e il lavoro libero. L'attuale formulazione dell'articolo, pur non corrispondendo alla realtà, permette di mantenere costantemente viva la tensione delle tutele previdenziali e assicurative dei lavoratori detenuti verso il modello di diritto comune.

La totale equiparazione delle tutele offerte a questo tipo di lavoratori rispetto a quelli comuni non sembra ancora essere stata raggiunta. Talvolta infatti è la base lavorativa cui le tutele assicurative e previdenziali devono essere applicate ad essere talmente peculiare dal rendere del tutto particolare anche la tutela (355); talaltra, invece, sono proprio le tutele ad essere strutturate in maniera diversa per questa tipologia di soggetti (356). Sicuramente su tutto questo ha influito una comune aberrante mentalità che reputa inaccettabile l'equiparazione, in campo di diritti sociali, dell''onesto cittadino' al soggetto recluso (357). I diritti sociali sarebbero infatti da inquadrarsi tra i diritti uti civis, cioè spettanti al soggetto non in quanto persona umana ma in quanto titolare di una posizione qualificata all'interno del contesto sociale. Tale qualificazione, generalmente, deriva dalla titolarità della cittadinanza o di permessi di soggiorno. Il soggetto recluso, in virtù della sua condotta criminosa, non sarebbe più degno di essere ritenuto appartenente alla società, a quel 'congresso di onesti e retti cittadini lavoratori' che può fruire dei diritti sociali.

Dalla riforma ad oggi comunque la porta lasciata aperta dalla previsione dell'art. 20 c. XVII è riuscita a dare spunto per un progressivo riavvicinamento tra tutela del lavoro libero e del lavoro carcerario. Con tutta probabilità ha contribuito a ciò anche la maggior apertura del carcere a datori esterni. L'accostamento tra il lavoro alle dipendenze di terzi, totalmente equiparato a quello libero, e l'attività dei detenuti dipendenti dell'Amministrazione, infatti, non poteva non far sentire come più viva e pressante la necessità di abolire la differenziazione tra i due (358).

3.1 Prestazioni di disoccupazione

La materia delle prestazioni di disoccupazione a favore dei soggetti detenuti è tra le più controverse di tutto il campo previdenziale. Svariati sono stati i mutamenti della disciplina e gli orientamenti della dottrina al riguardo. Come più volte ricordato: le prestazioni inerenti allo stato di disoccupazione presentano una duplice problematicità a seconda che derivino da un lavoro compiuto all'esterno, prima della detenzione, o da un lavoro compiuto all'interno dell'istituto (359). Nel primo caso si dovrà analizzare il rapportarsi della disciplina della disoccupazione e del collocamento esterno con la condizione di detenzione del soggetto beneficiario (360). Nel secondo, invece, si dovrà vedere se un'attività lavorativa svolta in stato di detenzione possa legittimamente dar vita alle relative prestazioni di disoccupazione.

3.1.1 Disoccupazione da lavoro libero e carcerazione

Elemento di chiarificazione dei rapporti tra disoccupazione da lavoro libero e regime carcerario è stato senz'altro l'art. 19 della legge n. 56 del 1987 che prevedeva una serie di disposizioni relative (361) alla disciplina della disoccupazione e a quella del collocamento (362). Lo scopo era quello di riuscire a conciliare definitivamente il sistema di tutele lavorative interno agli istituti con quello proprio della società libera. Veniva stabilito infatti (c. II), nonostante parte della dottrina fosse contraria, che i detenuti potessero essere iscritti alle liste di collocamento esterne e fosse lo stesso stato di detenzione e di internamento a certificare la continuità dello stato di disoccupazione. Questa disposizione era tesa a garantire un aiuto all'inserimento lavorativo dei soggetti reclusi, i quali potevano in questo modo continuare a maturare una loro posizione nelle graduatorie esterne di collocamento durante la carcerazione. Si creava così una netta scissione tra il sistema di certificazione della disoccupazione proprio del mondo esterno e quello carcerario. Il soggetto detenuto poteva risultare disoccupato per il mondo libero, ed essere iscritto nelle relative liste, pur compiendo un'attività lavorativa all'interno del carcere, o meglio, pur lavorando alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria (363). Il comma V stabilisce poi che nel caso il soggetto non si avvalga della possibilità di iscrizione durante la carcerazione può usufruirne entro 15 giorni dalla sua liberazione, vedendosi in questo modo riconosciuta una anzianità figurativa, stabilita in sede amministrativa, in base al periodo di carcerazione. A quest'ultima previsione è stata attribuita talvolta natura transitoria, atta ad effettuare in maniera 'indolore' il passaggio dal regime pre-1987 alla nuova possibilità di iscrizione, talaltra invece essa è stata interpretata come norma di chiusura, capace di sopperire a tutti quei casi in cui, vuoi per l'assenza di interesse da parte della persona detenuta, vuoi per problematiche di vario genere, l'iscrizione non era stata effettuata. In un primo momento infatti talune prassi avevano intralciato notevolmente la possibilità di iscrizione di cui al c. II (presso le liste di collocamento esterne), tra queste la necessità della presenza fisica della persona reclusa per l'effettuazione della stessa. La soluzione a questa impasse era però già stata proposta da Ciccotti e Pittau (364) i quali, grazie ad una sperimentazione avviata in Emilia Romagna, avevano prospettato, alla vigilia dell'approvazione della legge n. 56, la possibilità che i detenuti fossero iscritti nelle liste tramite delega ad un operatore penitenziario (365).

Altra previsione di estrema importanza era poi quella del c. III dello stesso art. 19 la quale stabiliva che lo stato di detenzione e di internamento non erano più causa di decadenza dall'indennità di disoccupazione ordinaria o speciale (366). Poiché la disoccupazione a requisiti ridotti è stata introdotta solo nel 1988 tale previsione (del 1987) non può che riferirsi a quella a requisiti interi. La norma sancisce quindi che la disoccupazione ordinaria a requisiti interi derivante da lavoro compiuto all'esterno prima della carcerazione, o da lavoro carcerario presso terzi (367), è del tutto compatibile con lo stato di detenzione. Era infatti più volte sorto il problema della possibilità, per chi entrasse nel mondo lavorativo carcerario (nel quale, come abbiamo detto, vigono regole di collocamento, di cumulo e lavorative in genere, in parte diverse rispetto a quelle del mondo libero), di poter fruire di questa forma di tutela.

Il comma IV dell'articolo 19, sempre sulla stessa linea, sancisce poi una generale regola di cumulo tra prestazioni di disoccupazione provenienti dall'esterno (368) e contestuale lavoro carcerario. Al fine di creare un coordinamento tra questi due elementi si stabilisce che "Quando viene svolta attività lavorativa remunerata all'interno o all'esterno degli istituti penitenziari, l'indennità di cui al comma III (indennità di disoccupazione ordinaria o speciale proveniente comunque da un precedente lavoro esterno o da precedente lavoro alle dipendenze di terzi) non è cumulabile con la retribuzione fino a concorrenza dell'ammontare della retribuzione stessa". Se una persona all'esterno svolgesse un'attività lavorativa contemporaneamente alla fruizione di una prestazione di disoccupazione ordinaria sarebbe costretto a comunicare l'inizio della nuova attività lavorativa e la prestazione cesserebbe. La persona, insomma, sarebbe tenuta a decidere se continuare a fruire della prestazione di disoccupazione o intraprendere un nuovo impiego (369). Nella realtà carceraria invece la persona, essendo soggetta ad un regime di obbligatorietà del lavoro, non ha possibilità di scelta tra le due opzioni. Sarebbe stato quindi del tutto iniquo che l'amministrazione penitenziaria avesse potuto, unilateralmente, decidere la fine della fruizione della prestazione previdenziale con l'atto di messa al lavoro del soggetto. Proprio in virtù di ciò si è instaurato un regime di cumulabilità parziale tra le prestazioni di disoccupazione precedentemente acquisite e la messa a lavoro da parte dell'amministrazione penitenziaria (370).

La legge n. 56, con il suo articolo 19, ha quindi cercato di dare chiarezza a quella scissione tra mondo lavorativo esterno ed interno, ed i relativi regimi di collocamento e disoccupazione, che tanti problemi creava agli studiosi. Rimane da analizzare in quali casi un'attività lavorativa esterna può dar vita alla fruizione dell'indennità di disoccupazione (a requisiti interi) all'interno del carcere, sulla base del regime previsto dall'art. 19 c. III-IV.

Se il licenziamento da parte del datore esterno è avvenuto per cause diverse dall'applicazione della misura cautelare il lavoratore, in presenza dei requisiti richiesti ed entro i termini previsti, può effettuare l'apposita domanda di disoccupazione ordinaria a requisiti interi. La necessità di effettuare questa domanda dall'interno degli istituti di pena sorgerà quindi solo nel caso la data di licenziamento e di arresto siano state talmente vicine tra loro da non permettere al soggetto di fare richiesta dall'esterno e da essere però ancora nei termini previsti (cioè 68 o 98 giorni dal licenziamento).

Vi è poi il caso in cui sia stata la carcerazione preventiva la causa dell'estinzione del rapporto di lavoro. La dottrina maggioritaria riscontra infatti nella carcerazione del lavoratore una sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione valutabile come motivo di recesso ai sensi dell'art. 1464 c.c. in combinato disposto con l'art. 3 della legge n. 604 del 1966 (371). Sarà infatti richiesto un giudizio ex ante sulla tollerabilità dell'assenza in base ai parametri dettati da quest'ultima norma.

In verità questioni di questo genere (si tratti di licenziamenti precedenti alla carcerazione o contestuali e dovuti ad essa) sono alquanto rare dal momento che vi è, nella popolazione detenuta, un'estesa incidenza dello stato di disoccupazione nei periodi precedenti la carcerazione (372). Tale dato può essere rilevato per la popolazione carceraria, se non da statistiche di dubbia affidabilità (373), dall'impossibilità per vari soggetti di usufruire di prestazioni che richiedono una certa continuità o anzianità contributiva (374).

Capita infatti spesso di riscontrare tra la popolazione carceraria l'assenza di strutturate posizioni contributive anche in soggetti d'età avanzata. I fattori che contribuiscono solitamente a questa mancanza di contributi possono essere molteplici.

Per i cittadini di paesi terzi tale situazione spesso deriva dall'irregolarità della loro permanenza sul territorio italiano che non gli ha permesso di svolgere altro lavoro se non quello 'a nero', oppure, come abbiamo già detto (375), dalla presenza di alias. Lo svolgimento di lavoro a nero è una delle cause di mancanza di contributi anche per soggetti regolari ed italiani. L'assenza di valide posizioni contributive inoltre può spesso essere indice, tanto per gli stranieri che gli italiani, di una vera e propria esistenza criminosa e/o di esclusione sociale, che ha condotto questi soggetti lontano da qualsiasi attività lavorativa.

3.1.2 Disoccupazione da lavoro carcerario

Volgiamo adesso lo sguardo all'indennità di disoccupazione che 'nasce' all'interno degli istituti, sulla base del lavoro carcerario, e alla possibilità di offrire adeguata tutela ai soggetti detenuti. L'art. 123 del r.d.l. n. 787 del 18 giugno 1937 al riguardo stabiliva, come abbiamo già visto nel paragrafo 1.1.7 di questo capitolo, che ai detenuti lavoratori fossero estese le tutele contro l'invalidità, gli infortuni sul lavoro, la vecchiaia, la tubercolosi ma non anche quelle relative alla malattia e alla disoccupazione. Era infatti concezione diffusa quella che vedeva il lavoro carcerario come del tutto diverso da quello dei soggetti liberi, in quanto imposto con atto autoritativo dell'Amministrazione. Si pensava, inoltre, che solo i soggetti liberi potessero risentire dello stato di bisogno causato dalla disoccupazione e che fornire una tutela di tale tipo alle persone recluse avrebbe voluto dire portarle ad una maggiore oziosità e, quindi, secondo alcune correnti dottrinali, ad un minore avanzamento del processo rieducativo (376). La riforma del 1975 con l'articolo 20 sembrava successivamente estendere ogni tipo di tutela previdenziale ed assistenziale propria dei lavoratori liberi anche a quelli reclusi. Tale previsione non mancò di suscitare polemiche e dibattiti esegetici. Non prevedendo infatti alcunché di specifico riguardo alla disoccupazione in ambito carcerario, questo dettato, nonostante la sua importanza, lasciava eccessivo adito a dubbi interpretativi (377). Si venne in questo modo a dar vita ad un regime che, da una parte, prescriveva l'obbligo per l'amministrazione penitenziaria di versare i contributi di disoccupazione per i detenuti che lavoravano alle sue dipendenze (art. 20 c. XVII o.p.) ma, dall'altra, mancava di garantire a quest'ultimi di poter fruire delle relative prestazioni per assenza di specifiche disposizioni al riguardo.

Lunghe battaglie dottrinali (poi sfociate nell'art. 19 della legge n. 56 che abbiamo visto) sono riuscite in seguito ad estendere le prestazioni di disoccupazione anche al lavoro carcerario, in maniera diversa però a seconda che questo si svolga sotto l'amministrazione penitenziaria o sotto datori terzi. La differenziazione non si riscontra, almeno in questo settore, tra lavoro 'interno' ed 'esterno' alle mura dell'istituto quanto, piuttosto, tra lavoro alle dirette dipendenze dell'amministrazione penitenziaria e lavoro alle dipendenze di un datore privato. Nel secondo caso infatti il regime risulta essere quasi totalmente identico ad un qualsiasi altro lavoro presso datori privati e, in caso di licenziamento, il soggetto, se ne sussistono i requisiti, potrà fruire della indennità di disoccupazione ordinaria a requisiti interi (o della Cassa integrazione guadagni qualora l'azienda-datore di lavoro risponda a taluni parametri). Salvo quindi differenze circa le erogazioni di alcune prestazioni previdenziali, che vedono sempre l'istituzione penitenziaria in funzione di controllore del rapporto di lavoro intercorrente tra i due privati (378), i rapporti costituiti in questo modo sono totalmente assimilabili alla generalità dei rapporti esterni.

Qualora invece il soggetto si trovi a lavorare direttamente alle dipendenze dell'Amministrazione la commistione delle posizioni di obbligo e diritto al lavoro farà sì che alcuni aspetti della disciplina, non solo prettamente lavorativa ma anche previdenziale e assistenziale, siano connotati da caratteri peculiari. Come non si è mancato di far notare "Gli elementi 'specializzanti' del rapporto di lavoro alle dipendenze della direzione del carcere sono stati individuati nella finalità rieducativa e risocializzativa del lavoro penitenziario, nelle particolari modalità di avviamento al lavoro e nelle modalità di risoluzione del rapporto, che, sostanzialmente legate a 'turni di rotazione ed avvicendamento', non sembrano assimilabili al licenziamento" (379). Tali elementi di specialità offrono riscontri ancora maggiori in un campo, come quello proprio delle tutele per la disoccupazione, che dà forte rilievo alla componente volitiva del soggetto (380). Questa tipologia di lavoratore sarà sottoposto a talune previsioni di natura diversa rispetto alla generale disciplina protettiva del lavoro come, ad esempio, quelle che sanciscono l'impossibilità di fruire della disoccupazione ordinaria (381) ad ogni turnazione di incarichi o quelle che stabiliscono un particolare sistema di collocamento.

All'interno delle istituzioni penitenziarie vige un particolare regime di collocamento stabilito dal d.l. 187 del 1993 convertito in legge n. 296 del 1993 che ha modificato l'art. 20 c. VI e ss. dell'ordinamento penitenziario. Tale riforma ha individuato quali siano gli elementi da considerare nelle graduatorie per la messa a lavoro rendendoli più simili possibile a quelli adottati all'esterno. Nonostante ciò il sistema di collocamento e di tutela della disoccupazione non può dirsi unificato ma rimane sostanzialmente bicipite, diviso cioè tra collocamento interno ed esterno. Proprio tale elemento, come abbiamo in parte già visto, fa sì che il soggetto possa risultare contemporaneamente disoccupato per i centri dell'impiego esterni, sulla base dell'iscrizione prevista dall'art. 19 della legge n. 56, e occupato nelle attività lavorative interne all'istituto. Al di là di questa discordanza, assenza di unificazione, il vero problema in tema di disoccupazione e lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria è dato dalle modalità con le quali quest'ultimo si svolge.

Come abbiamo accennato i più o meno rapidi turni di rotazione e di avvicendamento che abbiamo visto caratterizzare questo tipo di lavoro, infatti, non possono essere assimilati ad un licenziamento ma, piuttosto, ad una sospensione. Ciò fa sì che il detenuto nei periodi di inattività non possa fruire dell'indennità di disoccupazione a requisiti interi (per assenza appunto di un esplicito atto di licenziamento). Ovviamente, al di là della dimenticanza degli studiosi in materia, niente impedisce a tale soggetto di poter fruire del modello di disoccupazione a requisiti ridotti (382). Le problematiche relative all'effettuazione di tali richieste per le persone recluse che lavorano alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria sono però molteplici. Come abbiamo notato, infatti, gran parte dei rigetti delle relative domande avviene per assenza dei requisiti di anzianità contributiva (383). Oltre a ciò rimane da dire che la sempre maggiore carenza di fondi destinati a finanziare il lavoro sotto l'amministrazione penitenziaria, e la conseguente maggior turnazione e minor stabilità degli incarichi, fa in modo che risulti sempre più difficile raggiungere i 78 giorni di lavoro richiesti nella relativa annualità. A questa difficoltà sopperiscono in parte le modalità di conteggio delle giornate lavorate. Al momento della redazione di questo computo infatti un'attività lavorativa di qualsiasi durata, fosse anche una frazione di ora, è calcolata come giornata utile ai fini della disoccupazione (384). In questa maniera ne traggono giovamento quelle tipologie di lavoratori interni la cui attività magari si riduce ad un solo e breve incarico nell'arco della giornata (si pensi ad esempio all'incarico di 'spesino'). Poiché l'indennità di disoccupazione viene comunque ad essere conteggiata sulla base dei redditi percepiti, e viste le problematiche relative all'adeguamento delle mercedi (385), è facile intuire come i benefici raggiunti con questa modalità di richiesta siano spesso di lieve entità.

Dobbiamo inoltre far presente che lo stesso lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria non risulta avere natura uniforme. Il collocamento interno viene infatti effettuato, come abbiamo visto, sulla base di una duplice graduatoria per la messa al lavoro che suddivide i soggetti che devono essere destinati ad incarichi generici da quelli che invece hanno competenze specialistiche. Proprio questa suddivisione porta talvolta a successive disparità reddituali e previdenziali. La manodopera qualificata infatti, cioè coloro che vengono ammessi nella lista di collocamento interna in base alle proprie capacità lavorative specifiche, ha la possibilità di fruire di impieghi maggiormente stabili, con turnazioni molto minori o del tutto assenti, e una conseguente posizione previdenziale e reddituale più favorevole. Si sviluppa insomma quello che potremmo definire un impiego alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria 'a due velocità'. Tutto ciò è facilmente deducibile semplicemente dall'analisi dei modelli dl 86/88 bis annualmente redatti (386) o dai relativi CUD. Uno 'scopino' ad esempio avrà una turnazione lavorativa molto più rapida, in via generale, rispetto ad un idraulico o ad un addetto alla cucina. Ovviamente avrà anche una retribuzione (sia quanto a paga base che a causa delle ore lavorate) e una posizione previdenziale inferiore. Non è invece detto che sia altrettanto ampio il divario tra l'indennità di disoccupazione a requisiti ridotti dei due, poiché il cuoco, ad esempio, potrebbe patire un 'eccesso di lavoro' che non gli permetterebbe di godere al massimo della relativa prestazione (387).

Tra i soggetti reclusi dipendenti dell'Amministrazione vi sono inoltre anche lavoranti agricoli (388) i quali possono accedere, in presenza dei requisiti richiesti, alle specifiche prestazioni di disoccupazione. Dobbiamo notare però che possono realmente essere definiti lavoranti agricoli, e quindi fruire delle relative prestazioni, solo quelli impiegati presso le colonie agricole o presso istituti ai quali sia riconosciuto un codice di iscrizione dei propri lavoranti come agricoli. Può capitare infatti che, qualora all'istituto sia stato fornito un solo codice generico per l'iscrizione della tipologia di attività dei propri lavoranti, questo non possa validamente far figurare nessun soggetto come impiegato in attività agricola. Coloro che si trovassero a compiere lavori di tipo agricolo in tali condizioni, e in verità data l'estensione e la conformazione degli istituti spesso accade, si vedrebbero quindi negata la relativa tutela previdenziale specifica. Si sviluppa in questo modo una vera e propria carenza di tutela, un errore istituzionalizzato ed accettato nell'iscrizione dei lavoranti alle tutele assicurative e previdenziali.

Per quanto riguarda il lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria è d'obbligo effettuare un'ultima precisazione. Come abbiamo detto ai lavoratori di questo tipo non spetta la disoccupazione ordinaria a requisiti interi per i periodi di sospensione tra una turnazione lavorativa e l'altra. Tale prestazione spetterebbe però loro al momento della scarcerazione. Nonostante la dottrina non si sia mai pronunciata su un aspetto così tecnico si può validamente ritenere che la scarcerazione, a differenza della turnazione, segni una definitiva interruzione del rapporto di lavoro con l'amministrazione penitenziaria, interruzione che stavolta potrebbe essere correttamente assimilata al licenziamento e dar quindi luogo alla relativa prestazione. Rimarrebbero in questo caso almeno due ulteriori incognite non di poco conto. Da una parte la messa al lavoro all'interno dei vari istituti può essere infatti effettuata anche in assenza di documenti in corso di validità (389) e nei confronti di soggetti irregolari, stante la natura complessa del lavoro carcerario. L'assenza di documentazione di identità può però essere un ostacolo al momento della richiesta all'esterno dell'indennità (sia per l'iscrizione ai centri per l'impiego che per l'effettiva riscossione della prestazione) e lo sarà ancora di più in caso di soggetti privi di ogni autorizzazione al soggiorno. È inoltre il caso di accennare ad una seconda problematica: le 52 settimane lavorate nell'ultimo biennio, richieste per l'erogazione dell'indennità a requisiti interi, vengono calcolate sulla base dei minimali contributivi settimanali e non sulla base delle giornate realmente lavorate. Questo calcolo, stante l'inadeguatezza delle mercedi dei soggetti detenuti, porta spesso, pur a fronte di lunghi periodi lavorativi, a non raggiungere il suddetto requisito e a non poter fruire della relativa prestazione. In base a quanto abbiamo prima detto circa la doppia velocità del lavoro interno è facile intuire che a quest'ultima prestazione, in virtù delle 52 settimane richieste, accederanno in via maggioritaria i lavoratori carcerari specializzati, 'in pianta stabile' (390). Si tratta quindi di uno di quei casi in cui più che le regole da applicare ai fini di garantire una tutela viene in rilievo la situazione lavorativa del soggetto (391).

Nel caso comunque di ottenimento della prestazione si verrebbe a creare una situazione astrattamente assurda, ma in pratica del tutto logica, per cui il soggetto, che magari è stato iscritto alle liste di collocamento esterne, comuni, per tutto il periodo della carcerazione (stante la possibilità prevista dall'art. 19 della legge n. 56), potrà fruire della disoccupazione a requisiti interi. Lo stesso soggetto sarà contemporaneamente disoccupato per il mondo esterno e occupato, al punto di ricevere l'apposita prestazione di disoccupazione, per il mondo carcerario. Potrà quindi fruire dell'anzianità di collocamento e, contemporaneamente, di una prestazione di disoccupazione che richiede almeno 52 settimane lavorate nell'ultimo biennio. È questo un ulteriore segno del doppio binario che si è venuto a creare tra il sistema lavorativo-previdenziale interno e quello esterno.

Vista la situazione dei detenuti dipendenti dell'amministrazione penitenziaria rimangono adesso da analizzare le prestazioni di disoccupazione offerte ai detenuti impiegati in lavori carcerari (siano questi interni all'istituto o esterni) alle dipendenze di datori terzi. La loro equiparazione ai lavoratori comuni è più estesa rispetto a quanto finora visto. La fine del rapporto tra il datore di lavoro e la persona reclusa, in queste attività, anche se avviene in corso di detenzione, configura un vero e proprio licenziamento, non una mera sospensione, e dà diritto all'indennità di disoccupazione a requisiti normali. Ovviamente qualora l'attività lavorativa sia saltuaria o non permetta comunque di raggiungere i parametri richiesti per la prestazione a requisiti interi si potrà sempre accedere alla prestazione a requisiti ridotti. In entrambi i casi, allorché non si attivasse direttamente il datore di lavoro esterno, il lavoratore dovrà presentare richiesta all'Inps e richiedere al datore esterno di far pervenire all'Inps, o all'istituto penitenziario, l'apposita documentazione integrativa richiesta (392). Quanto sinora illustrato può infine essere ritenuto valido anche per i lavoranti semiliberi e per i detenuti che lavorano all'esterno. Anche in questi casi infatti, essendo la prestazione di disoccupazione formalmente proveniente dal 'mondo esterno', si applicheranno le regole di compatibilità e di cumulo proprie dell'art. 19 della legge n. 56.

Concludendo possiamo quindi vedere come la tutela contro la disoccupazione fornisca livelli di tutela diversi alle varie tipologie di lavoratori detenuti. I soggetti maggiormente garantiti risultano essere i lavoratori alle dipendenze di datori terzi, ai quali viene applicata la disciplina comune, seguiti dai lavoratori 'specializzati' alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria e, infine, dai lavoratori generici, sottoposti ad una tutela nettamente inferiore a causa dei continui e serrati turni di rotazione. Si potrebbe inoltre arrivare a scorgere in quest'ultimo tipo di lavoratori, il meno tutelato come abbiamo visto, un monito riguardo all'impiego presso la popolazione libera di schemi di assunzione interinale e precaria. Non è infatti raro che la realtà carceraria sia una preveggente cartina di tornasole della futura realtà esterna.

3.2 L'assegno per il nucleo familiare

L'istituto degli assegni per il nucleo familiare (393), una volta assegni familiari, pur non avendo certo avuto vita facile nel suo rapporto con l'ordinamento penitenziario, può essere visto come un punto cardine del processo di evoluzione delle tutele offerte al lavoro carcerario. L'art. 123 del r.d. 18 giugno 1931 n. 787 non prevedeva niente al riguardo e, d'altro canto, neppure avrebbe potuto farlo poiché il testo unico, base a tutt'oggi della materia, porta la data del 30 maggio 1955 (d.p.r. n. 797). Gli interrogativi circa l'applicabilità o meno al lavoro carcerario della nuova forma di tutela furono quindi fin dalla sua approvazione molteplici, anche in virtù delle varie disposizioni del regolamento che tenevano in conto la presenza di una famiglia (394). Il problema di fondo rimaneva come fare a conciliare una nuova forma di tutela con un ordinamento penitenziario come quello del 1931 che prevedeva una elencazione tassativa delle tutele sociali applicabili. Fu sostenuto da più autori che le tutele offerte dall'art. 123 non dovevano essere interpretate in maniera tassativa ma esemplificativa, portandole così a comprendere al loro interno la nuova previsione di tutela.

Ogni dubbio fu in definitiva fugato dall'approvazione del nuovo ordinamento e dal suo art. 23 il quale stabiliva che "Ai detenuti e agli internati che lavorano sono dovuti, per le persone a carico, gli assegni familiari nella misura e secondo le modalità di legge". Questa previsione sembrò una sterile specificazione di quanto già previsto dall'art. 20 che recita "sono garantiti il riposo festivo e la tutela assicurativa e previdenziale" (395). La dottrina in materia però analizzò vari possibili motivi della precisazione effettuata dal legislatore con l'art. 23. Secondo alcuni autori tale articolo era la finale statuizione di una lunga e controversa querelle dottrinale e per questo era stato ribadito con forza. Secondo altri invece questa esplicita enunciazione derivava dal dubbio che si era sviluppato circa la natura retributiva o previdenziale di questa prestazione, questione che l'avrebbe sottoposta a rischio di esclusione a seconda dell'utilizzo dell'una o dell'altra interpretazione (396). Infine un ultimo motivo si riscontrava nel fatto che, in base all'art. 79 dello stesso testo unico del 1955, la Cassa unica per gli assegni familiari era incompetente all'erogazione della relativa prestazione nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni statali, e quindi anche dei lavoranti alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, in assenza di una espressa previsione al riguardo. Tale espressa previsione poteva quindi essere riscontrata, per i detenuti lavoranti, nel tanto dibattuto articolo 23 o.p. In sostanza si poteva vedere il dettato di questo articolo come il tentativo di fornire al nuovo istituto la maggior copertura possibile.

L'importanza della conquista degli assegni per il nucleo familiare poteva essere desunta anche dalla rapidità con cui l'Inps (397) e l'art. 52 del Regolamento di esecuzione approvato con d.p.r. n. 431 del 1976 si affrettarono, subito dopo l'approvazione dell'ordinamento, a dare disposizioni tecniche in materia per rendere effettiva la tutela. Anche la stessa amministrazione penitenziaria intervenne con Circolare n. 2268 del 1º dicembre 1975 al fine di dare soluzione stabile alla questione e recepire quanto stabilito dall'Inps. La previsione dell'art. 52 (398) stabiliva la completa collaborazione e l'impegno da parte degli istituti di pena per garantire la fruizione delle prestazioni in discussione. In forza di tale collaborazione l'amministrazione penitenziaria deve sostituirsi al soggetto recluso qualora questo non provveda o non riesca a reperire la documentazione necessaria per la richiesta (399). Se il detenuto non provvede a fornire la documentazione richiesta per l'erogazione della prestazione la direzione dell'istituto di pena è tenuta ad informare i familiari a carico affinché se ne incarichino loro. Quando anche tale soluzione non porti a risultati provvede la direzione stessa a procurare i relativi documenti.

Dal connubio tra questa previsione e il c. IV dello stesso art. 52, che recita "Gli importi sono consegnati direttamente alle persone a carico o spediti alle stesse", si riesce a capire come quello agli assegni familiari all'interno degli istituti penitenziari sia un vero e proprio diritto indisponibile posto non in favore del detenuto ma della sua famiglia, sulla base del presupposto che vede nello stato di detenzione l'impossibilità di provvedere correttamente a quest'ultima (400).

La Circ. n. 2268 sopra citata, così come modificata dalla successiva n. 2400 dell'11 marzo 1977 e dalla n. 2726 del 31 ottobre 1980, prevede che il detenuto, al fine di percepire la prestazione, debba effettuare apposita istanza alla direzione dell'istituto allegando ad essa il modulo Anf e un certificato di stato di famiglia. Nel caso i beneficiari della prestazione siano moglie e figli minori di anni 18 la direzione può analizzare la domanda e disporre direttamente il pagamento (401), in tutti gli altri casi dovrà richiedere apposita autorizzazione alla competente sede provinciale dell'Inps (402). Nel caso il soggetto non lavori alle dipendenze dell'amministrazione ma di un datore terzo sarà quest'ultimo ad essere tenuto, in qualità di sostituto di imposta, al versamento degli importi della prestazione sulla base della documentazione che gli verrà fornita dal carcere. Tali importi però non dovranno essere consegnati direttamente al lavoratore ma alla direzione dell'istituto di pena la quale provvederà ad inviarli ai beneficiari (403).

Le aliquote contributive per la Cassa unica assegni familiari vengono annualmente riviste e comunicate dalla Direzione Centrale delle Entrate Contributive dell'Inps al Dap (404), il quale, tramite lettera circolare, mette al corrente i singoli istituti. Queste per il 2009, per i detenuti e gli internati alle dirette dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, sono stabilite nella misura dello 0,68% (405).

Era stato previsto nelle circolari in argomento, ma non sempre avviene, che in caso di trasferimento del lavoratore i relativi documenti per gl'Anf seguano i suoi spostamenti presso i vari istituti. Purtroppo il turn-over dovuto a trasferimenti e sfollamenti è talmente serrato che, se questa prassi non viene attuata ad ogni messa al lavoro, il soggetto deve procurarsi ogni volta tutta la documentazione necessaria (406).

Dobbiamo considerare inoltre come vi sia un elemento che ha semplificato notevolmente la situazione dei richiedenti in stato di detenzione, siano essi italiani o stranieri. Si tratta della progressiva abolizione del requisito della convivenza ai fini del carico familiare (407). Rompendo definitivamente questo legame si è dato infatti modo di fruire degli Anf anche a quei nuclei che, per varie esigenze, fossero dislocati in residenze diverse. Tra questi sicuramente i nuclei familiari dei condannati a pene detentive di lunga durata, i quali spesso si trovano a dover trasferire la loro residenza presso il carcere per meglio attendere ai loro interessi, figurando così come non conviventi con il coniuge o i figli.

In verità tutto il sistema finora illustrato avrebbe bisogno di una novazione dal momento che quasi tutte le previsioni al riguardo, salvo il recente d.p.r. n. 230 del 2000, utilizzano una terminologia e delle concezioni che appartengono ormai alla normativa precedente alla riforma del 1988. Guardando all'art. 23 possiamo notare come ancora si parli di 'assegni familiari' (invece che di 'assegni per il nucleo familiare') e la concezione sottostante a tutta la previsione sia quella della vivenza a carico. Tale ultima ratio, come abbiamo visto, risulta essere ormai superata grazie all'adozione dei nuovi parametri che rapportano il numero dei componenti al reddito del nucleo, rendendo così la tutela più 'familiare'. Da questo punto di vista potremmo quindi ribadire la necessità di un'interpretazione evolutiva delle previsioni dell'art. 23 e delle relative circolari che gli hanno dato esecuzione, tutt'ora per molti versi valide.

Dal momento che, come abbiamo visto nel cap. I, la prescrizione del diritto a vedersi erogati gli Anf intercorre in 5 anni capita spesso che i soggetti detenuti utilizzino questa forma di tutela come un vero e proprio fondo di accantonamento. I lavoratori detenuti, consci di poter richiedere l'assegno per il nucleo familiare anche per le cinque annualità precedenti, attendono spesso un momento vicino alla scarcerazione per richiedere assieme tutte le annualità pregresse e avere così a disposizione una discreta somma di denaro.

Questo fatto è spunto di riflessione sull'argomento, da noi già accennato, della disponibilità o meno degli Anf in capo al soggetto detenuto. Per quanto infatti l'art. 55 o.p. arrivi a prospettare una sorta di indisponibilità in capo al soggetto recluso, nell'interesse del suo gruppo familiare, si deve comunque notare la necessità che il modello di richiesta venga firmato dal detenuto stesso, il quale, quindi, sarà anche libero di decidere se usare questa tutela nella maniera 'differita' che sopra abbiamo visto. Proprio una minor indipendenza dalla volontà del lavoratore rispetto a quella prospettata dall'art. 55 fa sì che le direzioni degli istituti, prima di muoversi in tal senso, attendano solitamente una domanda specifica del soggetto. Purtroppo questa prassi spesso è accompagnata da una generale disinformazione della popolazione detenuta circa la possibilità e le caratteristiche della prestazione. Un'automaticità diretta nell'attribuzione ad ogni detenuto lavoratore dei rispettivi Anf comporterebbe problemi di carattere finanziario, specie negli istituti di grandi dimensioni, dove le direzioni si troverebbero a dover anticipare l'ammontare di tutte le prestazioni, salvo il successivo conguaglio con la contribuzione Inps. Tutta questa serie di considerazioni ha quindi portato ad una lettura 'moderata' se non talvolta 'interessatamente prudente' prima dell'art. 52 del d.p.r. n. 431 del 1976 e poi del suo gemello, l'art. 55 del d.p.r. n. 230 del 2000.

Altra problematica nello sviluppo della tutela degli Anf all'interno del carcere è stata quella della possibilità di applicazione di quest'ultimi anche a detenuti e internati lavoranti provenienti da paesi terzi. La questione non avrebbe presentato una difficoltà esegetica di particolare rilevanza se non fosse stato per l'applicazione difforme della disciplina che i vari istituti mettevano in atto. Proprio per mettere fine a tale assenza di uniformità il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria chiese, nel 2002, parere ufficiale al Ministero degli Affari esteri - Servizio del Contenzioso diplomatico e dei trattati (408). I dubbi ovviamente non riguardavano tanto quei soggetti che già all'esterno erano in possesso di un titolo di soggiorno, i quali potevano senz'altro godere della prestazione, quanto, piuttosto, i soggetti privi di ogni titolo.

La risposta del Ministero ribadiva che "lo stato di detenzione costituisce di per sé una condizione di soggiorno obbligato" e quindi questi soggetti possono avere legittimamente accesso alla tutela degli Anf. Si viene pertanto a creare nuovamente quella situazione di 'legittimazione carceraria', alla quale abbiamo più volte accennato, che permette ai soggetti privi di titolo di soggiorno di fruire di diritti che all'esterno gli sono negati. Veniva previsto inoltre un servizio speculare, o per meglio dire di completamento, rispetto a quello stabilito dall'art. 55 del d.p.r. n. 230. Anche in questo caso infatti, analogamente a quanto avviene per la documentazione dei cittadini italiani, è compito delle direzioni degli istituti "qualora si presentassero problematiche attinenti ad incomplete certificazioni, relativamente ai dati dei familiari a carico dei detenuti extracomunitari che prestano attività lavorativa [...] contattare i Consolati per le necessarie verifiche" (409).

Il sistema per i cittadini extracomunitari, quantomeno dal 2002, sembrerebbe del tutto analogo rispetto a quello previsto per i cittadini italiani, salvo le limitazioni da noi già trattate nell'apposito par. 4 del cap. 1 in tema di accordi internazionali. Mentre, infatti, non vi sono particolari problemi nel caso i familiari del richiedente siano residenti in Italia la situazione è più complessa qualora questi siano residenti all'estero.

Dall'analisi comparata tra le percentuali della popolazione carceraria suddivisa in base alla nazionalità (o alle aree geografiche) (410) e l'elenco degli Stati che hanno stipulato apposite convenzioni con l'Italia per le prestazioni familiari (411) è possibile comprendere quale percentuale della popolazione detenuta potrà, nel caso di familiari residenti nello Stato di origine, fruire degli Anf.

Le zone rosse del grafico indicano i detenuti per i quali la richiesta non è possibile, quelle verdi i detenuti per i quali è possibile e, infine, quelle arancio i casi nei quali solo alcuni Stati della zona geografica presa in considerazione ai fini della percentuale hanno stipulato apposite convenzioni.

Ovviamente la percezione è immediata e si riesce facilmente a comprendere come grandi parti della popolazione carceraria non potranno usufruire degli Anf qualora i familiari si trovino nello Stato d'origine. Tra i soggetti che sicuramente risentono maggiormente di questa situazione quelli provenienti da Marocco ed Albania che, costituendo il 34% della popolazione straniera carceraria, non hanno modo di richiedere questo tipo di assegni.

In verità la possibilità di fruire degli Anf, anche in presenza delle dovute statuizioni internazionali a riguardo, non risulta molto utilizzata. Le motivazioni sono molteplici e solo in parte coincidenti con gli stessi ostacoli riscontrati dai cittadini italiani. Non di rado infatti la possibilità di richiedere tale prestazione è inficiata dagli scarsi contatti del soggetto con il suo gruppo familiare e dalla conseguente difficoltà nel reperire la documentazione necessaria e le relative dichiarazioni. Altro elemento negativo può essere la condizione di clandestinità del coniuge e dei figli. In assenza di documenti validi infatti il coniuge, magari presente sul territorio italiano, si troverebbe nella condizione di non poter riscuotere la prestazione anche qualora gli fosse intestata. Ultimo elemento dannoso sono le tempistiche eccessivamente lunghe del reperimento all'estero della documentazione necessaria. Tali tempistiche, assieme ai costi di acquisizione e spedizione e alla sporadicità (se non addirittura assenza) di comunicazioni con i familiari, rendono spesso preferibile rinunciare alla tutela. È quindi comprensibile come, a fronte di un'assenza di collaborazione da parte dell'amministrazione penitenziaria, le persone di nazionalità straniera che riescono a fruire di tale prestazione siano realmente poche. L'utenza è limitata ai detenuti con pene di lunga durata dato che i tempi, la complicatezza e i costi, non rendono appetibile l'attivarsi in caso di carcerazioni di breve periodo che diano luogo ad altrettanto brevi periodi di lavoro.

Possiamo infine considerare quale sia il valore dell'istituto degli Anf in una situazione particolare quale quella carceraria. Abbiamo già detto della parziale indisponibilità di questa tutela creata dall'art. 55. Sembra infatti, per come è strutturata la tutela tutta e in particolare l'articolo suddetto, che il detenuto lavoratore venga ad essere il mezzo per tutelare la sua famiglia. Quasi si sostenesse che le prestazioni devono essere destinate ai familiari del lavoratore recluso poiché solo loro, e non anche la persona ristretta, potrebbero patire lo stato di bisogno (412). Si potrebbe però obiettare a tale impostazione ricordando la censura mossa, riguardo alla disoccupazione, a chi vedeva nello stato di detenzione un''immunità' dallo stato di bisogno. Più semplicemente sarebbe forse corretto osservare come, nell'istituto che vede destinate le prestazioni direttamente ai beneficiari, si sia valutata la differenza strutturale che intercorre tra le prestazioni di disoccupazione e quelle familiari e si sia preferito sostenere gli interessi del nucleo familiare 'esterno' in quanto la persona reclusa avrebbe comunque fruito di quei servizi garantiti dal vitto ordinario e dall'utilizzo della mercede guadagnata.

Vi sono poi altri aspetti peculiari per quanto riguarda la tutela degli Anf nella realtà penitenziaria. Spesso si riscontra come la richiesta degli assegni familiari rappresenti un vero e proprio 'ultimo ponte' tra gruppi familiari ormai lesionati dalle dinamiche della detenzione o da questioni a loro interne. Si tratta spesso di nuclei familiari più numerosi rispetto alla media italiana, vuoi per la presenza tra i richiedenti di persone appartenenti a culture che presentano mediamente natalità più elevate, vuoi per la tendenza, nelle situazioni di indigenza, dei gruppi familiari ad accentrarsi (413), raccogliersi assieme, per meglio ripartire la necessità di difendersi dal bisogno.

In conclusione la richiesta degli Anf da una parte rappresenta un ultimo legame, il riconoscimento della vitalità di un rapporto, dall'altra, invece, è considerata come la definitiva esclusione del soggetto recluso dal mondo libero per il quale, quest'ultimo, rappresenta solo il mezzo di sussistenza per i propri familiari.

3.3 Le tutele per la vecchiaia

Le prestazioni pensionistiche dei soggetti detenuti, come abbiamo già visto accadere con riguardo alle prestazioni di disoccupazione, presentano un doppio ordine di problematiche: da una parte la difficoltà di formare una prestazione di questo genere tramite le contribuzioni proprie del lavoro carcerario, dall'altra le questioni relative alla possibilità della loro fruizione durante lo stato detentivo (414). Entrambe sono tematiche di estremo interesse e risulta utile iniziare la discussione da una loro analisi storica.

Quanto al primo dei due temi dobbiamo notare come con l'approvazione del r.d.l. n. 636 del 14 aprile 1939 il Comitato esecutivo dell'Inps, di concerto con l'amministrazione penitenziaria, stabilì le modalità di applicazione (415) dei vari istituti assicurativi e previdenziali ai detenuti lavoratori (416). Si riscontrava in questa normativa un'esclusione della generalità dei detenuti dall'assicurazione per la tubercolosi, la disoccupazione, la nuzialità e la natalità (417). I condannati a pena perpetua inoltre risultavano esclusi anche dall'assicurazione per l'invalidità e la vecchiaia (418) che ai condannati a pena temporanea veniva applicata.

I contributi pensionistici per i detenuti lavoranti condannati a pena temporanea erano stabiliti in misura unica pari a quella stabilita per la prima classe di salario. Non si aveva perciò riguardo per la tipologia di lavoro svolta né, tantomeno, per il reddito da questa derivante. Per i detenuti alle dirette dipendenze dell'Amministrazione i contributi fino al 1956 furono versati in contanti, in seguito si optò per l'adozione di una marca che contenesse tanto i contributi pensionistici che quelli E.n.a.o.l.i., estesi nel mentre anche alla popolazione detenuta (419). Nel caso invece di detenuti lavoranti a carico di ditte appaltatrici la direzione dell'istituto provvedeva personalmente all'espletamento dei versamenti previsti dalle varie tutele assicurative, rimettendo poi i relativi importi ai concessionari (420). A far data dal 1º maggio 1952, in base a quanto stabilito dal Ministero del lavoro nel 1954 e ai successivi chiarimenti (421), per i detenuti adibiti ai servizi domestici le contribuzioni dovevano essere effettuate tramite le apposite tabelle di classi di retribuzione e le relative posizioni assicurative regolarizzate sulla base dell'abbassamento del minimale di retribuzione (422).

Importanti innovazioni derivarono in seguito dalla convenzione del 1962 tra il Ministero di grazia e giustizia e l'Inps (423) con la quale, oltre a decretare definitivamente le modalità di applicazione delle varie coperture previdenziali, si estese l'assicurazione contro la tubercolosi a tutta la popolazione reclusa e le tutele per invalidità e vecchiaia agli ergastolani (424). Vista la portata estremamente innovativa di quella che potremmo definire una 'riforma previdenziale del settore penitenziario' si creò per gli ergastolani il problema di come raccordare il nuovo sistema con la situazione precedente che non prevedeva alcuna copertura pensionistica. I condannati a pena perpetua che si fossero trovati in libertà per concessione della grazia o di un altro provvedimento di clemenza, o avessero raggiunto l'età pensionabile all'interno degli istituti, non avrebbero potuto vantare, causa il precedente regime discriminatorio che negava loro l'assicurazione per la vecchiaia, la contribuzione minima necessaria per le prestazioni pensionistiche. Proprio per ovviare a ciò si stabilì la costituzione per gli ex ergastolani (425) di un vitalizio reversibile che consistesse nella pensione, o quota della stessa, che sarebbe loro spettata qualora fossero stati prontamente assicurati. Per gli ergastolani ancora detenuti era invece prevista una integrazione, in un'unica soluzione, della loro posizione contributiva al compimento dei 60 anni per gli uomini e dei 55 per le donne, in modo da garantire loro l'ottenimento del minimo di pensione (426).

Quanto poi al secondo tema cui all'inizio accennavamo, la possibilità di fruire delle prestazioni pensionistiche durante lo stato detentivo, il r.d. n. 1422 del 24 agosto 1924 stabiliva al suo art. 96 che la pensione di un soggetto condannato con sentenza definitiva dovesse essere erogata a moglie, figli o, comunque, a soggetti viventi a suo carico o da lui designati; non poteva essere quindi in alcun modo versata a lui direttamente. Questa limitazione, centro di accese discussioni mai sopite, è stata solo parzialmente mutata nel 1965.

La legge n. 903 del 1965, infatti, modificò le precedenti previsioni del 1924 consentendo ai detenuti condannati ad una pena superiore ad un anno di ricevere direttamente la pensione (427) pur in assenza di mogli, figli minorenni e altre persone a loro carico da poter designare. Problemi continuavano però a sussistere nel caso il pensionato fosse stato sottoposto ad interdizione legale ex art. 32 c. III c.p. In questa situazione era necessaria la nomina di un tutore qualora non vi fossero mogli, figli o parenti a carico capaci di riscuotere la prestazione (428). Le interpretazioni della dottrina hanno mutato tale impostazione, permettendo ai soggetti reclusi che si trovino in stato di interdizione legale, di fruire autonomamente delle prestazioni pensionistiche e di quelle previdenziali in genere.

L'articolo 32 o.p. stabilisce che alla persona condannata all'ergastolo o a pena detentiva non inferiore a 5 anni venga applicata la pena accessoria dell'interdizione legale. Il c. VI dello stesso articolo precisa inoltre che "Alla interdizione legale si applicano, per ciò che concerne la disponibilità e l'amministrazione dei beni, nonché la rappresentanza negli atti ad esse relativi, le norme della legge civile sull'interdizione giudiziale". Nonostante il richiamo tra i due istituti della interdizione legale e dell'interdizione giudiziaria questi risultano essere tra loro molto diversi. L'interdizione legale infatti è una pena accessoria e, in quanto tale, discende automaticamente dalla sentenza penale (senza alcuna valutazione della personalità del soggetto (429)) ed ha valore afflittivo (430).

L'interdizione giudiziale (431) è invece un istituto posto a tutela del soggetto che, a causa della propria infermità mentale, non sia capace di attendere ai propri interessi (432). Tale interdizione è pronunciata (con sentenza di interdizione) a conclusione di un apposito procedimento che può essere promosso su istanza del coniuge, di un parente, di un affine prossimo oppure del pubblico ministero.

Anche le conseguenze delle due misure sono estremamente diverse. Come possiamo notare dallo stesso art. 32 c. VI c.p. all'interdetto legale sarà applicata la disciplina dell'interdizione giudiziale solo per quanto riguarda la disponibilità e l'amministrazione di beni, non anche relativamente ad atti personali o familiari. Il soggetto recluso quindi, anche se legalmente interdetto potrà sempre, a differenza dell'interdetto giudiziale, contrarre (o chiedere lo scioglimento del) matrimonio, riconoscere un figlio, fare testamento (433).

Per quanto riguarda l'istituto dell'interdizione legale l'art. 4 o.p. prevede inoltre che: "I detenuti e gli internati esercitano personalmente i diritti loro derivanti dalla presente legge anche se si trovano in stato di interdizione legale". Lo scopo di tale norma è quello di mettere i detenuti e gli internati "in condizioni di godere agevolmente dei loro diritti [...] senza forme procedurali (quali l'intermediazione di un tutore) tali da vanificare, nella pratica, le buone intenzioni dichiarate in linea di principio dall'ordinamento penitenziario" (434). Lo stato di interdizione (legale) avrebbe quindi risvolti solo sui "rapporti esterni" (435) del soggetto, non anche su quelli interni, propri della realtà penitenziaria. Rimane quindi da chiedersi quali siano i diritti cui l'art. 4 si riferisce e se tra questi possano rientrare anche le prestazioni pensionistiche (e, in generale, quelle previdenziali) delle quali stiamo trattando. La dottrina al riguardo è sempre stata alquanto ambigua e discordante. Taluno ha fatto rientrare all'interno dei diritti che il detenuto interdetto può esercitare solo quelli intimamente connessi allo stato di detenzione (quelli che Pennisi ha definito uti captivus) quali, ad esempio, la presentazione di istanze e ricorsi relativi ai vari aspetti dell'esecuzione della pena. Altra parte della dottrina ha invece adottato interpretazioni più estensive capaci di ricomprendere anche diritti propri del soggetto in quanto tale (uti persona) che erano richiamati, garantiti, dalla normativa penitenziaria (436). Adottando questo secondo tipo di interpretazione rientrerebbero tra i diritti direttamente fruibili dai soggetti detenuti, anche qualora si trovino in stato di interdizione legale, quelli garantiti dall'art. 20 c. XVII, relativi alle prestazioni di carattere previdenziale (437). Il detenuto può quindi, anche se legalmente interdetto, gestire e fruire direttamente dei propri diritti di natura retributiva e previdenziale, e, quindi, delle proprie prestazioni pensionistiche. Riguardo a tali prestazioni dobbiamo stare ben attenti al fatto che, qualora il soggetto sia invece sottoposto ad interdizione giudiziale, a causa della sua infermità mentale, la situazione sarà ben diversa e vi sarà la necessità di un tutore. L'art. 4 dell'o.p. infatti non si pronuncia circa la situazione dei soggetti sottoposti a questa misura, ma si limita alla sola previsione dell'interdizione derivante dalla condanna penale (438).

Possiamo quindi ritenere che la disciplina dell'art. 4 o.p. sia stata appositamente creata per permettere ai soggetti detenuti di fruire realmente di tutti i diritti che l'ordinamento penitenziario ha previsto. In assenza di tale disposizione infatti i soggetti ristretti si sarebbero trovati irretiti nella continua necessità dell'operato del tutore.

Sempre riguardo alle prestazioni pensionistiche altre questioni rimanevano in sospeso circa i soggetti sottoposti ad interdizione dai pubblici uffici. L'art. 28 c. II n. 5 del c.p. stabiliva infatti che questi fossero privati degli stipendi, delle pensioni e degli assegni che fossero a carico dello Stato o di un altro ente pubblico. La Corte costituzionale con sentenza n. 3 del 13 gennaio 1966 aveva dichiarato l'illegittimità di tale articolo nel suo limitare e porre fine a diritti derivanti da un rapporto di lavoro. Successivamente, sempre sull'illegittimità dello stesso articolo, la Corte si pronunciò nuovamente con sentenza n. 13 del 19 luglio 1968 relativamente alla fruizione delle pensioni di guerra. Elemento conclusivo di tutta la querelle fu comunque la legge n. 424 dell'8 giugno 1966 che abrogò ogni tipo di incompatibilità di questo tipo (439).

Nel corso del tempo un altro problema ha minato la possibilità di fruizione delle prestazioni pensionistiche all'interno degli istituti di pena: quello relativo all'applicazione dei regimi di cumulo tra pensioni e redditi da lavoro. Oggi la questione non sussiste più dal momento che il d.l. n. 112 del 25 giugno 2008, convertito in legge 6 agosto 2008 n. 133 (440), ha stabilito una generale possibilità di cumulo tra le due fonti di reddito.

Da una ricostruzione storica dell'argomento possiamo vedere come l'art. 12 della legge n. 218 del 4 aprile 1952 prevedesse una trattenuta di un quarto della pensione ai pensionati che lavoravano. La successiva legge n. 55 del 20 febbraio 1958 col suo articolo 6 comma II innalzava tale trattenuta ad un terzo, salva poi la previsione della legge n. 903 del 1965 che col suo articolo 37 aboliva tanto i dettati del 1952 che del 1958 instaurando una generale cumulabilità. Con l'approvazione del d.p.r. n. 448 del 27 aprile 1968 e del suo art. 20 fu stabilita la non cumulabilità tra pensione di vecchiaia, di anzianità, di invalidità e retribuzione per lavoro alle dipendenze di terzi (441). Ovviamente tale regime risultava essere estremamente dannoso per i detenuti i quali non si potevano sottrarre dall'attività lavorativa. Lavorando, d'altro canto, si trovavano a guadagnare meno di quanto gli veniva trattenuto sulla pensione agli effetti di legge. L'amministrazione penitenziaria ritenne ingiusta tale applicazione (442) e la sua posizione fu confermata dal Ministero del lavoro e dall'Inps, il quale comunicò alle sue sedi operative la non applicabilità della normativa in questione ai pensionati detenuti e internati. In seguito la legge n. 153 del 1969 stabilì un diverso limite di cumulo: quello fino alla concorrenza al minimo (443). Poiché le previsioni Inps disapplicavano solo il regime di incumulabilità stabilito dalla legislazione del 1968 e l'amministrazione penitenziaria ha più volte stabilito la necessità di pronta comunicazione all'Inps in caso di messa a lavoro di un pensionato (444), si deve ritenere che l'esclusione dei limiti alla possibilità di cumulo fosse circoscritta alla sola normativa del 1968 e non abbia caratterizzato, nonostante la particolare natura obbligatoria del lavoro carcerario, anche i regimi approvati negli anni successivi. Ai sensi dell'art. 2 del D.p.r. n. 688 del 1968 infatti il detenuto era tenuto, fino all'approvazione della legge n. 133 del 2008, a dichiarare per iscritto la sua qualità di pensionato (445). La direzione dell'istituto penitenziario che intendeva metterlo a lavoro inoltre doveva effettuare comunicazione all'Inps, o alla competente Direzione provinciale del tesoro nel caso di pensionato statale, affinché queste adeguassero l'importo della pensione (446).

Non dobbiamo dimenticare che stessa legge n. 153 del 1969, che cercò di risolvere la questione del cumulo lavoro-pensioni, al suo art. 26 prevedeva anche l'istituzione della pensione sociale, che sarebbe poi stata denominata, a seguito della riforma del 1995, assegno sociale (447). Sulla possibilità di conferire tale prestazione, dalla natura spiccatamente assistenziale, alla popolazione detenuta furono inizialmente sollevati vari dubbi (448), presto messi a tacere dai chiarimenti dell'Istituto nazionale di previdenza sociale il quale mostrava come la normativa niente specificasse con riguardo ai soggetti detenuti, rendendo così estensibile anche a loro tale forma di tutela. L'estensione vera e propria di questa prestazione all'interno degli istituti non si ebbe comunque prima del 1971 (449). Al riguardo va inoltre considerata discutibile la possibilità di effettuare, sugli assegni sociali dei soggetti reclusi, la trattenuta del 25-50% che si dovrebbe applicare in caso di ricovero del soggetto in istituti o comunità la cui retta sia a parziale o totale carico dello Stato (450). Anche se latu sensu il carcere potrebbe essere visto come un'istituzione di questo tipo, in virtù anche della compartecipazione del detenuto lavorante alle spese di mantenimento (451), riteniamo, e l'assenza della suddetta trattenuta nei vari casi analizzati ci offre buon conforto, che la mancanza di volontà nella permanenza presso l'istituto penitenziario e la coattività della stessa siano elementi più che sufficienti per escludere l'operatività di questa previsione.

3.3.1 Lavoro carcerario e prestazioni pensionistiche

Analizziamo adesso gli aspetti pratici riconducibili alla capacità del lavoro carcerario di fornire al lavoratore detenuto valida copertura pensionistica. In questo campo possiamo riscontrare varie tipologie di problemi riguardanti soprattutto il lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria. Sicuramente il primo aspetto col quale dover fare i conti è la peculiarità propria del lavoro e della vita carceraria. Per assurdo a distanza di quasi 30 anni da analisi approfondite sul tema (452) possiamo vedere come, mutatis mutandis, gli elementi critici rimangano gli stessi, privi ancora di ogni soluzione. La frequente turnazione lavorativa propria dei lavori carcerari e l'esiguità delle mercedi rischia spesso di essere la causa di veri e propri danni contributivi (453). Specie i soggetti condannati a pene detentive lunghe rischiano infatti di vedersi accreditata al momento della liberazione una posizione contributiva tale da non riuscire a raggiungere alcuna forma pensionistica qualificata. Anche qualora si volesse sostenere la tesi che dichiara la generale appartenenza dei detenuti di lungo periodo ai cosiddetti 'lavoratori carcerari stabili' (454) si dovrebbe notare come una contribuzione, anche di carattere fortemente continuativo, ma connessa comunque agli "infami salari" (455) propri della realtà penitenziaria, porterebbe a prestazioni di basso livello. In quest'ambito hanno infatti grande influenza le questioni tecniche richiamanti i minimali di contribuzione. Si deve considerare che, ad esempio, per il 2009 il minimale giornaliero stabilito dall'Inps per il versamento dei contributi è pari a € 43,49, mentre quello settimanale corrisponde a € 183,10, cioè € 9.521,20 annui (456). Qualora il datore di lavoro versi comunque un importo inferiore al minimale giornaliero, il lavoratore si vedrà ridotta l'anzianità contributiva in misura proporzionale all'importo versato. Questo avviene comunemente per i lavoratori alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria che hanno solitamente compensi inferiori a quelli che abbiamo sopra visto sia per la non corrispondenza delle mercedi ai CNNL (457), sia per la mancanza del loro aggiornamento dal 1993 ad oggi (458), che per i brevi orari di lavoro e le frequenti turnazioni. Ai detenuti lavoranti non viene inoltre applicata la progressività della retribuzione in base all'anzianità del soggetto, istituto appartenente alla comune disciplina protettiva del lavoro. La previsione che vuole che l'importo delle mercedi possa essere stabilito in termini inferiori a quelli dei CCNL inoltre trova il suo naturale riscontro nella non applicazione ai lavoranti detenuti dei minimali contributivi giornalieri (459). Tale disapplicazione fa in modo che non vi sia una diretta corrispondenza tra giornata lavorata e giornata contributiva. Questo elemento già di per sé è quindi capace di inficiare in maniera incisiva la posizione pensionistica del soggetto.

Problematiche si creano anche con riguardo ai minimali settimanali. Quest'ultimi comunemente vengono utilizzati per calcolare, come abbiamo già visto per la disoccupazione ordinaria, le settimane di contributi spettanti in base al reddito. Ogni 52 settimane di contributi si forma un anno. A causa dell'esiguità dei salari carcerari non è quindi raro che un soggetto pur lavorando attivamente tutto l'anno si ritrovi, in base a questi minimali, una contribuzione pari a 2/3 o addirittura 1/2 dell'annualità. Così facendo è facile comprendere come per formare 20 anni di contribuzione per mezzo del lavoro carcerario e dei suoi stipendi rischiano di servirne quasi il doppio (460). Detto ciò possiamo considerare come il rischio non sia solo quello di non avere, una volta scarcerati, una decente posizione contributiva da far valere, ma anche quello di non riuscire più, neppure tramite un nuovo impiego da libero, a formarsene una. Esiste infatti un vero e proprio punto di non ritorno contributivo, una soglia di anni lavorati i quali (alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria) non è più possibile, tramite ulteriore lavoro da libero, costruirsi una valida posizione pensionistica. In questo caso il deficit creato dal lavoro carcerario è tale (nel rapporto anno-contributi) da non poter essere più validamente colmato.

Oltre alle questioni inerenti alla qualità dei salari e alle turnazioni non dobbiamo dimenticare che, come già ricordato, la popolazione detenuta è spesso soggetta a trasferimenti per i più svariati motivi che possono essere di natura giudiziaria, organizzativa (ad esempio per sfollamenti o riavvicinamento a familiari) o, e purtroppo le prassi ne danno conferma, 'disciplinare' (461). Ad ogni trasferimento in pratica corrisponde per il soggetto una nuova scalata nella graduatoria per la messa a lavoro. Non è infatti automatico che un soggetto che nell'istituto di partenza stesse lavorando in quello di destinazione venga messo direttamente a lavoro. Gli spostamenti dei detenuti sono quindi un altro elemento che incide in maniera estremamente negativa sulla posizione contributiva dei soggetti anche perché comportano, quanto meno, un mutamento della sede dell'istituto Inps competente e, di conseguenza, una maggior perdita di tempo in caso di pratiche in corso.

Vi è poi un altro fattore che ha tutt'altro che un'importanza secondaria. Finché è stato in uso il sistema delle marche per le contribuzioni uno dei maggiori inconvenienti era lo smarrimento dei relativi libretti in caso di traduzione della persona o in caso di uscita dal carcere e successivo reingresso in esso. Oggi fortunatamente il sistema garantisce una miglior tutela, al lavorante detenuto viene periodicamente chiarita la regolarità dei versamenti effettuati a suo nome (462). Nonostante le notevoli innovazioni in materia il problema più grande rimane quello circa i nomi con i quali i soggetti vengono messi a lavoro. La questione è la stessa che ci siamo trovati ad affrontare all'interno del paragrafo sulle disoccupazioni e alla quale avevamo già in precedenza accennato. Non è infatti cosa rara che, al momento del reingresso nell'istituto di un soggetto a seguito di un nuovo arresto, non si 'riconosca' in lui la stessa persona alla quale era già stato fornito un codice fiscale e aperta una posizione contributiva nella precedente carcerazione e ne venga di conseguenza aperta una nuova, talvolta a causa dell'utilizzo di alias e talvolta solo per un errore nella scrittura del nome (463).

Un altro problema è che in caso di prima carcerazione, per prassi interna, si richiede il codice fiscale prima della messa a lavoro senza accertarsi che la persona non ne avesse già uno antecedentemente al suo ingresso (e che questi due coincidano tra di loro). In questo modo si crea la sovrapposizione di posizioni contributive le quali devono essere successivamente riunificate. Tale riunificazione, per assurdo, sembra essere più semplice nel caso di dichiarazione di un alias accertata in sentenza (in quanto in questo caso si può far valere il valore amministrativo della pronuncia penale ex art. 654 c.p.p.) e più difficoltosa invece in caso di errori tecnici, di battitura o comunque alias non accertati. In questi ultimi casi infatti il lavoratore rischia di doversi far carico, senza colpa, di un'imputazione per false generalità nel caso in cui voglia riunificare la sua posizione.

Anche poi qualora vi sia stata, al momento della messa a lavoro, una corretta registrazione del lavoratore la 'connessione contributiva' (464) tra i vari istituti potrebbe non essere semplice. Dal 1º gennaio 2005 infatti è stato imposto che la trasmissione dei contributi dalle varie aziende all'Inps sia effettuata non più tramite il modello 'DM10', ma tramite una trasmissione mensile telematica delle stesse (465). L'Inps ad oggi sui suoi terminali riesce a visualizzare solo le contribuzioni che hanno seguito questo modello; le contribuzioni che invece continuano ad arrivare per via cartacea vengono fascicolate ma possono essere prese in considerazione solo su apposita richiesta e non compaiono nel sistema informatico generale dell'Istituto. Al momento della redazione di questa ricerca purtroppo alcuni istituti penitenziari non hanno ancora attivato questa modalità di trasmissione, con la conseguenza che in caso di richiesta di un qualsiasi estratto conto contributivo presso l'ente previdenziale le annualità seguenti al 2005 figurano come prive di versamenti (466). La soluzione consiste in questo caso nel chiedere alla sede Inps che ha ricevuto quei versamenti di prendere in considerazione il materiale cartaceo. Lasciamo pensare cosa possa succedere qualora un detenuto abbia avuto la sfortuna, dal 2005 ad oggi, di incappare in più di uno di questi istituti inadempienti. La ricostruzione della sua posizione contributiva verrebbe ad essere un difficile 'bricolage' delle dichiarazioni cartacee rilasciate alle varie sedi previdenziali.

In base a quanto finora detto non è difficile comprendere come le prestazioni pensionistiche, sia di vecchiaia che di anzianità, risultino molto difficili da raggiungere, e forse per onestà dovremmo dire impossibili, per chi può fare affidamento, causa magari una lunga detenzione o una lunga carriera criminale, solo sulla contribuzione dovuta al lavoro carcerario alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria. Proprio questo, come vedremo, è il motivo per il quale spesso i soggetti detenuti optano, in sostituzione alle prestazioni pensionistiche qualificate, per la richiesta d'assegno sociale.

Per quanto riguarda l'accesso alle prestazioni pensionistiche di anzianità e vecchiaia da parte dei detenuti extracomunitari dobbiamo ricordare come dalla riforma del 1995 (467) in poi era prevista la possibilità, per i lavoratori extracomunitari che avessero cessato l'attività lavorativa in Italia facendo ritorno nel loro paese, di chiedere, in assenza di diversa convenzione internazionale al riguardo, la liquidazione dei contributi versati durante il periodo di attività (468). Tale previsione era stata in seguito ribadita nel Testo unico sull'immigrazione (legge n. 286 del 1998) nei suoi art. 22 e 25 (469). L'entrata in vigore della successiva legge n. 189 del 10 settembre 2002 (c.d. Bossi-Fini), apportando modifiche al Testo unico, ha nuovamente precluso questa possibilità (470). Non è quindi ad oggi più possibile, per un soggetto che decidesse di rientrare nel proprio paese, chiedere che gli siano liquidati i propri contributi per la vecchiaia. Si è però prospettata una nuova possibilità; il Testo unico all'art. 18 c. XIII prevede infatti che:

"Salvo quanto previsto per i lavoratori stagionali dall'articolo 25, comma 5, in caso di rimpatrio il lavoratore extracomunitario conserva i diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati e può goderne indipendentemente dalla vigenza di un accordo di reciprocità al verificarsi della maturazione dei requisiti previsti dalla normativa vigente, al compimento del sessantacinquesimo anno di età, anche in deroga al requisito contributivo minimo previsto dall'articolo 1, comma 20, della legge 8 agosto 1995, n. 335".

Tale deroga permetterebbe quindi al lavoratore rimpatriato di poter fruire di una prestazione pensionistica anche nel caso in cui non abbia raggiunto i 5 anni di contribuzione minima prescritti. Come prontamente specificato dall'Inps (471) però questa eccezione si applica solo a coloro che sono stati assunti dopo il 1º gennaio 1996 e la cui pensione si calcola col sistema contributivo, non invece a coloro che risultassero già in attività prima di tale data e per le cui prestazioni vada utilizzato il sistema retributivo (o misto) (472). Per quest'ultimi, infatti, sarà necessario il raggiungimento non solo dei 65 anni di età ma anche dei 20 anni di contribuzione.

Il mutamento di disciplina, con l'abolizione della possibilità di liquidazione della contribuzione versata, ha permesso all'Inps di salvaguardare le proprie casse anche in virtù di un progressivo invecchiamento della popolazione straniera. L'esborso da effettuare a fronte di una prestazione pensionistica, specie se connessa a pochi anni di contribuzione, risulta infatti più facilmente sostenibile per le finanze dell'Istituto rispetto a quello, più ingente, per la liquidazione totale dei contributi.

Il sistema, così come strutturato, se rapportato alle condizioni della popolazione detenuta sembra danneggiare in maniera particolare coloro che hanno iniziato a lavorare precedentemente al 1996. Per questi soggetti sarà difficilmente raggiungibile il traguardo dei 20 anni di contributi qualora possano contare solo (o in gran parte) sull'attività lavorativa carceraria. Più semplice rimane invece la situazione nel caso di lavoro iniziato dopo il 1996, dati i requisiti meno stringenti.

In entrambi i casi però vi sono dei veri e propri elementi ostativi al raggiungimento di questi benefici per la popolazione carceraria. La scarsa informazione in materia all'interno degli istituti di pena connessa con l'esiguità dei salari e delle rispettive contribuzioni accresce i problemi che il soggetto privo di titolo di soggiorno potrebbe ritrovare al momento della richiesta della prestazione (473). Dopo la scarcerazione, infatti, questa persona ritornerebbe nel suo stato di clandestinità, stato che mal le permetterebbe di muoversi nell'inoltro della relativa domanda, anche per l'assenza di ogni documento di identificazione. D'altro canto queste prestazioni presuppongono che l'attività lavorativa sia già cessata e, quindi, neppure gli operatori penitenziari da dentro l'istituto di pena potrebbero provvedere, prima delle dimissioni del soggetto, all'inoltro della relativa domanda (474). La prestazione, per di più, riguarderebbe solo i soggetti che materialmente facciano rientro nel loro paese, non potendo accedere ad alcuna prestazione pensionistica, causa lo stato di clandestinità, coloro che decidessero di rimanere irregolarmente sul territorio italiano.

Detto ciò una prospettiva (ci sia perdonato in questo l'eccesso di ottimismo (475)) potrebbe essere quella di far effettuare la domanda, specie per soggetti che sappiamo non poter rimanere in Italia, contemporaneamente agli atti di scarcerazione. In questa maniera infatti il soggetto sarebbe ancora in grado di poter effettuare la richiesta e, contestualmente, potrebbe anche far valere la conclusione della sua attività lavorativa (476).

In assenza di un'organizzazione di questo tipo la quasi totalità delle richieste, vuoi per la coscienza di continuare la propria clandestina permanenza in Italia, vuoi per la non conoscenza della tutela o per i problemi nel suo ottenimento, non viene effettuata.

Dobbiamo infine ricordare che un altro istituto potrebbe fungere da garanzia della posizione pensionistica di questi soggetti: quello della totalizzazione. Come abbiamo già detto nel cap. I la totalizzazione è il mezzo che permette il conteggio delle contribuzioni effettuate presso vari Stati al fine di comporre un'unica prestazione pensionistica. La persona che abbia svolto attività tanto nel suo paese, quanto in Italia (sia lavoro libero che carcerario) o in altri Stati potrà, quindi, in presenza di apposite convenzioni internazionali (qualora si tratti di paesi extracomunitari), ricongiungere i vari spezzoni contributivi. Queste convenzioni però coincidono all'incirca con quelle relative alle prestazioni per le famiglie, di cui abbiamo parlato più sopra, ed escludono quindi gran parte della popolazione carceraria dal potersi avvalere di questa possibilità.

Passando adesso all'analisi dell'assegno sociale dobbiamo ricordare come spesso i soggetti detenuti siano costretti a scegliere questa tutela, che avrebbe di per sé portata residuale e valore assistenziale, a causa non solo delle peculiarità del lavoro carcerario, ma anche degli sporadici, se non del tutto assenti, rapporti di lavoro che hanno avuto in stato di libertà (477). Entrambi questi fattori infatti rendono per loro estremamente difficile fruire delle prestazioni pensionistiche qualificate (di vecchiaia e di anzianità).

I detenuti in possesso dei requisiti per poter accedere all'assegno sociale non sono in verità molti se rapportati ai numeri della popolazione penitenziaria. Il limite di età posto nei 65 anni tanto per gli uomini che per le donne fa infatti abbassare di molto il bacino dei possibili destinatari (478). L'ulteriore requisito del possesso di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, che abbiamo visto nel capitolo I, ne riduce ancora di più il numero (479). Generalmente infatti i soggetti detenuti non possono vantare tale titolo a causa degli effetti ostativi che l'art. 9 del T.U. immigrazione fa derivare dalla condanna penale (480). Nei confronti degli stranieri inoltre è stato introdotto il requisito della decennale residenza sul territorio italiano prevista dall'art. 20 comma X del d.l. 25 giugno 2008 n. 112, così come modificato dalla legge di conversione n. 133 del 6 agosto 2008.

Il requisito reddituale, in ultimo, non sembra creare particolare problemi alla popolazione detenuta. Il fatto stesso che sempre più spesso nella pratica tale requisito, all'interno della realtà carceraria, sembri quasi non esistere, data l'esiguità dei redditi da lavoro interno o provenienti dall'esterno, rende l'idea dello stato di bisogno in cui larga parte della popolazione versa. Mentre infatti per la popolazione 'libera' i limiti di reddito imposti di anno in anno rappresentano un effettivo sbarramento, per quella detenuta spesso sono un vero e proprio miraggio poiché i loro redditi raramente superano le poche centinaia dei euro mensili (481).

Da tutti questi elementi si può quindi dedurre come la possibilità di fruire dell'assegno sociale riguardi solo un'esigua parte della popolazione carceraria, ed in maniera specifica la componente nazionale. La fine della detenzione rappresenta perciò, per molti soggetti di età avanzata, specie di nazionalità straniera, la ricaduta in situazioni di indigenza. La povertà è per queste persone un ennesimo fattore di emarginazione sociale che, sommandosi all'irregolarità del soggiorno derivante dal reato e alla stigmatizzazione data dalla detenzione, le costringe sempre più ai limiti della società.

A onor di cronaca dobbiamo però riportare come anche nel caso di soggetti che siano riusciti a raggiungere la fruizione dell'assegno sociale la situazione spesso non presenti colori molto più rosei. L'importo esiguo della tutela infatti non può provvedere a tutte le necessità. Le esperienze, le capacità lavorative, spesso sono compromesse sia dall'età, che dalla carcerazione e da una generale assenza di specifiche preparazioni professionali. L'unica risorsa anche in questo caso risulta essere quindi quell''ancestrale solidarietà familiare' di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo. Se non vi sono rapporti con la famiglia di origine, questi sono stati danneggiati a causa della carcerazione o, più semplicemente, non esiste una famiglia di origine, al soggetto non rimarrà che affidarsi ai vari servizi di natura assistenziale per tentare di sopperire alla carenza di risorse.

L'attuale strutturazione del sistema pensionistico carcerario, o meglio, del sistema lavorativo carcerario che ne sta alla base, sembra dunque tradire i principi di cui all'art. 20 c. V o.p. (482) sotto un duplice aspetto. Da una parte risulta arduo infatti sostenere che l'ammontare delle mercedi e la relativa contribuzione che ne deriva rispecchi la situazione del lavoro 'in libertà'. Dall'altra esse non garantiscono il reinserimento sociale del soggetto minandone la posizione previdenziale con tutte le conseguenze che abbiamo visto. Il sistema pensionistico, così come viene raccordato oggi alla realtà penitenziaria, rischia di svolgere un ruolo contrario a quello che gli sarebbe affidato; rischia cioè di essere una sorgente di ulteriore impoverimento economico ed emarginazione sociale del soggetto, specie per i condannati a detenzioni di lungo periodo. I problemi più gravi si riscontrano infatti nelle persone che hanno affrontato svariati anni di detenzione ed una volta usciti si trovano ad essere non solo privi del reinserimento sociale che l'ordinamento penitenziario si ripropone ma, anche, vittime di una triplice esclusione e di un triplice conseguente stato di bisogno. All'età avanzata rischia infatti di sommarsi lo stigma derivante dalla carcerazione e l'impoverimento economico dettato anche dalla disastrata posizione contributiva. Il sistema pensionistico sembra la cartina di tornasole del fallimento su più fronti del nostro sistema sociale, almeno nel suo connubio col sistema carcerario.

3.4 Le prestazioni a favore dei disabili

Le prestazioni a favore dei disabili vengono a soffrire, all'interno del sistema carcerario, di problematiche del tutto analoghe rispetto alle prestazioni pensionistiche. Anche in questo caso infatti è presente una bipartizione che vede da una parte tutte le prestazioni e i benefici connessi alla presenza di una posizione contributiva qualificata e dall'altra invece tutele, spesso di carattere residuale, del tutto sganciate dalla situazione previdenziale e di natura prettamente assistenziale. Tra le prestazioni 'qualificate' in questo campo possiamo ritrovare tanto l'assegno ordinario di invalidità quanto la pensione di inabilità, oltre all'assegno mensile per l'assistenza personale e continuativa (comunemente definito 'assegno di accompagnamento'). Tra quelle di natura assistenziale invece l'assegno di invalidità civile, la pensione di inabilità civile e l'indennità di accompagnamento.

La totale estensione di queste tutele alla popolazione detenuta è avvenuta, come abbiamo visto nel paragrafo sulle pensioni, solo nel 1962 con l'applicazione dell'assicurazione per l'invalidità e la vecchiaia anche ai condannati a pena perpetua.

3.4.1 Assegno ordinario di invalidità e pensione di inabilità

Come abbiamo già detto nel cap. I tanto l'assegno ordinario di invalidità quanto la pensione di inabilità richiedono requisiti contributivi consistenti nell'essere iscritti all'Inps da almeno 5 anni e nell'aver versato almeno 3 anni di contributi (pari a 156 settimane) nell'ultimo quinquennio. Il problema anche in questo caso è quindi quello di riuscire a realizzare tale contribuzione per mezzo del lavoro carcerario. Per chi dovesse manifestare delle patologie che rendano necessaria una tutela di questo genere il dover far valere, nel caso di detenzioni di lungo periodo, il lavoro svolto alle dipendenze dirette dell'amministrazione penitenziaria ai fini dei requisiti contributivi potrebbe creare dei problemi, non tanto per l'anzianità di 5 anni, quanto per le 156 settimane nell'ultimo quinquennio. Le turnazioni lavorative e le particolari modalità di conteggio delle contribuzioni (483) infatti rendono arduo poter vantare tale posizione (484).

Il discorso è ben diverso nel caso di lavoro all'esterno, presso datori di lavoro terzi o nel caso di richiesta in un momento immediatamente successivo alla carcerazione (qualora all'esterno si stesse in precedenza svolgendo una regolare attività lavorativa). In queste situazioni infatti crescono notevolmente le possibilità che il soggetto possa far valere i requisiti di cui sopra.

Nel caso dell'assegno ordinario la certificazione dell'invalidità deve essere rinnovata ogni 3 anni, ma dopo il terzo rinnovo la prestazione diviene definitiva. Sarà quindi necessario a tal fine richiedere visite mediche domiciliari presso l'istituto in cui il soggetto si trova, allegando alla richiesta di prestazione o di visita il certificato di detenzione che dimostri l'impossibilità, o comunque l'estrema difficoltà, di recarsi a visita presso le sedi Asl. Una volta che il soggetto abbia raggiunto i 65 anni (se uomo e 60 se donna) questa prestazione, in presenza di 20 anni di contributi, può trasformarsi in pensione di vecchiaia. Fortunatamente per il raggiungimento di questa contribuzione vengono conteggiati come validi anche gli anni in cui il soggetto, pur senza svolgere attività lavorativa, ha percepito la prestazione. Dal punto di vista teorico potrebbero esservi delle trattenute sull'assegno qualora il soggetto svolgesse attività lavorativa superando come redditi il quadruplo o il quintuplo dell'importo minimo della prestazione. Nel caso delle lavorazioni carcerarie il raggiungimento di importi di tale genere risulta alquanto improbabile.

La pensione di inabilità invece riguarda la totale perdita di capacità lavorativa e richiede gli identici requisiti contributivi già visti per l'assegno. Ovviamente se requisito è la totale perdita di capacità lavorativa questa prestazione risulta del tutto incompatibile con qualsiasi tipo di impiego. Abbiamo più volte detto però come il lavoro carcerario presenti dei caratteri particolari rispetto a quello libero. Il carattere di obbligatorietà e l'intento rieducativo che lo caratterizzano fanno sì che si creino, con le tutele ad esso connesse, una serie di rapporti diversi da quelli comuni. Si può quindi validamente ritenere che, qualora il medico dell'istituto non veda controindicazioni nella messa a lavoro del soggetto inabile ma ne riscontri anzi un'utilità terapeutica, questo potrà essere incaricato di lavori adatti alla sua situazione (485). Vista la tipologia di lavorazioni e di incombenze proprie del sistema carcerario infatti non si può ritenere che la messa a lavoro in queste condizioni possa portare ad inficiare l'accertamento della totale perdita di capacità lavorativa del soggetto. Nel caso di inabilità non si potrà comunque sostenere un'obbligatorietà dell'attività lavorativa.

Un'ultima particolarità riguarda infine l'assegno mensile per l'assistenza personale e continuativa (accompagnamento). Per stessa previsione dell'art. 5 della legge n. 222 del 1984 tale prestazione non dovrebbe essere erogata nel caso il soggetto si trovi presso istituti di cura e assistenza a carico dello pubbliche amministrazioni. Gli istituti penitenziari non rientrano in questa tipologia di strutture e l'assegno può quindi essere normalmente erogato. D'altro canto spesso il carcere mette a disposizione dei soggetti con problemi deambulatori, o comunque nello svolgimento delle normali attività quotidiane, delle persone che gli possano assistere ('piantoni'). Il lavoro svolto dal piantone viene retribuito, come gli altri lavori domestici, sotto forma di mercede, dall'amministrazione penitenziaria. Tale servizio viene istituito non solo a favore dei soggetti beneficiari dell'assegno di accompagnamento ma di chiunque presenti particolari problemi. Si tratta quindi di una prestazione offerta più per problemi logistici, di organizzazione interna agli istituti stessi, che non in virtù di una vera e propria tutela assistenziale determinata da accertamenti istituzionali. Tale forma di accompagnamento infatti non si rapporta per niente con la prestazione ufficiale, al punto che il soggetto beneficiario potrà contemporaneamente fruire del servizio del piantone da una parte e del beneficio economico dall'altra, senza che venga a lui richiesta nessuna compartecipazione alla spesa da parte dell'amministrazione penitenziaria.

3.4.2 Assegno mensile agli invalidi civili parziali e pensione agli invalidi civili totali

La funzione svolta dalle prestazioni di invalidità e inabilità civile nel campo della disabilità è la stessa funzione che svolge l'assegno sociale in campo pensionistico. L'assenza di requisiti di tipo contributivo e di stringenti limiti reddituali fanno infatti facilmente comprendere la portata assistenziale della prestazione in discussione.

In base all'art. 13 della legge n. 118 del 1971 il soggetto che percepisca prestazioni di questo tipo non deve svolgere alcuna attività lavorativa o, qualora la svolga, non deve comunque superare i limiti di reddito imposti di anno in anno (486). Come abbiamo più volte ripetuto, ai fini dell'applicazione delle varie tutele alla popolazione carceraria, spesso risultano molto meno selettivi requisiti reddituali, anche se estremamente rigidi come quello per gli invalidi parziali, che non requisiti contributivi. Proprio in virtù di ciò le prestazioni di invalidità civile riescono a sortire un maggior successo, all'interno degli istituti di pena, di quanto non ne ricevano le corrispettive tutele qualificate. Le stesse considerazioni già effettuate sull'assegno mensile per l'assistenza personale e continuativa possono inoltre essere ripetute riguardo all'indennità di accompagnamento prevista per le prestazioni 'civili' (487).

Per quanto riguarda l'accertamento del diritto alle relative tutele si ricorda, come abbiamo già detto nel capitolo I, che questo consta di una parte medica e di una amministrativa. L'iter viene attivato dalla presentazione del modulo di richiesta di accertamento dell'invalidità compilato a cura del medico del carcere. Ovviamente a compilare la richiesta potrà essere tanto il medico generico quanto lo psichiatra, a seconda dei disturbi presentati dal soggetto. Tale documento deve inoltre essere corredato di certificato di detenzione o comunque di documentazione valida a dimostrare la necessità che la visita si svolga a domicilio presso l'istituto. A seguito dell'inoltro della domanda alla Commissione invalidi civili della Asl di competenza (488) quest'ultima invia, entro 90 giorni, una commissione medica che, eseguito l'accertamento, fornisce apposita risposta al richiedente (489).

Concludendo l'analisi delle varie prestazioni a favore dei disabili dobbiamo notare come queste tutele, specie quelle di natura 'civile', se viste all'interno della realtà carceraria assumono un aspetto proprio. Tale caratteristica dipende da una molteplicità di fattori, quali: le peculiarità della popolazione detenuta, la maggiore o minore incidenza di alcune patologie su di essa, la sua situazione di generale indigenza economica. Non accade di rado infatti che il momento della carcerazione venga utilizzato da molti soggetti come un vero e proprio 'periodo di svolgimento pratiche', un periodo insomma nel quale occuparsi di tutte le incombenze burocratiche che da fuori non sono state seguite. Tra queste anche l'accertamento di uno stato di invalidità. Si possono infatti spesso riscontrare all'interno degli istituti, anche in soggetti di giovane età, patologie invalidanti. Purtroppo talvolta si tratta di malattie legate, in maniera più o meno diretta, al tipo di vita condotto all'esterno. Così le problematiche connesse alla sieropositività dei soggetti ed alla presenza di epatiti, che spesso alla sieropositività sono correlate, sono tra le fonti maggiori di invalidità (490). Proprio i soggetti in uno stato avanzato di tossicodipendenza e sieropositività, giungono alle volte all'interno della realtà carceraria senza aver mai fatto richiesta di accertamento e lì, per la prima volta, ne beneficiano. Ovviamente affinché il sistema possa funzionare serve che una serie di soggetti collabori tra di loro: dal medico che redige la richiesta, alla persona che si occupa di inviarla corredata di certificati, agli appositi uffici amministrativi che provvedono all'apertura di un conto per permettere al soggetto di depositarvi la prestazione.

L'importanza dell'individuazione dei soggetti che potrebbero aver diritto a prestazioni di tale tipo è estrema dato lo stato di pressante povertà in cui questi spesso si trovano. La possibilità inoltre, una volta effettuato l'accertamento, di iscrizione nelle liste di collocamento speciali dovrebbe essere d'aiuto al reinserimento sociale e lavorativo del soggetto (491).

Per quanto riguarda infine i detenuti extracomunitari dobbiamo notare come generalmente questi soggetti non possano fruire delle prestazioni di natura civile per mancanza di un valido titolo di soggiorno. Tale mancanza può derivare, come abbiamo già illustrato nel paragrafo 1.1.8, oltre che da uno stato di irregolarità precedente alla carcerazione, anche dalla perdita del titolo di soggiorno a seguito della condanna penale, in base alla disciplina propria degli art. 5 c. V e 9 del T.U. immigrazione.

3.5 Bonus straordinario per famiglie e Carta acquisti

Nel primo capitolo non abbiamo analizzato gli istituti del Bonus straordinario famiglie e della Carta acquisti poiché si tratta di due tutele dal carattere temporaneo che sono state previste, specie la prima (492), per il solo anno 2009. Date le particolari conseguenze della disciplina di queste prestazioni sulla popolazione carceraria riteniamo però corretto illustrarne prima i caratteri generali e poi gli effetti della loro applicazione all'interno degli istituti di pena.

3.5.1 Il Bonus straordinario per famiglie

Con legge 28 gennaio 2009 n. 2 (493) è stato convertito il d.l. 29 novembre 2008 n. 185 recante "Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa per ridisegnare in funzione anticrisi il quadro strategico nazionale". La tutela che ci accingiamo ad analizzare era rubricata all'art. 1 del suddetto decreto legge come "Bonus straordinario per famiglie, lavoratori, pensionati e non autosufficienti". Questa prestazione, da ora in avanti 'Bonus famiglie', è una forma di erogazione monetaria una tantum prevista per la sola annualità 2009. La ristrettezza del campo di applicazione della tutela in questione è parzialmente ovviata dalla possibilità, come vedremo più avanti, di considerare alternativamente il reddito complessivo del nucleo familiare relativo all'annualità 2007 o 2008.

L'importo del bonus viene determinato sulla base di due fattori:

  • il numero dei componenti del nucleo familiare;
  • il reddito del nucleo familiare.

In base al numero dei componenti si determina il quantum di bonus erogabile e contestualmente il relativo limite massimo di reddito percepito. Il reddito del nucleo influisce quindi non sul quantum del beneficio ma sull'an. Qualora infatti la famiglia abbia superato la soglia massima di redditi prevista in base al numero dei suoi componenti non vi è diritto al bonus (494).

I requisiti richiesti per accedere a questa forma di tutela sono i seguenti:

  • residenza in Italia;
  • presenza di redditi, nell'annualità di riferimento (2007 o 2008), inferiori ai limiti stabiliti che vedremo tra poco e comunque facenti parte delle seguenti categorie (495):
    1. redditi da lavoro dipendente di cui all'art. 49, comma 1, del T.u.i.r.;
    2. redditi da pensione di cui all'art. 49, comma 2, del T.u.i.r.;
    3. taluni redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente di cui all'art. 50, comma 1, del T.u.i.r. (496).

Va precisato, a scanso di equivoci, che i redditi percepiti dal richiedente in sostituzione (497) di quelli che lui deve necessariamente presentare per avere accesso alla tutela, e quindi quelli di cui ai numeri 1-2-3, soddisfano ugualmente il citato requisito.

Il bonus del quale stiamo parlando è una prestazione strettamente connessa al lavoro di tipo dipendente, la stessa connessione che avevamo già ritrovato tra i requisiti degli assegni per il nucleo familiare.

Il concetto di famiglia proprio di questa tutela è però diverso da quello che abbiamo analizzato per gli Anf. Nel caso del bonus infatti fanno parte del nucleo familiare: il richiedente; il coniuge di questo non legalmente ed effettivamente separato, anche se fiscalmente non a carico; i figli, sia legittimi che naturali riconosciuti, adottivi, affidati o affiliati; ogni altra persona indicata nell'art. 433 del c.c. che convive con il richiedente o percepisce assegni alimentari non risultanti da provvedimenti dell'autorità giudiziaria. Solo il coniuge non separato fa parte del nucleo anche qualora risulti non a carico, tutti gli altri familiari ne fanno parte invece solo se risultano a carico del richiedente, se cioè il reddito complessivo annuo di ciascuno di loro non supera i 2.840,51 euro, al lordo degli oneri deducibili. I soggetti di cui all'art. 433 c.c., esclusi i figli, sono quindi sottoposti ad un doppio requisito per poter entrare a far parte del nucleo familiare: devono essere conviventi (o intestatari di assegni alimentari non risultanti da provvedimenti dell'autorità giudiziaria) e devono avere un reddito inferiore a quello sopra illustrato per poter risultare a carico.

Questa tutela di natura provvisoria prevede quindi una nozione di famiglia più ampia rispetto a quella propria degli Anf, caratteristica che rischia di essere dannosa per i possibili beneficiari. Dal punto di vista empirico infatti spesso osserviamo la progressiva concentrazione dei componenti di una famiglia in una sola abitazione con andamento proporzionale allo stato di bisogno dei componenti della stessa. Il motivo per il quale questa concentrazione avviene è quello di sopperire, mediante il cumulo di risorse, allo stato di indigenza. Questo 'cumulo di risorse' rischia però di vietare l'accesso al Bonus proprio ai soggetti più bisognosi. I limiti di reddito imposti per l'accesso alla tutela infatti, come si può vedere dalla tabella sotto, sono estremamente esigui e non hanno andamento direttamente proporzionale al numero dei componenti del nucleo. Sono quindi penalizzate le famiglie formate da un numero maggiore di persone.

N. componenti Limite di reddito (498) Ammontare bonus
1 (titolare di pensione) 15.000 200
2 17.000 300
3 17.000 450
4 20.000 500
5 20.000 600
più di 5 22.000 1.000
Con familiare a carico portatore di handicap 35.000 1.000

Il singolo soggetto non può fare richiesta di bonus, nonostante l'esiguità dei suoi redditi, qualora non sia titolare di pensione. Visto che ogni persona può far parte di un solo nucleo familiare i figli di genitori legalmente separati, divorziati o non coniugati fanno parte del nucleo del genitore del quale risultano a carico. Nel caso i figli siano a carico di entrambi i genitori questi possono liberamente scegliere come comporre il nucleo, o i nuclei familiari.

Come accennavamo, non vi è una vera e propria progressività delle fasce di reddito in base al numero dei componenti ma, piuttosto, un sistema a scaglioni che penalizza i nuclei composti da 3 e 5 soggetti poiché impone loro lo stesso limite massimo rispettivamente dei nuclei con 2 o 4 componenti. Le soglie di reddito stabilite fanno sì che a fronte di un maggior numero di componenti del nucleo sia richiesta una maggior 'indigenza familiare' per poter accedere a questa forma di tutela. Mentre il soggetto singolo, beneficiario di pensione, può godere di un reddito massimo di 15.000 euro annui, un nucleo familiare composto da 2 o 3 persone può avere, per poter usufruire del bonus, un reddito massimo di 17.000 euro. Questa cifra porta a euro 5.600 c.a. disponibili pro capite all'anno, che si riducono, ad esempio, a 4.000 nel caso di 5 componenti (499).

Non dobbiamo inoltre scordare che la tutela offerta dal bonus famiglie non ha portata attuale ma differita, in quanto relativa ai periodi di imposta delle annualità 2007 o 2008 e alle relative composizioni del nucleo familiare (500).

Mentre per la richiesta di bonus da parte di cittadini italiani, in caso di familiari residenti in Italia, non vi sono particolari problematiche, nel caso di richiedenti extracomunitari con familiari residenti all'estero la situazione è più complessa. In quest'ultima ipotesi infatti è necessaria la documentazione attestante lo status di familiare a carico come prevista dall'art. 1, comma 1325 della legge n. 296 del 27 dicembre 2006 (501).

Con la circolare n. 2/e del 3 febbraio 2009 dell'Agenzia delle entrate sono state illustrate anche le questioni relative alle modalità di richiesta del bonus e alle tempistiche della stessa. Una prima distinzione da effettuare riguarda il soggetto incaricato di ricevere la richiesta. Per la domanda infatti è previsto un doppio iter a seconda delle qualità del richiedente:

  1. i soggetti titolari di redditi da lavoro dipendente, redditi assimilati e pensione potevano richiedere l'erogazione del bonus direttamente al sostituto d'imposta (di cui agli articoli 23 e 29 del D.P.R. del 29 settembre 1973 n. 600) o all'ente pensionistico tramite l'apposito modello (502).

    I termini di presentazione di questa richiesta erano:

    • il 28 febbraio 2009 qualora il beneficio fosse richiesto in base al periodo di imposta 2007 e alla relativa situazione familiare;
    • il 31 marzo 2009 qualora il beneficio fosse richiesto sulla base del periodo di imposta 2008 (503).

    Il sostituto d'imposta e l'ente pensionistico hanno erogato il beneficio nei mesi di febbraio-marzo 2009 (504) qualora la domanda sia stata effettuata relativamente al periodo di imposta 2007, e nei mesi di aprile-maggio 2009 (505) se il periodo di riferimento era l'annualità 2008. In questi casi il soggetto che ha ricevuto e liquidato la domanda doveva trasmettere all'Agenzia delle entrate, entro il 30 aprile 2009 (o il 30 giugno se il periodo di riferimento era il 2008), i dati delle richieste ricevute e dell'importo elargito per ciascuna richiesta. Qualora la prestazione non sia stata erogata dal sostituto di imposta, ad esempio per insufficienza del monte ritenute disponibile, si è dovuti passare alla procedura illustrata nel punto 2.

  2. In tutti i casi in cui la prestazione non poteva essere erogata dal sostituto di imposta o ente pensionistico la richiesta poteva essere inoltrata all'Agenzia delle Entrate (506). I termini di presentazione della domanda in questo caso erano:

    • il 30 aprile 2009 qualora il periodo di imposta considerato fosse l'annualità 2007;
    • il 30 giugno 2009 qualora il periodo di imposta considerato fosse il 2008. Tale termine era però valido solo per i soggetti esonerati dall'obbligo di dichiarazione dei redditi. Nel caso in cui il soggetto avesse dovuto fare dichiarazione dei redditi era tenuto richiedere il bonus mediante la dichiarazione stessa.

Nel caso di necessità di presentazione diretta della domanda questa poteva essere trasmessa per via telematica all'Agenzia delle Entrate anche attraverso gli appositi intermediari abilitati (507).

Entrambi gli iter di richiesta, sia quelli afferenti al modello n. 1 che quelli relativi al modello n. 2, si basano sulla dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà da parte del richiedente, ai sensi dell'articolo 47 del d.p.r. n. 445 del 28 dicembre 2000, rendendo così più rapida la procedura di richiesta data l'assenza di documentazione allegata.

3.5.2 Il Bonus famiglie nella sua applicazione alla popolazione carceraria

Il Bonus straordinario per famiglie non prevede in alcun modo, a differenza della Carta acquisti (o 'Social card') che poi analizzeremo, esplicite limitazioni riguardo alla sua applicazione alla popolazione detenuta. Prontamente infatti il Dap e i vari Provveditorati regionali dell'amministrazione penitenziaria (508) hanno precisato come "i soggetti detenuti, che abbiano i requisiti previsti dalla legge, potranno presentare alle direzioni degli istituti ove sono ristretti, le richieste compilate sull'apposito modello". La trasmissione tra i vari istituti e l'Agenzia delle entrate sarebbe poi dovuta avvenire per via telematica.

La disposizione si limitava quindi alla possibilità per i soggetti detenuti di presentare domanda, già compilata alle direzioni, senza nulla dire circa le modalità di aiuto alla popolazione nella compilazione dei modelli stessi. L'amministrazione penitenziaria non era perciò formalmente incaricata di istituire apposito personale per la compilazione o, comunque, di informare i soggetti circa le modalità di compilazione delle domande. L'assenza di tali previsioni ha reso estremamente difficile la fruizione di questa tutela. (509) Il sospetto che nasce è quindi quello di una sterile previsione effettuata solo al fine di estendere formalmente la possibilità di tutela in modo da non creare, almeno sul piano formale, alcuna discriminazione. Vero è, però, che i vari Provveditorati richiedevano, sempre nelle circolari delle quali abbiamo detto sopra, alle direzioni degli istituti di comunicare loro il numero delle pratiche presentate. Questo elemento avrebbe quindi portato ad un controllo sull'attivazione e sull'operato delle direzioni dei vari istituti nel garantire ai detenuti la possibilità di fruire di questa tutela. Non dobbiamo infatti scordare come le previsioni dell'ordinamento del 1975 estendano ai soggetti detenuti la fruizione di tutte le tutele sociali, comprese quelle di natura contingente e temporanea come il Bonus.

I vari istituti penitenziari si erano quindi organizzati al riguardo secondo il loro modello interno di gestione delle tutele previdenziali (510).

Mentre le circolari del Ministero della Giustizia si limitano a prevedere il diritto di quei soggetti che hanno "i requisiti previsti dalla legge" è stato necessario analizzare i modelli da utilizzare, quello del sostituto di imposta e quello del pagamento diretto, per poter comprendere quali erano i termini di presentazione delle domande. Le tempistiche di consegna e liquidazione delle domande mutano infatti non solo, come abbiamo visto sopra, in base all'anno preso a riferimento (tra il 2007 e il 2008), ma anche in base alla possibilità di utilizzare o meno il modello di richiesta tramite il sostituto di imposta.

Le circolari non prevedevano alcuna disciplina particolare per la popolazione penitenziaria, ma solo un generico rinvio alle disposizioni dell'Agenzia delle entrate. Si è creata in questo modo per alcuni soggetti una vera e propria impasse burocratica. Qualora la persona fosse stata impiegata presso un datore di lavoro esterno rimaneva il dubbio circa la necessità di richiesta al datore di lavoro in qualità di sostituto di imposta o l'invio della domanda per mezzo dell'amministrazione penitenziaria come previsto dal Dap. Si è intesa generalmente quella dell'amministrazione penitenziaria come una funzione surrogatoria rispetto alla richiesta al datore di lavoro (511).

Anche per i lavoratori alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria si è optato per la presentazione diretta della domanda all'Agenzia delle entrate piuttosto che per il modello del sostituto d'imposta. In base alla già citata circolare dell'Agenzia delle entrate n. 2/e infatti risultava che il sostituto d'imposta fosse tenuto al pagamento nei limiti del monte ritenute disponibili. Qualora tale monte fosse stato insufficiente si sarebbe dovuti passare al modello di richiesta diretta all'Agenzia. Le trattenute effettuate sugli importi delle mercedi della popolazione detenuta lavorante (alle dipendenze dell'Amministrazione), data l'esiguità dei redditi e le quote di trattenuta, non superavano praticamente mai l'importo del beneficio da erogare al soggetto. Tale situazione ha portato quindi ad adottare lo schema di richiesta diretta del Bonus all'Agenzia delle entrate. L'adozione del modello del sostituto di imposta avrebbe inoltre portato, specie in istituti di grandi dimensioni, all'esborso di notevoli cifre da parte delle direzioni, le cui finanze spesso non versano in ottime situazioni.

Superata in questo modo l'assenza di previsioni specifiche per la popolazione detenuta e la sua situazione lavorativa ci si è trovati ad affrontare tutta un'altra serie di problematiche. La prestazione in questione necessitava infatti della presenza in carico al richiedente di redditi da lavoro, di redditi equivalenti (quali quelli provenienti da disoccupazione) o derivanti da prestazioni pensionistiche. Ovviamente l'ultima ipotesi era la meno frequente visto l'esiguo numero di prestazioni pensionistiche percepite dalla popolazione detenuta. Le fattispecie riguardanti i redditi da lavoro o da disoccupazione, specie negli istituti in cui è presente un servizio annuale di richiesta della disoccupazione a requisiti ridotti, hanno prodotto un numero consistente di richieste. Il fatto inoltre che la prestazione avesse natura 'differita' permetteva la richiesta anche a coloro che, magari in stato di libertà fino al 2009, negli anni precedenti avevano svolto attività lavorative all'esterno. Per usufruire del bonus non era necessario che il lavoro svolto nelle annualità 2007-2008 avesse una certa consistenza, veniva richiesta infatti solo la presenza di un'attività lavorativa, per quanto breve fosse stata. Anche un'attività saltuaria, spesso di durata mensile, come quella svolta alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria è quindi risultata utile ai fini del diritto al Bonus.

Anche per questa prestazione, come per l'assegno sociale, i limiti di reddito imposti, specie per chi nelle annualità 2007-2008 aveva svolto lavori 'carcerari', non hanno rappresentato assolutamente un ostacolo alla fruizione del beneficio.

Ben più gravi problemi sono derivati, invece, dalla necessità che il soggetto richiedente risiedesse in Italia (512). Tale requisito ha influito profondamente sulle richieste della popolazione carceraria escludendo dalla fruizione: i soggetti extracomunitari clandestini (513), i soggetti extracomunitari regolari ma privi di residenza in Italia, i soggetti comunitari privi di residenza e, anche se in misura minore, i cittadini italiani senza fissa dimora. Si sono invece visti riconoscere il diritto al Bonus quei soggetti, tanto italiani che stranieri, ai quali era stata concessa, in virtù di una condanna di lungo periodo (514), la residenza presso il carcere.

La necessità della residenza, la necessità di riportare nella richiesta i codici fiscali dei propri familiari e di allegare apposita certificazione dello stato di famiglia qualora questi non si trovino in Italia hanno fatto sì che, anche se in maniera indiretta, abbia fruito del Bonus principalmente la componente nazionale della popolazione carceraria (515).

Riguardo ai soggetti che sono riusciti comunque ad accedere alla prestazione possiamo senz'altro sostenere che mediamente hanno ottenuto benefici economici superiori rispetto alla popolazione libera. Ciò è stato determinato dall'incidenza di due diversi fattori. In primo luogo la generale indigenza della popolazione detenuta e dei loro nuclei familiari ha portato, come generalmente avviene, alla convivenza di più soggetti sotto uno stesso tetto. Tale convivenza ha dato vita a nuclei familiari di ampie dimensioni che hanno perciò fruito, in base alle tabelle prima viste, di sostanziose erogazioni. In secondo luogo dai dati forniti dal Ministero di Giustizia risulta che i detenuti con più di un figlio siano alquanto numerosi, comportando così un generale avanzamento dei livelli delle prestazioni erogate (516).

La popolazione detenuta è comunque riuscita a fruire solo in parte del bonus in questione. Viste le similitudini di struttura sorgono dei dubbi sui motivi per i quali non sia stato approntato, come avviene riguardo agli assegni per il nucleo familiare (517) in base all'art. 55 del d.p.r. n. 230 del 2000, un sistema che incaricasse l'amministrazione penitenziaria di attivarsi nel reperimento dei documenti e dei dati necessari per la richiesta qualora per il soggetto recluso ciò non fosse possibile. Con tutta probabilità la temporaneità delle tutela, i ristretti tempi nei quali questa poteva essere richiesta e una generale volontà di non oberare le amministrazioni penitenziarie hanno suggerito di non prevedere un sistema del genere.

3.5.3 La Carta acquisti

La Carta acquisti (o Social card) è una forma di tutela che è stata introdotta contemporaneamente al Bonus famiglie (518). Si trattava anche in questo caso, forse in maniera ancor più evidente rispetto al bonus di cui sopra, di un intervento di tipo assistenziale. L'illustrazione del programma di tale tutela (519) riportava come esempi ispiratori interventi sociali, europei ed extraeuropei, nei quali veniva utilizzato per l'erogazione delle prestazione un mezzo di pagamento elettronico (520). Al beneficiario in questi casi viene infatti fornita una apposita carta di credito prepagata, come nel caso della Carta acquisti, o viene comunque addebitata la prestazione su di una carta già in suo possesso.

Pur non volendo addentrarci nel merito politico e sociale della scelta che ha portato all'adozione della Social Card italiana dobbiamo considerare come, al di là della natura innovativa del mezzo tramite il quale veniva realizzato, tutto l'intervento corrisponde ad un sussidio alle famiglie di portata sostanzialmente ristretta. La limitazione dell'utilizzo di questa carta, come vedremo più avanti, all'acquisto di certe categorie di generi, avrebbe dovuto determinarne, secondo la concezione del legislatore, un suo 'buon impiego'.

Un'analisi dell'intervento non può comunque essere seriamente effettuata senza esaminare in maniera attenta i suoi caratteri peculiari. La Social Card è stata creata in risposta a due situazioni socio-familiari diverse. I destinatari di questa tutela sono infatti risultati, fin dai lavori preparatori:

  • i soggetti con più di 65 anni;
  • i bambini con meno di 3 anni.

La domanda di richiesta del beneficio poteva essere fatta, tramite gli appositi moduli (521), entro il termine ultimo del 30 aprile 2009, presso gli Uffici delle Poste.

L'importo di cui usufruisce il beneficiario è di 40 euro mensili (522), spendibili in generi alimentari, bollette di luce e gas, acquisto di prodotti parafarmaceutici (523). Come le stesse guide al riguardo hanno ribadito più volte le ricariche bimestrali delle suddette carte per l'anno 2009 sarebbero state effettuate "sulla base degli stanziamenti via via disponibili". È quindi evidente il carattere di sperimentalità e di provvisorietà dell'intervento in atto.

Ad una puntuale analisi dei requisiti richiesti possiamo vedere come questi fossero per i soggetti 'over 65':

  • avere un'età non inferiore a 65 anni;
  • essere cittadino/a italiano/a residente in Italia e regolarmente iscritto all'anagrafe;
  • essere un soggetto la cui imposta netta ai fini IRPEF risulta pari a zero nell'anno di imposta antecedente al momento della richiesta della Carta Acquisti, oppure nel secondo anno di imposta antecedente al momento della richiesta della Carta Acquisti;
  • avere trattamenti pensionistici o assistenziali che, cumulati ai relativi redditi propri, sono di importo inferiore a 6.000 € all'anno o di importo inferiore a 8.000 € all'anno, se di età pari o superiore a 70 anni;
  • avere un ISEE (Indicatore della situazione economica equivalente), in corso di validità, inferiore a 6.000 €;
  • non essere, da solo o insieme al coniuge:
    • intestatario/i di più di una utenza elettrica domestica;
    • intestatario/i di utenze elettriche non domestiche;
    • intestatario/i di più di una utenza del gas;
    • proprietario/i di più di un autoveicolo;
    • proprietario/i, con una quota superiore o uguale al 25%, di più di un immobile ad uso abitativo;
    • proprietario/i, con una quota superiore o uguale al 10%, di immobili non ad uso abitativo o di categoria catastale C7;
    • titolare/i di un patrimonio mobiliare, come rilevato nella dichiarazione ISEE, superiore a 15.000 €;
  • non fruire di vitto assicurato dallo Stato o da altre pubbliche amministrazioni, per ricovero in istituti di cura di lunga degenza o detenzione in istituti di pena (524).

Come si può facilmente notare i parametri di riferimento risultano porre dei limiti talmente stretti da condizionare fortemente l'accesso alla tutela. Altrettanto possiamo affermare nel caso di richiesta da parte di un genitore di bambino con età inferiore ai 3 anni. In questo caso si può accedere alla tutela se il figlio:

  • è cittadino/a italiano residente in Italia e regolarmente iscritto all'anagrafe;
  • ha meno di tre anni;
  • ha un reddito ISEE (Indicatore della situazione economica equivalente), in corso di validità, inferiore a 6.000 €;
  • non è, da solo o insieme all'esercente la potestà genitoriale/soggetto affidatario e all'altro esercente la potestà genitoriale/soggetto affidatario, intestatario o proprietario dei beni che abbiamo già visto nel caso di soggetti over 65.

In quest'ultimo caso il titolare della carta acquisti è il genitore. Nel caso di più figli di età inferiore ai 3 anni è fornita una carta per ciascuno di essi.

Qualora il beneficiario o l'esercente la potestà sul beneficiario risultino impediti è previsto un apposito sistema di deleghe a persone di fiducia (525), che trova limitazione però nel caso previsto dall'ultimo punto dei requisiti per persone ultrasessantacinquenni (quello cioè dello stato di detenzione del beneficiario over-65).

Il valore che deve essere riconosciuto a questo tipo di intervento, in virtù degli esigui importi che vengono erogati, è principalmente connesso, come abbiamo già detto, al suo carattere sperimentale riguardante l'utilizzo di mezzi di pagamento elettronico per sussidi sociali, sulle orme dell'Electronic Benefit Transfer largamente utilizzato negli Stati Uniti.

3.5.4 La Carta acquisti nella sua applicazione alla popolazione carceraria

Nel periodo precedente la messa in opera dell'istituto della Carta acquisti la popolazione carceraria aveva mostrato gran fermento e interesse per l'ipotesi di questa nuova prestazione. Le speranze sono state poi largamente disattese dalle previsioni normative al riguardo.

Come abbiamo visto i soggetti che potevano beneficiare della cosiddetta Social card dovevano avere o più di 65 anni o meno di 3.

Il primo caso avrebbe quindi raccolto quella parte di popolazione carceraria (in pratica la stessa che potrebbe avere accesso all'assegno sociale) che poteva vantare tale età. Il decreto interdipartimentale n. 89030 del 16 settembre 2008 all'art. 5 c. I lett. F aveva però previsto che i beneficiari di questa prestazione non avrebbero dovuto fruire di vitto assicurato dallo Stato o da altre pubbliche amministrazioni, per ricovero in istituti di cura di lunga degenza o detenzione in istituti di pena (526). I soggetti over-65 che si trovavano in stato di detenzione erano quindi esplicitamente esclusi dalla fruizione di questa prestazione. La situazione, se era chiara per i detenuti, non tutelava affatto coloro che si trovavano in un istituto per motivi di custodia cautelare, lasciando quest'ultimi privi della possibilità di richiedere questo beneficio (527). Il Ministero dell'economia e delle finanze al riguardo però non si è mai pronunciato, forse anche in virtù della difficoltà di poter poi garantire a tali soggetti una reale fruizione della Carta all'interno degli istituti di pena (528).

Quanto al secondo caso i detenuti genitori di bambini con età inferiore ai 3 anni, sulla base di quanto previsto dal decreto interdipartimentale del 27 febbraio 2009 (529), non sono esclusi dalla fruizione di questa tutela. Le difficoltà però anche in questa ipotesi riguardano l'impossibilità di utilizzo della Carta stessa dall'interno degli istituti carcerari (530). La questione in verità veniva spesso risolta in maniera pragmatica più che teorica. In caso di detenzione di uno dei due genitori infatti la richiesta per il figlio veniva effettuata dal genitore in stato di libertà. Qualora il figlio, invece, fosse stato affidato ad un altro soggetto (magari a seguito di incarcerazione di entrambi i genitori) poteva essere quest'ultimo, in base all'art. 5 c. II del decreto del 16 settembre 2008, a richiedere l'intestazione della Carta.

L'esperienza della Carta acquisti è stata quindi praticamente del tutto assente all'interno della realtà carceraria.

4. Gli E-mens

Effettuata un'analisi delle singole tutele nel loro rapportarsi con la realtà carceraria è doveroso citare un elemento di natura tecnica che tanto può influire sugli aspetti contributivi del lavoro carcerario.

Dal 1º gennaio 2005 (531) i datori di lavoro e i committenti sono tenuti ad inviare mensilmente all'Inps per via telematica i dati relativi alle retribuzioni e i dati necessari per il calcolo dei contributi e l'erogazione delle varie prestazioni. Tra gli scopi perseguiti dall'Istituto nazionale di previdenza sociale con questa modalità di trasmissione (denominata e-mens) vi sono:

  1. un continuo aggiornamento dell'archivio dei lavoratori al fine di realizzare una completa anagrafe dei lavoratori dipendenti e occupati;
  2. una maggiore tempestività nell'erogazione delle prestazioni;
  3. la possibilità di rilasciare tempestivamente l'estratto conto contributivo ai lavoratori e certificare la data di accesso alla pensione (532).

Il datore di lavoro sarà obbligato al suddetto invio entro l'ultimo giorno del mese successivo a quello di competenza. La trasmissione può essere effettuata direttamente dal datore o da soggetti intermediari quali C.a.f., commercialisti, ragionieri, consulenti del lavoro, associazioni sindacali di categoria. I modelli e-mens riprendono i precedenti modelli telematici 'DM10' (533) ma, grazie alla presenza di un maggior numero di campi e di informazioni, riescono a dare una chiara e completa idea della situazione redditual-contributiva del soggetto.

Le direzioni dei vari istituti penitenziari non sono esentate da questa innovazione e avrebbero dovuto adottare il nuovo modello, a partire dal 2005, riguardo ai soggetti che svolgono attività lavorativa alle loro dirette dipendenze. L'utilizzo del condizionale è d'obbligo visto che a metà 2009 si poteva testimoniare ancora la presenza di alcuni istituti, ad onor di cronaca fortunatamente pochi, inadempienti o che fornivano comunque la trasmissione e-mens in maniera discontinua. I motivi di queste mancanze sono da attribuire a quella che è una vera e propria piaga del sistema penitenziario italiano: la perseveranza nell'utilizzo di moduli cartacei. Le cosiddette 'schede giornaliere' dei detenuti lavoranti vengono spesso redatte su albi cartacei che devono successivamente essere registrati sul programma in uso all'ufficio che si occupa delle mercedi. Il programma interno di registrazione delle mercedi è, inoltre, differente dai modelli utilizzati dall'Inps. A fronte di una singola attività lavorativa devono essere effettuate quindi una molteplicità di trascrizioni. Una semplificazione al riguardo sarebbe senz'altro auspicabile.

Oltre a ciò hanno sicuramente contribuito al ritardo una pressoché perenne carenza di personale all'interno del corpo di polizia penitenziaria rispetto alla pianta organica delle varie carceri e problemi di natura più propriamente tecnica. Non dobbiamo infatti scordare che, per gli istituti in cui non sempre sono state rispettate le regole di messa a lavoro dei soggetti, quello degli e-mens viene ad essere un controllo diretto e alquanto seccante che rischierebbe di far emergere talune irregolarità (534).

La mancata, saltuaria o erronea trasmissione degli e-mens porta comunque a non pochi problemi di ordine pratico. Il sistema di conteggio della propria posizione contributiva a fini pensionistici viene fatto ormai quasi esclusivamente in base alle nuove modalità di trasmissione. Se la trasmissione non è avvenuta i funzionari Inps, come già accennato, non avranno la possibilità di dare prontamente un prospetto degli anni mancanti alla pensione (535) e dovranno invece rifarsi ad una laboriosa ricerca alternativa dei contributi sui supporti cartacei. Se il soggetto detenuto ha lavorato in più di un istituto di pena, e questi non hanno adempiuto alla trasmissione, ricostruire la sua posizione previdenziale risulterà estremamente difficile.

I molteplici dati contenuti negli e-mens ne fanno inoltre un ottimo strumento di controllo ai fini delle varie prestazioni erogate dall'Istituto di previdenza. Come abbiamo detto su questi modelli vengono riportate informazioni riguardo al reddito e alla contribuzione, informazioni cioè che spesso potrebbero sostituire, ed in parte già lo fanno, una serie di modulistiche riguardanti tutele diverse. I dati relativi all'attività lavorativa potrebbero, ad esempio, costituire un valido sostituto del dl 86/88 bis per la disoccupazione a requisiti ridotti o della dichiarazione annuale richiesta a fronte di una prestazione di invalidità (536). Le tempistiche di erogazione delle singole tutele sarebbero estremamente più rapide poiché, anche in questa fase transitoria, a fronte di un errore di compilazione nello specifico modulo cartaceo di richiesta, il funzionario Inps potrebbe consultare il modello telematico. Con tutta probabilità infine, come abbiamo accennato, un tramite diretto come quello che questo nuovo mezzo può offrire limiterebbe sicuramente anche le problematiche che si vengono a creare a causa dell'attribuzione di codici fiscali diversi a soggetti che vengono trasferiti da un carcere ad un altro o rientrano in istituto dalla libertà. Sarebbe molto facile infatti controllare l'improprio mutamento di codice fiscale nel passaggio tra istituti.

L'importanza degli e-mens deve quindi essere ribadita non solo in un'ottica di futura semplificazione ma riguardo al beneficio che, anche nel momento attuale, ne può derivare. La perseveranza di alcuni istituti di pena nel non usufruirne, complice la mentalità 'cartacea', la carenza di personale da poter utilizzare o la coscienza delle proprie infrazioni, rischia di configurare una vera e propria lesione dei diritti sociali dei soggetti ristretti nonché l'ennesimo evitabile impedimento alla totale equiparazione del sistema previdenziale carcerario a quello esterno.

5. La tutela giurisdizionale del lavoro penitenziario

Come abbiamo visto più volte vi è un'"indispensabile connessione tra riconoscimento dei diritti e possibilità di farli valere innanzi a un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale" (537). Senza una propria azionabilità infatti le statuizioni riguardo alle posizioni attive dei soggetti risultano sterili enunciazioni di diritto. Da questa generale considerazione ovviamente non sono esenti i diritti connessi all'attività lavorativa. Al di là delle difficoltà derivanti dalla specificità del lavoro carcerario rispetto ad un qualsiasi altro rapporto di lavoro subordinato (538), un ulteriore storico problema è stato quello di approntare adatti strumenti di tutela per i detenuti lavoratori. La dottrina e la stessa giurisprudenza sono spesso state discordi tra loro in materia, al punto di ritrovare nei dettati della Corte di cassazione e della Corte costituzionale andamenti di natura totalmente diversa. Possiamo infatti considerare che se la giurisprudenza costituzionale, riguardo alla giustiziabilità dei diritti lavorativi dei soggetti detenuti, è stata in costante evoluzione verso una totale equiparazione di questi con i lavoratori liberi, le tesi della Suprema Corte hanno subito nel corso del tempo una vera e propria involuzione (539). Elemento di valida chiarificazione tra queste due discordanti impostazioni è stata la recente sentenza della Corte costituzionale n. 341 del 2006 che sembra aver posto definitivamente i confini della questione.

L'originaria statuizione dell'art. 69 c. VI lett. a) dell'o.p. stabiliva che il lavoratore detenuto, per la tutela delle questioni inerenti l'attività lavorativa da lui svolta, avrebbe potuto effettuare reclamo al Magistrato di sorveglianza. Quest'ultimo avrebbe quindi deciso sul tema con l'emissione di provvedimenti di natura amministrativa, non impugnabili, nella forma di ordini di servizio. Al di là delle discussioni mai sopite circa il valore vincolante o meno per l'amministrazione penitenziaria di questi atti, il sistema nella sua interezza, così come era delineato, non era una reale garanzia delle posizioni del soggetto, stante l'assenza di ogni carattere di tipo giurisdizionale. Proprio in virtù dell'assenza di garanzie giurisdizionali la Corte costituzionale (540) stabilì che la possibilità di ricorso al giudice dell'esecuzione non avrebbe comunque precluso la possibilità di adire il Pretore in qualità di giudice del lavoro. Al detenuto lavorante si apriva quindi una duplice possibilità di scelta circa il cammino da percorrere nella tutela dei suoi diritti.

Il sistema così strutturato trovò in seguito un elemento di forte modifica nell'art. 21 della legge n. 633 del 10 ottobre 1986 (c.d. legge Gozzini), grazie al quale il procedimento affidato al Magistrato di sorveglianza veniva a garantire meglio le posizioni del detenuto lavoratore. Stabiliva infatti tale previsione che la decisione del magistrato fosse adottata seguendo un procedimento di tipo giurisdizionale (e non più de plano) che avrebbe portato all'emissione di un ordinanza impugnabile per cassazione invece che ad un ordine di servizio. In questo modo la statuizione veniva ad avere "natura di sentenza, e, cioè, di decisione resa nel corso di un giudizio contenzioso, con effetti su diritti soggettivi" (541). Si cambiava così totalmente orientamento rispetto alle pronunce della Corte costituzionale, che si basavano sul doppio binario di tutela, e si stabiliva l'esclusività del procedimento di reclamo al giudice dell'esecuzione per le materie previste dall'art. 69 c. V lett. a) o.p. (542). La nuova competenza, secondo molti autori, avrebbe avuto efficacia tanto nei confronti dei lavoratori alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria che di quelli alle dipendenze di terzi (543). Questa soluzione sembrava quindi fornire nuova verve al "carattere di giudice naturale tendenzialmente universale della magistratura di sorveglianza per quanto riguarda i diritti del detenuto coinvolti nel corso e a causa o in occasione del trattamento penitenziario" (544). Si era creato un sistema nel quale, grazie al principio del tempus regit actum, le controversie sorte prima dell'ottobre 1986 (prima cioè della legge Gozzini) potevano essere di competenza del giudice del lavoro, mentre quelle instauratesi da tale data in poi, anche qualora riguardassero rapporti di lavoro alle dipendenze di terzi, dovevano essere necessariamente di competenza del Magistrato di sorveglianza.

Secondo la sentenza n. 490 del 1999 della Cassazione la diversità strutturale che intercorre tra i due giudici non poteva essere di ostacolo all'utilizzo del giudice dell'esecuzione in via esclusiva poiché, a dire della Corte, adesso entrambi i modelli sarebbero caratterizzati dalla loro natura giurisdizionale. Questo carattere sarebbe determinato soprattutto, nella competenza del Magistrato di sorveglianza, dalla garanzia di poter fruire di un contraddittorio ed impugnare, anche se solo per cassazione, il provvedimento di decisione (art. 69 e art. 14 ter o.p.). In verità questa soluzione, per quanto ripetutamente sostenuta dalla Cassazione (545), non convinse mai in maniera profonda quella dottrina che continuava a riscontrare in molti aspetti di questo procedimento delle carenze di giurisdizionalità.

Tra gli elementi che fecero dubitare della bontà della riforma del 1986 le modalità di giudizio stabilite dall'art. 14 ter o.p., che comportavano l'utilizzo di un procedimento in camera di consiglio nel quale la garanzia del contraddittorio veniva realizzata in maniera cartolare (attraverso la presenza del difensore del reclamante, del pubblico ministero e la possibilità per l'interessato e l'amministrazione penitenziaria di presentare solamente memorie scritte). Vi erano inoltre altri aspetti che garantivano al lavoro del detenuto minori tutele di quello libero e del relativo processo del lavoro. Facevano sicuramente parte di questi l'assenza di pubblicità del processo, di un doppio grado di giudizio di merito (era possibile solo il ricorso per cassazione avverso l'ordinanza) e della provvisoria esecutorietà della sentenza che invece è garantita ai giudizi del lavoro. Qualora, inoltre, la controversia si fosse instaurata tra un detenuto lavoratore e un datore di lavoro terzo (anziché l'amministrazione penitenziaria) quest'ultimo, non essendo compreso neppure nel novero dei soggetti autorizzati a presentare memorie, sarebbe stato del tutto estromesso dal giudizio, vedendo così completamente leso il suo diritto di difesa e il principio del contraddittorio (546).

Sostanzialmente si veniva a creare con questo sistema una vera e propria contraddizione dal momento che la Corte di Cassazione, pur continuando ad affermare la necessità di equiparazione del lavoro dei detenuti a quello libero, ne ammetteva una sostanziale differenziazione dei procedimenti di tutela. Stabilire inoltre che anche il detenuto lavorante alle dipendenze di datori terzi dovesse adire, per le proprie controversie lavorative, il Magistrato di sorveglianza contrastava con la necessaria scissione, più volte auspicata dalla giurisprudenza, tra il rapporto lavorativo (specie alle dipendenze di terzi) e quello punitivo.

Secondo alcuni autori (547) la tutela del lavoro carcerario, come delineata dalla legge Gozzini, non contrastava solo con i valori stabiliti dall'ordinamento interno ma configurava una vera e propria violazione dell'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo del 1952, ratificata dall'Italia con legge n. 848 del 4 agosto 1955, che sancisce il diritto di ogni persona a che la sua causa sia esaminata imparzialmente e pubblicamente (548).

La Corte di cassazione a fronte di queste posizioni non mancò di ribadire la totale coerenza del procedimento instaurato ex art. 69 c. VI o.p. con i principi di imparzialità, di buon processo e di diritto alla difesa (art. 3, 111, 24 Cost.) che connotano normalmente le altre attività processuali. Nel fare ciò non venne però risparmiato il richiamo all'ormai desueta, o almeno la si pensava tale fino a quel momento, 'peculiarità' del rapporto di lavoro carcerario (549). Proprio in questo poteva essere ravvisata una vera e propria involuzione del progressivo andamento della Cassazione, nel vedere cioè la questione del lavoro carcerario come ben lungi dall'avere assunto una totale assimilazione rispetto al lavoro libero, ed aver perciò bisogno, data la sua compromissione con l'elemento punitivo, di un apposito sistema di giudizio (550).

Ovviamente neppure tali giustificazioni persuasero la magistratura di sorveglianza che spesso, nel giudicare circa le controversie intervenute tra il lavoratore detenuto e l'amministrazione penitenziaria, si dichiarò incompetente per materia, rimettendo i relativi atti al Tribunale civile in funzione di giudice del lavoro (551).

Nello stesso senso sembrò inoltre andare anche la magistratura civile. La Corte di appello di Roma, infatti, il 24 giugno 2004 con sentenza per la causa civile n. 5215/2002 R.G. stabiliva, contraddicendo parzialmente l'impostazione della Cassazione, che "La competenza a conoscere delle controversie tra detenuto prestatore di lavoro e il suo datore di lavoro, spetta al giudice del lavoro, quanto meno in assenza della scelta da parte del lavoratore detenuto della procedura del reclamo" (552).

Vista la discordanza delle posizioni assunte da dottrina e giurisprudenza si auspicava quindi un intervento chiarificatore della Corte costituzionale, intervento che è arrivato nel 2006 con la sentenza n. 341. A seguito della questione di legittimità sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Pisa (553) il Giudice delle leggi ha ritenuto che la posizione della Corte Suprema fosse in aperto contrasto con le precedenti pronunce, anche di carattere costituzionale, che vedevano una definitiva equiparazione del lavoro penitenziario a quello libero (554). Da tale contrasto discendeva, inoltre, la mancanza del rispetto di tutte quelle statuizioni che riconoscevano allo stato di restrizione della libertà personale la capacità di limitare i vari diritti del soggetto senza, però, poterli annullare del tutto. Tra questi diritti ovviamente quelli che scaturiscono da un'attività lavorativa, tanto alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria che alle dipendenze di terzi, e quelli connessi alle relative garanzie processuali. La stessa sentenza 341 infatti, nel richiamare la n. 26 del 1999, sostiene:

"Posta la indispensabile connessione tra riconoscimento dei diritti e possibilità di farli valere innanzi a un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale, deve essere sempre assicurato il rispetto delle 'garanzie procedimentali minime costituzionalmente dovute, quali la possibilità del contraddittorio, la stabilità della decisione e l'impugnabilità con ricorso per cassazione' (sentenza n. 26 del 1999)".

Tale garanzia non sembra però affatto trovare esaustivo riscontro nel procedimento per reclamo davanti al Magistrato di sorveglianza. Si deve infatti valutare, sempre in base a tale decisione (la n. 341), la problematicità, per quanto riguarda il lavoro penitenziario, di almeno tre aspetti.

Il primo deriva dalla "necessaria tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dai rapporti di lavoro instauratisi nell'ambito dell'organizzazione penitenziaria", non dimenticando come questi non riguardino solo le posizioni sorte in capo al lavoratore ma, anche, quelle derivate al datore di lavoro. Proprio quest'ultimo infatti rischia di essere una parte largamente danneggiata, come abbiamo già visto, dalla puntuale applicazione del procedimento per reclamo. Tutte queste posizioni invece non dovrebbero "subire indirettamente menomazioni della propria sfera giuridica per il solo fatto di aver stipulato contratti con persone sottoposte a restrizione della libertà personale".

Il secondo problema nasce dalla circostanza che i diritti dei soggetti detenuti, e quindi anche dei lavoratori-detenuti, possano trovare dei limiti nei dettati del legislatore. Tali limiti non devono però avere natura del tutto illogica e discrezionale quanto, piuttosto, portare ad una situazione in cui "i diritti dei detenuti devono trovare un ragionevole bilanciamento nel diritto della collettività alla corretta esecuzione delle sanzioni penali".

Infine il terzo problema, conseguente ai primi due, deriva dall'"illegittimità di ogni 'irrazionale ingiustificata discriminazione', con riguardo ai diritti inerenti alle prestazioni lavorative, tra i detenuti e gli altri cittadini".

Dati questi presupposti si comprende come fosse difficilmente approvabile il nuovo sistema introdotto dalla legge del 1986. La Corte costituzionale riteneva infatti che le limitazioni imposte alla tutela dei diritti dei soggetti detenuti dal binomio art. 69 c. VI- art. 14 ter o.p. fossero del tutto irragionevoli, "anche per l'assenza di esigenze specifiche di limitazioni legate alla corretta esecuzione della pena". Anche se la Costituzione non impone infatti l'adozione di uno specifico 'modello vincolante di processo' è necessario che quello che si decide di scegliere rispetti la garanzia del un nucleo minimo di contraddittorio e di difesa, così come stabilita dal dettato costituzionale stesso. Con l'adozione del modello di reclamo ex art. 69 c. VI lett. a) si avrebbe una definitiva violazione degli artt. 24 c. II, 111 c. II e 3 c. I Cost. Per questi motivi con la sentenza n. 341 il Giudice delle leggi decideva di dichiarare l'incostituzionalità di questo articolo e rimettere la competenza delle controversie in materia al giudice ordinario, con rito del lavoro ex art. 409 c.p.c.

La svolta imposta da questa pronuncia viene ad avere, quindi, una portata per niente inferiore a quella del 1986. Possiamo considerare come la nuova impostazione rappresenti un passo in avanti, o almeno un ritorno ad una strada già intrapresa e poi abbandonata, nella direzione di una totale equiparabilità del lavoro penitenziario a quello libero. Molte problematiche però non sono state ancora risolte, specie con riguardo al lavoro alle dipendenze dell'A.P. (555). Naturalmente secondo quella parte della dottrina che riteneva il Magistrato di sorveglianza competente solo per il lavoro alle dipendenze dell'A.P. la portata innovativa della sentenza n. 341 concerne solo quest'ultima tipologia di lavoro penitenziario (quello 'domestico') (556). Si deve infine notare che, riguardo alle materie di cui all'art. 69 c. VI lett. a) (attribuzione della qualifica lavorativa, mercede e remunerazione, svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro, assicurazioni sociali), in capo al Magistrato di sorveglianza sarebbe rimasta la funzione di supervisione attribuitagli dal c. I dello stesso articolo (557).

La tutela del lavoro penitenziario è quindi oggi garantita dal connubio tra il potere di supervisione del Magistrato di sorveglianza da una parte e la competenza giurisdizionale del Giudice del lavoro dall'altra.

Note

1. Corte cost. sent. n. 349 del 28 luglio 1993, in "Giur. cost.", 1993, p. 2740. La pronuncia continuava poi: "Da ciò consegue che l'adozione di eventuali provvedimenti suscettibili di introdurre ulteriori restrizioni in tale ambito, o che, comunque, comportino una sostanziale modificazione nel grado di privazione della libertà personale, può avvenire soltanto con le garanzie (riserva di legge e riserva di giurisdizione) espressamente previste dall'art. 13, secondo comma, della Costituzione".

2. Sulla continuità tra sistema penitenziario liberale e fascista si veda anche D. Valia, I diritti del recluso tra legge 354/1975, Costituzione e dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, in "Rassegna penitenziaria e criminologica", 1999, II-III, p. 1.

3. Basti pensare alla disposizione che imponeva di chiamare i detenuti col loro numero di matricola. Tale disposizione è stata uno dei primi indici di mutamento del sistema carcerario nel momento in cui si è passati all'utilizzo del nome e cognome.

4. G. Neppi Modona, Ordinamento penitenziario, in "Dig. disc. pen.", IX, Torino, 1995.

5. Si creava in questo modo un sistema di adesione coatta alle ideologie dell'ordinamento penitenziario e ai suoi scopi, anche per mezzo della violenza fisica e del sopruso.

6. Da ora in avanti anche 'o.p.'.

7. Si noti come l'elemento più stridente derivante dalla forzosa convivenza del testo costituzionale con il regolamento del 1931 discendeva dall'art. 13 Cost. e dalla riserva di legge posta a tutela della libertà personale della persona. In base a tale previsione l'ordinamento penitenziario del 1931 non avrebbe potuto apportare a tale libertà limitazioni che non fossero già espressamente previste dalla legge penale, in quanto non era atto avente forma di legge e perciò non rispondente alla riserva.

8. Circ. Min. 1º agosto 1951 n. 4041/2473 in Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, Roma, 1970, pp. 174 ss. In verità le innovazioni apportate da questa normativa interna furono prontamente limitate da una successiva circolare, quella del 24 febbraio 1954, la quale, quasi a scanso di equivoci, precisò che la pena doveva arrecare sofferenze per le limitazioni che apportava "alla libertà di soddisfare come l'uomo libero le varie esigenze di ordine materiale e spirituale".

9. È il caso qui di citare un elemento portante della questione: come infatti è stato più di una volta considerato "La secolare ossessione dell'istituzione penitenziaria è stata ed è quella di vedersi distruggere dall'affermazione del diritto" (In tal senso P. Caponetti, La tutela del lavoro Penitenziario, in "Riv. Giur. Lav.", 2004, parte I, p. 125 ss. riportando quanto espresso anche da F. Maisto, Le leggi che regolano il lavoro dei detenuti, in A. Campus-L. Roselli (a cura di), Carcere e lavoro, Milano, 1996, pp. 93 e ss. e da M. Vitali, Il lavoro penitenziario, Giuffrè, Milano, 2001).

10. Quali ad esempio la Convenzione europea per i diritti dell'uomo o le Regole penitenziarie europee recentemente riviste, delle quali parleremo più avanti.

11. Senza voler citare il regolamento di esecuzione che, essendo stato riformulato nell'anno 2000 (d.p.r. n. 230), risulta essere un vero e proprio strumento di interpretazione in chiave moderna delle previsioni, talvolta troppo generiche, stabilite nell'ordinamento penitenziario del 1975.

12. Non è un caso infatti che l'attuale ordinamento penitenziario sia stato approvato con legge ordinaria, a differenza di quanto era accaduto con quello del 1931. In questo modo tale testo risponde alle esigenze imposte dalla riserva di legge di cui all'art. 13 c. II Cost. Vale la pena ricordare come le norme sui diritti dei detenuti all'interno dell'ordinamento penitenziario siano raccolte principalmente nel Titolo I rubricato "Trattamento penitenziario", artt. 1-58.

13. Regolamento recante "Norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà", approvato con d.p.r. 30 giugno 2000 n. 230, da ora in avanti 'reg. esec.'.

14. A. Pennisi, Diritti del detenuto e tutela giurisdizionale, Giappichelli, Torino, 2002, p. 5.

15. Viene richiamata in questa parte l'importantissima pronuncia della Corte cost. n. 26 del 1999 nella quale veniva appunto sostenuto: "L'idea secondo la quale la restrizione della libertà personale comporta come conseguenza il disconoscimento delle posizioni soggettive, attraverso un generalizzato assoggettamento all'organizzazione penitenziaria, è estranea al vigente ordinamento costituzionale atteso che questo è basato sul primato della persona umana e dei suoi diritti".

16. Come prontamente riconosciuto da G. Galli, La politica criminale in Italia negli anni 1974-1977, Cortina, Milano, 1988, p. 128: non solo l'art. 27 c. III, ma la stessa scelta di approvare l'ordinamento penitenziario con legge ordinaria è suscettibile di creare altri diritti (dipendenti logicamente dalla previsione del 27 c. III Cost.) in capo al soggetto detenuto, in virtù di questo suo status.

17. A. Pennisi, op. cit., p. 7.

18. In tal senso V. Grevi, Commento all'art. 1 o.p., in Franco della Casa (a cura di), Ordinamento penitenziario, Cedam, Padova, 2006, p. 6 che distingue comunque fra il contenuto del diritto al trattamento offerto a condannati/internati e quello offerto agli imputati. Al riguardo cfr Cass. sent. 24 marzo 1982, in "Rass. Pen. crim.", 1983, p. 872 e Cass., sez. I, sent. 29 marzo 1985, in "Cass. pen.", 1986, pp. 1178 ss.

19. Così A. Pennisi, op. cit. p. 8, si vedano al riguardo artt. 30 ss. o.p. su permessi, artt. 47 ss. su misure alternative alla detenzione, art. 53 per le licenze agli internati, art. 54 per la concessione della liberazione anticipata. Rientra inoltre tra i diritti garantiti al soggetto recluso quello di impugnare i provvedimenti riguardo agli istituti finora elencati davanti al magistrato o al tribunale di sorveglianza (secondo competenza) (art. 35 o.p.). Discutibile è se quest'ultimo tipo di diritto rientri in maniera specifica tra i diritti conferiti al soggetto in qualità di detenuto oppure riguardi un più ampio diritto alla giurisdizione che apparterrebbe a questi soggetti in qualità non di detenuti ma di generiche persone. In quest'ultimo senso la dottrina e la giurisprudenza, come vedremo nel par. 5 hanno espresso più volte dubbi sulla legittimità dei procedimenti delineati dal connubio degli artt. 69 e 14-ter o.p. data l'assenza di caratteri e di garanzie propriamente giurisdizionali all'interno della loro struttura.

20. La previsione dell'art. 1 c. III o.p., la quale sostiene che le restrizioni applicabili nei confronti dei condannati devono essere solo quelle derivabili da esigenze di ordine e disciplina, può essere infatti intesa, al pari della previsione esplicita di cui al c. I, come posta a difesa del principio di umanità della pena.

21. Riguardo alla differenza di finalità del trattamento penitenziario a seconda che il destinatario sia un imputato o un condannato si veda anche art. 1 d.p.r. n. 230 del 2000.

22. Si noti ad esempio come il lavoro, essendo considerato uno degli elementi del trattamento penitenziario, risulta essere, come vedremo nell'apposito paragrafo, obbligatorio per detenuti e internati ma facoltativo e su richiesta per gli imputati. Ribadisce infatti l'art. 1 del regolamento di esecuzione (d.p.r. n. 230/2000) che il trattamento per gli imputati sottoposti a misura di sicurezza "[...] consiste nell'offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali", mentre per condannati ed internati "[...] è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale". Oltre che rispetto ai diritti spettanti ai soggetti detenuti uti captivus distinzioni tra le posizioni di condannati/internati e imputati si riscontrano anche sui diritti loro spettanti uti civis, con particolare riguardo al diritto di cui all'art. 13 Cost.

23. Regole poi revisionate nel febbraio 1987 sotto il titolo di "Regole penitenziarie europee" ed infine ripresentate in veste aggiornata nel 2006 con la raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa n. 2. Come si può nuovamente notare i valori richiamati dalla Carta costituzionale, dall'ordinamento penitenziario e dalle previsioni di carattere internazionale, quali ad esempio le Regole minime, vengono spesso a coincidere.

24. Lo stato detentivo, pur ponendo limiti a questi diritti, non può annullarli del tutto. Questi infatti corrispondono a "situazioni soggettive che appartengono al soggetto in qualità di cittadino e che egli conserva in quanto non siano oggettivamente incompatibili con lo stato di detenzione" (A. Pennisi, op. cit., p. 7). Indicativo è che l'autore ponga a base di questa tipologia di diritti le previsioni costituzionali dell'art. 2, 3 e 13.

25. Come infatti viene precisato anche da Pennisi, op. cit., p. 7 la necessità di tutela delle esigenze processuali, indispensabile per gli imputati, fa sì che vi sia una competenza dell'autorità procedente anziché della magistratura di sorveglianza rispetto a materie quali i permessi di colloquio fino alla pronuncia di sentenza di primo grado (art. 18 o.p.), o dell'autorizzazione al lavoro all'esterno (art. 21 c. II o.p.). Si tratta quindi di ulteriori limiti che il diritto uti civis, varcando le mura del carcere, si trova ad affrontare.

26. In tal senso G. Grevi, op. cit., p. 19. Si pensi al riguardo alla differenziazione effettuata dal c. III dell'art. 1 o.p. il quale stabilisce: "Negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari".

27. A. Pennisi, op. cit., p. 9.

28. Lo stesso V. Grevi, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario a cinque anni dalla riforma, in V. Grevi (a cura di), Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, in "Giustizia penale oggi", Bologna, 1981, come vedremo più avanti, non effettua alcuna ripartizione in tal senso, ben conscio della commistione della quale abbiamo parlato. Al di là dell'utilità schematica della ripartizione è infatti ovvio che, essendo il trattamento un percorso di reinserimento all'interno della società, questo non possa non essere informato, almeno in linea di principio, ai valori regolano quest'ultima.

29. Si pensi ad esempio alla previsione dell'art. 20 c. V riguardo al lavoro, che sappiamo essere uno degli elementi fondamentali del trattamento, la quale stabilisce: "L'organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro della società libera".

30. Si pensi, sempre con riguardo all'attività lavorativa, alla sua natura bicipite che porta contemporaneamente all'applicazione in capo al lavoratore detenuto di talune norme della disciplina comune e tal altre della disciplina carceraria (quale ad esempio la non applicazione dei minimi tariffari stabiliti dai CCNL).

31. In tal senso G. La Greca, Commento all'art. 4 o.p., in Franco della Casa (a cura di), Ordinamento penitenziario, Cedam, Padova, 2006, p. 42.

32. Abbiamo visto infatti come l'ordinamento penitenziario preveda norme tanto al riguardo del primo che del secondo tipo di diritti.

33. Potrebbe essere più adatto parlare di diritti connessi alla cittadinanza per alcuni aspetti dei diritti sociali quali ad esempio alcune prestazioni di carattere socio sanitario (si pensi ad esempio alle prestazioni di natura assistenziale di cui abbiamo parlato nel cap. I). La distinzione comunque anche in questi casi vede dividere i soggetti in cittadini, titolari di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, titolari di permesso di soggiorno, soggiornanti privi di titolo. La distinzione tra cittadini e non cittadini, se intesa in senso tecnico, risulterebbe quindi errata anche sotto questo aspetto.

34. Si pensi ad esempio, come vedremo in seguito, alla presa in carico del soggetto irregolare detenuto da parte del Ssn, presa in carico che non sarebbe avvenuta se lo stesso soggetto si fosse trovato in stato di libertà. La stessa cosa vale anche per la possibilità di dare copertura assicurativa e previdenziale ai soggetti non regolari che lavorano all'interno del carcere. La Circ. Dap 547671/10 del 12 aprile 1999 stabilisce riguardo a quest'ultima ipotesi che la richiesta di codice fiscale all'Agenzia delle entrate per effettuare la messa al lavoro di un detenuto non può e non deve essere subordinata alla presenza di un regolare permesso di soggiorno, in quanto la detenzione costituisce già di per sé una condizione di soggiorno obbligatorio. Rimangono ovviamente anche una serie di tutele sulle quali lo stato di detenzione non incide, si pensi ad esempio alle prestazioni di natura assistenziale come l'invalidità civile o l'assegno sociale, che richiedono come requisito l'effettiva presenza di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo.

35. Sulle gravi conseguenze di questa situazione ritorneremo abbondantemente nel corso della trattazione delle singole tutele e nel par. 1.1.8. Vedremo più avanti inoltre come la commissione di certi reati sia capace di privare del permesso di soggiorno anche i soggetti che ne erano titolari.

36. In alternativa sarebbe invece stato possibile lasciare questi diritti tra gli uti civis spiegando però con riguardo a quali diritti questa civitas poteva derivare anche dallo stato di detenzione.

37. Si tratta dei già citati: V. Grevi, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario a cinque anni dalla riforma, cit. e M. Canepa S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, Milano, 2004.

38. In verità bisogna riconoscere come V. Grevi, Ordinamento penitenziario, cit. nel commento all'art. 1 o.p. concluda la sua trattazione con uno spiraglio di apertura verso l'impostazione pennisiana sostenendo che "l'attività di trattamento prevista nei loro confronti presuppone la precostituzione di un quadro normativo di garanzia dei diritti fondamentali agli stessi riconosciuti come persone umane, quindi indipendentemente dalla logica della rieducazione". Viene riconosciuta cioè la compresenza di diritti provenienti dall'esterno con istanze proprie della condizione detentiva. Come vedremo a breve però per Grevi le due più che essere nettamente distinte si compenetrano tra di loro, al punto che la rieducazione del soggetto richiede la necessaria presenza dei diritti uti persona.

39. V. Grevi, op. ult. cit., p. 21.

40. O meglio esplicita, nella schematizzazione generale, questa distinzione in maniera più chiara di quanto non avesse fatto Pennisi.

41. V. Grevi, op. ult. cit., p. 21. L'autore ritiene appartenere ai detenuti in quanto tali previsioni del tipo di quella enunciata dall'art. 4 o.p, mentre riguarderebbero solo i condannati i diritti riguardanti il lavoro penitenziario, i rapporti con la famiglia e l'ambiente esterno, le misure alternative come strumenti di risocializzazione.

42. L'autore si lamenta al riguardo di come il legislatore abbia dettato poche norme circa la differenziazione di queste due categorie di soggetti, porgendo il fianco al pericolo che le due posizioni si venissero col tempo ad uniformare, ledendo la posizione degl'imputati.

43. Si pensi ad esempio che il detenuto, come vedremo, qualora lavori alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria non ha diritto alla retribuzione ma bensì alla mercede (computata sui 2/3 dei CCNL).

44. In tal senso M. Canepa, S. Merlo, op. cit., p. 132. La stessa ripartizione era stata ripresa anche da D. Valia, op. cit., p. 28 e da G. La Greca, Commento all'art. 4 o.p., cit., p. 42.

45. Ciò indipendentemente da alcune discussioni dottrinali circa la possibilità di configurare l'ambiente carcerario come una delle 'formazioni sociali' previste da questo articolo (in tal senso G. Neppi Modona, Formazione sociale carceraria e democrazia partecipativa, in "Pol. Dir.", 1976, p. 173).

46. Si veda al riguardo art. 5 Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, art. 3 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950, art. 10 c. I Patto internazionale sui diritti civili e politici, art. I delle Regole penitenziarie europee (Raccomandazione r(2006)2).

47. Tale ultimo articolo viene quindi ad avere un doppio valore all'interno della ripartizione di Pennisi: da una parte informa il trattamento e i diritti che ne derivano ai valori propri della costituzione, dall'altro rende l'ambito carcerario adatto a recepire quei diritti esterni che assicurano la dignità e l'umanità della persona.

48. Corte cost., sent. n. 11 del 3 luglio 1956, in "Giur. cost." 1956, p. 612. Rientrerebbero tra questi diritti oltre a quelli esplicitamente previsti dalla Costituzione come tali (libertà personale, di domicilio, di comunicazione, di difesa) i diritti alla libera manifestazione del pensiero, alla libertà di associazione e alla libertà religiosa, alla famiglia, alla salute, ad un'equa retribuzione, al riposo, alla libertà sindacale, alla libertà di insegnamento, allo studio, ecc. La Corte Costituzionale ha infatti interpretato l'art. 2 come catalogo aperto capace di recepire sempre nuovi diritti (Corte cost. Sent. n. 561 del 18 dicembre 1987, in "Giur. cost.", 1987, I, p. 3535. Di parere contrario invece chi, come P. Barile, Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, Padova, 1991, p. 585, ritiene una scelta in tal senso errata dal momento che conferirebbe ad ogni diritto, grazie alla copertura dell'art. 2, valore di inviolabilità.

49. Così P. Barile, op. cit., p. 583.

50. Proprio la comunanza di valori all'interno delle previsioni dell'art. 2 e dell'art. 27, entrambi capostipiti, secondo Pennisi, dei rispettivi diritti uti civis e uti captivus, avrebbe portato ad un allentamento della bipartizione nelle teorie di Grevi e all'affermazione di una visuale che valuta i diritti fondamentali come funzionali al trattamento rieducativo. Al riguardo basti pensare che il valore principale tra i diritti inviolabili dell'uomo, il diritto alla vita, lo si riscontra proprio nell'art. 27 che statuisce: "Non è ammessa la pena di morte".

51. È errato, ed altamente rischioso in tema di garanzie e tutele, pensare all'ordinamento penitenziario come un complesso di regole totalmente scisso ed indipendente dall'ordinamento generale. In questo caso il soggetto recluso non potrebbe fruire delle garanzie fondamentali fornitegli dall'ordinamento generale, prima fra tutte quella dell'art. 2. Deve invece intendersi l'ordinamento penitenziario come una speciale disciplina, comunque parte dell'ordinamento normativo statale ed in quanto tale "in necessario rapporto di compatibilità se non di prosecuzione e svolgimento con la Costituzione" (M. Ruotolo, Diritti dei detenuti e Costituzione, Giappichelli, Torino, 2002, p. 12).

52. Si pensi ad esempio al dettato dell'art. 1 c. II o.p. che sancisce l'assoluta imparzialità e l'assenza di discriminazioni nel trattamento. Si vedano inoltre le previsioni dell'art. 3 (parità di condizioni di vita all'interno dell'istituto) e dell'art. 32 c. III o.p.

53. Le persone che operano all'interno degli istituti sono spesso testimoni di come, purtroppo, queste si riducano a delle mere affermazioni di principio e di come, a fronte di un sistema ipoteticamente improntato al rispetto dell'uguaglianza e dei diritti fondamentali, le violazioni nell'uno e nell'altro senso siano molteplici. La concezione della realtà carceraria come mondo a parte, elemento extraterritoriale all'interno dello Stato, è ancora spesso presente negli stessi operatori carcerari. Lo stesso Grevi, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario a cinque anni dalla riforma, cit., p. 9, sottolinea come per vedere le reazioni del sistema dei diritti all'interno della realtà penitenziaria non si possa effettuare una verifica in astratto dato lo scarto esistente tra l'enunciazione normativa di determinati diritti e la loro concreta fruibilità.

54. F. Modugno, I nuovi diritti nella giurisprudenza costituzionale, Giappichelli, Torino, 1995, p. 12.

55. Si pensi al riguardo alla citazione con la quale abbiamo aperto il paragrafo: "Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte delle sue libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l'ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale" (Sent. Corte cost. 349/1993).

56. Corte cost., sentenza n. 561 del 18 dicembre 1987. Riguardo ai limiti e alle forme imposte alle limitazioni della libertà personale si veda la riserva di legge e di giurisdizione imposta dall'art. 13.

57. Tale riserva costituirebbe un baluardo contro gli arbitrii del potere esecutivo. Il fatto poi che questa parli dei "soli casi previsti dalla legge" rimanderebbe al concetto di tassatività delle limitazioni possibili, con impossibilità al riguardo di ogni tipo di interpretazione estensiva. Vero è però che spesso il rinvio da parte dell'ordinamento penitenziario al regolamento di esecuzione (d.p.r. n. 230 del 2000) per quanto riguarda provvedimenti limitativi della libertà della persona, sembra non garantire questo principio (si pensi ad esempio all'art. 38 o.p che rimanda la determinazione di cosa debba considerarsi infrazione disciplinare, e quindi comportare determinate limitazioni, al regolamento). Sembra inoltre non garantirlo la natura generica di alcune disposizioni che violerebbero così il principio di tassatività (si pensi ad esempio all'art. 14-bis che permette di sottoporre a regime di sorveglianza particolare "coloro che con i loro comportamenti compromettono la sicurezza ovvero turbano l'ordine negli istituti"). Sull'innovazione apportata con l'approvazione dell'ordinamento penitenziario del 1975 tramite legge ordinaria si veda comunque anche V. Grevi, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario a cinque anni dalla riforma, cit., p. 6.

58. In questo campo, quello dell'accesso alle misure alternative alla detenzione e agli altri benefici penitenziari, il principio di legalità (e quello connesso di tassatività) deve essere comunque contemperato con le finalità di tipo rieducativo previste dall'art. 27 Cost.

59. Sulla problematica della tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti torneremo, con particolare riguardo alla tutela del lavoro carcerario, nel par. 5.

60. Si sta anche in questo caso parlando di tutte le tipologie di diritti spettanti ai detenuti, non solo di quelli generalmente definiti uti civis.

61. In tal senso A. Pennisi, op. cit., p. 232. Si noti come anche in questo caso le due tipologie di diritti trattate dall'autore vengano a trovare un altro elemento che le accomuna: la problematica della giurisdizione. Si prospetta quindi sempre più corretta la commistione tra le due adottata da V. Grevi.

62. Ricordiamo come al detenuto siano offerti i seguenti rimedi giurisdizionali per far valere i propri diritti: A) il procedimento "giurisdizionale" per reclamo (art. 14-ter o.p.); B) il procedimento de plano (senza formalità di rito); C) il procedimento di sorveglianza ex art. 678 c.p.p. Le maggiori perplessità dottrinali in materia hanno riguardato la possibilità di decidere con procedimenti de plano, privi cioè di ogni carattere di giurisdizionalità comunemente inteso, i reclami generici ex art. 35 o.p. qualora questi riguardino atti dell'amministrazione penitenziaria ritenuti lesivi dei diritti delle persone ristrette (così M. Ruotolo, op. cit., p. 190). Al riguardo con sentenza n. 26 del 1999 la Corte cost. ha dichiarato l'incostituzionalità per omissione dovuta alla mancanza di forme di tutela giurisdizionale negli art. 35 e 69 o.p. La Corte, pur non indicando rimedio, ha invitato il legislatore ad intervenire. Si veda anche sentenza n. 526 del 2000 riguardo alla possibilità di eseguire perquisizioni sui soggetti detenuti indipendentemente da ogni controllo di tipo giurisdizionale (anche a posteriori). In questo caso la Corte ha respinto le motivazioni di incostituzionalità adducendo che le perquisizioni sarebbero ricomprese all'interno dell'ordinario trattamento penitenziario (in base alla previsione dell'art. 34 o.p.) e quindi farebbero già parte delle restrizioni della libertà implicate da quest'ultimo e non vi sarebbe ulteriore necessità di autorizzazione/controllo da parte del magistrato in quanto non sarebbero "nuovi ed autonomi atti di restrizione della libertà personale". Solo per citare quali sarebbero i valori di giurisdizionalità cui procedimenti di tale tipo non risponderebbero: art. 24, 25, 101, 102, 111 Cost., competenza attribuita sulla base di regole predeterminate ad un giudice ordinario che sia terzo ed imparziale, garanzia del diritto di difesa in ogni stato e grado del processo e del contraddittorio, obbligo di motivazione del provvedimento, coattività della decisione, facoltà di ricorso in cassazione contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale.

63. Lo stesso V. Grevi, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario a cinque anni dalla riforma, cit., mostra più di una volta la sua paura a che le ottimistiche statuizioni nascenti dal connubio Costituzione-ordinamento penitenziario circa i diritti delle persone recluse rimangano delle mere enunciazioni di principio. Sul tema della giurisdizione dei diritti dei detenuti torneremo nel par. 5 riguardante la tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti lavoratori.

64. Il diritto alla libertà sessuale pur non essendo esplicitamente abolito, per esigenze proprie della vita carceraria, lo è nei fatti (in tal senso G. Neppi Modona, Ordinamento penitenziario, cit., p. 50) e viene spesso ristretto all'interno dei brevi spazi concessi dai permessi premio introdotti dalla legge n. 663 del 1986 (art. 30-ter o.p.). Le stesse previsioni di natura internazionale sull'argomento sono alquanto blande. Il Parlamento europeo in una raccomandazione inviata al Consiglio d'Europa (9 marzo 2005) prima dell'approvazione dell'ultima versione delle Regole penitenziarie europee aveva esplicitamente richiesto che queste regolassero la libertà sessuale. Purtroppo nel nuovo testo (R (2006)2) non c'è ancora traccia di una normativa sull'argomento.

65. Come osserva giustamente Ruotolo, op. cit., p. 52 sono molteplici le ragioni che negano al soggetto recluso il diritto alla propria privacy: dalle ragioni di sicurezza dell'istituto che permettano di effettuare perquisizioni personali e nelle celle, a ragioni di tipo strutturale, spesso connesse al sovraffollamento, che lasciano pochi metri quadri a testa all'interno di una cella (spesso una cella di 9 mq è abitata da 3-4 persone) ed offrono servizi igienici e docce in comune.

66. La stessa Corte cost. nella sent. n. 366 del 1991, in "Giur. cost.", 1991, p. 2917 rilevava infatti come il diritto della persona alla libertà e alla segretezza della corrispondenza faccia parte dei valori costituzionali supremi, in quanto rientra nel "nucleo essenziale di valori di personalità - che inducono a qualificarlo come parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana".

67. Si noti come siano stati omessi il diritto all'istruzione (art. 34 Cost.) e il diritto al lavoro (art. 35 Cost.) poiché di questi, pur essendo elementi formativi della personalità del soggetto, parleremo più avanti, dopo aver parlato del diritto alla rieducazione del detenuto.

68. Si ribadisce anche in questo caso, come faremo spesso nel corso di questa analisi, l'inscindibilità e l'assenza di una netta linea di demarcazione, già considerata da Grevi, tra i diritti spettanti ai detenuti in quanto tali (uti captivus) e quelli loro spettanti in quanto persone o cittadini (uti persona e uti civis).

69. Basti pensare ai controlli di cui all'art. 18 o.p.

70. Sul tema M. Ruotolo, op. cit., pp. 75 ss.

71. In base all'art. 37 reg. esec. i detenuti e gli internati possono fruire di sei colloqui al mese della durata di un'ora ciascuno, per i soggetti invece condannati per i delitti di cui al c. I dell'art. 4 bis il numero dei colloqui è ridotto a 4 al mese. In caso di eccezionali circostanze il colloquio può essere prolungato da una a due ore (art. 37 c. X). Durante il colloquio il detenuto e i familiari, pur non potendo essere sottoposti a controllo uditivo da parte del personale di sorveglianza sono comunque sottoposti a controllo visivo e la possibilità di contatti fisici è realmente limitata.

72. Il presentarsi in istituto per effettuare un colloquio da parte di un soggetto clandestino, vista la necessaria esibizione dei documenti al pubblico ufficiale incaricato, rischierebbe di equivalere ad autodenunciare la propria irregolarità.

73. Il numero delle telefonate concesse risulta essere di una a settimana per detenuti ed internati ma si riduce a due al mese per i soggetti condannati per reati di cui al 4 bis c. I., la durata di ciascuna telefonata è di dieci minuti.

74. A fronte della richiesta di colloquio telefonico è necessario che l'utenza da contattare sia di tipo fisso, in caso di chiamata verso l'estero tanto il carattere di utenza fissa che l'intestazione della stessa deve essere certificata tramite apposita documentazione tradotta in lingua italiana. Rimangono in questo modo escluse tutte le utenze di carattere mobile. I costi delle chiamate, specie se rivolte verso altri continenti è un altro ostacolo alla fruizione di questo tipo di comunicazione da parte dei soggetti stranieri.

75. Si pensi ad esempio all'invio di lettere da un continente ad un altro, il tempo di ricezione delle stesse costringe il detenuto ad estenuanti attese. Vero è però che quella postale risulta essere in molti casi, viste le difficoltà nella fruizione dei colloqui e delle telefonate, l'unica via di comunicazione percorribile.

76. V. Grevi, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario a cinque anni dalla riforma, cit., p. 26.

77. Data l'indeterminatezza delle previsioni e l'assenza del rispetto della riserva di legge (si tratta infatti del regolamento) circa le limitazioni della libertà personale del soggetto (sulla quale le sanzioni disciplinari possono incidere in peius) viene spontaneo dubitare della legittimità di queste previsioni.

78. Si noti come questo articolo del d.p.r. n. 230 del 2000 abbia un'impostazione nettamente più aperta nei confronti delle religioni diverse da quella cattolica rispetto alle previsioni dell'ordinamento del 1975. La discrasia tra la tutela offerta al culto cattolico e quella offerta agli altri culti sembra infatti sempre meno giustificabile sulla scorta della maggior diffusione di questo tipo di culto dato il sempre crescente numero di stranieri appartenenti ad altre confessioni.

79. In tal senso M. Ruotolo, op. cit., p. 140.

80. Si ricorda che una completa trattazione di questo diritto richiamerebbe il necessario connubio di più norme, quali: l'art. 27 Cost. per il diritto alla vita, e il diritto ad un trattamento conforme al senso di umanità, l'art. 13 Cost. per quanto attiene la libertà personale, la disposizione dell'art. 34 o.p. sulle perquisizioni.

81. In caso di uso illegittimo della forza il reato è perseguibile sia su denuncia del diretto interessato che su attivazione del direttore dell'istituto, il quale ha un vero e proprio obbligo di denuncia. Il personale in questo caso risponderà dei reati di cui all'art. 575-593 c.p. oltre che per il reato proprio di cui all'art. 608 c.p.

82. Al riguardo si veda G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, 1997, p. 84.

83. M. Ruotolo, op. cit., p. 145.

84. L'incidenza di alcuni tipi di patologie all'interno dei carceri è infatti molto più rilevante che all'esterno, si pensi ad esempio ad epatiti, Hiv, tbc o scabbia.

85. L'art. 1 del d.lgs n. 230 del 1999 stabilisce infatti che i detenuti hanno diritto "al pari dei cittadini in stato di libertà, alle erogazioni di prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate".

86. Sicuramente in ciò ha influito anche una valutazione di merito circa il diffuso stato di indigenza in cui la popolazione carceraria si trova.

87. Volendo utilizzare le considerazioni fatte su Pennisi si potrebbe vedere, con le dovute semplificazioni, il diritto all'integrità psico-fisica come un diritto uti persona e quello alle prestazioni sanitarie come uti civis, notando però la peculiarità che la detenzione impone verso gli stranieri.

88. Si pensi ai casi di ingresso dalla libertà (art. 11 c. V o.p), alle visite nel corso della permanenza in istituto (art. 23 c. I reg. esec.) e prima del trasferimento (83 c. 2 reg. esec). Si noti come in caso di trasferimento la previsione sia però dettata dal solo regolamento di esecuzione, senza la copertura dell'ordinamento penitenziario e sia perciò violata la riserva di legge. Per quanto attiene allo spinoso tema dell'alimentazione forzata in caso di sciopero della fame, dobbiamo considerare come questa, non essendo espressamente prevista dall'ordinamento penitenziario non possa essere considerata un legittimo trattamento obbligatorio (stante la volontà del soggetto nel rifiutare l'alimentazione) ma lo possa diventare qualora si consideri il digiuno come connesso ad uno stato di incapacità di intendere e di volere.

89. Sul tema dell'autodeterminazione sanitaria D. Valentini, I trattamenti e gli accertamenti sanitari obbligatori in Italia, Piccin, Padova, 1996.

90. Non sono rari i casi in cui gli istituti penitenziari si sono infatti trovati a dover affrontare dei veri e propri focolai di patologie che all'esterno sono alquanto rare nell'area dell'Europa occidentale, quali ad esempio la tbc. In questi casi ovviamente la prima 'vittima sacrificale' viene ad essere proprio il diritto all'autodeterminazione sanitaria.

91. Si pensi, ad esempio, al diritto del detenuto a fruire delle due ore d'aria giornaliere (limitabili solo in parte ad un'ora stanti talune condizioni), diritto che si configura come a metà tra un generico diritto alla salute del soggetto e quello ad un ambiente salubre. Tale diritto, sancito dall'art. 10 c. I o.p. viene ad avere carattere 'sanitario' sulla base delle considerazioni dell'art. 16 c. II reg. esec. Si noti come si tratti anche in questo caso di un diritto, che Pennisi avrebbe definito come uti captivus (quello alle ore di aria) che costituisce elemento essenziale di un diritto uti persona, quello alla salute, a riprova della difficoltà di scindere in ambito pratico i due elementi.

92. Si pensi alle recenti decisioni del Sindaco di Montelupo Fiorentino (Fi) circa le condizioni degli ambienti dell'omonimo O.p.g., o al richiamo e all'intimazione effettuata dagli ispettori dell'Asl di Firenze circa le condizioni degli ambienti cucina del N.c.p. di Sollicciano.

93. Di questo parere, espresso più volte durante le varie commissioni tra Asl e carcere, anche il Dott. Lex, direttore sanitario del N.c.p. di Sollicciano. Vi è ad esempio un'incidenza molto alta tra la popolazione detenuta di varie forme di epatite. Se talvolta questa patologia risulta essere connessa alla tossicodipendenza del soggetto o ad altri elementi precedenti alla carcerazione, talaltra deriva direttamente dalla vita carceraria e dall'inosservanza negli istituti di basilari norme igieniche.

94. Così V. Grevi, Commento all'art. 1 o.p., cit., p. 16 richiamando G. Filangieri, La scienza della legislazione, La città del sole, Napoli, 1998, libro III, par. VI.

95. Si vedrà quanto diremo nei prossimi paragrafi circa l'obbligo lavorativo.

96. La Sentenza Cass. pen. sez. I n. 1161 del 9 ottobre 1981 nel riconoscere il diritto del detenuto al trattamento rieducativo riconosceva uno speculare "obbligo di fare per l'amministrazione penitenziaria, che si sostanzia in una offerta di interventi".

97. In tal senso A. Pennisi, op. cit., p. 81. Sia V. Grevi, Diritti dei detenuti, cit., p. 51 che M. Canepa, S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, cit., p. 242 riconoscono in capo al detenuto un vero e proprio diritto a queste misure in caso di presenza dei requisiti necessari.

98. In verità al riguardo rimangono aperte le problematiche circa la genericità dei requisiti richiesti per le varie forme di misure alternative, genericità che rimetterebbe in campo la presenza di discrezionalità da parte dell'organo decidente e la conseguente impossibilità di configurare un vero e proprio diritto in capo al soggetto detenuto.

99. E forse non sarebbe potuto essere altrimenti data la sua incidenza diretta sul diritto alla libertà personale di cui all'art. 13 Cost.

100. Si ricorda come il regolamento penitenziario fascista, a differenza dell'ordinamento del 1975, non prevedesse una lista aperta di elementi funzionali al trattamento (art. 15 o.p.) quanto piuttosto una tassativa elencazione ricomprendente: lavoro, religione, istruzione.

101. L'art. 136 dell'ordinamento del 1931 stabiliva per i detenuti analfabeti di età inferiore ai 40 anni l'obbligo della frequenza giornaliera della scuola per almeno due ore. Vi era inoltre l'obbligo di riunirsi, a cadenze regolari, a gruppi nelle sale di studio (art. 139).

102. Al riguardo G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, op. cit. nella quale gli autori rilevano piuttosto un parallelismo tra la curva ascendente dell'istruzione e quella della criminalità.

103. Si citano qui, per dare un'idea della situazione dell'istruzione in ambito carcerario, i dati riportati dal Ministero della Giustizia, che vedono l'1,6% della popolazione detenuta come analfabeta, il 3,8% senza alcun titolo, il 15,6 con titolo di scuola elementare, il 34,0% con titolo di scuola media inferiore, l'1,0 % con titolo di scuola professionale, il 4,8 con titolo di scuola media superiore, l'1,0 % con laurea (dati del Ministero della Giustizia aggiornati al 31 dicembre 2008).

104. I motivi di questa scelta sono stati svariati: dall'età dei soggetti che vi accedono, alla paura di ricreare un sistema di coazione sulla scorta di quello del 1931, alla considerazione che l'istruzione, in quanto elemento di trattamento, non può certo essere attuata in maniera coattiva. Nel panorama internazionale dobbiamo notare come, alla vigilia dell'approvazione della nuova legge penitenziaria vi erano discordanti impostazioni al riguardo: Le regole minime per il trattamento dei detenuti del 1973 (che tanta influenza avevano avuto, come abbiamo visto sull'approvazione della riforma) non prevedevano l'obbligatorietà, mentre le Regole minime standard per il trattamento dei detenuti dettate dall'ONU nel 1955 sì.

105. Per quanto riguarda i corsi di addestramento professionale l'art. 20 o.p., come modificato dal d.l. n. 187 del 1993 convertito nella legge n. 296 del 12 agosto 1993 prevede che negli istituti penitenziari sia favorita la partecipazione dei detenuti ai corsi di formazione professionale, con la possibilità di affidarne la gestione anche ad aziende private convenzionate con la Regione. La legge n. 193 del 2000 (Norme per favorire l'attività lavorativa dei detenuti) prevedono sgravi fiscali per le imprese che svolgono "attività formative nei confronti dei detenuti, e in particolare dei giovani detenuti".

106. In tal senso M. Ruotolo, op. cit., p. 132.

107. Questi dovrebbero essere assegnati, ove possibile, a camere e reparti adeguati allo svolgimento dello studio. La minor attenzione accordata a studi di questo livello deriverebbe secondo alcuni autori (G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, op. cit., p. 134) dal fatto che il legislatore abbia visto in questi "un'importanza di grado minore ai fini della rieducazione".

108. È questa una selezione parallela a quella manifestata già nel testo costituzionale, il quale garantisce una serie di incentivi ai capaci e meritevoli per fruire dei gradi più alti di istruzione.

109. In verità queste disposizioni, inficiate dalla doppia eccezionalità del "se possibile" non sembrano idonee a garantire in maniera effettiva il diritto allo studio del soggetto.

110. Mentre per gli studenti di corsi superiori la possibilità di esonero è connessa alla sola frequenza del corso per quelli universitari dipende anche dal profitto nello studio.

111. Essendo l'istruzione parte dell'attività trattamentale, l'impegno dimostrato dal detenuto in essa porterà ad un giudizio positivo nelle valutazioni della sua personalità. Tale impegno inoltre è uno degli elementi che portano a poter beneficiare delle ricompense stabilite dall'art. 76 reg. esec. (tra le quali la proposta da parte del direttore di concessione dei benefici, di grazia, di liberazione condizionale e revoca anticipata della misura di sicurezza).

112. In tal senso A. Pennisi, op. cit., p. 138.

113. A. Pennisi, ibid.

114. Di questo avviso M. Ruotolo, op. cit., p. 136 e V. Grevi, Diritti dei detenuti, cit.

115. Si pensi, come vedremo anche a breve, al rapporto con la sicurezza e l'ordine dell'istituto.

116. Di questo argomento parleremo tra poco, si tratta comunque di una posizione parallela rispetto a quella già analizzata riguardo al diritto alle prestazioni sanitarie da parte dei clandestini all'interno degli istituti penitenziari.

117. La stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 1087 del 13 dicembre 1988 nel giustificare la disparità di importi tra mercede e retribuzione, argomento del quale tratteremo nel prossimo capitolo, parlava di peculiarità proprie del lavoro svolto alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, elencando tra queste il fatto che: "a) trae origine da un obbligo legale e non da un libero contratto; b) ha finalità di raggiungere la redenzione e il riadattamento del detenuto alla vita sociale; c) l'amministrazione non si prefigge né utili né guadagni; d) si avvale di manodopera disorganica, a volte non qualificata, disomogenea, variabile per le punizioni e i trasferimenti; e) i prodotti non sono sempre curati e sempre rifiniti; essi il più delle volte si vendono sottocosto". Si deve però riportare come sempre la stessa Corte, con sentenza n. 158 del 22 maggio 2001, in "Foro it.", 2001, c. 2139, riportava che: "ove ne sussistono le caratteristiche, alla soggezione derivante dallo stato di detenzione si affianca, distinguendosene, uno specifico rapporto di lavoro subordinato, con il suo contenuto di diritti (tra cui quelli previsti dall'art. 2109 c.c.) e di obblighi [...] né la specificità del lavoro penitenziario (così come delineato dalla sent. n. 1087), né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovraintende della pena, valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato".

118. Anche per l'illustrazione delle varie tipologie di lavoro carcerario si rimanda ai parr. 2.4 ss.

119. In tal senso M. Vitali, op. cit.

120. Un esempio al riguardo può essere dato dal diritto sindacale di riunione che risulta essere maggiormente limitato, a causa delle pressanti esigenze di sicurezza dell'istituto, nelle attività lavorative intramurarie rispetto a quelle extramurarie.

121. Tipologia lavorativa non affetta né dalle disfunzioni derivanti dall'essere geograficamente interna al carcere né dallo svilupparsi alle dirette dipendenze dell'amministrazione penitenziaria. Sostanzialmente equiparabile, salvo le poche eccezioni che vedremo, al lavoro libero.

122. Tipologia questa affetta dalle 'peculiarità geografiche' ma non da quelle dovute all'avere come datore l'amministrazione penitenziaria.

123. Corte cost. n. 194 del 28 luglio 1976.

124. Sulla possibilità di configurazione di un diritto al lavoro in capo ai soggetti reclusi torneremo in maniera più approfondita nel corso del par. 2.2, sul tema M. Ruotolo, op. cit., p. 161; F. Cardanobile, Il Lavoro alle dipendenze dell'Amministrazione Penitenziaria: il lavoro domestico, in AA.VV., Il lavoro dei detenuti, Cacucci, Foggia, 2007, pp. 23 ss.

125. "Proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa".

126. M. Ruotolo, op. cit., p. 173.

127. Art. 22 o.p. Secondo parte della dottrina il concetto di mercede previsto da tale articolo non doveva essere applicato solo al lavoro alle dipendenze della A.P. ma a tutti i lavori carcerari (in tal senso Bellomia, Ordinamento penitenziario, in "Enc. Dir.", Milano, 1980, XXX, p. 926; M.N. Bettini, Lavoro carcerario, in "Enc. Giur.", Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, Vol. XVIII). Elemento di chiarificazione riguardo all'applicazione del concetto di mercede al solo lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria è stata la sentenza n. 1087 del 1988 della Corte cost.

128. In tal senso Corte cost. sent. n. 1087 del 13 dicembre 1988.

129. Stabilita dagli artt. 48 c. XI e 54 c. II reg. esec. i quali recitano: "I condannati e gli internati ammessi al lavoro all'esterno/in semilibertà esercitano i diritti riconosciuti ai lavoratori liberi con le sole limitazioni che conseguono alla privazione della libertà personale". Si deve considerare l'impossibilità anche per i datori terzi che gestiscono lavorazioni interne alle mura del carcere di applicare condizioni diverse in materia di trattamenti assicurativi e previdenziali. La distinzione in questo campo riguarda quindi la natura del datore non l'ambiente di lavoro.

130. I. Careccia, Diritti dei detenuti, in AA.VV., Il lavoro dei detenuti, Cacucci, Foggia, 2007, pp. 59 ss.

131. Talvolta le tutele prevedono direttamente, si veda ad esempio la cosiddetta Social card, l'impossibilità di applicazione alla popolazione detenuta.

132. G. Tranchina, Vecchio e nuovo a proposito del lavoro penitenziario, in V. Grevi (a cura di), Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, cit., p. 154.

133. In questo modo il detenuto lavoratore alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria si vedrebbe negate, per esempio, le tutele relative alla disoccupazione.

134. M. Ruotolo, op. cit., p. 181.

135. Al riguardo giova riprendere A. Pennisi, op. cit., p. 158 il quale specifica come "i soli elementi che dovrebbero poter variare in relazione al fatto che il lavoro sia intra o extramurario dovrebbero essere rappresentati: A) dalla determinazione della soglia oltre la quale l'esercizio di un determinato diritto diviene oggettivamente incompatibile con il determinato status del soggetto; B) dalle concrete modalità di forma e di tempo mediante le quali i diritti possono essere esercitati".

136. In tal senso A. Pennisi, op. cit. p. 159.

137. M. Pavarini, La nuova disciplina del lavoro carcerario nella riforma dell'ordinamento penitenziario, in F. Bricola (a cura di), Il carcere riformato, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 148 sostiene che il diritto di sciopero non contrasta con la natura del lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria.

138. In tal senso rispettivamente U. Romagnoli, Il lavoro nella riforma carceraria, in M. Cappelletto, A. Lombroso (a cura di), Carcere e società, Marsilio, Venezia, 1976, p. 103 e G. Tranchina, op. cit., pp. 154-156.

139. V. Grevi, Diritti dei detenuti, cit., p. 28.

140. Si pensi alla composizione delle varie commissioni alle quali questi rappresentanti sorteggiati prendono parte (ad esempio quella dell'art. 27 o.p.).

141. Si ricorda che il diritto dei lavoratori a riunirsi è sancito dall'art. 20 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 20 maggio 1970) e trova il suo appiglio costituzionale nell'art. 39 Cost.

142. Si ricordi che lo straniero irregolare non può essere preso in carico dal Servizio Sanitario Nazionale ma gli sono fornite solo alcune tipologie di prestazioni (al riguardo si veda art. 35 d. lgs 286 del 1998, T.U. sull'immigrazione).

143. Al riguardo si veda la Circ. DAP n. 547671/10 del 12 aprile 1999 la quale ha mutato la disciplina dell'Agenzia delle entrate sull'attribuzione di codici fiscali. Tale Agenzia normalmente per il suddetto rilascio richiedeva la presenza di un documento di identità in corso di validità e la presenza di un permesso di soggiorno. Questo comportamento, teso a garantire la non assunzione di soggetti privi di permesso, impediva l'attività lavorativa dei clandestini in stato di detenzione, compromettendone così il trattamento. Per questo, a seguito di una comunicazione del DAP il Dipartimento delle entrate del Ministero delle finanze ha deciso che per i soggetti extracomunitari detenuti e internati non occorre, ai fini del rilascio del codice fiscale e della successiva messa al lavoro, né il permesso di soggiorno (poiché la detenzione costituisce già di per sé una condizione di soggiorno obbligatorio) né documento di identità (potendo questo essere sostituito da attestazione della direzione del carcere recante i dati anagrafici del soggetto, poiché il detenuto "per il fatto stesso di trovarsi in stato di detenzione a seguito di un processo e di una sentenza di condanna, è stato identificato dall'autorità giudicante"). La stessa circolare chiarisce poi anche, richiamando la Circ. n. 691858 del 23 marzo 1993, come lo stesso già avvenisse nel caso di stranieri privi di permesso di soggiorno ma in grado di poter fruire di misure alternative alla detenzione. Questi soggetti infatti, stante lo stato di detenzione, per venire avviati al lavoro extramurario in misura alternativa o essere ammessi al lavoro all'esterno non avevano bisogno del titolo di soggiorno. Gli uffici del lavoro competenti per territorio in quest'ultimi casi rilasciavano apposito atto di avviamento al lavoro valido fino alla cessazione della misura.

144. Per i detenuti stranieri che non abbiano mai avuto un valido titolo di soggiorno l'attività lavorativa carceraria è la prima forma di lavoro regolare che si trovano a compiere, nonché la prima occasione per fruire dei vari diritti previdenziali ad essa connessa.

145. Altrettanto si può dire riguardo all'offerta sanitaria dal momento che il clandestino, in quanto detenuto, dovrà necessariamente essere preso in carico dal Ssn. Ricordiamo come rispetto alle prospettive lavorative offerte dal carcere i soggetti clandestini, in virtù del principio di non discriminazione nel trattamento (art. 1 o.p.), possono vantare esattamente gli stessi diritti di tutti gli altri soggetti reclusi.

146. Anche a causa degli effetti del cosiddetto 'reato ostativo' che vedremo tra poco. Si consideri come spesso si assiste, con le persone prive di titolo di soggiorno aduse all''entra-ed-esci' dal carcere, ad una vera e propria 'intermittenza contributiva'. Durante i periodi di detenzione la persona effettua infatti attività lavorative e versa i relativi contributi fruendo così di tutti i diritti connessi (si pensi ad esempio ad assegni familiari, disoccupazione, assicurazione per la vecchiaia). Una volta in libertà, in virtù del suo stato di clandestinità, invece il soggetto è come se, sotto il versante contributivo, 'sparisse' per poi 'ricomparire' alla carcerazione successiva.

147. Si pensi ad esempio alla prestazione dell'assegno sociale. Ricordiamo come per fruire di questa tutela attualmente, oltre al discusso requisito del Pds per soggiornanti di lungo periodo, sia anche richiesta la residenza sul territorio italiano da almeno 10 anni (in base alla legge n. 133 del 6 agosto 2008).

148. Da Regolarità, normalità, tutela, IIº Rapporto su immigrati e previdenza negli archivi Inps, Istituto Nazionale della Previdenza Sociale con la collaborazione del Dossier statistico Immigrazione Caritas/Migrantes, 2007, dal sito INPS.

149. Qualcuno potrebbe obiettare che l'equiparabilità rispetto al lavoro libero sembra in questo caso venire meno in virtù della possibilità di mettere a lavoro e garantire la copertura della disciplina protettiva del lavoro a soggetti che all'esterno non avrebbero fruito di tale condizione. La contestazione a questa tesi potrebbe a sua volta essere duplice. Da una parte infatti questa peculiarità del lavoro carcerario potrebbe essere giustificata dalla funzione rieducativa di cui all'art. 15. In secondo luogo, inoltre, la differenza rispetto al mondo esterno non è neppure così pronunciata se si riflette sul fatto che, come parte della dottrina ha sostenuto (in tal senso M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, p. 146), il rapporto assicurativo e previdenziale sorge indipendentemente dalla regolarità dell'attività lavorativa, in virtù del solo svolgimento della stessa, al punto che potrebbe teoricamente svilupparsi anche in caso di illegale lavoro di minori. La situazione carceraria sotto questo aspetto legittimerebbe quindi solo la messa al lavoro di un soggetto che all'esterno non vi potrebbe essere messo, ma la garanzia assicurativa e la copertura previdenziale sarebbero dirette conseguenze non di questa eccezione ma del rapporto di lavoro in sé.

150. Legge n. 266 del 2005 art. 1 commi 331, 332, 333, 334.

151. Grave fu in questo caso l'invio, da parte del governo, degli inviti alla fruizione del Bonus bebè a ben 52.000 famiglie che, avendo entrambi i genitori stranieri non avrebbero potuto fruire del bonus in alcun modo. Secondo molti autori previsioni di questo tipo contrasterebbero con il principio una volta esposto dall'articolo 1 della legge 30 dicembre 1986, n. 943 (Legge di ratifica della Convenzione OIL) che garantiva "a tutti i lavoratori extracomunitari legalmente residenti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani. La Repubblica italiana garantisce inoltre i diritti relativi all'uso dei servizi sociali e sanitari". Le successive disposizioni in materia non sono certo andate più caute nei confronti degli stranieri.

152. Si ricordi, tra queste limitazioni, la richiesta residenza in Italia da almeno un decennio per la fruizione dell'assegno sociale, introdotta nell'agosto 2008.

153. Ben diversa la situazione in caso di lavoro alle dipendenze di datori terzi dato che, come vedremo, questa tipologia di lavoro offre migliori condizioni e maggiori tutele al soggetto lavoratore.

154. Tanto l'affidamento in prova ai servizi sociali che la semilibertà sono misure alternative. Il lavoro all'esterno è invece una particolare forma di organizzazione dell'attività carceraria (nonostante i suoi caratteri si siano gradualmente assimilati a quelli delle misure alternative).

155. Al riguardo si veda F. Centofanti, Straniero extracomunitario e misure alternative alla detenzione (nota a Cass. Pen. Sez. Un. n. 14500 del 27 aprile 2006), in "Cass. pen.", 2006, X, pp. 3123 ss.

156. Al riguardo R. Sottanis, Misure alternative e immigrati clandestini: vale per tutti la logica della rieducazione, In "Dir. Pen. e Proc.", 2008, II, pp. 198-202 e G. Di Chiara, Osservatorio della Corte costituzionale: commento alla sentenza n. 78 del 16 marzo 2007, in "Dir. Pen e Proc.", 2007, V, pp. 573 ss.

157. Ordinanza n. 44368 del 5 dicembre 2006 della 1º Sez. Pen. della Corte di Cassazione.

158. Rubricati rispettivamente: "affidamento in prova ai servizi sociali", "regime di semilibertà", "ammissione alla semilibertà".

159. L'assenza del permesso di soggiorno non risulta ostativa neppure riguardo al lavoro all'esterno dal momento che i detenuti stranieri irregolari, ai sensi della circolare del Ministero del lavoro del 15 marzo 1993 n. 27, "sono tassativamente obbligati in forza di una decisione giurisdizionale, a permanere sul territorio italiano e a svolgere attività lavorativa in alternativa alla pena detentiva, in forza di una ordinanza del Tribunale di sorveglianza o di un provvedimento di ammissione al lavoro esterno" e che di conseguenza i Dipartimenti provinciali del lavoro dovevano rilasciare "un apposito atto di avviamento al lavoro [...] prescindendo dalla iscrizione nelle liste di collocamento e dal permesso di soggiorno". Questo atto di durata limitata al solo periodo stabilito nel provvedimento "non costituirà titolo valido per l'iscrizione nelle liste di collocamento alla cessazione del rapporto di lavoro per il quale è stato concesso". Nello stesso senso anche la successiva circolare n. 300 del 2 dicembre 2000 la quale ha stabilito che per le misure alternative e la possibilità di lavoro all'esterno non è necessario il rilascio di un permesso di soggiorno ad hoc "ben potendo l'ordinanza del magistrato di sorveglianza costituire ex se un'autorizzazione a permanere nel territorio nazionale".

160. Si tratterà dei diritti sociali che la normativa nazionale fa discendere dal possesso del titolo di soggiorno, quali ad esempio i diritti di natura previdenziale connessi alla regolare attività lavorativa e taluni diritti di natura assistenziale (ricordiamo come per questi sia spesso richiesta la titolarità di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo) connessi al possesso di un certo titolo di soggiorno (per beneficiare dell'assegno sociale, ad esempio, come abbiamo visto nel cap. I, sarà necessario un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo).

161. Come abbiamo detto per i soggetti irregolari quello carcerario risulta essere invece l'unico tipo di lavoro che può dar vita a contributi, essendo loro precluso lo svolgimento di attività lavorative regolari da liberi.

162. L'art. 380 del c.p.p. è rubricato "arresto obbligatorio in flagranza".

163. Sul tema G. Savio, Istanza di rinnovo del permesso d soggiorno, in "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 2005, III, pp. 225 ss. e F. Costantini, Rilascio, rinnovo e revoca del permesso di soggiorno. Problemi applicativi alla luce delle modifiche introdotte dalla legge n. 189 del 2002, in "Gli stranieri", 2003, V, pp. 415 ss.

164. In tal senso E. Santoro, L'esecuzione penale nei confronti dei migranti irregolari e il loro 'destino' a fine pena, in "Diritto, immigrazione e cittadinanza", IV, 2004. Santoro illustra infatti, richiamando la sentenza del T.A.R. dell'Emilia Romagna n. 311 del 2003, come secondo parte prevalente della dottrina gli effetti del buon esito dell'affidamento possono essere paragonati a quelli della riabilitazione e possono quindi neutralizzare gli effetti del reato ostativo.

165. Accade infatti spesso, qualora il soggetto non venga materialmente accompagnato alla frontiera o nel paese di origine, che questo rimanga, benché privo di ogni titolo di soggiorno (e passibile di conseguenze penali) sul territorio italiano. Tale situazione lo conduce spesso in un circolo vizioso che lo riporta, con cadenza più o meno regolare, allo stato di detenzione.

166. Il ricorrente, un cittadino albanese, essendo stato condannato per reato di spaccio di stupefacenti, lamentava l'illegittimità della disciplina che ravvisava nel reato stesso, senza alcuna valutazione della reale pericolosità del soggetto, un motivo di esclusione dal rinnovo del permesso di soggiorno. Lamentava inoltre il fatto che tale misura potesse essere connessa a sentenze di patteggiamento.

167. Sul tema si veda R. Cicchese, Costituzionali le norme che impediscono il rilascio del permesso di soggiorno in presenza di alcune condanne, in "Il Corriere del merito", 2008, VII, pp. 875-878.

168. D.lgs n. 286 del 1998 art. 9 c. IV.

169. Si pensi al riguardo, tra i richiami 'eccellenti', a quello tra l'art. 1 dell'o.p. e l'art. 1 della risoluzione (73)5 del comitato dei ministri "Regole minime per il trattamento dei detenuti".

170. "Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani e degradanti". Già in questo testo veniva richiamata la dignità della persona umana.

171. "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pena o a trattamento inumani e degradanti".

172. Elemento principale di quest'atto è l'art. 17 il quale sancisce "Ogni persona, arrestata o detenuta, al momento della sua presa in custodia, deve essere immediatamente informata di tutti i suoi diritti ed obblighi e di come usufruire di suoi diritti.". Inoltre l'art. 19 sancisce finalmente la netta differenza, che poi ritroviamo anche nel nostro ordinamento penitenziario (art. 1 c. III-V) tra condannati e imputati, stabilendo riguardo a quest'ultimi: "Poiché la carcerazione preventiva non è una pena, nel suo corso deve essere proibita l'impressione di qualsiasi previsione o restrizione non dettata dalle necessità delle indagini o del mantenimento dell'ordine nel luogo di detenzione, come ogni altro trattamento vessatorio" (si noti come il dettato sia quasi identico a quello dell'art. 1 c. III del nostro ordinamento penitenziario).

173. Tale Patto adottato dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966 è entrato in vigore il 23 marzo 1976. L'art. 7 del suo testo dispone che "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a punizioni o trattamenti crudeli e degradanti" mentre l'art. 10 sostiene che "qualsiasi individuo privato della propria libertà deve essere trattato con umanità e col rispetto della dignità inerente alla persona umana". Continua inoltre il c. III dello stesso articolo: "Il regime penitenziario deve comportare un trattamento dei detenuti che abbia per fine essenziale il loro ravvedimento e la loro riabilitazione sociale".

174. Ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 3 novembre 1988 n. 498, rappresenta il primo documento internazionale avente carattere obbligatorio in materia di tortura e di trattamenti crudeli, inumani e degradanti. Il 18 dicembre 2002 è inoltre stato approvato un protocollo facoltativo a questa convenzione basato sulla prevenzione più che sulla repressione delle violazioni e sulla collaborazione e un dialogo aperto con gli stati membri.

175. Di questi atti, special modo del primo, torneremo a parlare in maniera più approfondita tra poco in quanto elementi fondanti del documento-cardine in materia: le Regole penitenziarie europee R(2006)2.

176. Tale atto dispone che: "Ogni persona sottoposta a qualsivoglia forma di detenzione od imprigionamento deve essere trattata con umanità e nel rispetto della dignità umana" (principio 1) e "Nessuna persona detenuta o imprigionata dovrà essere pertanto sottomessa alla tortura né a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti e nessuna circostanza, quale che sia, potrà essere invocata per giustificare la tortura o trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti" (principio 6).

177. I principi sanciti in questi atti sono quelli della non discriminazione nel trattamento, del riconoscimento in capo ai soggetti detenuti dei diritti umani e di quelle libertà fondamentali che gli sono riconosciute in seno alla comunità internazionale, salve le restrizioni connaturali alla detenzione. Alle persone detenute devono inoltre essere garantite tutte quelle attività culturali e formative tese all'esplicazione della loro personalità.

178. Precisiamo fin da subito come la maggior parte degli atti di portata regionale in materia derivano dal Consiglio d'Europa o da istituzioni ad esso connesse. Di minor rilevanza sono infatti gli atti dell'Unione europea i quali spesso richiamavano, e richiamano tutt'ora, solo principi di portata generale (si pensi ad esempio al preambolo e all'art. 6 par. II del Trattato di Maastricht che conferma come l'Unione Europea sia tenuta al rispetto dei diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali). Il ruolo fondamentale dei diritti umani come valore della Unione Europea è stato anche ribadito dall'approvazione della Carta di Nizza del 2000 e dall'Inclusione di quest'ultima all'interno della Costituzione europea firmata il 29 ottobre 2004 a Roma. Anche in quest'ultimo caso si tratta di enunciati di principio, generici, non esplicitamente riguardanti le persone detenute. Elemento invece di natura specifica è stata la Raccomandazione del Parlamento europeo al Consiglio d'Europa relativa ai diritti dei detenuti del 9 marzo 2005, documento nel quale si incitava il Consiglio a provvedere ad una nuova stesura aggiornata delle Regole penitenziarie (quella che poi è arrivata nel 2006) o a dichiarare in alternativa che alla stesura di tale atto avrebbe provveduto l'U.E. tramite norme vincolanti ed impugnabili davanti alla Corte di Lussemburgo.

179. In tal senso anche C. Brunetti, M. Ziccone, Manuale di diritto penitenziario, La Tribuna, Piacenza, 2005, p. 168.

180. Tale Convenzione prevede al suo art. 1 la costituzione di un Comitato europeo per la prevenzione della tortura (C.P.T.) composto da un rappresentante per ogni Stato membro. Tra le funzioni di quest'ultimo quella di effettuare sopralluoghi nei vari posti in cui si trovino soggetti privati della libertà personale al fine di accertarne le condizioni. Il loro punto di riferimento in questa valutazione sono le Regole penitenziarie europee che vedremo tra poco.

181. Artt. 33, 34, 35 e 42. Così M. Ruotolo, op. cit., p. 38.

182. Come osservano G. di Gennaro, E. Vetere, I diritti dei detenuti e la loro tutela, in "Rass. Stud. Penit.", 1975, vol. I, p. 12: "Per quanto riguarda le regole minime, invece, il Consiglio d'Europa ha assunto una posizione sostanzialmente più avanzata rispetto a quella dell'ONU, dato che il CEPC ha ritenuto che fosse opportuno predisporre una versione delle Regole Minime più rispondente alle attuali esigenze dei paesi europei. Questi infatti hanno una certa omogeneità di livello di sviluppo che rende possibile l'adozione di un testo i cui standards minimi siano in qualche modo più elevati di quelli concordati con riferimento a tutti i paesi del mondo".

183. C. Brunetti, M. Ziccone, op. cit., p. 170.

184. Tra le previsioni più importanti di tale testo quelle dell'art. 1 sulla dignità umana, dell'art. 2 sul divieto di discriminazioni, dell'art. 3 sulla finalità rieducativa del trattamento detentivo e dell'art. 5 sul rispetto dei diritti individuali dei detenuti. È appena il caso di accennare, visto l'argomento da noi trattato, alla Raccomandazione R(75)25 del 18 settembre 1975 che inserendosi tra i due atti dei quali stiamo parlando raccomandava ai Governi degli Stati membri: di accordare un ruolo definitivo e una priorità determinante al lavoro penitenziario, di utilizzare sistemi di produzione adeguati e moderni, di adattare le remunerazioni e le modalità e condizioni di lavoro, per quanto possibile, a quelle dell'ambiente esterno.

185. Raccomandazione approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa l'11 gennaio 2006 durante la 952º riunione dei delegati dei ministri. Una delle principali problematiche connesse a questi atti, tanto quelli delle Nazioni Unite che quelli del Consiglio d'Europa, è l'assenza di valore vincolante per i vari Stati membri dal momento che sono stati approvati sotto forma di mere raccomandazioni "la cui attuazione ed il cui rispetto, nonostante il valore morale dei principi ivi affermati e l'autorità che comunque viene riconosciuta alle organizzazioni internazionali, sono rimessi alla buona volontà e alla coscienza nazionale di ciascun singolo Stato Membro, ed in particolare alle amministrazioni penitenziarie" (così C. Brunetti, M. Ziccone, op. cit., p. 201). Si rileva quindi che in alcuni Stati le Regole penitenziarie europee sono state incorporate nella legislazione nazionale mentre altri semplicemente vi si ispirano nelle pratiche penitenziarie. Tali regole sono comunque parametro di giudizio per la Corte europea dei diritti umani, ma l'assenza del loro rispetto non implica automaticamente un trattamento inumano o degradante.

186. "Le persone private della libertà devono essere trattate nel rispetto dei diritti dell'uomo", previsione che, come era già stato notato col previgente testo del 1973, può essere letta in diretto parallelo con quella dell'art. 1 o.p.

187. In tal senso, come abbiamo già visto, sentenza Corte cost. n. 26 del 1999 nella quale veniva appunto sostenuto: "L'idea secondo la quale la restrizione della libertà personale comporta come conseguenza il disconoscimento delle posizioni soggettive, attraverso un generalizzato assoggettamento all'organizzazione penitenziaria, è estranea al vigente ordinamento costituzionale atteso che questo è basato sul primato della persona umana e dei suoi diritti". Si potrebbe quindi vedere un parallelo tra queste previsioni e quelle dell'art. 1 c. III o.p ("Negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini giudiziari") anche se il Consiglio d'Europa sembra aver adottato una più felice formulazione (art. 2 R(2006)2: "Le persone private della libertà conservano tutti i diritti che non sono stati loro tolti, secondo legge, dal provvedimento che le condanna a pena detentiva o che applica la custodia cautelare"; art. 3: "Le restrizioni imposte alle persone private della libertà devono essere limitate allo stretto necessario e devono essere proporzionate agli obiettivi legittimi per i quali sono state imposte").

188. Il parallelo è pressoché diretto con le previsioni degli artt. 1 c. V e 15 o.p.

189. Nonostante l'art. 38 o.p. stabilisca che il fatto generatore della sanzione deve essere espressamente previsto dal regolamento come tale, l'art. 77 reg. esec. al suo c. I n. 4 prevede tra i motivi di sanzione il generico "atteggiamenti e comportamenti molesti nei confronti della comunità".

190. L. Stortoni, Libertà e diritti del detenuto nel nuovo ordinamento carcerario, in F. Bricola (a cura di), Il carcere riformato, cit., p. 34.

191. In tal senso di nuovo V. Grevi, Diritti dei detenuti, cit., pp. 8-9. Non possiamo d'altro canto dimenticare i dubbi di quell'autorevole dottrina che di fronte alla riforma dell'ordinamento iniziò a sospettare un'enunciazione troppo teorica e dottrinale delle varie tutele, tale da essere difficilmente realizzabile (Così lo stesso V. Grevi, ibid. e Stortoni, op. cit., p. 34).

192. Così L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari, 1990, p. 750.

193. Così M. Ruotolo, op. cit., p. 45 citando Ferrajoli, op. ult. cit.

194. M. Ruotolo, ibid.

195. Giova anche ricordare, sempre fra gli autori citati da Ruotolo nella sua opera F. Bricola, Scritti sul diritto penale, vol. I, tomo II, Milano 1997, p. 1227 che sostiene inoltre che quello carcerario è "uno dei settori più esposti alle varie pratiche nelle quali, nello stato di diritto, si realizza l'illegalità ufficiale attraverso la non applicazione e la manipolazione amministrativa delle norme".

196. Da ora in avanti anche 'A.P.'.

197. Al riguardo, come abbiamo già notato nei precedenti paragrafi, art. 27 c. III Cost. e art. 15 o.p.

198. Di tale parere G. Tranchina in Vecchio e nuovo proposito di lavoro penitenziario, cit., p. 149 il quale sostiene: "[...] sino a quando esisterà, come regola programmatica, la proclamazione che le pene detentive vanno scontate con l'obbligo del lavoro, rimarrà difficile sottrarsi alla convinzione che il lavoro possa rappresentare qualcosa, che non sia intimamente collegato con le finalità di espiazione tipiche della sanzione penale".

199. In tal senso M.N. Bettini, op. cit.

200. Cfr F. Cardanobile, op. cit., pp. 23 ss.

201. Si ricordi come non si possa correttamente parlare per il lavoro dei detenuti di una misura premiale stante le graduatorie basate su criteri di tipo oggettivo che regolano l'accesso al lavoro dei detenuti.

202. Al riguardo si considerino le previsioni degli artt. 1, 4, 35 Cost.

203. Si consideri al riguardo che in tal senso opera anche la previsione dell'art. 20, la quale determina la necessaria similarità tra lavoro carcerario e libero, nonché previsioni di natura sovrannazionale quali l'art. 26 Regole penitenziarie europee R(2006)2.

204. R. Ciccotti, F. Pittau, Lavoro e carcere, aspetti giuridici e operativi, Franco Angeli, Milano, 1987 specificano come la concezione che ha dato vita al dettato dell'art. 20 c. V sarebbe da ritrovarsi nelle conclusioni del Secondo congresso delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine e il trattamento dei delinquenti svoltosi a Londra nell'agosto del 1960 le quali sancivano: "Il lavoro penitenziario, il cui valore morale e sociale è incontestabile, deve essere inteso nella stessa maniera dell'attività normale e regolare di un uomo libero [...]. Il lavoro penitenziario deve eseguirsi in condizioni analoghe a quelle del lavoro libero principalmente per ciò che concerne gli strumenti, le ore di lavoro e la protezione contro gli infortuni".

205. Come vedremo infatti l'astensione dal lavoro alle dipendenze dirette dell'amministrazione penitenziaria secondo l'art. 77 c. 1 n. 3 del d.p.r. n. 230 del 2000 configura una delle fattispecie alle quali consegue una sanzione disciplinare. L'addebito di tale sanzione può pregiudicare l'accesso ad alcuni benefici quali il permesso premio (art. 30 ter, o.p.) e la liberazione anticipata (art. 54 o.p.), nonché la successiva eventuale ammissione ad una delle misure alternative (artt. 47 e ss).

206. Sul tema F. Cardanobile, op. cit., p. 32.

207. L'art. 15 recita infatti: "Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all'internato è assicurato il lavoro". Del sorgere o meno di un diritto in capo al soggetto detenuto ne parleremo poco più avanti.

208. Art. 20 c. III o.p.

209. Opera infatti nei loro confronti il principio della presunzione di innocenza e quindi la non necessità di un percorso riabilitativo.

210. Art. 15 c. III o.p. Per raffronto si rammenta come invece, secondo il regolamento del 1931 il lavoro era obbligatorio per gli imputati non abbienti.

211. Al riguardo si considerino anche le previsioni dell'art. 20 c. IV e V riguardo al lavoro di infermi e seminfermi di mente, al quale non sarebbe applicabile il regime obbligatorio. Teniamo a questo punto a precisare una caratteristica 'contributiva' del lavoro di questi soggetti all'interno degli istituti di pena: un soggetto inabile, che nel mondo libero sarebbe incompatibile con ogni tipo di lavoro, nella realtà carceraria può essere impiegato in alcune attività a fini terapeutici. Si crea quindi in questi casi una situazione nella quale il soggetto, pur teoricamente incompatibile con qualunque attività lavorativa fruirà della prestazione derivante dalla sua menomazione (in una delle varie forme che abbiamo analizzato nel cap. I par. 6) e contestualmente di un versamento contributivo e un reddito relativo all'attività svolta.

212. Al riguardo A. Pennisi, op. cit., p. 152.

213. Il dettato dell'art. 50 del d.p.r. n. 230 del 2000 è infatti al riguardo estremamente chiaro: nell'assegnazione al lavoro in prima battuta devono essere considerati i parametri di cui all'art. 20 c. VI (tra i quali "professionalità nonché precedenti e documentate attività svolte e di quelle a cui essi potranno dedicarsi dopo la dimissione"), qualora però la scarsa offerta lavorativa non consenta diversamente (e questa spesso è l'opzione che si realizza più comunemente all'interno degli istituti) i detenuti e gli internati "sono tenuti a svolgere un'altra attività lavorativa tra quelle organizzate nell'istituto".

214. Non potrebbe infatti essere altrimenti poiché il lavoro fa parte del trattamento rieducativo e quest'ultimo non può essere applicato tramite coercizione ma presuppone la volontà del destinatario. Questo viene quindi ad essere un ulteriore elemento distintivo rispetto al concetto di obbligatorietà come inteso dagli ordinamenti previgenti, nei quali invece era obbligatoria la messa a lavoro su decisione della direzione.

215. Per gli imputati invece il c. III prevede una generale possibilità di ammissione "salvo giustificati motivi o contrarie disposizioni dell'autorità giudiziaria". Si consideri al riguardo come il testo originario del progetto di legge di riforma del 1968 prevedesse soltanto "Ai fini della rieducazione, al condannato e all'internato è assicurato il lavoro" senza nessuna possibilità di esenzione dell'amministrazione dal relativo obbligo.

216. Riguardo alla competenza sulle cause connesse al lavoro carcerario si rimanda all'apposita trattazione effettuata nel par. 5.

217. In tal senso F. Cardanobile, op. cit., p. 26. Tra gli autori che sostengono la tesi che il detenuto sia portatore di un vero e proprio diritto: G. Pera, Aspetti giuridici del lavoro carcerario, in "Foro it", 1971, V, pp. 65-80 e V. Mucaria, Lavoro dei detenuti e trattamento penitenziario, in "Riv. Pen.", 1987, p. 402. Non dobbiamo dimenticare che nel senso di un vero e proprio diritto al lavoro come elemento trattamentale si pronuncia anche la proposta di legge presentata il 3 novembre 2005 alla camera dei deputati sul progetto di riforma dell'ordinamento penitenziario (in Atti parlamentari, Camera dei deputati n. 6164).

218. R. Pessi, Il rapporto di lavoro del detenuto: a proposito della concessione in uso della manodopera dei detenuti ad imprese private appaltatrici, in "Diritto del lavoro", 1978, p. 104.

219. In tal senso C. Erra, Lavoro penitenziario, in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Varese, 1984, XII, p. 572; M.N. Bettini, op. cit.; A. Minisola, Osservazioni in merito all'attuale disciplina del lavoro penitenziario, in "Lavoro 80", 1982, p. 278.; R. Ciccotti, F. Pittau, op. cit., p. 60 parlano di una 'direttiva di principio'.

220. Art. 15 o.p.

221. Il ricorso al giudice ordinario infatti sembra essere precluso dalla supremazia autoritativa di una delle parti (amministrazione penitenziaria) in base anche alla pronuncia della Corte cost. n. 26 dell'11 febbraio 1999, in "Foro it.", I, 1999, pp. 1118 e ss. D'altro canto il ricorso al giudice del lavoro non sembra percorribile poiché questa garanzia, offerta dalla sent. 341 del 2006, sembra applicabile solo ai casi di rapporto di lavoro già instaurato. Sull'argomento ritorneremo in maniera più approfondita nel corso del par. 5.

222. In tal senso F. Cardanobile, op. cit., p. 31.

223. Si pensi al riguardo, come vedremo in maniera più accurata in seguito, alla disciplina della disoccupazione la quale prevede come limite dell'erogazione delle relative prestazioni il ritorno del soggetto allo svolgimento di un'attività lavorativa. Qualora il soggetto, durante la fruizione di una indennità di disoccupazione a requisiti interi, svolga attività lavorativa carceraria la prestazione di disoccupazione non verrà meno dato che il carattere obbligatorio del lavoro carcerario incide sulla libera scelta del soggetto tra la fruizione dell'indennità e lo svolgimento dell'attività lavorativa.

224. Se riflettiamo riguardo alla doppia ripartizione del lavoro carcerario in base allo spazio di lavoro e al datore, che abbiamo visto nel par. 1.1.7, ci possiamo accorgere di quanto questa teoria della vicinanza abbia riscontri reali, tanto nel caso la compromissione sia data dal luogo di lavoro (intra moenia) che nel caso derivi dalla natura del datore di lavoro (amministrazione penitenziaria).

225. Una distinzione in base al datore di lavoro veniva effettuata anche in Sent. Cass. n. 1087 del 13 dicembre 1988, in "Cass. Pen.", 1989, p. 852 la quale sosteneva "si verificano almeno tre situazioni: a) quella del detenuto che si trova in semilibertà e lavora fuori dello stabilimento; b) quella del detenuto che lavora alle dipendenze di imprese private sotto il diretto controllo della direzione dell'istituto a cui il detenuto o l'internato è assegnato (tale prospettiva è stata fortemente mutata, come vedremo, dalla riforma dalla la legge 12 agosto 1993 n. 296 che ha, infatti, modificato gli artt. 20 e 21 e ha introdotto l'art. 20 bis L. 354/1975); c) quella del detenuto che lavora all'interno dello stabilimento carcerario, alla diretta dipendenza dell'amministrazione penitenziaria". Continua infatti la Corte nell'analisi della tipologia sub c) dicendo che "Non vi è omogeneità tra essa e le altre due situazioni, non potendosi dubitare che il rapporto che ivi si instaura è disciplinato dal diritto comune [...] la fattispecie ha però delle proprie peculiarità che incidono profondamente sulla struttura del rapporto e sui suoi elementi essenziali. Il rapporto trae origine da un obbligo legale e non da un libero contratto; ha una propria particolare regolamentazione tra cui assumono rilievo le qualità delle parti: quella del lavoratore che è un detenuto e quella del datore di lavoro che è l'Amministrazione penitenziaria".

226. La Corte costituzionale nella sentenza n. 158 del 22 maggio 2001, in "Foro it.", 2001, c. 2139, non sembra essere di questo parere nel momento in cui riporta che: "ove ne sussistono le caratteristiche, alla soggezione derivante dallo stato di detenzione si affianca, distinguendosene, uno specifico rapporto di lavoro subordinato, con il suo contenuto di diritti (tra cui quelli previsti dall'art. 2109 c.c.) e di obblighi [...] né la specificità del lavoro penitenziario (così come delineato dalla sent. n. 1087), né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovraintende della pena, valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato". Agli occhi degli operatori rimane però ben chiaro come il connubio datore-soggetto incaricato della pena non possa, nella realtà fattuale, non avere alcun riverbero sull'attività lavorativa.

227. M. Vitali, op. cit., p. 10.

228. M. Vitali, ibid.

229. Al riguardo M. Vitali, op. cit., p. 2 parla di una vera e propria dicotomia tra due concezioni diverse: quella dei "detenuti lavoratori" e quella dei "lavoratori detenuti", a seconda che l'elemento e la normativa lavorativa riesca o meno a ritagliarsi un valido spazio all'interno di quella penitenziaria.

230. Obbligatorietà e assenza di trilateralità, elementi dei quali il primo riguarda il lavoro penitenziario tout court e il secondo solo quello alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria.

231. Si pensi al riguardo all'eccessiva e continua mobilità dei detenuti da un istituto ad un altro, ai criteri che la determinano, alla gestione dei conti correnti, delle risorse e delle stesse contribuzioni da parte dell'amministrazione stessa, alla necessità di turnazione lavorativa continua, tutti fattori dei quali parleremo in seguito. Sono questi elementi che incidono sul rapporto lavorativo provocandone conseguenze talvolta blande, talaltra, invece, estremamente gravi.

232. Tale scelta oltre che supportata dalla maggior peculiarità e spunto di interesse forniti dal lavoro sotto l'amministrazione penitenziaria deriva anche da considerazioni di tipo statistico. Al 30 giugno 2008 infatti, a fronte dell'ottimistica previsione del 24,4% della popolazione carceraria impiegata in attività di tipo lavorativo, si aveva che il 21,16% era impiegato alle dirette dipendenze dell'A.P. e solo un 3,24% alle dipendenze di datori terzi (dati rielaborati in base alle statistiche del Ministero della Giustizia).

233. M. Vitali, op. cit., p. 15 parlando della sentenza della Corte cost. n. 1087 del 1988 nota che questa "si basa sulla distinzione non solo tipologica, ma ontologica, tra lavoro carcerario e lavoro esterno, assimilabili, ma non identici, che rende ragionevole e giustificata la disparità di trattamento economico".

234. Sent. Corte cost. n. 26 dell'11 febbraio 1999.

235. La questione porta in verità anche a risvolti in materia di competenza giurisdizionale, argomento che tratteremo nell'apposito par. 5.

236. Di tale avviso L. de Litala, Sicurezza sociale e sistema penitenziario in Italia con particolare attenzione al lavoro dei detenuti, in "Lav. e Sic. Soc.", 1962, XVI, n.4; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, III, Torino, 1961, p. 85.

237. Così G. Pera, op. cit., p. 59 illustrando le varie posizioni dottrinali al riguardo.

238. G. Pera, ibid.

239. F. Cardanobile, op. cit., p. 34.

240. Sulla scorta di quella distinzione che abbiamo visto effettuata da Sent. Cass. N. 1087 del 13 dicembre 1988.

241. Così A. Raciti, Le attività lavorative svolte durante l'esecuzione di pene privative della libertà personale, in "Rassegna di studi penitenziari e criminologici", I-III, 2001, p. 277.

242. Si noti come F. Cardanobile, op. cit., p. 37 nell'esporre questa tesi precisa il fatto che un potere disciplinare in capo all'amministrazione sussiste, ma è riconducibile al lato 'istituzional-punitivo' dell'A.P. e non a quello datoriale.

243. Come è stato giustamente osservato anche qualora si volesse contestare la natura lavorativa delle suddette prestazioni si ricadrebbe in un problema di costituzionalità. Se non fossero prestazioni lavorative quelle dei detenuti sarebbero infatti una sorta di lavoro forzato, una prestazione di tipo afflittivo che contrasterebbe perciò con i dettati dell'art. 27 c. III Cost.

244. G. Pera, op. cit.

245. In tal senso R. Pessi, op. cit., p. 1; A. Raciti, op. cit., p. 276.

246. In "Foro it.", I, 1984, p. 1182.

247. Così M. Vitali, op. cit., p. 41.

248. In tal senso già R. Ciccotti, F. Pittau, op. cit., p. 72.

249. Nel senso di una totale equiparazione del lavoro dei soggetti detenuti a quello della popolazione libera anche la proposta di legge presentata il 3 novembre 2005 alla Camera dei Deputati sul progetto di riforma dell'ordinamento penitenziario (in "Atti parlamentari, Camera dei deputati", n. 6164, p. 17), la quale, a dimostrazione di ciò e della volontà di limare definitivamente le differenze tra il lavoro alle dipendenze di terzi e dell'amministrazione penitenziaria proponeva: "Per il lavoro, all'articolo 27 della proposta di legge vi sono modifiche che garantiscono la conformità alla legge del rapporto di lavoro attivato in carcere, anche negli aspetti formali, sostituendo alle espressioni mercede e remunerazione, tipiche del vecchio lavoro carcerario, quella propria di retribuzione".

250. Si ricordi ad esempio quanto detto rispetto ai diritti sindacali nel paragrafo 1.1.7.

251. Ci si riferisce qui all'assenza di distinzione tra datore di lavoro e titolare del rapporto punitivo, assenza rilevata da M. Vitali, op. cit., p. 10 con riguardo al lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria. Si ricordi al riguardo quanto detto nel par. 2.2.

252. Vedremo infatti come elementi quali le turnazioni lavorative, i frequenti trasferimenti dei soggetti reclusi da un istituto ad un altro e l'esiguità delle retribuzioni, solo per citarne alcuni, influiscano in tal senso.

253. Dati al 30 giugno 2008, percentuale rielaborata sulla base dei dati del D.A.P. - Ufficio per lo Sviluppo e la Gestione del Sistema Informativo Automatizzato - Sezione Statistica, dal sito del Ministero della Giustizia.

254. Ricordiamo come facciano parte del lavoro domestico incarichi quali: scopino (addetto alla pulizia dei vari ambienti dell'istituto), cuoco, aiuto-cuoco, portavitto (addetto alla distribuzione delle pietanze preparate dal servizio cucina), spesino (addetto alla consegna della spesa che deve essere ordinata tramite un apposito modulo allo spaccio interno, chiamato 'sopravvitto'), scrivano (addetto alla preparazione delle varie istanze e richieste per conto dei propri compagni, figura estremamente utile dati i tassi di alfabetizzazione e scolarità presenti nei carceri), piantone (addetto all'assistenza degli altri soggetti reclusi qualora presentino gravi problematiche di natura fisica o psichica che comportino la non completa autosufficienza), bibliotecario (addetto alla ricezione delle domande di richiesta dei testi e alla distribuzione degli stessi), addetto M.o.f. (l'acronimo M.o.f. indica la manutenzione ordinaria fabbricato, i soggetti cioè che si occupano di attività quali quelle di muratura, imbiancatura, idraulica ed ogni altra attività necessaria a mantenere in efficienza le strutture penitenziarie).

255. In tal senso, ricordiamo, M. Vitali, op. cit.

256. Spesso vi è una vera e propria identità tra agenti di sorveglianza e soggetti organizzatori dell'attività lavorativa. In questo caso l'assenza di trilateralità di cui parla M. Vitali, op. cit. risulta essere massima. La vita carceraria impone infatti all'attività lavorativa una serie di limitazioni (si pensi ad esempio all'interruzione dei rapporti di lavoro per esigenze di trasferimento del soggetto detenuto) e questo avviene per tutto il lavoro carcerario ma, in maniera particolare, per quello alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, in virtù appunto del connubio datore-soggetto incaricato della pena. Sull'analisi specifica di questi elementi ritorneremo nell'apposito paragrafo 2.6.

257. Sul tema M. Vitali, op. cit.

258. Si ricorda, ad esempio, come vari istituti penitenziari presentino difficoltà nella gestione delle pratiche assicurative e previdenziali per mancanza di personale.

259. Da questo punto di vista sarebbe quindi più corretto catalogare questa tipologia di lavoro tra i mezzi di gestione della popolazione detenuta destinati a garantire l'ordine e la sicurezza degli istituti, che non tra quelli con finalità rieducativa.

260. M. vitali, op. cit., p. 13.

261. "Commissioni regionali per il lavoro penitenziario.
Sono istituite le Commissioni regionali per il lavoro penitenziario. Esse sono presiedute dal provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria e sono composte dai rappresentanti, in sede locale, delle associazioni imprenditoriali e delle associazioni cooperative e dai rappresentanti della regione che operino nel settore del lavoro e della formazione professionale. Per il ministero del lavoro e della previdenza sociale interviene un funzionario in servizio presso l'ufficio regionale del lavoro e della massima occupazione
" (art. 25-bis c. 1 o.p.).

262. F. Cardanobile, op. cit., p. 47.

263. Per il lavoro all'esterno si applica invece la disciplina generale sul collocamento ordinario ed agricolo nonché la disciplina di cui all'art. 19 della legge n. 56 del 28 febbraio 1987 "Norme per i detenuti e gli internati" che riporta:

"C.I- (La commissione circoscrizionale per l'impiego, su richiesta delle direzioni degli istituti penitenziari esistenti nell'ambito della circoscrizione, stabilisce le modalità cui la sezione circoscrizionale deve attenersi per promuovere l'offerta di adeguati posti di lavoro da parte di imprese che, in possesso dei requisiti indicati dalle direzioni stesse, appaiono idonee a collaborare al trattamento penitenziario dei detenuti e degli internati da ammettere, a norma delle leggi vigenti, al lavoro extrapenitenziario) (comma abrogato dall'art. 8 c. 1 dlgs n. 297 del 19 dicembre 2002).
C.II- I detenuti e gli internati hanno facoltà di iscriversi nelle liste di collocamento e, finché permane lo stato di detenzione o di internamento, sono esonerati dalla conferma dello stato di disoccupazione. Su richiesta del detenuto o dell'internato, la direzione dell'istituto penitenziario provvede a segnalare periodicamente lo stato di detenzione o di internamento.
C. III- Lo stato di detenzione o di internamento non costituisce causa di decadenza dal diritto all'indennità di disoccupazione ordinaria o speciale.
C. IV- Quando viene svolta un'attività lavorativa remunerata all'interno o all'esterno degli istituti penitenziari, l'indennità di cui al comma 3 non è cumulabile con la retribuzione fino a concorrenza dell'ammontare della retribuzione medesima.
C. V- Il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, su proposta della commissione centrale per l'impiego, determina i criteri di computo dell'anzianità figurativa che deve essere riconosciuta agli ex detenuti o internati che si iscrivono alle liste di collocamento entro 15 giorni dalla scarcerazione, in relazione alla durata del periodo di carcerazione.
C. VI- Quando il lavoro a domicilio si svolge all'interno degli istituti penitenziari, il datore di lavoro versa alla direzione dell'istituto medesimo le somme dovute al lavoratore al netto delle ritenute previste dalle leggi vigenti, dimostrando ad essa l'adempimento degli obblighi relativi alla tutela assicurativa, previdenziale ed infortunistica.
C. VII- Per il lavoro a domicilio svolto all'interno dell'istituto penitenziario, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni della legge sull'ordinamento penitenziario in materia di svolgimento di attività artigianali, intellettuali o artistiche per proprio conto".

264. Al riguardo G. Canoro, Manuale dell'operatore penitenziario, Lucca, 1998, p. 665 richiamando la decisione espressa dalla sede centrale Inps di Roma con la circolare n. 2850 del 27 aprile 1982.

265. Al riguardo si ricorda come la responsabilità dell'assistenza previdenziale e assicurativa dei detenuti ricada sul funzionario delegato che, in qualità di direttore dell'istituto viene a ricoprire anche il ruolo di datore di lavoro. Per la responsabilità del capo contabile e del direttore dell'istituto per danno erariale alle casse dello Stato dovuto ad ammanco di versamenti contributivi da effettuare si veda Decisione della sezione giurisdizionale della Corte dei Conti della Regione Emilia Romagna n. 2026 del 25 settembre 2003.

266. Riguardo alla tipologia e qualità degli adempimenti assicurativi e previdenziali infatti M. Petruzzo, C. Boldrini, Appunti di amministrazione penitenziaria, Laurus Robuffo, Roma, 2008, p. 100 sostengono: "La normativa contabile penitenziaria non si dilunga molto sugli aspetti previdenziali, assistenziali, e fiscali connessi al lavoro penitenziario, ma è chiaro che l'amministrazione deve provvedere agli adempimenti previdenziali, assistenziali e fiscali con le stesse modalità del settore privato".

267. Si pensi ad esempi alla non applicazione dei minimali giornalieri di contribuzione, come risulta dalla circolare Dap n. 0102576 del 18 marzo 2009.

268. M. Ruotolo, op. cit., p. 173.

269. Legge n. 663 del 1986.

270. Problematiche di tipo costituzionale rimasero però vive per quelle trattenute effettuate dal momento dell'abolizione della Cassa al 1986. La Corte costituzionale con sentenza n. 49 del 18 febbraio 1992 ha dichiarato illegittima la previsione di trattenuta dell'art. 23 per contrasto con l'art. 3 Cost. sostenendo che: "essendosi sostituiti alla Cassa enti portatori di interessi plurimi, sono venuti meno la specifica destinazione delle trattenute di cui trattasi al soddisfacimento dei bisogni delle vittime delle azioni delittuose e il vincolo di solidarietà tra detenuti e vittime dei delitti, sicché le trattenute sono dirette a soddisfare finalità di beneficenza pubblica. E siccome il relativo onere deve gravare sull'intera collettività e non solo sui detenuti che lavorano, sussiste violazione del richiamato art. 3 della Costituzione, ponendosi un'irrazionale ingiustificata discriminazione tra i detti detenuti e gli altri cittadini".

271. Sul tema F. Cardanobile, op. cit., p. 56.

272. Qualora la retribuzione fosse realmente molto inferiore "non può del tutto escludersi che, trattandosi di un diritto soggettivo, il lavoratore possa adire, come nella specie, il giudice del lavoro il quale può disapplicare l'atto determinativo della mercede se importi violazione dei su richiamati precetti costituzionali". Come però considera M. Vitali, op. cit., p. 15 tale soluzione appare "poco convincente e contraddittoria con le premesse da cui muove, dal momento che l'affermazione della esistenza in capo al detenuto di un diritto tutelabile ex art. 36 Cost. avanti il giudice ordinario dovrebbe portare alla esclusione di un potere discrezionale dell'Amministrazione penitenziaria nella determinazione della mercede che, per rispondere ai requisiti di proporzionalità e sufficienza richiesti dalla Corte, non potrebbe che essere parametrata ai minimi contrattuali stabiliti dalla contrattazione collettiva nazionale".

273. Si creerebbe infatti l'assurda situazione in cui per lo stesso lavoro due soggetti potrebbero ricevere una retribuzione diversa solo perché l'uno è libero e l'altro recluso o comunque sottoposto a provvedimenti dell'autorità giudiziaria.

274. Ci si riferisce qui ad elementi quali turnazioni o trasferimenti, dei quali parleremo in un apposito paragrafo successivo.

275. Si ricorda come la base contributiva riesce ad incidere non solo in quanto tale, cioè come elemento di partenza per il calcolo delle varie prestazioni, ma anche su altri fattori. La non corrispondenza delle mercedi ai parametri dei C.c.n.l. ha, ad esempio, fatto sì che non si potessero estendere ai detenuti i minimali contributivi giornalieri (che sulla base dei C.c.n.l. vengono calcolati). Questo, come vedremo nell'apposito paragrafo sulle pensioni, non ha mancato di portare ulteriori conseguenze negative.

276. L'abolizione della distinzione tra mercede e retribuzione, con la conseguente estensione della retribuzione sindacale a tutti i tipi di detenuti lavoratori, era prevista dal più volte citato progetto di riforma dell'ordinamento penitenziario del 2005.

277. Al riguardo si fa presente che le retribuzioni sindacali prese attualmente a base per il calcolo delle mercedi spettanti ai lavoratori sono quelle relative all'anno 1993. Oltre 16 anni di assenza di aggiornamenti creano una differenza tale da non ledere solamente il diritto alla retribuzione del lavoratore, ma anche il suo diritto alla propria posizione contributiva. Sull'argomento ritorneremo abbondantemente nell'analisi delle singole tutele.

278. M. Vitali, op. cit., p. 19.

279. Art. 47 c. IV reg. esec.

280. In violazione del divieto di appalto di manodopera previsto dall'art. 1 della legge n. 1369 del 1960.

281. A. Basso, Il lavoro inframurario alle dipendenze di terzi e lavoro extramurario, in AA.VV. Il lavoro dei detenuti, Cacucci, Foggia, 2007, p. 40.

282. Pur applicando sempre il conteggio dei 2/3 della paga sindacale le mercedi per questi lavori vengono ad essere, generalmente, maggiori.

283. A norma dell'art. 47 del d.p.r. n. 230 del 2000 è previsto che i detenuti dipendano, in caso di gestione da parte di aziende esterne, direttamente da quest'ultime.

284. Si ricordi che l'espressione, da noi più volte richiamata, è utilizzata da M. Vitali, op. cit.

285. Il detenuto lavoratore rischia infatti in questi casi di essere un soggetto estremamente debole in quanto, compresso tra l'istanza punitiva propria della realtà carceraria e un'eventuale iniqua offerta di lavoro non avrebbe, in virtù dell'assenza di alternative, una reale libertà di scelta.

286. M. Vitali, op. cit., p. 21.

287. Mentre infatti per un qualsiasi lavoratore questi assegni potrebbero essere conteggiati direttamente in busta paga, l'operatività dell'art. 23 o.p. fa sì che per i lavoratori reclusi questi vadano spediti ai beneficiari e che di questa spedizione se ne faccia carico l'Amministrazione. Da ciò risulta quindi chiaro che la necessità di invio da parte dell'Amministrazione di tali somme ai familiari non deriva dall'instaurazione di un rapporto di lavoro tra quest'ultima e il soggetto detenuto (o internato), ma dalla qualità stessa di detenuto o internato, indipendentemente dalla natura del datore di lavoro.

288. È stato considerato come il lavoro all'esterno, che avrebbe natura di mero metodo di organizzazione del lavoro e non di vera alternativa alla detenzione, si sia sempre più avvicinato, specie dopo la riforma Gozzini, ai caratteri propri dell'istituto della semilibertà. In tal senso M. Vitali, op. cit., p. 29 sostiene che aver subordinato il provvedimento di ammissione al lavoro all'esterno della direzione dell'istituto all'autorizzazione del Magistrato di Sorveglianza lo ha portato ad essere più simile al modello della semilibertà: "Di fronte a queste modifiche, si poteva con una certa fondatezza sostenere che il lavoro all'esterno si era spostato dall'ambito delle modalità trattamentali a quello delle misure alternative alla detenzione, sia pure in senso lato: formalmente, rimaneva distinto dalla semilibertà, ma nella prassi la sostanza dell'istituto era divenuta quella di una modalità di esecuzione della pena extramuraria, sia pure meno stabilmente garantita, in assenza di un vero procedimento giurisdizionalizzato per la concessione e per la revoca, e con uno spazio di libertà più ridotto".

289. Si ricorda come quest'ultima misura più che un'alternativa alla pena si possa considerare una modalità di esecuzione della stessa poiché "viene sostituito a quello in istituto, il trattamento fuori dall'istituto, perché ritenuto più idoneo sulla base dell'osservazione, al raggiungimento delle finalità, di prevenzione e di emenda, proprie della pena" (così Corte cost., 13 giugno 1985, n. 185, in "Foro it.", 1985, I, pp. 1888 e ss.). Va inoltre considerato come la presenza di un'attività lavorativa all'esterno non sia considerato elemento essenziale per l'affidamento in prova ai servizi sociali (in tal senso Corte Cass., 11 marzo 1993, Sica, in "CED Cass. pen.", n. 213558; Corte Cass., 26 giugno 1995, Battilomo, in "CED Cass. pen.", n. 202198; Corte Cass., 14 luglio 1994, Panaro, in "Cassazione Penale", 1995, I, p. 56; Corte Cass., 27 maggio 1987, Santi, in "Cassazione Penale", 1988, p. 1521; Corte Cass., 25 ottobre 1994, Lerna, in "Cassazione Penale", 1995, fasc. 3, p. 75; Corte Cass., 26 gennaio 1995, Agnello, in "Cassazione Penale", 1995, fasc. 5, p. 25.). L'affidamento in prova quindi rileva solo parzialmente come mezzo attraverso il quale un soggetto può giungere al lavoro all'esterno. Ad analoga conclusione si può giungere anche con riguardo al regime di semilibertà. Al di là di una minoritaria giurisprudenza (Corte Cass., sez. I, 11 aprile 1996, Musto, in "CED Cass. pen.", n. 205167) che ha ritenuto elemento essenziale per l'ammissione a tale misura alternativa la presenza di una attività lavorativa, la norma dell'art. 48 o.p. prevede "attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale".

290. Sul tema M. Vitali, op. cit., pp. 28 ss.

291. In maniera praticamente analoga con quanto abbiamo visto accadere riguardo alle lavorazioni alle dipendenze di datori terzi.

292. M. Vitali, op. cit., p. 35.

293. Al riguardo si riportavano almeno due motivazioni: da un lato si considerava norma illegittima in quanto praeter legem, poiché previsioni del genere non erano introducibili attraverso norme di attuazione (Mag. sorv. Brescia, 31 luglio 1984, Mestriner, in "Rassegna di studi penitenziari e criminologici" 1984, pp. 488 e ss.; Pret. Brescia, 13 novembre 1985, Mestriner c. Min. Giust, in "Rassegna di studi penitenziari e criminologici" 1986, pp. 301 e ss.), dall'altro si considerava illegittima in quanto lesiva del diritto del semilibero a percepire direttamente la propria retribuzione (Pret. Brescia, 27 novembre 1985, Mestriner c. Ditta Mestriner, in "Foro it." 1986, I, p. 1430). Tale lesione sarebbe a sua volta avvenuta in virtù del contrasto con la ratio rieducativa della semilibertà e del fatto che l'amministrazione penitenziaria, in questo caso, era soggetto del tutto estraneo al rapporto lavorativo.

294. La Corte sosteneva l'assenza di contrasto poiché la semilibertà si basa sulla rieducazione del soggetto e non sulla "libera disponibilità del reddito da lavoro". La disposizione in questione, inoltre, deve considerarsi secundum legem, e quindi legittima, poiché interpreta ed integra l'ordinamento penitenziario (Corte Cass., 3 febbraio 1989, n. 685, cit., pp. 1093 e ss.).

295. Circ. DAP 2 ottobre 1996, n. 577275/13.

296. Si vedano gli artt. 48 c. X (lavoro all'esterno) e 54 c. 1 (lavoro in regime di semilibertà).

297. Facciamo presente, pur in assenza di dati ufficiali al riguardo, che entrambi queste tipologie di attività lavorativa hanno all'interno della realtà carceraria un'incidenza estremamente limitata.

298. M. Vitali, op. cit., p. 9.

299. Si crea perciò una commistione tra la norma dell'art. 51 (quanto alle attività artigianali, intellettuali e artistiche) e le apposite norme stabilite dalla legge n. 877 del 1973 (normativa generale sul lavoro a domicilio) su questa tipologia di lavoro.

300. Come la norma stessa si affretta a precisare il vincolo di subordinazione in questo caso deriva dall'"osservare le direttive dell'imprenditore circa le modalità di esecuzione, le caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere nella esecuzione parziale, nel completamento o nell'intera lavorazione di prodotti oggetto dell'attività dell'imprenditore committente".

301. Salvo, come abbiamo più volte ripetuto, l'affidamento in prova ai servizi sociali.

302. Nonostante la 'dimenticanza' nel dettato normativo si deve ritenere, per completezza e coerenza del sistema, che vi sia l'obbligo per il datore di lavoro di versare all'istituto anche i relativi importi degli assegni per il nucleo familiare, calcolati in base alla documentazione fornita dal carcere stesso.

303. Sul tema si veda M. Vitali, op. cit., p. 55.

304. Si consideri al riguardo come, infatti, per gli imputati, i quali come abbiamo più volte ricordato non sono sottoposti all'obbligo lavorativo, non sia necessaria alcuna autorizzazione da parte del direttore per l'ammissione a questa attività.

305. Corte Cass., 14 aprile 1992, Leggio, in "Cass. pen.", 1993, p. 1549.

306. L'amministrazione penitenziaria, infatti, già in una nota del 1979 indirizzata all'Inps e al Ministero del lavoro (nota n. 457995/9 del 19 giugno 1979) chiedeva chiarimenti sulla situazione relativa a chi svolgesse attività artigianale in stato di detenzione. Dopo una serie di delucidazioni incrociate circa le reali modalità di svolgimento e vendita di questi manufatti l'Inps, nel 1982 (nota 27/9/9368 del 21 maggio), rispondeva che poteva in linea di massima riconoscersi lo svolgimento di un'attività di tipo artigianale e, quindi, assoggettabile alle relative norme di legge. I soggetti in questione avrebbero dovuto quindi iscriversi negli elenchi di categoria passando tramite il vaglio delle Commissioni provinciali per l'artigianato costituite presso le camere di commercio. L'Inps richiedeva inoltre un parere sull'argomento al Ministero del lavoro, parere mai arrivato.

307. Sul tema si veda anche R. Ciccotti, F. Pittau, Il lavoro in carcere, cit., p. 122 e sempre R. Ciccotti, F. Pittau, Introduzione ai problemi del lavoro e della previdenza in carcere, in "Lavoro e previdenza oggi", 1984, p. 2016.

308. Va considerato anche un ulteriore problema: le contribuzioni relative a questi tipi di attività sono a carico del lavoratore stesso e questo può essere un altro motivo per cui raramente i soggetti sono assicurati, vista l'esiguità dei loro introiti e la spesso eccessiva onerosità della copertura assicurativo-previdenziale.

309. M. Vitali, op. cit.

310. M. Ruotolo, op. cit., p. 180 considera il luogo in cui l'attività lavorativa si svolge un elemento influente sui diritti dei detenuti.

311. Si pensi al dettato dell'art. 20 c. XVII riguardo a durata delle prestazioni, riposo festivo e tutela assicurativa e previdenziale, o alle previsioni dell'art. 23 circa gli assegni per il nucleo familiare.

312. In tal senso G. Tranchina, op. cit., p. 154.

313. In tal senso invece S. Bellomia, op. cit., p. 926. Si ricorda infatti come, riguardo al lavoro all'esterno e ai semiliberi, sia previsto il generale esercizio "dei diritti riconosciuti ai lavoratori liberi con le sole limitazioni che conseguono agli obblighi inerenti all'esecuzione della misura privativa della libertà" (artt. 48 c. XI e 54 c. II reg. esec.).

314. Si pensi, ad esempio, al diritto alle ferie o ai diritti sindacali che non sono affatto citati nell'art. 20 c. XVII o.p.

315. In questa sede il termine non è utilizzato in senso tecnico, ma per indicare il lavoro comunque svolto alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria.

316. Legge n. 300 del 20 maggio 1970.

317. Riguardo alle ferie si veda anche Lettera Circolare Dap n. 010095 del 21 marzo 2006.

318. Corte cost., 10-22 maggio 2001, n. 158, in "Diritto penale e processo", n. X, 2001, pp. 244 e ss.

319. Si veda al riguardo M.R. Marchetti, in Franco della Casa (a cura di), Ordinamento penitenziario, Cedam, 2006, pp. 288 ss.

320. Purché, come nota giustamente M. Vitali, op. cit., pag. 15 "l'organizzazione sindacale cui il soggetto si rivolga non ponga, all'interno del proprio statuto o atto costitutivo, vincoli all'accettazione della domanda di iscrizione, correlati, per esempio, all'incensuratezza o al più generico concetto di buona condotta morale e civile dei richiedenti l'ingresso nell'associazione".

321. Nel primo senso G. Tranchina, op. cit., pp. 154-156. Riguardo al secondo U. Romagnoli, Il lavoro nella riforma carceraria, cit., p. 103.

322. Mentre quella relativa al diritto di sciopero è una tesi dal carattere realmente minoritario, quella che vede, per questo tipo di lavoratori, serie difficoltà (se non impossibilità) nell'organizzare eventi sindacali collettivi sembra raggiungere, tra gli studiosi di settore, maggior consenso.

323. In tal senso M. Vitali, op. cit., p. 15.

324. Si ricorda che della tutela giurisdizionale del lavoro dei detenuti parleremo nell'apposito par. 5.

325. G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, cit., p. 146.

326. Tra i fattori più comuni lo 'sfollamento' per eccessivo numero di soggetti in un istituto oppure la pratica del tutto illegale, ma purtroppo spesso ancora praticata, che vuole dei detenuti trasferiti solo perché problematici da gestire per il personale di sorveglianza.

327. Si pensi, ad esempio, al mancato raggiungimento del numero di giornate lavorative necessario per fruire dell'indennità di disoccupazione o all'assenza dei requisiti contributivi richiesti per le prestazioni pensionistiche e di invalidità.

328. In verità, come abbiamo già illustrato, la finalità rieducativa del lavoro carcerario sarebbe esclusa a priori, dato il carattere arcaico degli incarichi alle dipendenze dell'A.P. La durata dell'impiego rileva quindi solo per quei pochi lavori che possono offrire una qualche preparazione professionale (quali ad esempio le attività della M.o.f. o della cucina).

329. Vedremo nel paragrafo sulle tutele pensionistiche quali risvolti abbia questa situazione sul lavoratore.

330. L'immatricolazione del soggetto viene effettuata presso un apposito ufficio dell'istituto penitenziario e consiste nella compilazione di una vera e propria cartella contenete generalità, dati fisici, immagine fotografica e impronte digitali.

331. Si parla spesso di dati e codici fiscali relativi alla precedente carcerazione perché, come abbiamo già detto nel par. 1.1.8, per gli stranieri clandestini le attività lavorative carcerarie sono le uniche che possono essere svolte regolarmente e dar quindi vita ad una posizione contributiva.

332. Vi sono soggetti ormai talmente adusi alla vita criminale da entrare ed uscire frequentemente dagli istituti di pena. Si tratta perlopiù di soggetti che vivono ai margini della società, autori spesso di piccoli reati finalizzati alla propria sussistenza.

333. Questi soggetti, ad esempio, avendo frequentemente cambiato le loro generalità e, conseguentemente, il loro codice fiscale e la loro posizione contributiva, raramente potranno far valere una anzianità contributiva di una qualche consistenza.

334. I verbali sono redatti dagli stessi agenti che hanno provveduto all'arresto, spesso senza adoperare in ciò le dovute cautele, ma traslitterando semplicemente in caratteri italiani il nome dichiarato dal soggetto.

335. Si noti come questi problemi di natura tecnica derivano da un non ancora completo funzionamento del sistema unificato di archiviazione delle impronte digitali presente anche presso gli uffici 'matricola' dei vari istituti penitenziari. Qualora questo sistema fosse perfettamente funzionante infatti sarebbe del tutto inutile per il soggetto dichiarare un alias al momento dell'arresto e sarebbe impossibile essere registrato con un errore nei propri dati anagrafici. Ovviamente le conseguenze penali di una totale attivazione di questo sistema sarebbero ingenti (specie riguardo alle contestazioni di false generalità e di precedenti penali), dal punto di vista prettamente previdenziale permetterebbe però la risoluzione di un grosso problema.

336. Questione che si risolverà in parte, come vedremo, solo con l'art. 30 della legge n. 903 del 1965.

337. Vi erano infatti "pesanti limitazioni ai canali tradizionali di cui si servono i detenuti per comunicare con la società libera (corrispondenza, colloqui, visite di persone estranee allo stabilimento, libri e giornali)". G. Neppi Modona, Vecchio e nuovo nella riforma dell'ordinamento penitenziario, in M. Cappelletto, A. Lombroso (a cura di), Carcere e società, Padova, 1976, p. 68.

338. U. Romagnoli, Il lavoro nella riforma carceraria, cit., p. 93.

339. Così A. Basso e I. Careccia, L'evoluzione del lavoro in carcere, in AA.VV. Il lavoro dei detenuti, Cacucci, Foggia, 2007.

340. R. Ciccotti, F. Pittau, Il lavoro in carcere, aspetti giuridici e operativi, cit., p. 52.

341. Si noti, a riprova di quanto finora detto circa l'attività lavorativa, che al comma 3 lo stesso articolo stabiliva: "L'autorità dirigente può derogare eccezionalmente alle disposizioni concernenti il riposo festivo e la durata del lavoro".

342. Così U. Romagnoli, Il lavoro nella riforma carceraria, cit., p. 94.

343. G. Novelli, Il lavoro dei detenuti, in "Rivista di diritto penitenziario", 1930, p. 500; G. Tamburino, Il lavoro nelle misure alternative e la rieducazione dei detenuti, in Lo stato di attuazione della riforma e il ruolo degli enti locali, Marsilio, Venezia, 1979. Questa aberrante mentalità che vede un''indegnità' del soggetto recluso a fruire delle tutele sociali purtroppo sembra non essere ancora del tutto cancellata.

344. Fu infatti il comitato esecutivo dell'Inps, di accordo con i rappresentanti dell'amministrazione penitenziaria, con delibera del 24 aprile 1940 a stabilire tali limitazioni all'applicazione del r.d.l. n. 636 del 14 aprile 1939.

345. R. Ciccotti, F. Pittau, Il lavoro in carcere, aspetti giuridici e operativi, cit., p. 114.

346. Si pensi ad esempio alla previsione di un contributo fisso in misura unica per tutte le classi di lavoratori pari a quello stabilito per la prima classe di salario.

347. Al riguardo si veda il paragrafo sulle pensioni.

348. R. Ciccotti, F. Pittau, Il lavoro in carcere, aspetti giuridici e operativi, cit., p. 113.

349. Era infatti stato approvato con Regio decreto 18 giugno 1931, n. 787.

350. Cfr. Sent. n. 72 e n. 91 del 1968, in "Giur. cost.", 1968, pp. 1033 e 1494; Sentenza n. 40 del 1970 in "Giur. cost.", 1970, p. 483.

351. R. Ciccotti, F. Pittau, Il lavoro in carcere, aspetti giuridici e operativi, cit., p. 19.

352. Giova ricordare come si sia più di una volta notato che il testo parla solamente di tutele previdenziali e assicurative, senza niente dire circa le tutele assistenziali. Quest'ultime erano invece previste nell'originario disegno di legge. Secondo R. Ciccotti e F. Pittau, Il lavoro in carcere, aspetti giuridici e operativi, cit., p. 112 sembra che questa sia stata semplicemente una "mera svista". Rimane comunque l'appiglio fornito dal giudizio di costituzionalità dell'ordinamento in questione. Qualora infatti venissero lesi per mezzo di questo dei diritti di rango costituzionale, essendo la n. 354, a differenza dell'ordinamento precedente, una legge, sarebbe percorribile giudizio di legittimità (come è ad esempio avvenuto riguardo alla trattenuta dei 3/10).

353. Giustamente considerano anche R. Ciccotti e F. Pittau, Il lavoro in carcere, aspetti giuridici e operativi, cit., p. 42 che: "Nel contesto del nuovo ordinamento penitenziario, fatte salve le particolarità derivanti dallo stato di detenzione, la tutela del lavoro avviene alla stregua delle usuali leggi vigenti in materia di lavoro, per cui dovrebbe essere superato il virus della separatezza. A questo punto conviene portare il discorso su tali particolarità, per giudicarne consistenza e conseguenze".

354. Ed in particolar modo di quello alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria.

355. Si veda al riguardo, nel paragrafo sulle pensioni, la discussione circa la possibilità di formare la contribuzione utile alla pensione di vecchiaia di anzianità o di vecchiaia tramite i soli contributi derivanti dal lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria. Si veda anche l'ormai storica querelle dottrinale circa la concessione delle indennità di disoccupazione ai lavoratori detenuti.

356. Si pensi ad esempio alla non applicazione dei minimali contributivi giornalieri, della quale sempre nel paragrafo sulle pensioni, o all'esplicita impossibilità di applicazione della cosiddetta Social card ai soggetti ultra-sessantacinquenni in stato di detenzione.

357. In tal senso, come abbiamo visto, si erano già espressi G. Novelli, op. cit. e G. Tamburino, op. cit.

358. Un importante passo in avanti in tal senso sarebbe l'abolizione della distinzione tra mercede e retribuzioni. Un progetto del genere era contenuto nel disegno di legge, più volte citato, presentato alla camera nel 2005 per l'approvazione di un nuovo ordinamento penitenziario. Tale previsione potrebbe forse essere l'ultima tappa di un percorso di totale equiparazione tra lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria e lavoro libero.

359. Come avevamo già accennato il lavoro compiuto alle dipendenze di terzi, benché carcerario, (sia questo interno o esterno all'istituto) è sostanzialmente equiparabile come regime a quello del lavoro libero. Ci interessa quindi analizzare in maniera particolare le tutele dell'attività lavorativa svolta alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria.

360. Non dobbiamo dimenticare infatti come esista, elemento al quale abbiamo più volte accennato, un vero e proprio doppio binario tra il sistema di collocamento esterno e quello interno. Altrettanto vale per molti aspetti della disciplina lavoristica, specie con riguardo al lavoro alle dipendenze della amministrazione penitenziaria. Proprio questa dualità ha creato spesso problemi, come vedremo, riguardo alla fruizione di disoccupazioni (e di altre prestazioni) 'provenienti dall'esterno'.

361. Art. 19 legge n. 56 del 1987 Norme per i detenuti e gli internati.

362. Sul tema M. Vitali, op. cit., p. 13.

363. Si dubita infatti, pur nel silenzio della norma, che il lavoro alle dipendenze di datori terzi si avvalga di questo regime di collocamento/disoccupazione scisso rispetto a quello esterno. Sembra che questo aspetto riguardi più propriamente il lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria. A riprova di ciò il fatto che mentre un lavoratore alle dipendenze di quest'ultima, per il regime di collocamento esterno, risulta formalmente disoccupato, quello alle dipendenze di terzi risulterà invece occupato alla stregua di qualsiasi altro dipendente libero di quella stessa azienda. Il motivo di questa particolarità, come al solito, è da riscontrarsi nella maggior peculiarità del lavoro alle dipendenza dell'amministrazione, nella sua obbligatorietà, nella sua funzione rieducativa e, soprattutto, nel suo particolare regime di collocamento.

364. R. Ciccotti, F. Pittau, La tutela previdenziale dei detenuti e degli internati, in "Previdenza sociale", 1985, fasc. V, p. 910.

365. Si noti che l'iscrizione non deve necessariamente essere effettuata da un appartenente al corpo di Polizia penitenziaria, potendo essere effettuata anche da personale esterno quale quello autorizzato ex artt. 17 o 78 o.p. o dai parenti dello stesso muniti di apposita delega e dei necessari documenti. Conviene ricordare inoltre come questa possibilità d'iscrizione sia stata a lungo sfruttata anche con riguardo alle prestazioni di invalidità civile, finché l'iscrizione nelle apposite liste di collocamento speciali era requisito per l'erogazione di quest'ultime.

366. A. Morrone, Lavoro penitenziario e indennità di disoccupazione, in "Previdenza e assistenza pubblica e privata", 2006, fasc. 3-4, pt. 2, p. 569.

367. Anche in questo caso come si può notare il lavoro alle dipendenze di datori terzi è equiparato a quello compiuto da liberi in quanto sottoposto a medesimo regime di collocamento e capace di dar vita alle stesse tutele. Si ricorda, come vedremo accuratamente più avanti, che il lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria non è invece capace di dar vita a disoccupazione a requisiti interi, stanti le sue peculiarità, ma solo a requisiti ridotti.

368. Si noti come anche in questo caso si stia parlando delle prestazioni di disoccupazione a requisiti interi poiché la fruizione dell'indennità di disoccupazione a requisiti ridotti, grazie la sua natura di prestazione 'differita' (basata cioè su uno stato di bisogno non attuale ma inerente all'annualità precedente), è normalmente compatibile con lo svolgimento di attività lavorativa. Solo la prestazione a requisiti interi richiede infatti un effettivo e contestuale stato di inattività del soggetto beneficiario della prestazione.

369. Si noti che ovviamente si sta parlando di prestazioni in rapporto di 'attualità' con lo stato di disoccupazione, non di quelle prestazioni, quali ad esempio la disoccupazione ordinaria a requisiti ridotti, che operano in maniera 'differita'.

370. Si ritiene che anche in questo caso la previsione riguardi però il solo lavoro alle dipendenze dell'A.P. Per quanto riguarda il lavoro alle dipendenze di terzi, infatti, l'applicazione del comune regime di collocamento non permetterebbe questo tipo di particolarità della tutela.

371. Si veda al riguardo M. Villa, Cosa accade al rapporto di lavoro nel caso di carcerazione preventiva del lavoratore?, in "Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale", 2000, fasc. 1, pt. 2, pp. 78 - 81 (commento a sent. Cass. sez. lavoro 1º settembre 1999 n. 9239).

372. Si veda al riguardo, pur con le dovute riserve circa l'affidabilità delle stesse, le statistiche di Pianeta carcere dal sito del Ministero della Giustizia.

373. Ci si sta riferendo alle statistiche del Ministero di cui a nota precedente che su un campione di c.a. 58.000 soggetti riportavano la dicitura 'non rilevato' per oltre 38.000.

374. Si pensi ad esempio alle pratiche di disoccupazione a requisiti ridotti che richiedono un'anzianità di almeno una settimana di contributi contro la disoccupazione involontaria prima del 31 dicembre dei due anni precedenti a quello della domanda. Parametro che spesso può facilmente rilevare informazioni circa la vita lavorativa del soggetto.

375. Si veda par. 2.6.

376. R. Ciccotti, F. Pittau, Il lavoro in carcere, cit., p. 138.

377. Si veda al riguardo R. Ciccotti, F. Pittau, La tutela previdenziale dei detenuti e degli internati, cit., pp. 881-923.

378. Si veda al riguardo l'art. 19 c. VI della legge n. 56 del 28 febbraio 1987 e tutte le altre norme che prescrivono la possibilità di controllo da parte dell'A.P. sugli adempimenti assicurativi e previdenziali da parte del datore esterno.

379. A. Morrone, op. cit., p. 569.

380. Si pensi alla valutazione circa l'involontarietà dello stato di disoccupazione effettuata nel cap. I par. 3.

381. Tale impossibilità, come nota giustamente A. Morrone, op. cit., risulta ancora più incomprensibile alla luce della pronuncia della Corte costituzionale n. 26 dell'11 febbraio 1999 secondo la quale l'esecuzione penale e la rieducazione del reo non possono intaccare talune posizioni soggettive esclusive dei soggetti, tra le quali rientrerebbe anche il diritto alla prestazione di disoccupazione. A conforto della necessità della previsione della tutela della disoccupazione anche Sent. Corte cost. n. 158 del 22 Maggio 2001 che ha sancito la generale equiparazione tra lavoro carcerario e lavoro libero.

382. La dottrina parla spesso di disoccupazione in maniera generica non effettuando alcuna distinzione tra quella a requisiti interi e quella a requisiti ridotti; distinzione che nel caso di lavoro alle dipendenze dell'A.P. risulta quanto mai importante. Questo secondo tipo di disoccupazione infatti, pur offrendo tutela di minore portata, non richiede un esplicito atto di licenziamento ma considera solo il fatto che il soggetto non abbia lavorato per tutto l'anno, quale che ne sia il motivo tecnico (si accontenterà perciò anche della sospensione del lavoratore o di un contratto, come quelli di part -time, che non assicurino una costanza nell'attività).

383. Anche per la disoccupazione a requisiti ridotti è infatti richiesta la necessità di poter vantare almeno una settimana di contributi contro la disoccupazione prima del 31 dicembre dei due anni precedenti a quello della domanda. Tale requisito, a causa dell'esteso stato di disoccupazione dei soggetti detenuti prima della carcerazione, risulta essere un duro sbarramento. Si veda al riguardo delle cause dell'assenza di anzianità contributiva quanto dicevamo poco sopra.

384. Si noti che questo vale solo per la disoccupazione a requisiti ridotti, non anche per quella a requisiti interi.

385. Le mercedi dei lavoranti alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria sono state aggiornate per l'ultima volta nel giugno 1993 (con effetto sul semestre 1 maggio 1993 / 31 ottobre 1993). Si tratta quindi di un ritardo di 16 anni in un periodo storico di forte inflazione e mutamenti economici. Vedremo nel corso dei vari paragrafi le problematiche che da ciò conseguono.

386. Tali modelli contengono il conteggio delle giornate lavorate da ogni soggetto e devono essere infatti consegnati dalle direzioni degli istituti all'Inps a fronte di ogni richiesta di disoccupazione che riguardi una lavorazione svolta alle loro dipendenze.

387. Si ricorda al riguardo che la prestazione di disoccupazione a requisiti ridotti viene erogata per un massimo di 180 giornate, da calcolare sulla base della differenza tra le giornate lavorative disponibili in un anno e le giornate effettivamente lavorate.

388. Secondo i dati forniti dal D.A.P. - Ufficio per lo Sviluppo e la Gestione del Sistema Informativo Automatizzato - Sezione Statistica, i lavoranti agricoli o almeno, come vedremo, quelli registrati come tali, costituivano il 2,8% della popolazione detenuta lavorante al 30 giugno 2008.

389. Si veda al riguardo G. Canoro, Manuale dell'operatore penitenziario, cit., p. 655 che richiamando la circolare n. 80 del 28 marzo 1996 del Ministero degli interni richiedeva la presenza del permesso di soggiorno per la messa al lavoro di detenuti stranieri. Si veda, inoltre, come l'orientamento sia successivamente del tutto mutato, come dimostra la circolare D.A.P. n. 547671/10 del 12 aprile 1999 la quale esprime la non necessità del permesso di soggiorno per il rilascio del codice fiscale sulla base del fatto che "lo spazio di detenzione costituisce già di per sé una condizione di soggiorno obbligatorio".

390. L'analisi delle settimane di contributi sulla base dei minimali settimanali depone infatti totalmente a sfavore dei soggetti reclusi i cui stipendi, come abbiamo visto, sono spesso irrisori a causa dell'assenza di aggiornamenti nelle mercedi. Gli unici che possono quindi aspirare ad una prestazione di questo tipo sono i lavoratori stabili e qualificati (si pensi ad esempio ad idraulici, addetti cucine, addetti M.o.f.).

391. Volendo chiarire meglio la questione possiamo illustrare come i minimali contributivi settimanali stabiliti per l'anno 2009 siano di euro 183,10; questo fa sì che un detenuto che guadagni alla settimana (pur lavorando quotidianamente) esattamente la metà di questa cifra alla fine di ogni hanno si vedrà riconosciuta una contribuzione pari a 26 settimane (invece di 52), riuscendo così a malapena a raggiungere la soglia necessaria per la disoccupazione a requisiti interi (di 52 settimane in 2 anni). Se il reddito fosse poi inferiore alla metà non vi potrebbe in alcun modo accedere. L'esiguità delle mercedi porta ad analoghe conseguenze, come vedremo, anche sul fronte pensionistico.

392. Tale documentazione è rappresentata nel caso di disoccupazione a requisiti interi dal modello ds 22 o dagli e-mens mentre, nel caso di disoccupazione a requisiti ridotti, dal modello dl 86/88 bis.

393. Sul tema si veda R. Ciccotti, F. Pittau, Il lavoro in carcere, cit., pp. 130 ss.

394. Quali, ad esempio, quelle dell'art. 273 riguardo alle maggiorazioni retributive agli internati, quelle relative alle rendite corrisposte dall'Inail o quelle sull'estensione da parte dell'Inps della prestazioni antitubercolari anche ai parenti dei lavoratori reclusi.

395. Il testo di tale articolo è stato successivamente modificato dal d.l. n. 187 del 14 giugno 1993 ma la previsione circa le tutele previdenziali è rimasta immutata rispetto alla versione del 1975.

396. Se infatti si intendesse l'istituto degli assegni per il nucleo familiare come elemento di natura retributiva non rientrerebbe tra la "tutela assicurativa e previdenziale" di cui all'art. 20 e, perciò, necessiterebbe di un'esplicita previsione. In tal senso G. Di Gennaro, M. Bonomo, R. Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, cit.

397. Circolari Inps n. 5556 G.S. del 27 novembre 1975, n. 5154 del 10 aprile 1976 e n. 5582 G.S. del 6 luglio 1977. Specie la prima delle tre era una vera e propria guida operativa in materia, al suo interno venivano stabiliti i documenti necessari alla richiesta, le modalità di calcolo, i casi in cui l'amministrazione penitenziaria poteva effettuare direttamente pagamento (assegni per moglie, per marito pensionato di invalidità o vecchiaia, per i figli minori di anni 18) e quelli in cui invece aveva bisogno di un'apposita autorizzazione da parte dell'Inps (per marito invalido non pensionato, per figlio maggiore di anni 18 studente, apprendista o inabile, per fratello, sorella, nipote, per genitore, nonno od equiparato). Si noti come ancora venisse effettuata differenziazione tra marito e moglie, permettendo a quest'ultima di richiedere assegni nei soli casi in cui il coniuge fosse stato pensionato.

398. Articolo in seguito ricalcato dall'art. 55 del nuovo regolamento di esecuzione approvato con d.p.r. n. 230 del 2000.

399. R. Ciccotti, F. Pittau, Il lavoro in carcere, cit., p. 133.

400. Si noti che una disposizione simile è stata approvata anche riguardo agli assegni per il nucleo familiare delle persone libere (per mezzo della legge n. 311 del 2004 art. 1 c. 559 che prevede "Fermi restando i requisiti di cui all'articolo 2 del decreto-legge 13 marzo 1988, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 maggio 1988, n. 153, a decorrere dal periodo di paga in corso al 1º gennaio 2005, l'assegno per il nucleo familiare viene erogato al coniuge dell'avente diritto").

401. In tal senso R. Ciccotti, F. Pittau, Il lavoro in carcere, cit., pp. 133-134.

402. Nei casi particolari in cui è previsto il richiedente dovrà compilare anche il modulo anf 42. Il coniuge del richiedente dovrà apporre apposita firma sul campo del modulo denominato 'dichiarazione di responsabilità del coniuge del richiedente'. Ove ciò non sia possibile è prevista la possibilità per il coniuge di far pervenire alla direzione un'apposita dichiarazione autentica con gli stessi contenuti di quanto previsto dal campo della modulistica. Spesso tale formalità viene espletata presso i comuni di residenza. Qualora invece anche il coniuge si trovi in stato di detenzione potrà rilasciare l'apposita dichiarazione sostitutiva davanti ad un pubblico ufficiale che ne autenticherà la firma. Come abbiamo già detto la prestazione verrà erogata direttamente al beneficiario e i costi della transazione saranno rimessi direttamente a carico dell'amministrazione penitenziaria. La contabilità dell'istituto provvederà poi a detrarre dagli importi contributivi da versare all'Inps le somme versate a titolo di Anf.

403. R. Ciccotti, F. Pittau, Il lavoro in carcere, cit., p. 132. Si vedano al riguardo art. 47 (per il lavoro presso datori eterni), 48 c. 10 (per il lavoro all'esterno) e 51 (lavoro in semilibertà) del d.p.r. n. 230 del 2000.

404. Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria.

405. Si veda al riguardo Circolare GDAp n. 008492 del 5 marzo 2009.

406. Un altro elemento di estremo danno è la necessità, basata ancor oggi sulla succitata circolare 5556, di rinnovo annuale di tutta la documentazione necessaria per la domanda di Anf (compresi stato di famiglia e atti notori). In questo modo, con cadenza annuale, i detenuti devono procurarsi la necessaria documentazione. Dobbiamo inoltre notare una perdurante ostinatezza dell'amministrazione penitenziaria a richiedere i vari documenti senza accettare autocertificazioni al riguardo (facendo così prevalere la vecchia previsione della circolare n. 5556 sulla recente possibilità di autocertificazione).

407. Si veda quanto detto riguardo alla sentenza della Cassazione n. 4419 del 7 aprile 2000, che permette al genitore di un figlio naturale con lui non convivente di poter richiedere lo stesso gli Anf. Si ricorda inoltre come, in base alle disposizioni Inps, la convivenza non sia richiesta neppure in caso di richiesta di Anf per il solo coniuge. Sul tema si veda inoltre capitolo I par. 4.

408. Circolare GDap n. 0444878 del 14 ottobre 2002. Tale circolare richiama anche la n. 691858-1/12.1 del 23/03/93 sulla messa a lavoro di soggetti privi di permesso di soggiorno e la circ. n. 547671/10 del 14.04.1999 sull'assegnazione del codice fiscale a quest'ultimi.

409. Circolare di cui a nota precedente.

410. Dati aggiornati al 31 dicembre 2008, dal sito del Ministero della Giustizia.

411. Tra questi, ricordiamo: Liechtenstein, Norvegia, Islanda, Confederazione Elvetica, Argentina, Australia, Brasile, Canada, Quebec, Capoverde, Croazia, Repubbliche ex Jugoslavia, Monaco, San Marino, Stati Uniti, Tunisia, Uruguay, Vaticano, Venezuela.

412. Secondo tale concezione infatti ai bisogni della persona reclusa provvederebbe l'istituto e quindi questa non potrebbe patire alcuno stato di necessità.

413. Si ricordi che mentre la convivenza non è elemento necessario per poter inserire moglie e figli all'interno della propria richiesta di Anf lo è nel caso di altre forme di parentela.

414. Questo secondo tema veniva quindi a riguardare tanto la fruizione di prestazioni pensionistiche formatesi fuori dagli istituti di pena che, da quando questo è possibile, prestazioni nate dai contributi del lavoro carcerario.

415. Delibera del Comitato esecutivo Inps del 24 aprile 1940.

416. R. Ciccotti, F. Pittau, Il lavoro in carcere, cit., p. 114.

417. Riguardo a queste ultime due tutele si ricordi come l'assicurazione per la nuzialità e la natalità sia stata soppressa dall'art. 24, L. 26 agosto 1950, n. 860, il quale ha disposto che i relativi contributi siano devoluti all'Ente nazionale per l'assistenza degli orfani dei lavoratori italiani (E.N.A.O.L.I.), assicurazione quest'ultima estesa ai detenuti ed in seguito soppressa.

418. Circolare Inps n. 152 del 2 maggio 1929, in "Atti ufficiali Inps", 1929, p. 91.

419. R. Ciccotti, F. Pittau, La tutela previdenziale dei detenuti e degli internati, cit., p. 884.

420. Si noti la diversità di tale sistema rispetto a quello oggi adottato per le lavorazioni alle dipendenze di datori terzi. In quest'ultimo caso infatti la direzione dell'istituto non si occupa direttamente di versare le relative contribuzioni ma si limita a controllare il regolare adempimento dei versamenti. Come stabilisce il dpr 230 del 200 infatti "I detenuti e internati che prestano la propria opera in tali lavorazioni dipendono, quanto al rapporto di lavoro, direttamente dalle imprese che le gestiscono [...] I datori di lavoro devono dimostrare alla direzione l'adempimento degli obblighi relativi alla tutela assicurativa e previdenziale".

421. Circolare del 5 gennaio 1954.

422. Il minimale di retribuzione era stabilito dalla legge n. 218 del 1952 art. 15 c. III in 400 lire giornaliere e fu abbassato a lire 150 per i detenuti adibiti ai lavori domestici tramite l'utilizzo della previsione di cui al medesimo art. 15 c. VI che sanciva: "Nel corso del primo quinquennio di applicazione della presente legge, se particolari esigenze lo richiedano a vantaggio della mutualità generale o delle categorie interessate, il limite di cui al precedente comma può essere modificato con decreto del Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, anche solo relativamente a determinate zone o a singole categorie".

423. 'Convenzione tra il Ministero di grazia e giustizia e l'Inps sull'applicazione ai detenuti dell'assicurazione per l'invalidità, vecchiaia e superstiti e dell'assicurazione per la tubercolosi', in "Atti ufficiali Inps", 1962, p. 821. Al riguardo si veda R. Ciccotti, F. Pittau, La tutela previdenziale dei detenuti e degli internati, cit., pp. 889-890.

424. Il minimale di retribuzione ai fini contributivi veniva fissato in 500 lire giornaliere. La contribuzione, effettuata sempre tramite il sistema delle marche, rimaneva a totale carico dell'Amministrazione penitenziaria, la quale effettua gli adempimenti contributivi, come abbiamo già detto, anche nel caso di lavorazioni in appalto a datori privati.

425. Ex art. 13 legge 12 agosto 1962, n. 1338, 'Disposizioni per il miglioramento dei trattamenti di pensione dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti'.

426. R. Ciccotti, F. Pittau, Il lavoro in carcere, cit., p. 117.

427. L'articolo 30 della legge 21 luglio 1965 n. 903 modificando l'art. 96 del regolamento per l'esecuzione del r.d. n. 3184 del 30 dicembre 1923 approvato con r.d. 28 agosto 1924 n. 1422 recitava: "Nel caso di condanna, per sentenza passata in giudicato, alla reclusione per un periodo superiore ad un anno, se il pensionato ha moglie o figli minorenni, il pagamento della pensione, dopo che la condanna sia divenuta definitiva e per il rimanente periodo della pena, è fatto a loro favore; in mancanza di moglie o figli minorenni la pensione è pagata alle persone viventi a carico del titolare e da lui designate. In mancanza anche di tali persone il pagamento è fatto al titolare della pensione".

428. In tal senso Inps, Deliberazione del consiglio di amministrazione n. 3 del 10 gennaio 1977, in "Atti ufficiali Inps", 1977, p. 47.

429. Si ricordi comunque la possibilità per il giudice della cognizione di escludere, tramite specifica motivazione, l'applicazione delle pene accessorie direttamente discendenti dalla pena principale (al riguardo S. Beltrani, R. Marino, R. Petrucci (a cura di), Codice penale annotato con la Giurisprudenza, Simone, Napoli, 2002, p. 132).

430. Secondo F. Mantovani, Diritto penale, Cedam, Padova, 2001, p. 810 "Le pene accessorie sono misure afflittive che comportano una limitazione di capacità, attività, funzioni, ovvero accrescono l'afflittività della stessa pena principale [...] oltre a una finalità generalpreventiva, hanno nella maggior parte dei casi una funzione specialpreventiva". Riguardo allo scopo afflittivo delle pene accessorie anche S. Prat, Interdizione legale e morte giuridica del condannato: un problema rimosso, in "Quad. Giur.", 1988, p. 90.

431. Al riguardo L. Bruscuglia, Interdizione, in "Enc. Giur.", Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, vol. XVII.

432. Recita infatti l'art. 414 c.c.: "Il maggiore di età e il minore emancipato, i quali si trovano in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, sono interdetti quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione".

433. In tal senso M. Ronco, S. Ardizzone (a cura di), Codice penale ipertestuale, Utet, Milano, 2007, p. 188. Ricordiamo come un soggetto possa contemporaneamente essere sottoposto ad interdizione sia giudiziale, a causa della sua infermità mentale, che legale, a causa di una sentenza penale di condanna (V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, cit., p. 198).

434. G. La Greca, Commento all'art. 4, cit., p. 35.

435. In tal senso G. La Greca, Commento all'art. 4, cit., p. 40.

436. Secondo G. La Greca, Commento all'art. 4, cit., p. 42 l'art. 4 o.p. "fa riferimento ai diritti 'derivanti dalla presente legge' [...] Tuttavia, tenuto conto della natura e della ratio della disposizione, si deve ritenere che essa trovi applicazione anche con riguardo a norme contenute in alte leggi ma comunque disciplinanti la condizione della persona ristretta".

437. In tal senso R. Ciccotti F. Pittau, Il lavoro in carcere, cit., p. 120. Rientra tra i diritti direttamente fruibili dal detenuto anche quello a disporre della propria mercede.

438. I soggetti dichiarati interdetti in via giudiziale, secondo G. La Greca, possono comunque validamente compire autonomamente atti quali istanze e impugnazioni senza che questi possano essere rigettati per un'improponibilità o un'inammissibilità derivante dall'incapacità del soggetto interessato (G. La Greca, Commento all'art. 4, cit., p. 41).

439. Sul tema R. Ciccotti, F. Pittau, Il lavoro in carcere, cit., p. 118.

440. Si veda al riguardo il par. 5.6 del cap. I.

441. M. Cinelli, Diritto della previdenza sociale, cit., pp. 508 ss.

442. Si veda al riguardo D.g. Dap n. 1751/4210 del 24 maggio 1968.

443. R. Ciccotti, F. Pittau, Il lavoro in carcere, cit., p. 118.

444. Si veda Circolare Dap n. 2294 del 9 marzo 1976.

445. Si noti come a tutt'oggi i moduli delle proposte di lavoro per i soggetti detenuti rechino spesso (come nel caso di quelli utilizzati presso il carcere di Sollicciano) ancora la domanda circa la qualità di pensionato del soggetto.

446. In tal senso G. Canoro, Manuale dell'operatore penitenziario, cit., p. 657 e, stesso autore, Il funzionario delegato dell'amministrazione penitenziaria, Lucca, 2007, p. 484.

447. R. Ciccotti e F. Pittau, La tutela previdenziale dei detenuti e degli internati, cit., p. 890.

448. Si veda al riguardo Circolare Inps n. 703 del 13 settembre 1971, in "Atti ufficiali Inps", 1971, p. 1819.

449. I. Careccia, I diritti dei detenuti, cit., p. 69.

450. Art. 3 c. VII legge n. 335 del 1995 (Legge di riforma del sistema pensionistico).

451. Le spese di mantenimento trattenute dallo stipendio dei detenuti sono in realtà minime e corrispondono a circa 1, 80 euro al giorno. Si ricorda come siano tenuti a versare le spese di mantenimento solo quei soggetti reclusi che svolgono attività lavorativa.

452. Si prenda come termine di raffronto sulla questione R. Ciccotti e F. Pittau, La tutela previdenziale dei detenuti e degli internati, cit., pp. 881 ss.; F. Pittau e G. Velardi, Problematica previdenziale dei detenuti, in "Sicurezza sociale", 1979, fasc. 5, pp. 533 - 542.

453. Gli stessi autori di cui a nota precedente, nel testo del 1985, p. 894 prospettavano infatti la necessità di inserire tra le voci per il risarcimento dell'ingiusta detenzione quella riguardo al danno previdenziale.

454. Si utilizza questo termine solitamente per indicare quei lavoratori specializzati, o comunque ormai stabilizzati all'interno del sistema lavorativo carcerario, che sono sottoposti ad una minor turnazione e a redditi più soddisfacenti. Di solito vi è una certa corrispondenza, come abbiamo visto, di quest'ultimi con i soggetti inseriti nelle liste interne di messa a lavoro 'qualificate'. Altre volte è invece solamente la durata della pena che conferisce al soggetto una maggior stabilità lavorativa.

455. G. Pera, Aspetti giuridici del lavoro carcerario, cit., col. 56, p. 64.

456. Si noti che i minimali di retribuzione giornaliera per i detenuti lavoranti non vadano considerati. Le aliquote di contribuzione a carico dei detenuti per il fondo pensioni sono stabilite, per l'anno 2009, nell'9,34 da intendersi così costituito: 8,84 contribuzione a suo carico per il fondo pensioni, 0,50 contributo aggiunto sul fondo pensioni che ex l. 297 del 1982 sarebbe a carico del datore ma viene recuperato sull'indennità di fine rapporto. Poiché tale indennità viene fornita mensilmente al detenuto lavorante nella mercede il contributo aggiunto viene posto a carico di quest'ultimo. Si veda al riguardo Circolare GDAp n. 0102576 del 18 marzo 2009.

457. Come più volte detto la mercede in base all'art. 22 o.p. può essere infatti ridotta fino ai 2/3 dei contratti collettivi.

458. Ricordiamo infatti, come abbiamo già detto, che le mercedi sono state aggiornate per l'ultima volta nel giugno 1993 (con effetto sul semestre 1 maggio 1993-31 ottobre 1993). Vedremo nel corso dei vari paragrafi le problematiche che da ciò conseguono.

459. Senza alcuna pretesa di esaustività è bene chiarire che i minimali giornalieri sono gli importi minimi giornalieri, stabiliti di anno in anno in base ai CCNL, cui corrisponde il versamento contributivo minimo. Poiché le mercedi non rispettano gli importi dei CCNL non possono loro essere applicati nemmeno i minimali contributivi. Così facendo viene però ad essere inficiata la posizione contributiva del detenuto lavoratore.

460. Un ottimo stipendio alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria si aggira attorno ai 7.000 euro (abbiamo preso come campione uno di quelli che generalmente definiamo 'lavoratori stabili ', per la precisione un lavorante cucina del N.c.p. di Sollicciano nell'anno 2008 che ha lavorato tutto l'anno, 314 giorni). Dividendo questo stipendio per il minimale settimanale (consideriamo in questo caso il minimale 2008 stabilito in 177,42 euro) possiamo riscontrare come la persona non arrivi, nonostante i 314 giorni, a poter far valere 40 settimane di contributi. Si consideri quindi quali possono essere le condizioni in caso di turnazioni o lavori retribuiti in maniera inferiore (a titolo puramente informativo: uno scopino con 277 giornate attive percepisce annualmente circa 4.600 euro annui, corrispondenti a c.a. 26 settimane contributive). I suddetti calcoli ovviamente hanno natura del tutto esemplificativa essendo le operazioni preposte al conteggio del diritto alla pensione di ben altra complessità.

461. Nonostante sia del tutto illegale si deve ribadire come talvolta i soggetti detenuti vengano trasferiti solo in virtù di una difficoltà del personale penitenziario nel gestirli. Al di là di ogni logica rieducativa quindi proprio i casi più critici vengono spesso spostati da un istituto ad un altro senza essere realmente seguiti da nessun operatore.

462. Si veda al riguardo l'obbligo per il datore di lavoro di consegnare al lavoratore il Cud, dal quale si può apprendere la regolarità della contribuzione e le periodiche comunicazioni da parte dell'Inps delle denunce contributive effettuate dal datore.

463. Possiamo testimoniare come, pure in assenza di volontà di dichiarare alias (testimoniata dalla differenza ogni volta di una sola lettera nel nominativo) una stessa persona, della quale lo Sportello documenti e tutele del N.c.p. di Sollicciano (Fi) si è occupato negli anni 2005- 2009, a seguito degli errori di immatricolazione del proprio nome nei suoi continui reingressi in istituto, risulti avere aperte ben 9 posizioni contributive differenti.

464. Vista la frequenza degli spostamenti cui la popolazione detenuta è soggetta sarebbe auspicabile che i vari istituti fossero validamente coordinati tra di loro come con le rispettive sedi Inps. Un ottimo metodo di coordinamento sarebbe quello degli e-mens al quale adesso accenniamo.

465. Riguardo a tale trasmissione denominata e-mens si veda l'apposito paragrafo 4.

466. In un certo senso anche le problematiche connesse a questo modello possono considerarsi come proprie del solo lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria poiché un qualsiasi datore privato, qualora non effettuasse regolarmente tale trasmissione, sarebbe oggetto di pesanti sanzioni, tali da obbligarlo all'attivazione. Altrettanto purtroppo non si può dire con riguardo alle direzioni degli istituti di pena che sembrano poter impunemente inadempiere a quest'obbligo senza andare incontro ad alcuna sanzione (certo è che si può configurare in questi casi la fattispecie penale dell'inadempimento di atti d'ufficio dal momento che le direzioni sono tenute, alla stregua di qualunque altro datore privato, in base all'all'art. 44 del d.l. 30 settembre 2003 n. 269, ad inviare i modelli e-mens).

467. Si sta parlando della legge di riforma del sistema pensionistico, la n. 335 del 1995.

468. Sul tema M. Persiani, op. cit., pp. 205 ss.

469. Il testo prevedeva tale possibilità per gli extracomunitari lavoratori subordinati a tempo indeterminato e determinato, e i lavoratori extracomunitari assunti con contratto di lavoro stagionale. L'Inps a fronte di tali scelte aveva emesso la circolare n. 224 del 19 novembre 1996 sui criteri da applicare nell'erogazione di questi rimborsi.

470. La Bossi-Fini ha sostituito col suo art. 18 il dettato dell'art. 22 del T.U. immigrazione abolendo così la previsione che sanciva "Salvo quanto previsto, per i lavoratori stagionali, dall'articolo 25, comma 5, in caso di rimpatrio il lavoratore extracomunitario conserva i diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati e può goderne indipendentemente dalla vigenza di un accordo di reciprocità. I lavoratori extracomunitari che abbiano cessato l'attività lavorativa in Italia e lascino il territorio nazionale hanno facoltà di richiedere, nei casi in cui la materia non sia regolata da convenzioni internazionali, la liquidazione dei contributi che risultino versati in loro favore presso forme di previdenza obbligatoria maggiorati del 5 per cento annuo".

471. Circolare Inps n. 45 del 2003 la quale recita "Non deve ritenersi, invece, operante la deroga relativa ai requisiti minimi contributivi di cui sopra per i lavoratori extracomunitari in parola che hanno titolo alla liquidazione della pensione di vecchiaia con il sistema retributivo o misto. Resta fermo che anche in quest'ipotesi il trattamento pensionistico si consegue al compimento del 65º anno di età sia per gli uomini che per le donne".

472. Sul tema si veda nel sito INPS, 'Lavoratori migranti'.

473. Ci riferiamo in questo caso tanto ai soggetti che già prima della carcerazione erano privi di permesso di soggiorno quanto a quelli che l'hanno perso a seguito della condanna penale, secondo la disciplina del reato ostativo.

474. Anche perché, dobbiamo ricordare quanto già detto in sede di disoccupazioni, l'unico elemento che può essere fatto valere come formale licenziamento è quello delle dimissioni dall'istituto di pena, la semplice turnazione lavorativa vale invece solo come sospensione.

475. C'è infatti una linea, neppure troppo sottile, nella realtà carceraria, tra l'essere e il dover essere. A chi è spesso a contatto ed opera in questo ambiente capita di effettuare voli pindarici in direzione del 'dover essere', che altrettanto spesso vengono stroncati da aberranti mentalità conservatrici e inoperose ben tese a mantenere il deficitario stato delle cose.

476. Il soggetto, infatti, pur in assenza di ogni documento potrebbe essere identificato dal personale di polizia penitenziaria che si occupa di fargli compilare la domanda e, contestualmente, effettuato lo 'svincolo' (liquidazione) di ogni suo credito economico da parte degli uffici mercedi, la sua attività lavorativa potrebbe dirsi conclusa. Si tratterebbe quindi di sfruttare questo breve lasso di tempo, questa no man's land tra la conclusione del rapporto lavorativo e l'uscita dall'istituto.

477. Abbiamo visto nel paragrafo sulla disoccupazione come per i soggetti detenuti le esperienze lavorative precedenti alla carcerazione (di natura regolare) siano spesso bene poche.

478. Sempre dal sito del Ministero della Giustizia si apprende come i detenuti over-60 rappresentassero, al 31 dicembre 2008, il 3,9% della popolazione totale. La differenza tra i due parametri (quello dei 65 anni richiesto per l'assegno sociale e quello dei 60 anni preso come indice dei rilevamenti ministeriali) riduce ulteriormente tale percentuale.

479. Riguardo alla possibilità di estensione ai soggetti provenienti da paesi terzi delle tutele di natura assistenziale abbiamo già espresso il nostro parere nel par. 7 del cap. I e non ci rimane quindi che ribadire la fremente attesa verso una sentenza costituzionale che, specularmente a quanto fatto per invalidità e accompagnamento, mostri l'incoerenza propria anche di tali misure restrittive riguardo all'assegno sociale.

480. Si veda al riguardo quanto detto nel par. 1.1.8.

481. Al riguardo si ricorda che i limiti di reddito ai fini della fruizione dell'assegno sociale sono stabiliti per l'annualità 2009 in euro 5.317,65 nel caso il richiedente non sia coniugato e in 10.635,30 qualora invece lo sia.

482. "L'organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale".

483. Si ricordi, ad esempio, che ai lavoratori alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria non vengono applicati i minimali giornalieri di contribuzione.

484. 156 settimane nel quinquennio corrispondono circa a 31 settimane contributive annue, pari ad un importo (in base ai minimali di contribuzione) di c.a. 5.500 euro per il 2008 e 5.700 per il 2009, cifre, come abbiamo visto nel paragrafo sulle pensioni, tutt'altro che facili da raggiungere con un lavoro domestico.

485. Si vedano al riguardo art. 20 c. IV e V del d.p.r. n. 230 del 30 giugno 2000 che recitano rispettivamente "I detenuti e gli internati infermi o seminfermi di mente che, a giudizio del sanitario, sono in grado di svolgere un lavoro produttivo o un servizio utile sono ammessi al lavoro e godono di tutti i relativi diritti" e "Coloro che non sono in grado di svolgere un lavoro produttivo o un servizio utile possono essere assegnati, secondo le indicazioni sanitarie, ad attività ergoterapiche e ad essi viene corrisposto un sussidio nella misura stabilita con decreto ministeriale". È quindi facilmente prospettabile che lo stesso possa avvenire nel caso di invalidità o inabilità di natura fisica.

486. Limiti stabiliti per l'anno 2009 sono: 14.886,28 euro annui per i richiedenti le prestazioni di invalidità totale e 4.382,43 euro per i richiedenti le prestazioni di invalidità civile parziale.

487. Artt. 1-2 legge n. 18 del 1980.

488. Si noti come la Asl competente sia in questo caso non quella competente per residenza anagrafica del soggetto, ma in base alla collocazione dell'istituto. Unica eccezione il fatto che spesso copia della certificazione della percentuale di invalidità accertata venga trasmessa anche alla Azienda sanitaria competente per residenza, passaggio che facilita gli adempimenti successivi ad un'eventuale prestazione.

489. Qualora il punteggio sia tale da raggiungere una prestazione quale l'assegno di invalidità civile o la pensione di inabilità al soggetto viene chiesto di compilare anche una apposito modulo nel quale autocertifica la propria situazione socio-reddituale. La restituzione di tale modulo permette agli uffici invalidi del comune o dell'Inps di dar luogo all'emissione del primo pagamento. Autocertificazioni analoghe sono successivamente richieste con cadenza annuale da parte dell'Inps al fine di verificare la permanenza dei requisiti amministrativi. La mancata riconsegna di questa modulistica comporta la sospensione dal beneficio. Il soggetto detenuto per poter ricevere le erogazioni delle prestazioni dovrà richiedere alla direzione del carcere, qualora non ne sia ancora provvisto, l'apertura di un conto corrente.

490. Anche in virtù delle alte percentuali di invalidità alle quali la sieropositività porta.

491. Anche se, d'altro canto, i rischi di stigmatizzazione si sommano in questo caso tra di loro: dalla detenzione all'invalidità, passando talvolta per la sieropositività.

492. Mentre infatti la possibilità di richiesta e di erogazione del Bonus famiglie si è esaurita nel primo semestre dell'anno 2009, la Carta acquisti, che poteva essere richiesta entro il 30 aprile 2009, continua ad erogare le relative prestazioni a tutt'oggi e lo farà nel futuro sulla base dei finanziamenti via via disponibili.

493. Su Gazzetta ufficiale n. 2121 del 28 gennaio 2009 supplemento ordinario n. 14.

494. Un vero e proprio terzo fattore è la presenza all'interno della formazione familiare di una persona portatrice di handicap. In questo caso si innalzano sia i limiti di reddito previsti, che arrivano a 35.000 euro, sia l'ammontare del bonus, che raggiunge i 1.000 euro.

495. Circolare del 3 febbraio 2009 n. 2/E dell'Agenzia delle entrate, Direzione centrale normativa e Contenzioso, Ufficio contenzioso, Prot. 2009/9209.

496. Rientrano tra questi: i compensi percepiti da soci di cooperative di produzione e lavoro, i redditi derivanti da rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, le remunerazioni dei sacerdoti, i compensi percepiti da soggetti impegnati in lavori socialmente utili, gli assegni periodici corrisposti al coniuge di cui all'art. 10, comma 1, lett. c), del T.u.i.r.

497. Si pensi ad esempio all'indennità di disoccupazione o di mobilità.

498. Somma dei redditi complessivi del nucleo familiare così come calcolata dall'art. 8 T.u.i.r.

499. Il conteggio effettuato ha solo valore esemplificativo perché la ripartizione dei suddetti redditi deve essere in verità tale da non imputare a figli o familiari un reddito superiore ai 2.840,51 euro stabiliti per la vivenza a carico. Nell'esempio di un nucleo familiare di 3 persone, madre-padre-figlio, i 17.000 euro devono quindi derivare dai redditi dei due coniugi e solo in una cifra inferiore ai 2840,51 euro dal figlio, per poter permettere di includere anche quest'ultimo nella vivenza a carico.

500. Può quindi capitare, come specifica la Circolare n. 2\e dell'Agenzia delle Entrate, che a fronte di una richiesta di bonus famiglie da parte del padre di un nucleo padre-madre-figlio\a relativamente al periodo di imposta 2007, il figlio abbia contratto matrimonio nell'annualità 2008. La domanda presentata nel 2009 dal padre relativamente all'annualità 2007 rappresenta non solo una situazione economica non attuale, ma anche una situazione familiare che, al momento della domanda, è del tutto mutata. In questo modo, visto che ogni soggetto deve far parte di un solo nucleo familiare ai fini della richiesta di bonus, al figlio è preclusa la richiesta per la sua nuova formazione familiare, anche in base all'annualità 2008.

501. Legge 296 del 27 dicembre 2006, art. 1 c. 1325:

"Per cittadini extracomunitari che richiedono, sia attraverso il sostituto d'imposta sia con la dichiarazione dei redditi, le detrazioni di cui al comma 1324, la documentazione può essere formata da:

  1. documentazione originale prodotta dall'autorità consolare del Paese d'origine, con traduzione in lingua italiana e asseverazione da parte del prefetto competente per territorio;
  2. documentazione con apposizione dell'apostille, per i soggetti che provengono dai Paesi che hanno sottoscritto la Convenzione dell'Aja del 5 ottobre 1961;
  3. documentazione validamente formata dal Paese d'origine, ai sensi della normativa ivi vigente, tradotta in italiano e asseverata come conforme all'origine dal consolato italiano del Paese d'origine".

502. "Modello per la richiesta al sostituto di imposta e agli enti pensionistici del bonus famiglia straordinario per famiglie, lavoratori, pensionati e non autosufficienza" (art. 1 del decreto legge 29 novembre 2008, n. 185).

503. Teniamo a precisare che nei primi mesi del 2009 i termini ultimi di presentazione delle domande hanno subito successivi rinvii fino a portare a quelli che noi esponiamo.

504. Febbraio nel caso di sostituti di imposta diversi dalle amministrazioni pubbliche a dagli enti pensionistici. Marzo nel caso di amministrazioni pubbliche ed enti pensionistici.

505. Con la stessa differenziazione in base all'ente erogatore già vista alla nota precendente.

506. "Modello per la richiesta all'agenzia delle entrate del bonus straordinario per famiglie, lavoratori, pensionati e non autosufficienza" (art. 1 del decreto legge 29 novembre 2008, n. 185).

507. Art. 3, comma 3 del D.P.R. 27 luglio 1998, n. 322 e successive modificazioni.

508. Quello della Toscana con Circolare n. 4977.3 del 3 febbraio 2008.

509. Vedremo infatti nel cap. III par. 1 come la formale previsione di una tutela senza un apposito sistema che ne garantisca l'accessibilità rimanga una sterile enunciazione di diritto.

510. Come vedremo nel cap. III par. 1 i modelli di gestione delle tutele sociali all'interno degli istituti penitenziari sono sostanzialmente riconducibile a quattro tipologie: gestione diretta da parte del personale dell'amministrazione penitenziaria, gestione da parte di appositi sportelli Inps distaccati all'interno degli istituti di pena, gestione da parte di patronati, gestione da parte di operatori appartenenti ad organizzazioni di volontariato o ad organizzazioni private di vario genere. All'interno del carcere fiorentino di Sollicciano, sulla base di quest'ultimo modello, della gestione delle pratiche di Bonus è stato incaricato, nel febbraio 2009, lo Sportello documenti e tutele, dell'associazione Altro Diritto.

511. Anche in virtù del fatto che, riferendosi il bonus alle annualità 2007 o 2008, il rapporto con il datore di lavoro (se si trattava di lavoro compiuto prima della carcerazione) non era più esistente al momento della richiesta e quindi non rimaneva che il modello della richiesta diretta all'Agenzia delle entrate passando per il tramite della direzione dell'istituto di pena.

512. Si crea quindi in questo caso un'ulteriore distinzione rispetto ai diritti che abbiamo visto generalmente connessi alla presenza di titoli di soggiorno più o meno qualificanti. Si tratta in questo caso di una vera e propria 'tutela residenziale'. Se una ripartizione dei benefici erogati dagli enti locali può correttamente essere effettuata sulla base della residenza del soggetto, dubbi di legittimità sorgono qualora sia una tutela di portata nazionale ad essere connessa alla residenza.

513. Queste persone, come abbiamo detto, durante la detenzione possono svolgere regolare attività lavorativa nonostante l'assenza di titoli di soggiorno.

514. La residenza presso gli istituti di pena viene generalmente concessa a soggetti che devono scontare detenzioni d'una certa durata. Presso il N.c.p. di Sollicciano, ad esempio, la residenza viene fornita solo ai condannati ad una pena superiore ai due anni.

515. Si veda quanto diremo nel corso del Capitolo III riguardo ai dati inerenti al Bonus straordinario per famiglie.

516. Al 31 dicembre 2008: avevano un figlio 6592 detenuti, 2 figli 6943, 3 figli 3810, 4 figli 1606, 5 figli 646, 6 figli 262, più di 6 figli 255. Data l'incompletezza della ricerca i dati sono da considerarsi comunque solamente orientativi. Dal sito del Ministero della Giustizia.

517. Ricordiamo come il Bonus, a differenza degli Anf, si fonda su un concetto diverso di famiglia e prevede inoltre che le prestazioni vengano erogate al richiedente e non hai suoi familiari.

518. Articolo 81, comma 32, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.

519. Effettuata congiuntamente dal Ministero dell'Economia e delle Finanze con il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali in data 26 novembre 2008.

520. Tra questi modelli, ciascuno caratterizzato dalle sue peculiarità, si trovano: il sistema di Electronic Benefit Transfer applicato al sistema dello Snap (Supplemental Nutrition Assistance Program) statunitense, la carta relativa al programma di supporto all'infanzia della Georgia, la G2G card adottata dal Cambridgeshire County Council, i sussidi dei governi locali olandesi erogati tramite apposita carta prepagata, la carta prepagata per sussidi sociali della PKO Bank Polski per quanto riguarda la Polonia. Vi è poi l'utilizzo di carte prepagate anche nell'assistenza contro le catastrofi naturali, come già adottato dalla Croce Rossa statunitense con il Disaster relief assistance program.

521. Modulo B001/08 in caso di richiesta per figli con età inferiore ai 3 anni, modulo A001/08 in caso di richiesta da parte di soggetti con età superiore ai 65 anni.

522. La ricarica della suddetta carta viene effettuata infatti con cadenza bimestrale per un importo di euro 80.

523. La limitazione connessa alla tipologia di beni acquistati viene effettuata sulla base dei Merchant category code (Mcc), sistema già utilizzato da analoghe esperienze estere. Tra i codici ammessi ad effettuare transazioni con la Carta acquisti: 5814 Fast food restaurants, 5812 Eating places, restaurant, 5462 Bakeries, 5451 Dairy products shops, 5411 Grocery shops and supermarkets, 5422 Meat markets and retailers, refrigerated storage and Bulk supply, 5499 miscellaneous food shops, convenience stores and specialty supermarket.

524. Carta Acquisti - Maggiori di 65 anni, Ministero dell'Economia e delle Finanze. Per correttezza di indagine riportiamo come vi sia una non corrispondenza totale tra i dati relativi ai requisiti forniti dalle lettere alla possibile utenza del beneficio, dal sito del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali e dal suddetto sito da noi utilizzato. Tra queste incoerenze anche quella relativa alla presenza o meno del requisito relativo ai 15.000 euro di patrimonio immobiliare, quella riguardante il numero di utenze del gas o proprietà di autoveicoli. Tali problematiche si riscontrano riguardo ad entrambe le tipologie di soggetti richiedenti. I dati da noi riportati derivano dall'analisi del decreto interdipartimentale 16 settembre 2008 n. 89030 registrato dalla Corte dei Conti in data 25 settembre 2008 recante "Criteri e modalità di individuazione dei titolari della Carta Acquisti, dell'ammontare del beneficio unitario e modalità di utilizzo del Fondo di cui all'articolo 81, comma 29 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 113", così come modificato dai decreti interdipartimentali 7 novembre 2008 (decreto interdipartimentale del MEF e del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, prot. n.104376 del 9 novembre 2008, registrato dalla Corte dei Conti in data 14 novembre 2008 registrato alla Corte dei conti il 14 novembre 2008 Ufficio controllo atti Ministeri economico-finanziari, registro n. 5 Economia e finanze, foglio n. 60) e 27 febbraio 2009 (decreto interdipartimentale del Ministero dell'economia e delle finanze e del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali prot. n. 15964).

525. "I Beneficiari nonché gli esercenti la potestà sui beneficiari che hanno impedimenti di natura fisica o che sono soggetti a provvedimenti restrittivi dell'Autorità giudiziaria, fatto salvo quanto previsto al comma 1, lettera f) (tale lettera corrisponde all'ultimo dei requisiti stabiliti per le persone ultra sessantacinquenni) possono chiedere l'intestazione della Carta Acquisti a persone di fiducia, presentando motivata richiesta, secondo modalità stabilite dal Soggetto Attuatore, da rinnovarsi periodicamente. Il medesimo soggetto non può essere indicato da più di due Beneficiari, fatti salvi i seguenti casi:

  1. tutori che posseggono più deleghe per espresso incarico dell'autorità giudiziaria;
  2. soggetti che, per ragioni del loro ufficio, utilizzano il beneficio per conto di ricoverati in case di cura o di assistenza per anziani oppure di residenti che vivono in comunità di anziani o comunità religiose".

(Art. 5 c. III decreto 16 settembre 2008 n. 89030, come da modificazioni successive).

526. In sostanza, per gli over 65 l'esclusione dettata dall'art. 5 c. I lett. f) deve essere ritenuta speculare rispetto alla possibilità di effettuare trattenute del 25%-50% dell'assegno sociale in caso di alloggio in istituti il cui vitto sia a carico dello Stato, sulla base di una presunzione di assenza dello stato di bisogno data dalla tipologia di questi istituti (il rinvio è solo esemplificativo dal momento che, come abbiamo visto, le trattenute all'assegno sociale non vengano applicate nel caso di detenzione del beneficiario in istituti di pena).

527. Il Ministero della Giustizia infatti non ha mai emanato alcuna circolare per chiarire alle direzioni degli istituti quale fosse la posizione da tenere al riguardo. In questo modo si è sostanzialmente equiparato i soggetti imputati a quelli detenuti, escludendo entrambi dal diritto alla Carta acquisti.

528. Sarebbe stato infatti necessario, in caso di possibilità di fruizione della carta, delegare un soggetto all'acquisto di beni tramite essa o, ipotesi ancor più utopistica, attivare la possibilità di utilizzo della stessa presso il servizio di 'sopravvitto' interno al carcere. Tale interpretazione che vedrebbe come possibile la fruizione della Social card da parte degli imputati è confermata dal decreto interdipartimentale del 27 febbraio 2009 che elenca tra i soggetti che possono chiedere l'intestazione della carta a persone di fiducia: "I Beneficiari nonché gli esercenti la potestà sui beneficiari [...] che sono soggetti a provvedimenti restrittivi dell'Autorità giudiziaria, fatto salvo quanto previsto al comma 1, lettera f) (soggetti over 65 in stato di detenzione)'. Gli imputati e, come vedremo, i detenuti con figli minori di 3 anni possono quindi essere beneficiari della Carta e delegare una persona di fiducia al suo utilizzo.

529. Decreto interdipartimentale del Ministero dell'economia e delle finanze e del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali prot. n. 15964. L'esclusione di cui all'art. 5 c. I lett. F del decreto interdipartimentale n. 89030 del 16 settembre 2008 riguarda infatti solo la richiesta della Carta da parte di soggetti over-65. Quanto ai detenuti genitori di bambini di età inferiore ai 3 anni questi ne potrebbero beneficiare in quanto farebbero parte di quelle persone soggette "[...] a provvedimenti restrittivi dell'Autorità giudiziaria, fatto salvo quanto previsto al comma 1, lettera f (soggetti over-65)" (decreto interdipartimentale del 27 febbraio 2009).

530. Non si sarebbe infatti neppure potuto incaricare un singolo agente di effettuare acquisti per conto dei detenuti con le varie carte acquisti dal momento che la possibilità di delega multipla all'utilizzo della carta è accettata solo in casi tassativi, e tra questi (art. 5 c. III del decreto del 16 settembre 2008) non è prevista la situazione di soggetti in stato di detenzione.

531. In base all'art. 44 del d.l. 30 settembre 2003 n. 269 convertito con legge n. 326 del 24 novembre 2003.

532. Si veda al riguardo circolare Inps n. 152 del 22 novembre 2004.

533. Questo era il vecchio modello utilizzato dal datore di lavoro per denunciare all'Inps le retribuzioni mensili corrisposte ai lavoratori dipendenti, i contributi dovuti e l'eventuale conguaglio delle prestazioni anticipate per conto dell'Inps, delle agevolazioni e degli sgravi.

534. Qualora ad esempio, e non è purtroppo cosa rara, i detenuti vengano messi a lavoro senza prima aver atteso l'intestazione di un apposito codice fiscale da parte dell'Agenzia delle entrate (si sta parlando in particolar modo di soggetti stranieri), ma solo con codici 'calcolati' sulla base di più o meno erronei programmi informatici, gli e-mens creando un ponte diretto tra datore e Inps farebbero rilevare immediatamente tale infrazione.

535. L'assenza di trasmissione e-mens è infatti spesso deducibile dall'assenza di registrazioni posteriori al 2005 in caso di esecuzione di un estratto conto contributivo.

536. Ricordiamo che gli e-mens già attualmente sono utilizzati nel calcolo ed erogazione delle disoccupazioni a requisiti interi (al posto dei modelli ds 22) e nel calcolo degli assegni per il nucleo familiare.

537. Sent. Corte cost. n. 26 del 1999.

538. Si ricordi al riguardo la sent. Corte cost. n. 1087 del 1988 che specifica gli elementi di peculiarità del lavoro alle dipendenze dell'A.P. rispetto al lavoro libero, e la sentenza della stessa Corte n. 158 del 2001, di senso invece diametralmente opposto, che, nel riconoscere il diritto alle ferie ai lavoranti detenuti, ha espresso la generale assimilazione del lavoro carcerario al rapporto di lavoro ordinario nonostante le peculiarità che lo connotano.

539. In tal senso M. Vitali, op. cit., p. 42.

540. Corte cost., sent. 11 aprile 1984 n. 103 in "Giur. Cost.", 1984, p. 562. La Corte sosteneva infatti: "il procedimento instaurato dal reclamo del detenuto in materia di lavoro non sostituisce [...] la tutela giurisdizionale, che è riservata al giudice dei diritti, secondo le regole di competenza ordinaria, non essendovi motivo d distinzione, a tale proposito, tra il normale lavoro subordinato e il lavoro dei detenuti".

541. Così, Cass., Sez. Un., 21 luglio 1999, n. 490, in "Foro it.", 2000, p. 434.

542. Tra queste: "l'attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali". In base alla sentenza di cui a nota precedente le pretese del detenuto lavoratore in queste materie "Possono essere fatte valere in via esclusiva con reclamo davanti al Magistrato di sorveglianza e non più con ricorso davanti al pretore in funzione di giudice del lavoro". A. Pennisi, op. cit., p. 164 ha sottolineato come, essendo la prima delle materie in argomento 'l'attribuzione della qualifica lavorativa', si possa considerare che il procedimento ex art. 69 sia destinato alla tutela di posizioni connesse ad attività lavorative già in essere. In questo modo quindi non si avrebbe competenza del Magistrato di sorveglianza per tutte quelle questioni attinenti alla fase precedente a quella lavorativa, quali ad esempio il diritto all'assegnazione di un lavoro o il mancato rispetto dei criteri selettivi di cui all'art. 20 c. VI o.p. In questi casi, sempre secondo l'autore, sarebbe quindi da ritenersi valida la competenza ordinaria riservata al giudice del lavoro.

543. Veniva in questo modo eliminata la storica differenziazione tra le due tipologie di lavoratori. In senso contrario, e cioè per l'applicazione del modello del reclamo ai soli lavoratori dipendenti dall'A.P.: M. Vitali, op. cit., p. 34; F. Cardanobile, Lavoro dei detenuti: attribuita la competenza al giudice ordinario. Un passo forse inutile verso l'assimilazione al lavoro libero (nota a Corte costituzionale n. 341 del 27 ottobre 2006), pubblicato sul sito Diritto dei Lavori; F. Cardanobile, La tutela giurisdizionale, in AA. VV. Il lavoro dei detenuti, Cacucci, Foggia, 2007, p. 77 ss.; F. Della Casa, Le "magistrature di sorveglianza" fra ristrutturazione e ricostruzione, in V. Grevi (a cura di), L'ordinamento penitenziario dopo la riforma, Cedam, Padova, 1988, p. 360. Secondo questi autori infatti il rapporto di lavoro (dei soggetti alle dipendenze di terzi) sarebbe "ontologicamente autonomo" rispetto a quello punitivo e quindi "la circostanza che il lavoratore sia anche un detenuto costituisce un mero 'accidente' rispetto all'attività lavorativa". Sostiene infatti M. Vitali: "Ora, sostenere che il detenuto debba reclamare, secondo il rito dell'art. 14 ter cit., avanti il Magistrato di Sorveglianza e alla presenza del pubblico ministero, un atto di autonomia privata, posto in essere da un imprenditore privato o da una cooperativa sociale [...] contrasta, in primo luogo, sul piano sostanziale, con i principi dell'autonomia privata. Poi, sul piano processuale, con il principio del contraddittorio, perché riduce, sensibilmente, i diritti di difesa del datore di lavoro, che non avrebbe alcuna possibilità di contraddire, se non attraverso la presentazione di memorie scritte, al di fuori dei principi che disciplinano le controversie di lavoro".

544. Così M. Vitali, op. cit., p. 43 citando a sua volta Corte cost., 8 febbraio 1999, n. 26. L'autrice continua inoltre considerando come in questo caso si vengano a scontrare due istanze di 'omnicomprensività': quella del diritto del lavoro verso ogni tipo di controversia riconducibile allo schema standard del rapporto di lavoro subordinato e quella della magistratura di sorveglianza per quanto riguarda le persone detenute. Tra le due dovrebbe, secondo tale dottrina, considerarsi prevalente la prima.

545. Anche nelle sentenze n. 594 del 1999 e 7097 del 2002 delle Ss.Uu., oltre che nella n. 490 del 1999.

546. In questo caso il datore di lavoro privato, in pratica, avrebbe dovuto rimettere ogni sua aspettativa nell'operato del pubblico ministero. Questa tesi è stata spesso elemento fondante delle teorie di coloro che volevano il procedimento di cui all'art. 69 c. VI o.p. applicato ai soli lavoratori alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria e non anche ai quelli alle dipendenze di datori terzi (così M. Vitali, op. cit.).

547. In tal senso P. Caponetti, op. cit., pp. 123 ss.

548. Tale valore sarebbe poi richiamato tra gli altri anche dall'art. 6 (ex art. f) del Trattato di Maastricht e dalla Carta di Nizza.

549. In tal senso Corte Cass., SS. UU., 26 gennaio 2001, Min. Giust. c. Stojakovic, in "Foro it.", 2001, I, p. 2890. La Corte afferma infatti che: "è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 69 o.p. in relazione all'art. 409 c.p.c. e con riferimento all'art. 3 Cost.; infatti le diversità strutturali fra il rito applicabile per le ordinarie controversie di lavoro e quello proprio del procedimento davanti al Magistrato di sorveglianza per il lavoro dei detenuti, una volta assunta la natura giurisdizionale quale minimo denominatore comune di entrambi, non escludono la ragionevolezza della previsione di una diversa competenza per le controversie concernenti il lavoro carcerario, date le peculiarità del relativo rapporto che, avendo come parte un detenuto, è, per ciò stesso, inserito in un contesto di attività, che risultano strettamente connesse e consequenziali alla pena, e, pertanto, istituzionalmente sottoposte alla sorveglianza del giudice penale".

550. Giova qui ricordare un dubbio di quelli riconducibili all'andreottiano "a pensar male si fa peccato". Come illustra infatti P. Caponetti, op. cit., p. 126 riguardo al passaggio di competenze alla magistratura di sorveglianza "Non vogliamo nemmeno pensare- per il rispetto dovuto alla magistratura- che, in considerazione degli interessi in gioco, e cioè dei riflessi economici per lo Stato, vi sia stato, anche solo involontariamente, un avvicinamento a una posizione di common law, discostandosi dalla necessaria posizione asettica, della magistratura di civil law, qual è quella italiana, nella quale occorre lasciare che le pulsioni ideologiche o politiche si consumino nel corso del processo legislativo, di guisa che la legge possa assorbirle tutte solo in quella sede istituzionale, anche se il confine tra queste due posizioni diviene sempre meno marcato".

551. In tal senso, ad esempio, ordinanza n. 14/2000 s15 e n. 12/2000 s15 del 2 luglio 2001 del Tribunale di sorveglianza di Roma, e del 25 giugno 2003, del Tribunale di Messina. Nel senso invece della possibilità di alternativa per il lavoratore detenuto tra la scelta del Magistrato di sorveglianza o del giudice del lavoro: Mag. sorv. Nuoro, 27 settembre 2005, n. 9/05, in Diritto & Diritti.

552. In questo giudizio si esprimevano infatti dubbi sul rispetto del principio del contraddittorio e sul rispetto della parità tra le parti e della terzietà del giudice nel procedimento davanti al Magistrato di sorveglianza. Stante infatti la totale equiparabilità (che abbiamo visto la Cassazione stentava ancora a riconoscere) tra lavoro penitenziario e lavoro ordinario questa disparità di trattamento comporterebbe una violazione dell'art. 3 Cost. poiché il rito instaurabile tramite reclamo del detenuto "è deteriore, con riguardo al diritto di difesa, rispetto al rito del lavoro per l'assenza di un doppio grado di giudizio di merito o per l'assenza della norma relativa all'immediata esecutività delle sentenze di condanna".

553. Ordinanza del 17 novembre 2001. In tale atto il giudice dell'esecuzione dubitava della conformità del procedimento creato dal connubio degli artt. 69 c. VI e 14 ter o.p. rispetto ai precetti degli artt. 3, 24 c. I-II, 27 c. I-III, 81 c. IV, 97 e 111 Cost.

554. Si pensi, ad esempio, alla già citata sentenza della Corte cost. n. 158 del 2001 la quale affermava che il lavoro carcerario, non avendo più valore afflittivo, "si pone come uno dei mezzi di recupero della persona, valore centrale per il nostro sistema penitenziario non solo sotto il profilo della dignità individuale ma anche sotto quello della valorizzazione delle attitudini e delle specifiche attività lavorative del singolo".

555. Si pensi ad esempio ai vari dubbi che abbiamo più volte mostrato riguardo ai diritti sindacali, alla configurabilità della disoccupazione a requisiti interi, alla non ancora avvenuta equiparazione tra retribuzione e mercede. In tal senso A. Morrone, Diritti del lavoratore detenuto e giudice competente, in "Il lavoro nella giurisprudenza", n. 2, 2007, p. 158.

556. Secondo F. Cardanobile (La tutela giurisdizionale, cit., pp. 77 ss.), che segue quell'impostazione (propria della Vitali) che vedeva l'impossibilità di applicare il regime dell'art. 69 c. VI o.p. al lavoro alle dipendenze di lavori terzi, l'innovazione della sentenza n. 341 sarebbe limitata al lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria.

557. "Il magistrato di sorveglianza vigila sulla organizzazione degli istituti di prevenzione e di pena e prospetta al ministro le esigenze dei vari servizi, con particolare riguardo alla attuazione del trattamento rieducativo".