ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 2
Disciplina positiva istituto

Federico Giacomelli, 2006

2.1. Presupposti per la concessione della misura

La concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale, come abbiamo visto del resto avvenire anche per le altre misure alternative alla detenzione, è subordinata ad una serie di presupposti individuati dalla legge. Ciò è logico, in quanto, nell'ordinamento penale vigente, la condanna alla reclusione deve essere scontata, nei casi ordinari, in un istituto di pena, ai sensi dell'art. 23 c.p. ("la pena della reclusione ... è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati...") quindi qualsiasi deroga a tale precetto normativo non può che provenire da legge successiva e deve essere subordinata alla presenza di particolari condizioni. (1)

A questo fine, diviene essenziale l'esigenza che la concessione della misura non avvenga al di fuori dei necessari criteri stabiliti. Già l'originaria formulazione dell'art. 47 ordinamento penitenziario, indicava esplicitamente le condizioni la cui ricorrenza era indispensabile perché il condannato potesse richiedere l'applicazione dell'affidamento in prova.

Ancora oggi nonostante l'avvenuta riduzione delle condizioni necessarie per la concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale, l'ammissione del condannato (sia detenuto che libero) a questa misura alternativa è vincolata alla sussistenza di alcuni requisiti. Essi riguardano:

  1. il tipo di pena che il condannato deve espiare;
  2. l'entità della pena da scontare (permane la condizione "oggettiva" del limite di pena, fissato per tutti i condannati a pena detentiva, senza distinzioni di età, a tre anni);
  3. la non sottoposizione del condannato alla misura cautelare della custodia in carcere (art. 656 co. 9 let. B);
  4. la non sottoposizione del condannato alla recidiva prevista dall'art. 99, 4º co. del codice penale (art. 656 co. 9 let. C);
  5. la disponibilità di un domicilio (è necessario e sufficiente che il soggetto abbia una dimora effettiva che lo renda reperibile);
  6. la così detta prognosi di rieducabilità del condannato. Giudizio che si fonda per i soggetti detenuti sui risultati dell'osservazione della personalità condotta per almeno un mese in istituto (art. 47 co. 2 ord. Penit.) mentre per i soggetti liberi, sulla condotta del condannato dopo la commissione del reato (art. 47 co. 3, disposizione introdotta come già affermato dalla legge Gozzini, confermata dalla sentenza costituzionale n.569/89 e ribadita dalla legge Simeone);

L'affidamento in prova al servizio sociale quindi può essere concesso al condannato che deve espiare una pena detentiva non superiore a tre anni nel caso in cui può ritenersi che la misura alternativa, anche attraverso le prescrizioni di cui all'art. 47, co.5º della legge 354/1975, "contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati", art. 47, 2º comma legge citata.

Oggi pertanto, primo e più importante requisito per la concessione dell'affidamento è la limitatezza della durata della pena detentiva inflitta, che, ai sensi del 1º comma dell'art. 47, non deve superare i tre anni. Occorre di fatto rilevare come l'evidente orientamento di prevenzione generale cui risponde la previsione del limite di pena risulti sensibilmente attenuato dal riferimento alla pena inflitta nel caso concreto (2), e non a quella edittalmente comminata; circostanza, questa, che consente pure di tener conto delle valutazioni di volta in volta operate dal giudice della cognizione, relativamente alla eventuale rilevanza di circostanze attenuanti. (3)

In tal modo, tuttavia, inevitabilmente il giudice della cognizione finisce per costituire il "primo filtro" alla concessione della misura (4), circostanza che è stata fatta oggetto di critiche, fondate sulla "sostanziale interferenza di questi in una scelta che istituzionalmente compete al magistrato di sorveglianza", interferenza aggravata dalla diversità di competenza fra tali organi, che costituisce la peculiarità di questa materia. (5)

Questo rilievo, comunque non scalfisce la scelta legislativa circa i limiti di pena previsti per l'applicazione della misura, essa infatti è il risultato di una scelta di politica criminale intesa a graduare ed a variare i requisiti di ammissibilità ai benefici previsti dalla legge (6), limiti che appaiono dunque del tutto legittimi, in quanto "generali", e come tali esenti da ogni rischio di discriminazione (7).

Ciò, come già detto, non ha impedito di auspicare una progressiva riduzione di tutte le preclusioni all'applicabilità della misura che non si sostanzino in caratteristiche di personalità del reo, per favorire una più compiuta realizzazione del principio di individualizzazione della pena, quale corretto presupposto per il reinserimento sociale dei soggetti meritevoli.

L'evoluzione legislativa ha dato però luogo più di una volta a rilievi critici (8), la riduzione delle preclusioni ha determinato un ampliamento del perimetro d'applicabilità della misura, facendone assumere secondo la dottrina tonalità almeno in parte diverse da quelle originariamente previste. (9)

2.2. Limite di pena ed età del condannato

Nell'impianto originario della riforma penitenziaria era statuita una differenziazione del limite di pena richiesto per la concessione della misura in relazione all'età del reo. Tale discrimine rientrava nelle condizioni cosiddette "oggettive" per la concessione della misura, indipendenti dalla valutazione operata dal Tribunale di sorveglianza.

L'applicabilità dell'affidamento era infatti preclusa in generale ai condannati a pena detentiva superiore a due anni e sei mesi, mentre per gli infraventunenni e gli ultrasettantenni il limite veniva portato a tre anni. La differenziazione del limite di pena aveva creato qualche contrasto giurisprudenziale, relativo al momento in cui si doveva valutare appunto l'età del reo, la Cassazione lo risolse precisando che:

"Ai fini della determinazione dell'età e quindi ai fini dell'operatività del più elevato limite di pena previsto per l'affidamento in prova al servizio sociale degli infraventunenni non si deve aver riguardo alla data della commissione del reato, ma al momento in cui può avere inizio in astratto il procedimento di sorveglianza e cioè dopo almeno tre mesi di osservazione, essendo questo il periodo minimo richiesto dalla legge per accertare se si è in presenza d'una pericolosità fronteggiabile con gli strumenti coessenziali all'anzidetta misura dell'affidamento e, in caso affermativo, per individuare le prescrizioni idonee alla realizzazione delle finalità rieducative" (10).

Quindi, per stabilire quale fosse il limite di pena in relazione all'età del condannato, si doveva considerare la sua età nel momento in cui la richiesta di affidamento in prova al servizio sociale poteva essere astrattamente formulata. Pertanto, la più favorevole disposizione concernente gli infraventunenni (sino a tre anni di pena detentiva) era applicabile quando il condannato non avesse ancora compiuto il ventunesimo anno di età alla scadenza dei primi tre mesi di detenzione o di osservazione in istituto. Ai detti fini, era perciò considerata irrilevante la data di commissione del reato. Una sentenza successiva però intervenne modificando l'orientamento previgente:

"Il beneficio dell'affidabilità al servizio sociale anche per condanna a pene detentive superiori a due anni e sei mesi (ma inferiore a tre anni) previsto in favore degli infraventunenni dall'art. 47, 1º comma, legge 26 luglio 1975, n. 354 presuppone solo che si tratti di persone che erano minori dei 21 anni al momento del fatto, non essendo invece necessario che tale requisito sussista nelle successive fasi del procedimento" (11).

Al di là delle diverse interpretazioni allora esistenti in merito, la Suprema Corte riconosceva pacificamente che la ragione del più elevato limite di pena ai fini dell'ammissione dell'affidamento in prova al servizio sociale degli infraventunenni risiedeva: "nel fatto che per tali soggetti il trattamento rieducativo è più rapido, essendo osservazione di comune esperienza la maggiore ricettività dei giovani, nel senso d'una naturale disponibilità ad un abbandono dei disvalori da cui ha tratto vita la condotta criminosa". (12)

Il limite di pena richiesto per la concessione della misura venne poi esteso per tutti, senza distinzioni, a tre anni con la legge 10 ottobre 1986, n. 663, la cosiddetta "legge Gozzini", ponendo così fine al dibattito.

Le modifiche apportate con la legge n. 663 dunque hanno ampliato l'ambito di operatività della misura, innalzando per tutti indistintamente la soglia di pena al di sopra della quale non è consentita l'ammissione. In genere, la dottrina si esprime in termini estremamente cauti nei confronti di questo allargamento del potenziale ambito di applicazione della misura, al quale si collega il timore di un possibile indebolimento della funzione di prevenzione generale (13) apprezzandone comunque l'indubbia efficacia chiarificatoria. (14)

2.3. Tipologia delle pene

Il primo requisito richiesto per la concedibilità dell'affidamento in prova al servizio sociale consiste nella condanna del soggetto ad una pena detentiva, ciò si desume dal testo dell'art. 47 comma 1: "Se la pena detentiva inflitta...".

Il condannato quindi deve espiare una pena detentiva, si può trattare sia di quella inflitta "ab origine" dal giudice della cognizione (reclusione ed arresto si sommano tra loro) (15) sia di una misura alternativa di carattere detentivo applicata nella fase dell'esecuzione dal Tribunale di Sorveglianza (detenzione domiciliare di cui all'art. 47-ter della legge 354/1975 o semilibertà disciplinata dagli artt. 48 e ss. della predetta legge).

Più problematico è se possono espiarsi nella forma dell'affidamento in prova le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi della semidetenzione e della libertà controllata di cui agli art. 55 e 56 della legge 24 novembre 1981, n.689 (16).

Sul piano logico formale, la questione si presenta come l'alternativa tra il dare la prevalenza, nel senso della specialità, al riferimento testuale alla pena detentiva, di cui all'art. 47, 1º comma, ovvero alla disposizione di cui all'art. 57, 1º comma, che stabilisce l'equivalenza, a ogni effetto giuridico, della pena sostitutiva a quella sostituita. L'incertezza possiamo dire concerne essenzialmente il tema della libertà controllata, in quanto è stato affermato il carattere (almeno parzialmente) detentivo della semidetenzione. (17)

Su tale misura la Cassazione ha affermato infatti che:

"in tema di misure alternative alla detenzione, anche alla semidetenzione, quale misura sostitutiva della detenzione.... può essere applicato (sussistendone i requisiti di legge) il più favorevole regime dell'affidamento in prova al servizio sociale, non risultando a ciò d'ostacolo la mancata espressa previsione legislativa, spiegabile con il rilievo che all'epoca dell'introduzione del predetto istituto (Affidamento in prova: Legge 26.7.1975 n.354, art. 55) non esistevano ancora le sanzioni sostitutive delle pene brevi, di cui la semidetenzione è una espressione" (18).

In tema di libertà controllata, invece, si è sviluppata una disputa giurisprudenziale riguardo l'ammissibilità dell'istanza di affidamento in prova al servizio sociale, solo recentemente risolta. Si è formato infatti un primo orientamento nel senso della inammissibilità dell'istanza di affidamento in prova. A tal riguardo è stato affermato dalla Cassazione che:

"L'istituto dell'affidamento in prova al servizio sociale è stato previsto dal legislatore come misura alternativa alla detenzione, di modo che presupposto indefettibile per la sua applicazione è che la pena da eseguirsi sia di natura detentiva. Ne consegue che non può disporsi l'affidamento in prova al servizio sociale nei confronti di soggetto sottoposto alla sanzione sostitutiva della libertà controllata." (19)

"E' inammissibile l'affidamento in prova al servizio sociale con riferimento alla sanzione sostitutiva della libertà controllata. (In motivazione, la S.C. ha anche avuto modo di precisare che a identica conclusione non potrebbe giungersi per la sanzione sostitutiva della semidetenzione prevista dall'art. 55 della legge n.689 del 1981)". (20)

A favore di questo orientamento militano le considerazioni afferenti la ratio e l'essenza dell'affidamento quale misura, alternativa, al trattamento penitenziario. (21)

In senso contrario invece alla tesi precedentemente esposta, viene valorizzato il dato formale dell'equivalenza tra le sanzioni detentive e le sostitutive espressamente previste dall'art. 57 della legge 24 novembre 1981, n. 689. In tal senso la suprema corte ha disposto che:

"L'affidamento in prova al servizio sociale, siccome compreso fra le misure alternative alla detenzione, trova applicazione anche riguardo alle pene sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata, atteso che tali sanzioni, a norma dell'art. 57, comma primo, della legge 24.11.1981 n.689, sono equiparate per ogni effetto giuridico alla pena detentiva." (22)

"Le misure alternative alla detenzione, come l'affidamento in prova al servizio sociale, possono essere concesse - sussistendone i presupposti di legge - anche a chi sia stato sottoposto a una sanzione sostitutiva. Ne consegue che il suddetto beneficio deve trovare applicazione anche nei riguardi di colui che sia stato sottoposto alla libertà controllata, in quanto quest'ultima, al pari della semidetenzione, è equiparata, per ogni effetto giuridico, alla pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena sostituita" (23).

Sempre nel solco della tesi dell'ammissibilità dell'istanza di affidamento, la giurisprudenza ha anche valorizzato la asserita maggiore flessibilità delle prescrizioni impartibili con esso. Partendo infatti dal principio costituzionale secondo cui le pene, comunque espiate, debbono sempre tendere alla rieducazione del condannato, e considerato che, in vista del conseguimento di tale obiettivo, il legislatore ha inteso offrire al condannato una vasta gamma di mezzi di rieducazione (24) per far consentire al soggetto di compiere le sue scelte di vita con la massima autonomia e libertà, si è ritenuto che nulla vieti, giuridicamente e concettualmente, l'applicabilità dell'affidamento in prova al servizio sociale anche al soggetto che debba espiare la pena in regime di libertà controllata (25) (o di semidetenzione), e cioè sottoponendosi a rigorose prescrizioni predeterminate, rispetto alle quali l'affidamento in prova al servizio sociale si caratterizza per l'imposizione di obblighi anche positivi e non solo negativi stabiliti invece di volta in volta dal giudice, con maggiore attenzione alle peculiarità del singolo caso, il che può rappresentare un passo avanti sulla via del superamento degli errori passati e del pieno recupero del soggetto. (26)

Questa impostazione è stata criticata dalla dottrina (27) in quanto è stato sostenuto che già nell'ambito della libertà controllata, è disciplinata la figura del Centro di Servizio Sociale per interventi volti al reinserimento del condannato, anche se tale possibilità è puramente facoltativa (art. 56, l. 24.11.1981, n. 689, ult. Co.). Altro rilievo mosso dalla dottrina (28) concerne il fatto che l'affidamento in prova al servizio sociale deve avere durata uguale alla pena rispetto alla quale è alternativa mentre la libertà controllata durata doppia rispetto alla pena sostituita, dunque si produrrebbe anche l'effetto, di difficile giustificazione, che la durata dell'affidamento in prova al servizio sociale sarebbe doppia, in caso di sostituzione della pena. Tale effetto appare in posizione di difficile compatibilità con l'art. 3 Cost. (29)

La più recente Corte di Cassazione, a Sezioni Unite sembra aver trovato la soluzione a questa disputa perseguendo il primo orientamento affacciatosi sulla questione ossia escludendo la concedibilità dell'affidamento in prova al servizio sociale sulla pena della libertà controllata (30).

A sostegno di questo pensiero le Sezioni Unite pone diverse considerazioni: innanzitutto la formulazione letterale dell'art. 47, 1º comma della legge 354/1975; il fatto che entrambi gli istituti perseguano la finalità di evitare gli effetti desocializzanti conseguenti all'esecuzione della pena in regime carcerario; il richiamo alla disciplina dell'affidamento in prova al servizio sociale operato dall'art. 56, 2º comma della legge 689/1981 (secondo cui il magistrato di sorveglianza può disporre che i Centri di Servizio Sociale di cui alla legge 354/1975 svolgano nei confronti del condannato cui è stata applicata la sanzione sostitutiva della libertà controllata "gli interventi idonei al suo reinserimento sociale"); la "presunta" minore afflittività delle prescrizioni imposte al libero controllato rispetto a quelle cui è soggetto l'affidato in prova. (31) Tutti questi elementi hanno quindi indotto le Sezioni Unite a ritenere inutile l'applicazione dell'affidamento in prova alla libertà controllata rispetto alla quale la misura alternativa costituirebbe solo una irragionevole duplicazione. Pure la dottrina più recente (32) ha affermato che in relazione all'esecuzione della libertà controllata non può concedersi l'affidamento in prova in quanto la prima non "è certamente pena detentiva".

Per concludere sul tema della tipologia della pena in relazione alla misura, occorre rilevare la disposizione dell'art. 67, l. 24 novembre 1981, n. 689, in base al quale l'affidamento in prova (e la semilibertà) non è concedibile alla pena detentiva risultante dalla conversione delle sanzioni sostitutive della libertà controllata e semidetenzione conseguente alla violazione delle prescrizioni inerenti la sanzione sostitutiva.

Si tratta di una presunzione "assoluta" di inadeguatezza (33) dell'affidamento in prova a contenere il pericolo di recidiva per chi ha già dimostrato la propria immeritevolezza, procurandosi la revoca della sanzione sostitutiva.

La Corte Costituzionale (34) a tal proposito ha espresso la legittimità costituzionale della norma, stabilendo una sorta di presunzione "juris et de jure" di inadeguatezza della misura alternativa rispetto alla situazione di condannati che subiscono la conversione della pena sostitutiva, escludendo quindi la possibilità di effettuare quella valutazione del caso concreto in rapporto alla finalità di risocializzazione del condannato e alla prevenzione di altri reati. Vi è quindi una presunzione circa il fatto che la finalità rieducativa dell'affidamento debba cedere alle esigenze di applicazione della pena detentiva.

Occorre sottolineare che la preclusione non è applicabile né alla detenzione domiciliare (non richiamata dalla disposizione), né all'affidamento in prova al servizio sociale cosiddetto terapeutico, di cui all'art. 94, d.p.r. 9.10.1990, n. 309. A conferma di ciò la Cassazione in sezione ordinaria (35) ha qualificato l'art. 67 come norma di carattere eccezionale e, pertanto, di stretta interpretazione.

Inoltre movendo dalla premessa cui il presupposto per l'applicazione dell'affidamento è costituito come già affermato dalla natura detentiva della pena da espiare, deve escludersi che la misura alternativa possa concedersi al condannato che sta espiando la pena residua nella forma della liberazione condizionale, disciplinata dagli artt. 176 e ss. c.p., o abbia ottenuto la concessione della sospensione condizionata della pena di cui all'art. 1 della legge 7 agosto 2003, n. 207.

2.4. Entità della pena

Il secondo requisito cui è subordinata l'applicazione dell'affidamento in prova al servizio sociale riguarda l'entità della pena detentiva da espiare fissato per tutti i condannati, senza distinzioni di età, a tre anni, esso rappresenta l'unico requisito formale (rectius: "esterno") espressamente richiesto dalla norma. (36) Questo presupposto ha costituito per circa un ventennio uno degli aspetti più controversi della norma dedicata all'affidamento. Il dibattito concerne il significato da attribuire all'espressione "pena inflitta" contenuta nell'art. 47, 1º comma, Ord. Pen. (37)

Largamente dibattuta è stata infatti la questione della rilevanza, ai fini della concedibilità del beneficio, della sola entità della pena inflitta in sentenza, ovvero della possibilità di ottenere la misura alternativa anche per il residuo di pene di maggiore entità. La questione, oltreché gravida di conseguenze sul piano pratico, si appaleseva ricca di implicazioni sul piano concettuale. Solo alla seconda soluzione avrebbe potuto corrispondere, la configurazione dell'affidamento in prova al servizio sociale come misura volta (anche) al reinserimento del condannato dopo una pena (eventualmente) di notevole durata, con tutte le implicazioni criminologiche e di politica penitenziaria connesse. (38)

La questione è, tuttavia, stata risolta per effetto della Corte Costituzionale con la sentenza 11.7.1989, n. 386 e della norma di cui all'art. 14 bis, d.l. 8.6.1992, n. 306, convertito nella l. 7.8.1992, n. 356. Nonostante il permanere del participio "inflitta" nel 1º comma, della disposizione in commento, è pacifica la concedibilità della misura per tutti i casi in cui la pena da espiare concretamente in prova al servizio sociale non superi i tre anni (pena residua).

L'art. 656, comma 5 c.p.p. (così come modificato dalla legge 165/1998) ha definitivamente risolto ogni incertezza in materia, con l'inciso "se la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggior pena, non è superiore a tre anni". (39)

Il beneficio può dunque essere concesso al condannato che "in concreto debba ancora espiare una pena di durata non superiore a tre anni, qualunque fosse la pena inflitta in origine e, nel caso in cui essa fosse inizialmente superiore al limite triennale, qualunque sia il motivo che ne ha determinato la discesa al disotto di tale confine (espiazione, concessione di liberazione anticipata, indulto, riconoscimento della fungibilità, ecc..)".

Ai fini della concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale è pertanto irrilevante sia il quantum della pena originaria, sia il fatto che la pena da scontare origini da una o più sentenze di condanna: ciò che assume rilievo è la pena da espiare in concreto da intendersi "nel senso di pena irrogata con la sentenza di condanna, depurata non solo della parte non espiabile per il verificarsi di cause estintive, ma altresì di quella già sofferta a titolo di custodia cautelare o di parziale esecuzione" (40).

2.4.1. Evoluzione giurisprudenziale del concetto di pena "inflitta"

L'assetto attuale come già detto costituisce il risultato di una travagliata e complessa vicenda, connotata da un progressivo ampliamento del significato da attribuire alla nozione di "pena inflitta" quale limite rilevante ai fini della concessione del beneficio. E' di notevole interesse ai fini di una più attenta disamina dei fini di politica criminale perseguiti dal legislatore ripercorrere la disputa dottrinale e giurisprudenziale, riportando le più importanti sentenze emanate.

L'indicazione testuale apparentemente chiara, fu infatti spesso interpretata in modi diversi già dagli anni immediatamente successivi all'entrata in vigore della legge n. 354/75.

Il legislatore del '75 non adoperò il participio "inflitta" a caso, letteralmente stà a significare imposta, irrogata, quindi l'adozione di tale termine spiegava la ragion d'essere dell'istituto. (41) Alla pena detentiva come sappiamo dalla Carta Costituzionale (art. 27 comma 3) è assegnata una funzione rieducativa, le misure alternative tendono in quest'ottica, a dare una risposta articolata e differenziata al crimine in ragione della pericolosità del condannato e delle sue capacità di rieducazione. Il legislatore disegna gli istituti e indica i tempi per perseguire afflittività e rieducazione, mentre nel costruire l'alternativa alla detenzione carceraria, fissa i limiti di pena entro i quali è perseguibile il fine rieducativo. Il giudice come sappiamo determina la pena in concreto, secondo i parametri enunciati negli artt. 132 e 133 c.p., quindi in relazione alla fattispecie, alla personalità del condannato ed alla sua capacità di recupero. La pena irrogata quindi rapportata alle condizioni prefissate per l'ammissione alla singola misura (a quel tempo due anni e sei mesi) consente di stabilire se lo specifico istituto è applicabile nella fattispecie.

Secondo questa logica, per le pene medio - basse era previsto l'affidamento in prova al servizio sociale; data la finalità dell'istituto nell'intenzione del legislatore la pena "inflitta" era quindi da intendere quella effettivamente irrogata, senza nessuna rilevanza per le eventuali cause di estinzione parziali, indipendenti dal fatto, magari posteriore alla stessa condanna definitiva, e perciò estranee al giudizio sulla personalità del condannato espresso nella quantificazione della pena. In questa motivazione si ritrovano anche le ragioni della previsione di una pena, inflitta in misura maggiore, per il minore o l'anziano, perché in entrambi i casi l'età è ritenuta elemento capace, di per sé, di favorire un più rapido recupero. (42)

Negli interventi giurisprudenziali post-riforma, dopo una prima sentenza che fece valere un'interpretazione letterale del concetto di "pena inflitta" quale pena risultante dalla sentenza di condanna (Cass. Sez. I, 20.01.1976, Onorato, GP, 1977, II, 453) si giunse ad estendere tale concetto. La giurisprudenza, fin dalle prime applicazioni, si mostrò infatti poco sensibile al canone interpretativo precedente e, attribuì all'espressione un significato più ampio, si ritenne che, ai fini della determinazione del computo della pena, si doveva assegnare rilevanza alle cause di estinzione o, comunque, a tutti quei fatti giuridici che importano un ridimensionamento della pena inflitta (43).

Secondo questa giurisprudenza, pena "inflitta" è la pena in espiazione, senza tener conto delle condanne condizionalmente sospese (44), delle pene condonate (45), secondo un computo che calcola come pena inflitta le sole parti di pena da espiare e quelle già espiate. La Corte precisava in tal senso che ai fini dell'accertamento del limite di pena si potesse tener conto del periodo di pena già scontato in carcerazione preventiva. (46)

Nel caso di esecuzione di pene concorrenti, si doveva avere riguardo alla pena unica risultante dal cumulo delle pene inflitte, non solo ma l'affidamento era considerato applicabile, nel caso in cui la somma di più pene detentive non superasse il limite di legge, anche senza necessità di procedere al cumulo delle pene.

In aderenza con lo sviluppo logico di questo indirizzo, erano escluse del computo anche le pene ritenute scontate per effetto di fungibilità (art. 657 comma 2 c.p.p.). Questo primo orientamento dominante fino alla fine degli anni ottanta nella giurisprudenza di legittimità, rappresentava un indirizzo ormai consolidato, che considerava ammessa l'irrilevanza degli eventuali periodi di pena già espiata. (47)

Un orientamento più rigoroso che enfatizzava il dato letterale della norma, si affacciò a seguito della modifica dell'art. 47 ord. Penit., ad opera della l. 10 ottobre 1986, n. 663, si osservò infatti che la contemporanea variazione introdotta nell'art. 47-bis ord. Penit.(affidamento in prova al servizio sociale in casi particolari, rectius "affidamento terapeutico") con la ripetizione del termine "inflitta" in riferimento al limite di pena, rapportata a quello dell'art. 47 comma 1 ord. Penit., non poteva avere altro significato che la riaffermazione del concetto secondo cui per pena inflitta doveva intendersi quella irrogata e che nessuna influenza poteva attribuirsi ai ridimensionamenti intervenuti per effetto di successive cause estrinseche. (48)

Veniva, pure, rilevato che l'art. 47 - ter ord. Penit. (detenzione domiciliare), introdotto dalla novella, nel fissare il limite massimo di pena per l'ammissione alla detenzione domiciliare, precisava doversi trattare di pena della reclusione non superiore a due anni "anche se costituente parte residua di maggiore pena", con ciò eliminando ogni confusione fra "pena inflitta" e "pena residua". (49)

Queste argomentazioni non furono comunque sufficienti per far modificare il precedente orientamento giurisprudenziale, che, nonostante alcune sentenze di senso contrario (50), venne confermato. La situazione che veniva creandosi era comunque di grosso incertezza, le due linee di pensiero intendevano il limite all'entità della pena in maniera totalmente differente, da una parte ispirati dal principio del "favor rei" si cercava di estendere l'applicazione dell'istituto, dall'altro tramite una rigorosa interpretazione letterale del participio "inflitta" si tendeva a non consentire un eccessivo utilizzo della misura.

A "cercare" di riportare ordine, intervenne la Corte di Cassazione, a sezioni unite (51), la quale affermò che, in forza della nuova formulazione dell'art. 47 ord. Penit., la concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale era subordinata alla condizione che la pena detentiva "inflitta" non superasse i tre anni, dovendosi intendere per "inflitta" la pena irrogata con la sentenza o le sentenze di condanna, perché a tanto conduceva l'espressione letterale usata, il contesto nel quale era inserita, l'intenzione del legislatore, la struttura e lo scopo dell'istituto del quale la disposizione faceva parte. La soluzione adottata quindi era rispettosa in astratto della lettera della legge, ma evidentemente meno favorevole al condannato. (52)

Passato pochissimo tempo dalla decisione della Suprema Corte, il contrasto interpretativo riemerse in tutta la sua evidenza. La prima sezione di quell'organo (53) infatti, andando contro a ciò che aveva pronunciato precedentemente a sezioni unite affermò che per determinare il limite massimo di tre anni di pena detentiva inflitta, doveva farsi riferimento a quella che il condannato doveva effettivamente scontare, escludendo, quindi, dal relativo computo le pene estinte per indulto o per altra causa.

E' stato in questo preciso momento "storico" che la Corte Costituzionale decise di intervenire sul punto. Stante il forte contrasto giurisprudenziale e la necessità di dare un indirizzo univoco, con la sentenza 11 luglio 1989, n. 386, dichiarò, per violazione degli artt.. 3 e 27, 3º comma, della Costituzione, l'illegittimità costituzionale dell'art. 47, 1º co., Ord. Penit. "nella parte in cui non prevede che, in presenza di un cumulo di pene, nel computo delle pene, ai fini della determinazione del limite dei tre anni, non si debba tener conto anche delle pene espiate". (54)

Nel caso specifico la Corte Costituzionale era stata chiamata a pronunciarsi dal Tribunale di Sorveglianza di Brescia. La vicenda prendeva in esame la situazione di un tossicodipendente detenuto in espiazione di pena, che dopo essere stato sottoposto all'osservazione della personalità, con esito positivo, aveva chiesto l'ammissione all'affidamento in prova. Questa misura, non poteva essere concessa, secondo la Procura, in quanto, benché nessuna delle condanne subite dal detenuto superasse i tre anni, e nonostante che la pena residua ancora da scontare fosse inferiore a tale limite, il cumulo delle pene inflitte con le sentenze di condanna lo superava.

Secondo la giurisprudenza della Cassazione, allora prevalente, (come già affermato vedi Cass. Sez. unite 26.04.1989, Russo) per determinare la pena "inflitta" ai sensi del primo comma dell'art. 47 Ord. Penit., si doveva tenere conto del cumulo di tutte le pene comminate con le varie sentenze di condanna, anche se il cumulo non fosse stato formalmente operato; l'unica preclusione riguardava le pene estinte per amnistia e per condono, ma non quelle già espiate. Automaticamente la concedibilità dell'affidamento andava esclusa ogni volta in cui il cumulo delle pronunce di condanna comportava una pena superiore al limite quantitativo considerato nel primo comma dell'art. 47. (55)

La Corte Costituzionale ritenne illogico tale ragionamento. La Cassazione infatti affermava che avendo riguardo all'entità della pena complessiva, al fine di dedurne elementi negativi in ordine alla prognosi di rieducazione a mezzo della misura, andava da un lato escluso, dal computo, le pene estinte, pur costituenti presupposto del grado di pericolosità del soggetto, mentre dall'altro incluso, quelle non più eseguibili, perché espiate (dovendo comunque riconoscere alla espiazione effetti di rieducazione). (56)

In sostanza, partendo dall'interpretazione che escludeva dal computo le pene condonate o estinte la Corte Costituzionale ricavava un'incongruenza. Nel merito infatti la Corte si pronunciò per la fondatezza della censura, affermando che:

"se la tendenza giurisprudenziale, è quella di rinunziare a tenere conto di pene che, per non essere più eseguibili a causa della loro estinzione, non potrebbero mai consentire alcuna osservazione... se così è, a maggior ragione, allora, non si deve tener conto, agli effetti dell'affidamento, di pene che, essendo state espiate, hanno consentito una più lunga osservazione del comportamento e hanno potuto anche conseguire, sia pure parzialmente, oltre agli effetti necessariamente retributivi, quegli effetti di rieducazione e di recupero sociale che attengono alla funzione di prevenzione speciale" (57).

Tale pronuncia, interpretativa di accoglimento, portò a considerare l'espressione "pena inflitta" al di là del suo significato letterale, come pena da espiare effettivamente, in concreto, a cui andava detratta sia la parte di pena già condonata o altrimenti estinta, sia la parte eventualmente già espiata dal condannato. (58)

La dichiarazione di incostituzionalità, come già affermato, investiva unicamente l'ipotesi specifica nella quale il soggetto, condannato ad una pluralità di pene, non poteva essere ammesso alla misura alternativa, per effetto della inclusione nel cumulo di pene già espiate che provocavano il superamento del limite. Per quanto riguardava invece la diversa ipotesi di unica pena inflitta per un unico reato la Corte Costituzionale non intervenne, e ciò comportò negli anni seguenti sia in dottrina che in giurisprudenza una interpretazione più restrittiva di tale specie. (59)

L'interpretazione del Giudice delle leggi fu comunque fatta propria dalla Cassazione in svariate sentenze abbandonando la diversa concezione della precedente giurisprudenza. Prevalse quindi la linea secondo cui la "pena inflitta" diveniva la pena in concreto espianda (60). Venne precisato dalla Suprema Corte (61) che la pena espiata non era considerata nel computo, sia nel caso di condanna inflitta con unica sentenza, sia nella diversa ipotesi in cui si fosse operato un cumulo di pene. A sostegno di tale nuovo indirizzo era intervenuta nel frattempo una importante precisazione della Corte Costituzionale, con l'ordinanza del 26 ottobre del novanta. (62)

L'istituto dell'affidamento in prova, vide quindi allargarsi notevolmente il suo campo di applicazione, perdendo però alcune delle sue principali connotazioni originarie. (63)

L'orientamento giurisprudenziale pareva avesse imboccato la via del consolidamento attorno alla nuova concezione di pena "inflitta", fino a quando intervenne una nuova sentenza delle Sezioni Unite di Cassazione del 01.07.1992 che mutò nuovamente il pensiero. La Corte fece un ennesimo passo indietro distinguendo dal caso del cumulo di pene quello del superamento del limite dei tre anni da parte dell'unica pena detentiva inflitta per un solo reato, ancorché la pena residua da espiare fosse di durata inferiore. (64) Tale intervento giurisprudenziale si poneva in linea con quanto disposto dalla Corte Costituzionale nella pronuncia del 22.01.1992, n. 17, (65) nella considerazione che la misura alternativa, data la sua natura originaria, non poteva essere concessa a condannati per reati considerati di una certa gravità; questa non si poteva che desumere dall'entità della pena irrogata nella sentenza di condanna. (66)

La Corte osservò infatti che il Tribunale era pienamente libero nel suo potere interpretativo, in quanto, nella sentenza costituzionale n. 386/89, non si era esaminato il quesito sull'estensione del beneficio ai soggetti cui resti da espiare un residuo di pena inferiore a tre anni, ma ai quali sia stata inizialmente irrogata una pena superiore al detto limite per un unico reato.

Emerge in questo quadro, l'ennesimo contrasto interpretativo, ma questa volta la soluzione venne offerta (ed in maniera definitiva) dal legislatore, scegliendo come strumento d'intervento la decretazione d'urgenza.

L'art. 14-bis, 1ºco., del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992, n. 356 (in tema di criminalità mafiosa) fornì un'interpretazione autentica della norma, ponendo così fine alla diatriba, stabilendo che:

"la disposizione di cui al primo comma dell'art. 47... nella parte in cui indica i limiti che la pena inflitta non deve superare perché il condannato possa beneficiare dell'affidamento, va interpretata nel senso che deve trattarsi della pena da espiare in concreto, tenuto conto anche dell'applicazione di eventuali cause estintive".

Si è pervenuti pertanto, per precetto legislativo, all'affermazione che pena "inflitta" significa pena residua da espiare (67), ponendo l'istituto dell'affidamento in prova al servizio sociale quale beneficio attribuibile anche a soggetti condannati per reati gravi, distaccando la misura dalla sua funzione originaria. In effetti abbiamo assistitito in questa lunga evoluzione giurisprudenziale alla trasformazione dell'affidamento in prova, la dottrina (68) a tal proposito espresse opinioni non sempre favorevoli nei confronti del non del tutto atteso intervento del legislatore.

L'interpretazione autentica fornita dal legislatore sul concetto di pena "inflitta" tuttavia ha attribuito (al di là dei contrasti giurisprudenziali e dottrinali), all'istituto dell'affidamento in prova un valore più incisivo di quanto non avesse avuto in origine; rispettando nello spirito dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione, il peculiare aspetto del trattamento penale che presuppone un obbligo tassativo per il legislatore di tenere non solo presente la finalità rieducativa della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarla e le forme atte a garantirla. (69)

La giurisprudenza della Suprema Corte ha dunque aderito alla disposizione interpretativa autentica. Le Sezioni Unite hanno successivamente precisato che la pena scontata per custodia cautelare si configura come esclusa dal computo (70) in aderenza anche a quanto già stabilito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 386 del 1989. La norma interpretativa chiarendo il termine pena "inflitta" come "pena residua da scontare" ha affermato che ai fini del computo della pena complessivamente inflitta va tenuto conto "anche" dell'applicazione di eventuali cause estintive, riferendosi quindi ad ogni altra possibile detrazione della pena, come appunto il periodo di custodia cautelare. (71)

Occorre però ricordare che non è detraibile dalla "pena inflitta" quella parte di essa scontata in misure coercitive diverse dalla custodia cautelare o dagli arresti domiciliari, ad essa equiparati. La sentenza della Cass. Sez. I del 30 settembre 1997 (72) conferma tale indirizzo stabilendo che il periodo di assoggettamento a misura coercitiva diversa dalla custodia cautelare (nella specie, obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria) non è computabile, in quanto l'art. 657 c.p.p. prevede solo il computo della custodia cautelare, in carcere o in luogo di cura, cui l'art. 284 comma 5 stesso codice equipara gli arresti domiciliari.

Fermo restando che non può concedersi la misura dell'affidamento in prova al servizio per una durata che "ab initio" sia superiore ai tre anni, resta infine da verificare se il limite di legge impedisca altresì la durata della misura per un periodo superiore a tre anni complessivi, anche nel caso di molteplici concessioni frazionate nel tempo ma in esecuzione continua.

L'esempio è quello che venga concessa la misura su di una pena di due anni e, espiati un anno e sei mesi in affidamento, sopravvenga un ulteriore pena per altri due anni. La durata complessiva della misura sarebbe superiore al limite triennale, ma, al momento della concessione, il residuo sarebbe inferiore a tale quota. La soluzione adottata dalla giurisprudenza (73) è quella per cui unico elemento valutabile è la pena residua espianda al momento della nuova concessione. Quindi qualora nel corso dell'affidamento, sopravvenga un nuovo titolo di esecuzione di altra pena detentiva, il cumulo delle pene in relazione al quale, ai sensi dell'art. 51 bis dell'Ord. Penit. deve essere verificata la permanenza o meno delle condizioni di cui all'art. 47, comma primo (residuo pena complessivo da espiare non superiore a tre anni) va calcolato escludendo il periodo di tempo già trascorso in affidamento fino alla sopravvenienza del nuovo titolo (ferma restando la necessità che sussista l'altra condizione costituita dal regolare svolgimento della prova).

Inoltre è interessante rilevare che ai fini della determinazione della pena in concreto espianda si considerano anche le condanne non citate dall'interessato nell'istanza di affidamento in prova. Su tale punto infatti la Suprema Corte nella sentenza del 3 marzo 1995 ha affermato che:

"ai fini della concessione dell'affidamento, per pena detentiva non superiore a tre anni, deve intendersi la pena da espiare in concreto e, quindi, la pena che, pur se prende in considerazione l'eventuale applicazione di cause estintitive della pena o del reato, deve, tuttavia, prendere in considerazione, altresì, tutte le altre pene da espiare in relazione ad altre condanne, a nulla rilevando che ad esse l'interessato non abbia fatto riferimento nel presentare l'istanza di affidamento". (74)

Oggi, in seguito agli sviluppi dell'interpretazione attribuita al 1º comma dell'art. 47 Ord. Penit. ciò che rileva ai fini della determinazione del limite di pena è pacificamente la pena residua che il condannato in concreto deve espiare. L'entità originaria della pena, determinata in sentenza, perde, ai fini della concessione della misura alternativa, buona parte del suo valore, così come non rileva che la pena risulti da una o più sentenze di condanna.

La progressiva estensione del concetto di pena inflitta, di cui abbiamo reso conto, unito all'innalzamento del limite di pena effettuato dalla legge 663/1986, e all'incidenza delle diminuenti processuali connesse alla applicazione dei riti alternativi cui è affidata una funzione deflattiva rispetto al giudizio dibattimentale, hanno contribuito alla "metamorfosi" dell'affidamento in prova che attualmente può essere concesso non solo agli autori di modesta gravità la cui devianza è riconducibile a situazioni di disagio o emarginazione sociale (come prevedeva il legislatore inizialmente), ma anche a soggetti che hanno commesso reati di notevole gravità quali ad esempio la bancarotta fraudolenta, la rapina aggravata, la violenza sessuale, l'estorsione aggravata.... Questa situazione costituisce per parte della dottrina l'indice della trasformazione "degenerativa" dell'istituto divenuto strumento diretto a porre rimedio al sovraffollamento carcerario (75) se non addirittura una "incontrollata forma di grazia giudiziale" di cui possono, beneficiare anche autori di reati di rilevante gravità e spesso integrati nel contesto sociale da cui provengono.

2.4.2. Il momento di determinazione della pena "inflitta"

Altra questione portata all'attenzione della giurisprudenza riguarda il momento a cui occorre far riferimento per determinare la pena detentiva "inflitta" ancora da espiare in concreto.

Sul punto vi è stata infatti una discussione che riguarda il momento cronologico al quale aver riguardo per determinare il "residuo", le opinioni come al solito si sono divise. I giudici di legittimità in una prima fase identificarono tale momento nella presentazione dell'istanza di affidamento in prova al servizio sociale del condannato (76).

Successivamente però in una diversa pronuncia, la Corte si mosse seguendo una linea diversa da quella precedente, il momento al quale fare riferimento per la determinazione della pena "inflitta" divenne infatti il passaggio in giudicato della sentenza di condanna o, nel caso di più sentenze, del passaggio in giudicato dell'ultima di esse (77). Pertanto si diceva che pur dovendosi escludere dalla pena "inflitta" (alla stregua di quanto detto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.386/89) quella già espiata o condonata, tal esclusione poteva avere ad oggetto solo la parte di pena che risultava espiata o estinta fino al momento anzidetto.

La differente interpretazione del termine comportava di riflesso una disciplina più rigorosa per il condannato, in quanto ne derivava che ogni fatto estintivo della pena la cui operatività si collocava in un momento successivo al momento della inflizione e quindi del passaggio in giudicato non poteva avere alcuna incidenza.

La Cassazione tornò comunque in seguito sui suoi passi, chiarendo che la pena detentiva inflitta è la pena effettivamente da espiare al momento della proposizione dell'istanza (78). E' questa l'interpretazione recepita pure dal legislatore, come già ricordato, nell'art. 14-bis comma 1 l. n. 356 del 1992, che nel definire l'espressione "pena detentiva inflitta" parla di pena che residua al momento della presentazione dell'istanza.

Una volta risolto questo primo contrasto, si è discusso se il presupposto della entità della pena debba necessariamente sussistere alla data di presentazione dell'istanza, oppure sia sufficiente che sussista alla data della decisione. La dottrina attualmente (79) pende per la seconda impostazione fornendo alcune argomentazioni al riguardo. Innanzitutto viene affermata la mancanza di argomenti testuali a favore della prima soluzione (data presentazione istanza), poi si afferma che si tratta, di limiti, imposti per il profilo sostanziale della fruizione di benefici (e non di limiti frapposti a mero dato della ricevibilità delle domande) ed infine prendendo in considerazione la data della decisione si realizza, altresì, una evidente economia processuale.

2.4.3. Cumulo giuridico e limite di pena

Recentemente, la giurisprudenza si è dedicata in materia di limite di pena richiesto per la concessione dell'affidamento, alla relazione intercorrente tra il limite legislativamente previsto ed il cumulo operato tra più pene. (80)

L'art. 663 del codice di procedura penale, disciplina l'esecuzione di pene concorrenti, quando la stessa persona è stata condannata con più sentenze o decreti penali per reati diversi. In questo caso il pubblico ministero (presso il giudice che ha emesso il provvedimento divenuto esecutivo per ultimo) determina la pena da eseguire effettuando il cosiddetto "cumulo", il provvedimento, contenuto nell'ordine di esecuzione, è notificato poi al condannato e al difensore.

Orbene, l'art. 73 comma primo del codice penale e l'art. 78 comma primo e secondo del suddetto codice hanno inteso distinguere più "species" del genere cumulo. La disciplina prevede infatti un cumulo "materiale", che rappresenta la somma delle pene previste per i singoli reati temperato dal cumulo "giuridico". (81) In quest'ultimo caso vengono imposti dei limiti al cumulo materiale: il primo, definito limite cosiddetto relativo (art. 78 co. 1 c.p.) impone che la pena non sia superiore al quintuplo di quella più grave, mentre per il secondo cosiddetto assoluto (art. 78 co. 2 c.p.) non consente che la reclusione sia superiore ai trenta anni o ai sei di arresto e comunque, non più di trenta anni di pena detentiva. Inoltre nel caso di reato continuato o concorso formale previsto dall'art. 81 del c.p. è previsto un ulteriore cumulo "giuridico" secondo il quale è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge e chi con più azioni od omissioni, esecutive del medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge.

Un primo principio giurisprudenziale di tipo generale, stabilisce che entrano nel cumulo tutte le pene relative a reati commessi prima dell'inizio della esecuzione e con pena da scontare alla data di commissione dell'ultimo reato. Ipotizziamo che il reato "x" (pena nove anni) è stato commesso il 7.10.1985 con pena irrevocabile del 8.11.93 e che il reato "y" è stato commesso il 9.11.1988 con pena di otto anni, divenuto irrevocabile il 13.1.1994, in questa situazione siamo in presenza di pene concorrenti ed è necessario formare il cumulo pari ad anni diciassette.

Dopo questa necessaria introduzione sul significato di cumulo, torniamo al tema della relazione tra limite di pena previsto e cumulo di pena. La giurisprudenza di legittimità ha affermato a tal riguardo innanzitutto, che, nel caso di esecuzione di pene concorrenti, deve essere considerata la pena unica risultante dai cumuli, computando le pene inflitte (82). Questa massima è stata avallata in seguito da un'altra pronuncia della Suprema Corte (83) che ha affermato il principio secondo cui:

"Qualora risulti l'esistenza di una pluralità di pene da eseguire, il tribunale di sorveglianza, ai fini della verifica in ordine al rispetto del limite fissato dall'art. 47, comma 1, dell'ordinamento penitenziario per la concedibilità dell'affidamento in prova al servizio sociale, deve comunque operare il cumulo di dette pene, anche se non sia ancora intervenuto il provvedimento di unificazione da parte del competente ufficio del pubblico ministero".

Altra importante giurisprudenza in materia è quella intervenuta a Sezioni Unite (84) la quale precisa che il cumulo giuridico delle pene irrogate per il reato continuato (art. 81 c.p) è scindibile ai fini della fruizione dei benefici penitenziari, in riferimento ai reati che non ne impediscono la concessione.

Il principio di diritto affermato dalla Corte è quello per cui: "nel corso dell'esecuzione della pena il vincolo della continuazione tra reati è scindibile... al fine di consentire la valutazione della sussistenza, o meno, di ostacoli, provenienti dalla tipologia di un dato reato, giudicato in continuazione, per la concessione dei benefici penitenziari....".

Tale principio era già emerso nei primi anni di applicazione della misura dell'affidamento in prova. Questo beneficio nella sua stesura originaria infatti, incontrava numerose condizioni ostative (misure di sicurezza detentive; condanne per reati della stessa indole commessi precedentemente; condanne per reati che procuravano un certo allarme sociale), venute meno con la legge "Gozzini", e poi riaffiorate con l'inserimento dell'art. 4-bis. Già allora, la Corte aveva affermato che, nell'ipotesi di cumulo di pene inflitte per un reato ostativo e per altri reati non preclusivi, poteva essere sciolto il cumulo stesso, dichiarando che il reo aveva già espiato la pena relativa al reato ostativo. (85)

Questo insegnamento ripristinato dalle Sezioni Unite è evidentemente ispirato al principio del favor rei, in quanto consente attraverso il meccanismo della scissione del cumulo, di estinguere il rapporto esecutivo sorto in relazione al reato preclusivo permettendo al condannato di fruire in relazione alle altre condanne, delle misure alternative alla detenzione.

2.5. Altre condizioni per la concessione della misura

L'applicazione dell'affidamento in prova al servizio sociale richiede la sussistenza di altre due condizioni. Esse sebbene non espressamente previste dal testo dell'art. 47 Ord. Penit., sono desumibili dalla natura e dalla finalità della misura alternativa. (86)

La prima, è di carattere negativo, ed è costituita dall'assenza di sottoposizione del reo alla misura cautelare della custodia in carcere ex art. 285 c.p.p. mentre la seconda è di carattere positivo, ed è rappresentata dalla disponibilità da parte del condannato di un domicilio o di una sistemazione alloggiativa (comunque di una dimora effettiva che lo renda reperibile).

La custodia cautelare, definita pure attraverso la formula più realistica ma meno elegante di "carcerazione preventiva" dall'art. 13 comma 5º Cost., è la misura cautelare personale di tipo coercitivo di maggiore afflizione prevista dal nostro codice di procedura penale. (87)

La sua utilizzazione è prevista "soltanto quando ogni altra misura risulta inadeguata" (ex. art. 275 comma 3º), il ricorso alla carcerazione dell'imputato costituisce infatti una vera e propria "extrema ratio". Orbene, il fatto che il soggetto che ha chiesto l'applicazione dell'affidamento sia sottoposto, nell'ambito di un ulteriore procedimento penale, alla misura cautelare della custodia in carcere si configura come una circostanza che integra un'impedimento giuridico all'esecuzione della pena in regime extra-murario.

Dall'altra parte, si può affermare che l'applicazione della custodia in carcere senza contrastare con il principio di presunzione di innocenza affermato dall'art. 27 Cost., corrisponde alla necessità di salvaguardare specifiche esigenze cautelari quali "il concreto ed attuale pericolo per l'acquisizione o la genuità della prova", "il concreto pericolo che l'imputato si dia alla fuga", ed ancora "il pericolo di commissione di gravi delitti" (art. 274 c.p.p.).

A tal riguardo è intervenuta però recentemente la Suprema Corte, la quale ha confutato la tesi della incompatibilità "ontologica" (88) tra affidamento e misura cautelare della custodia in carcere. La Cassazione ha affermato che lo stato detentivo derivante dalla custodia cautelare in carcere per altra causa:

"non è per sé preclusivo alla valutazione nel merito, di istanza per l'ammissione a misura alternativa alla detenzione, incidendo lo stato detentivo solo sulla pratica applicabilità della misura stessa che va postergata alla cessazione della misura cautelare" (89), ferma restando (come pronuncia sempre la Corte in una successiva sentenza (90)) "la possibilità di apprezzare i fatti che hanno dato luogo al titolo custodiale ai fini del giudizio di meritevolezza del beneficio richiesto".

Sebbene la Cassazione sia orientata ad escludere che la sottoposizione del reo alla misura cautelare della custodia in carcere costituisca di per sé, una ragione ostativa alla valutazione nel merito dell'istanza tendente ad ottenere la concessione dell'affidamento in prova, ciò non toglie che detta istanza possa comunque essere legittimamente respinta quando il Tribunale di Sorveglianza ritenga che il delitto che ha dato luogo all'applicazione della misura cautelare, non consenta di formulare il giudizio prognostico di cui all'art. 47 della legge 354/1975.

Inoltre, sempre in tema di giurisprudenza della Cassazione sono da rilevare alcune sentenze concernenti la misura degli arresti domiciliari che sono equiparati dalla legge alla custodia cautelare ex art. 284 co. 5º del c.p.p.

Partendo dal principio esposto dall'art. 298, 2º co. c.p.p., secondo cui la misura cautelare non è sospesa, ma trova esecuzione, quando la pena deve essere espiata in regime di misura alternativa, è stato affermato che non sussiste una incompatibilità assoluta tra affidamento e la misura cautelare degli arresti domiciliari, salvo in ogni caso il potere-dovere del giudice di verificare in concreto, avuto riguardo della natura delle limitazioni connaturali alla misura alternativa ed alla misura cautelare, la effettiva compatibilità tra l'una e l'altra, nel rispetto, della legge ritenuto preminente, della misura cautelare (91).

In senso contrario a questa tesi è stato poi detto che l'affidamento:

"non può essere concesso a chi, all'atto della richiesta, sia sottoposto per altro fatto, alla misura cautelare degli arresti domiciliari, atteso che, finché opera tale misura, il soggetto, in quanto sottoposto ai relativi obblighi, non avrebbe la possibilità di dare in concreto prova della sua partecipazione alle finalità risocializzanti proprie dell'affidamento" (92).

A chiarire e dirimere il contrasto creatosi, sono intervenute le Sezioni Unite, le quali successivamente all'entrata in vigore della l. 27.05.1998, n. 165, la cosiddetta "legge Simeone", che, modificando l'art. 656 c.p.p., introdusse l'attuale procedura di sospensione automatica dell'ordine di esecuzione, optarono per l'astratta applicabilità della sospensione ai condannati agli arresti domiciliari. (93)

Il secondo presupposto di cui abbiamo parlato, per la concessione dell'affidamento in prova è rappresentato dalla disponibilità da parte del condannato di un domicilio o comunque di una sistemazione alloggiativa in modo che ne sia assicurata l'effettiva reperibilità. (94)

Su questa condizione, l'unico riferimento normativo che abbiamo, è quello indicato nel comma 5º dell'art. 47 Ord. Penit. ove viene fatto cenno nell'atto di redazione del verbale di affidamento delle prescrizioni che il soggetto dovrà seguire in ordine ai suoi rapporti con il servizio sociale e alla dimora. Al riguardo è stato affermato dalla Cassazione che:

"poiché l'esistenza di un domicilio eletto, pur consentendo la regolare notifica degli atti, ai fini della legale conoscenza degli stessi da parte del destinatario, non comporta la effettiva reperibilità del domiciliato, e poiché tale reperibilità è invece indispensabile ai fini dell'applicazione dell'affidamento in prova al servizio sociale, si deve escludere l'illegittimità del provvedimento con il quale il Tribunale di Sorveglianza abbia respinto la richiesta di affidamento sulla base del rilievo che l'interessato, pur avendo eletto rituale domicilio per le notifiche, era di fatto irreperibile". (95)

L'affidamento quindi presuppone la continua reperibilità del condannato, sia prima dell'applicazione del beneficio, che nel corso dell'esecuzione dello stesso, in quanto solamente in presenza di tale condizione può essere valutato il suo comportamento, e, l'osservanza delle prescrizioni concernenti i rapporti con il Servizio Sociale, la dimora, la libertà di locomozione, il divieto di certe frequentazioni ed il lavoro da svolgere. (96) A conferma di ciò la giurisprudenza ha puntualizzato che l'irreperibilità del condannato può giustificare il rigetto dell'istanza per motivi di merito. (97)

Interessante poi rilevare la fattispecie nella quale il soggetto richiedente l'affidamento in prova risieda all'estero, (98) in questa situazione la Suprema Corte ha affermato la non ammissibilità della misura in un paese straniero nel quale il condannato appunto risieda, in quanto i centri di servizio sociale per adulti svolgono soltanto nell'ambito territoriale di competenza la loro attività, che per sua specifica natura non rientra tra quelle funzioni statali esercitabili in territorio estero dagli uffici consolari italiani. (99)

Analizzando i presupposti per la concessione dell'affidamento in prova è sorta una discussione per quanto riguarda la necessità o meno di un'attività lavorativa a tal fine. La Corte di Cassazione (100) ha costantemente affermato che la possibilità di svolgere attività lavorativa non costituisce un presupposto indispensabile per la concessione dell'affidamento e, quindi, la mancanza di essa non può, di per sé sola, costituire elemento ostativo all'ammissione del condannato alla misura.

L'attività lavorativa nel procedimento di ammissione all'affidamento, viene posta quindi in relazione agli altri parametri previsti dagli artt. 2º e 3º co. dell'art. 47 Ord. Penit. (cosiddetta prognosi di rieducabilità), senza che allo stato di disoccupazione possa essere attribuita rilevanza decisiva. (101) A conferma di ciò la giurisprudenza di legittimità ha recentemente affermato che in tema di affidamento in prova al servizio sociale, lo svolgimento di una attività lavorativa può costituire un mezzo di inserimento sociale valutabile nel più generale giudizio di idoneità della misura alternativa, ma la sua mancanza non è ostativa alla concessione del beneficio, trattandosi di un parametro apprezzabile in relazione a tutti gli altri elementi sottoposti alla valutazione del giudice, quali i precedenti penali, la condotta inframuraria e la partecipazione al trattamento rieducativo. (102)

Viene sottolineata dalla Corte, l'estrema utilità rivestita da un lavoro serio e garantito per l'effetto rieducativo ad esso riconosciuto, a tal fine è essenziale che l'attività svolta non rivesta aspetti illeciti. Nel momento in cui, il lavoro costituisce l'unica fonte di mantenimento del soggetto, diviene a quel punto elemento indispensabile per la concessione della misura.

L'obiettivo della misura dell'affidamento, comunque occorre ribadirlo, è la rieducazione del reo, (103) quindi non il lavoro in sé, la valenza che l'attività lavorativa riveste è perciò fondamentalmente rieducativa. Ciò non toglie che l'assenza del compimento di un'attività, unita ad altri elementi negativi, possa incidere pesantemente sulla revoca della misura. (104)

2.6. Prognosi sul futuro comportamento del condannato

La concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale è subordinata infine alla formulazione del giudizio prognostico di cui all'art. 47, 2º e 3º comma della legge 354/1975. Tale presupposto costituisce (a differenza degli altri esaminati precedentemente) una condizione di tipo "soggettivo". Il comportamento del condannato (nello status di detenzione o di libertà) infatti deve essere tale da far ritenere che la concessione della misura, anche attraverso le prescrizioni che ne conseguono, contribuisca al suo reinserimento sociale ed assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati. La disposizione del 2º comma, dell'articolo in commento oltre che configurare un presupposto di concedibilità riassume la funzione dell'affidamento in prova ed il suo carattere di pena. In ossequio al principio costituzionalizzato (art. 27 co. 3º) di rieducazione del reo, la misura dell'affidamento finalizza, pertanto, il recupero sociale del condannato.

2.6.1. Evoluzione legislativa e corte costituzionale

Il giudizio predittivo, come gli altri presupposti analizzati, ha risentito degli interventi legislativi sulla materia. Un aspetto, oggetto di costanti rilievi critici fin dai primi momenti di applicazione della normativa del 1975 è stato quello delle modalità attraverso le quali il legislatore ha voluto regolamentare lo svolgimento dell'osservazione della personalità che, come indicava l'art. 47 comma 3º della legge n. 354 doveva essere "condotta per almeno tre mesi in istituto".

La subordinazione della concedibilità dell'affidamento all'osservazione intramuraria del condannato venne inserita nel progetto di legge sull'ordinamento penitenziario solo durante l'esame in sede referente, mentre il testo inizialmente redatto la collocava prima dell'esecuzione penale. La dottrina (105) accolse con un certo sfavore questa modifica, che di per sé riduceva la portata innovativa della misura alternativa e la portava a divenire "una forma sia pure speciale, di liberazione condizionale con prova".

La previsione di tale periodo, che si sostanzia in uno stato di effettiva detenzione (come imprescindibile termine minimo per lo svolgimento dell'osservazione) ha dato luogo alle critiche circa il mancato raggiungimento dell'obiettivo di limitare al massimo l'applicazione di brevi pene detentive, con gli inconvenienti che abbiamo visto ne derivano per il soggetto sia sul piano psicologico che come rischio di "contagio criminale". (106)

Il legislatore, non rimase insensibile al peso di queste sollecitazioni dottrinarie dal momento che, con la legge 21 giugno 1985, n. 297, ha provveduto alla riduzione ad un mese del termine minimo previsto per l'osservazione in istituto, riduzione poi definitivamente confermata dalla disciplina prevista per l'affidamento in prova al servizio sociale dalla legge 10 ottobre 1986, n.663 (art. 11).

Le innovazioni introdotte dalla legge "Gozzini" alla disciplina dell'osservazione della personalità consistono, dunque, innanzitutto nella conferma della riduzione ad un mese del previsto periodo minimo ed, allo stesso tempo, in una migliore puntualizzazione delle modalità con le quali deve essere svolta: cioè "collegialmente".

Si ritiene che anche quest'ultima riforma, sancisca il ruolo prioritario ed essenziale attribuito dal legislatore all'osservazione della personalità, che costituiva uno dei principali elementi innovativi della legge del 1975 e che conserva inalterata tale posizione di centralità anche nel sistema delineato dalla novella del 1986 dal momento che, si sottolinea (107), essa continua ad essere la prova principale necessaria su cui si fonda la valutazione di concedibilità di una vasta serie istituti, oltre allo stesso affidamento.

Tuttavia, l'intervento legislativo non è andato esente da notevoli perplessità, dal momento che si è parlato di "evaporazione dell'osservazione" (108), e della mancata realizzazione di riforme tese a colmare le carenze strutturali ed organizzative, relative soprattutto ai problemi di coordinamento fra i diversi operatori penitenziari, che la legge n. 354 del 1975 non aveva saputo evitare. (109)

I rilievi critici traevano origine dal timore che la disciplina prevista costituisse l'espressione di un meno accurato controllo dei destinatari traducendosi, in sostanza, in una "descientifizzazione" dell'osservazione, a vantaggio di un dato comportamentale che ben può essere ingannevole. (110)

A queste osservazioni, se ne affiancò un'altra di tutt'altro segno, è ipotizzabile infatti anche una diversa interpretazione rispetto alle problematiche riflessioni sul pericolo di uno "scadimento dell'osservazione della personalità" derivante dalla riduzione ad un mese del periodo minimo di osservazione. Il pericolo prospettato appare quanto meno attenuato dal rilievo che il termine è relativo solo ad un periodo "minimo" di osservazione, che fa dunque salvi tutti i casi nei quali, per un motivo qualsiasi, non sia possibile pervenire entro tale lasso di tempo alla raccolta dei dati necessari per la formulazione del giudizio previsto dall'art. 47, comma 2º, esattamente come avveniva nel vigore del precedente termine di tre mesi.

Alla luce di questa considerazione, dunque, la norma sembra delineare una certa duttilità, e possibilità applicativa che consente di tener conto, con la necessaria differenziazione, delle diverse caratteristiche del caso concreto che, possono suggerire l'opportunità di una conclusione entro breve termine oppure, all'opposto, richiedere un maggior lasso di tempo per una adeguata soluzione.

Questo meccanismo è rivolto quindi ad evitare situazioni di rigidità che si traducono in sostanziali ingiustizie, come ingiustificati indulgenzialismi che travolgerebbero il senso della misura. Il tentativo è quello dunque di fornire l'istituto dell'elasticità che può contribuire a consentirne un più adeguato funzionamento, cercando di dare giusto equilibrio alle contrapposte esigenze di prevenzione generale e prevenzione speciale.

La disamina delle innovazioni introdotte sulle condizioni di applicabilità dell'affidamento in prova dalla legge n. 663 deve, infine, rivolgersi ad una disposizione che rappresentava una assoluta novità, rispetto alla disciplina precedente. In sostanza, l'affidamento poteva essere concesso anche al condannato che avesse subito un periodo di custodia cautelare, seguito da un periodo di libertà nel corso del quale avesse serbato una condotta esente da rilievi. L'elemento più appariscente, e immediatamente percepibile, è la sostituzione della osservazione in istituto con una osservazione, per così dire, "atipica" (111) siccome condotta alla stregua del comportamento tenuto dal condannato in libertà, dopo un periodo appunto di custodia cautelare.

La singolarità di questa ipotesi risiede in una valutazione di equivalenza tra osservazione extra carceraria e osservazione in istituto che, pertanto, è ritenuta superflua. L'affidamento in prova da quel momento assume quindi una ulteriore funzione, accanto a quella tradizionale (avviare un processo rieducativo, tramite un trattamento alternativo al carcere, nei confronti di quei soggetti, la valutazione della cui personalità lo renda preferibile alla detenzione) si colloca una di nuovo tipo: non interrompere un processo rieducativo già avviato, strutturando un trattamento che prescinde dalla segregazione carceraria, per i soggetti che dimostrino essere in atto il loro recupero. Il legislatore diviene quindi consapevole della difficile praticabilità di qualunque progetto rieducativo in carcere, privilegiando il trattamento in libertà, l'istituto dell'affidamento assume così facendo le sembianze della probation anglosassone. (112)

L'introduzione di questa nuova disciplina testimonia l'intento di valorizzare e ritenere congruo un giudizio prognostico della personalità del condannato basato su indicazioni esterne alla realtà carceraria. Questa nuova species di affidamento ha però generato gravi problemi relativi alla disparità di trattamento tra soggetti che, per il fatto di avere trascorso un periodo di custodia cautelare ed un successivo periodo di libertà possono essere ammessi al beneficio fin dall'inizio e gli altri soggetti che, invece, devono sottoporsi all'osservazione in carcere per almeno un mese. Coloro dunque che non erano mai stati sottoposti a custodia cautelare e, quindi, in definitiva, considerati meno pericolosi finivano per ricevere un trattamento peggiore rispetto agli altri. (113)

Risulta comprensibile dunque come la normativa in esame sia stata al centro di un fervido dibattito dottrinale (114) ed altresì punto nodale di alcune pronuncie della Corte Costituzionale, la quale ha ravvisato nel dettato normativo dei commi 3º e 4º dell'art. 47 Ord. Penit. alcuni elementi di contrarietà ai principi costituzionali.

Con sentenza 22 dicembre 1989 n.569 (115), infatti, la Corte ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 47, comma 3º nella parte in cui non prevede che, anche indipendentemente dalla detenzione per espiazione di pena o per custodia cautelare, il condannato possa essere ammesso all'affidamento in prova al servizio sociale se, in presenza delle altre condizioni, abbia serbato un comportamento tale da consentire il giudizio di cui al precedente comma 2º dello stesso articolo.

Le argomentazioni della Corte Costituzionale prendono le mosse da una analisi storica dell'istituto dell'affidamento in prova che, così come originariamente disciplinato dalla legge n. 354/1975, non configurava un provvedimento premiale o di clemenza, bensì "un esperimento penitenziario, condotto sotto altre modalità, di espiazione per agevolare ed affrettare il reinserimento sociale del condannato, consentendogli di espiare la residua pena in condizioni di relativa libertà e in affidamento al servizio sociale, favorendo la disponibilità alla collaborazione rieducativa, di cui aveva dato prova durante l'osservazione degli esperti, nel corso dell'espiazione carceraria". (116)

Ma se l'originaria previsione normativa individuava nell'affidamento in prova un istituto riservato ai condannati che si trovassero in espiazione della pena e che, come tali, potessero essere sottoposti in istituto alla speciale osservazione collegiale, la Corte si trovava a dover prendere atto che nel corso dei tempi l'istituto ha subito numerose e importanti modificazioni, da doversi riconoscere l'attenuarsi di quei caratteri originari con la conseguente trasformazione della sua stessa natura. (117)

Sulla base di questa premessa, la Corte giunse a recepire le istanze dei giudici di merito, riconoscendo che i commi 3º e 4º dell'art. 47 Ord. Penit. introducono una nuova species di affidamento, che prescinde del tutto dalla osservazione collegiale in istituto, spostandola invece sul comportamento che il condannato ha tenuto nel periodo di libertà successivo ad una eventuale custodia cautelare, e denunciando come:

"l'aspetto più singolare è rappresentato dal fatto che di tale custodia non è indicato alcun periodo minimo dunque anche un giorno di custodia cautelare potrebbe essere ritenuto sufficiente, in presenza delle altre condizioni, a giustificare l'ammissione all'affidamento in prova". La Corte osservava che "se il periodo di custodia cautelare non serve all'osservazione che viene spostata su quello successivo della libertà... resta oscuro il significato di questa condizione che finisce per proporsi come inutile presupposto della grave deroga alla disciplina generale". (118)

Tutto ciò porta la Corte a sostenere che, nella realtà, ciò che conta veramente è il giudizio sul comportamento tenuto dal condannato in libertà, per cui l'elemento della custodia cautelare "non solo non è significativo, ma è anche del tutto estraneo rispetto ai fini che l'affidamento si ripromette". Il solo elemento significativo rimasto a contraddistinguere la disciplina comune dell'affidamento, sia del detenuto in espiazione che di quello in libertà, è dunque l'osservazione del comportamento ai fini del giudizio prognostico di idoneità del soggetto alla rieducazione.

La sentenza della Corte Costituzionale riveste quindi fondamentale importanza nell'evoluzione del concetto di prognosi rieducativa, tale pronuncia ha eliminato la condizione della previa custodia cautelare sofferta nel corso del processo, incompatibile tanto con il principio di cui all'art. 3 Cost. quanto con quello di cui all'art. 27 comma 2º Cost., generalizzando l'accesso alla misura alternativa dalla libertà.

L'intervento della Corte ha relegato la disciplina "storica" dell'accesso al beneficio dell'affidamento in prova (quella che presuppone, cioè, l'osservazione inframuraria del condannato) ad un ruolo marginale, riservandola in pratica a quei soli condannati, nei casi di lunghe pene detentive, quando la soglia dei tre anni costituisca il residuo ancora da scontare. Per tutti gli altri condannati essa opererà infatti di rincalzo, quale obbiettivo suppletivo qualora l'istanza di affidamento "in via anticipata" abbia avuto esito negativo.

Il legislatore preso atto dell'orientamento della Corte Costituzionale, ha ravvisato la necessità di coordinare l'istituto sorto nel lontano 1975 ed ampliato nel 1986, per adattarlo alle esigenze di una società in continua evoluzione. (119) La legge 27 maggio 1998 n. 165 "Saraceni-Simeone" ha valorizzato infatti gli interventi succedutesi nel tempo, consentendo la concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale non solo dopo l'osservazione della personalità condotta per almeno un mese in istituto o in libertà dopo la custodia cautelare, ma a prescindere dalla detenzione in carcere, cioè quando il condannato, dopo la commissione del reato, ha serbato in libertà un comportamento tale da consentire il giudizio prognostico favorevole circa la rieducazione e la reiterazione dei reati. (120)

L'osservazione della personalità pertanto attualmente può aversi in tre ipotesi:

  1. per il comportamento tenuto un mese in istituto;
  2. per la condotta avuta in libertà dopo la custodia cautelare;
  3. per il comportamento di chi, non avendo mai subito né custodia cautelare né esecuzione di pena, è rimasto sempre libero.

Le esigenze che hanno condotto all'evoluzione della disciplina sulla materia, come ha sottolineato la dottrina (121) sono correlate al problema dell'aumento della popolazione carceraria. L'obbiettivo perseguito dalla legge infatti è quello della "decarcerizzazione": in primo luogo, riequilibrando il sistema verso una maggiore tutela delle fasce di condannati più deboli e sfavoriti, tramite il meccanismo della sospensione automatica dell'ordine di esecuzione che mira a facilitare l'accesso dallo "status libertatis" dell'affidamento in prova e delle altre misure alternative (detenzione domiciliare e semilibertà) ed in secondo luogo approntando una corsia preferenziale per la libertà, gestita dal magistrato di sorveglianza, abilitato a sospendere l'esecuzione della pena e a scarcerare il condannato in vista di una futura e possibile applicazione dei citati benefici da parte del tribunale.

Il risultato finale è quindi quello di un istituto totalmente stravolto rispetto alle funzioni originariamente previste da legislatore.

2.6.2. Oggetto dell'accertamento del Tribunale di sorveglianza

La misura dell'affidamento in prova al servizio sociale abbiamo detto può essere concessa quando si può ritenere che il provvedimento stesso, anche attraverso le prescrizioni impartite, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati.

Occorre dunque esaminare quali sono, tenendo presente la distinzione tra le forme di affidamento sopra richiamate, gli elementi utilizzabili dal Tribunale di Sorveglianza per formulare il giudizio prognostico cui, ai sensi dell'art. 47, 2º comma della legge 354/1975, è subordinata l'applicazione della misura. Prima però di analizzare i singoli elementi è importante capire quale sia l'oggetto dell'accertamento. (122) L'orientamento prevalente nella Cassazione, è nel senso di ritenere quale presupposto per la concessione dell'affidamento in prova un giudizio prognostico positivo circa la "fronteggiabilità" della residua pericolosità sociale del reo attraverso anche gli strumenti coessenziali alla misura stessa. (123)

Ciò non significa, che sia richiesto un processo rieducativo che si sia già realizzato e che quindi possa già formularsi un giudizio di non pericolosità, essendo invece sufficiente un giudizio prognostico sulla fronteggiabilità della pericolosità residua con gli strumenti propri dell'istituto in esame e che, anche attraverso le prescrizioni, si raggiunga poi la rieducazione del reo. (124)

Si è in ogni caso negata la sussistenza di una sorta di presunzione di affidabilità di ciascuno al servizio sociale, negandosi quindi che l'affidamento in prova sia in ogni caso lo strumento idoneo al conseguimento degli obiettivi della rieducazione e della non recidività del condannato. Al contrario, occorrerà, piuttosto, la dimostrazione, di volta in volta, della esistenza di elementi positivi atti a fare ragionevolmente ritenere che l'istituto possa trovare proficua applicazione in funzione delle finalità ad esso espressamente attribuite dal legislatore.

Il Tribunale di Sorveglianza (competente a decidere sulla concessione, ex art. 47 comma 4º) dunque può addivenire alla pronuncia favorevole solo se siano stati raccolti elementi concreti e specifici a sostegno della richiesta. La Suprema Corte ha affermato che per la concessione dell'affidamento in prova non è sufficiente l'assenza di indicazioni negative, ma è invece necessario che risultino elementi positivi che consentono un giudizio prognostico di esito positivo della prova e di prevenzione del pericolo di recidiva. Tali elementi è stato affermato devono risultare dalla osservazione penitenziaria quando il beneficio è chiesto dalla stato di detenzione, mentre devono essere desunti dal comportamento tenuto in libertà quando l'istanza è proposta prima dell'inizio della esecuzione della pena. (125)

Da questo ragionamento ne consegue in pratica, la sufficienza, nella pronuncia del Tribunale di Sorveglianza, della motivazione puramente negativa, non occorrendo che venga anche fornita la dimostrazione, in positivo, che detta applicazione non consentirebbe in nessun modo il conseguimento degli obiettivi voluti dal legislatore, dimostrazione che, del resto, siccome riferita a prospettive future, non sarebbe per sua natura possibile.

Interpretando la giurisprudenza della Cassazione, si capisce come fattore fondamentale nell'opera di accertamento degli elementi su cui basare il giudizio prognostico di rieducabilità, divenga l'istuttoria compiuta dal Tribunale di Sorveglianza. Norma di riferimento a tal riguardo è il comma 5º dell'art. 666 del c.p.p, che disciplina il procedimento di esecuzione a cui fa rinvio il procedimento di sorveglianza ex art. 678 sempre del c.p.p. Tale istruttoria non riceve una regolamentazione dettagliata, si dovrà quindi auspicare che comprenda l'accertamento delle condizioni personali, familiari e sociali del condannato oltre che dei consueti indicatori criminologici quali i precedenti e le pendenze penali e di polizia e informazioni di pubblica sicurezza.

Tuttavia, la necessaria valutazione caso per caso (e la eventuale sussistenza di ragioni ostative) non consente né di configurare accertamenti necessari né preclusioni invincibili, al di là di quelle normative. Ad esempio, l'accertamento della situazione sociofamiliare non è stato ritenuto indefettibile dalla Corte di Cassazione (126). Nel caso particolare infatti il diniego dell'affidamento in prova è stato ritenuto motivato anche quando, nell'ambito di un giudizio prognostico che, per sua natura, non può che essere discrezionale, venga indicata una sola ragione, purché plausibile, tale da far ritenere scarsa la probabilità di successo dell'esperimento, in relazione alle specifiche finalità dell'istituto (rieducazione del reo e prevenzione di recidiva), non occorrendo, pertanto, che il tribunale prenda necessariamente in esame anche la situazione sociofamiliare del richiedente.

La valutazione su un oggetto, (la personalità di un individuo), per definizione infungibile esclude quindi la predeterminazione di criteri rigidi e specifici, che vadano al di là della regola, dell'accurata ponderazione di tutti gli elementi rilevanti. (127)

Inoltre il doveroso compimento di attività istruttoria da parte del Tribunale di Sorveglianza esclude che a carico dell'istante per il beneficio possa configurarsi un onere di allegazione degli elementi a sostegno della domanda, tuttavia, l'istanza pare dovere avere un contenuto minimo, poiché la giurisprudenza dei Tribunali di Sorveglianza, confermata dalla Suprema Corte, ha ritenuto inammissibile l'istanza priva addirittura dell'indicazione della residenza e dell'ambiente di reinserimento. (128) Oggi comunque i dubbi in tema di dichiarazione o elezione di domicilio sono superati dal testo del 2º comma bis dell'art. 677, c.p.p., che prevede espressamente l'onere di tali indicazioni, a pena di inammissibilità, per tutte le istanze rivolte dal soggetto non detenuto alla magistratura di sorveglianza.

Più in generale, possiamo osservare che, il principio ispiratore delle misure alternative alla detenzione è il principio di buona fede, che costituisce presupposto fondante la prognosi di idoneità delle medesime (e di affidabilità del condannato). E' auspicabile quindi una soluzione che imponga al condannato (che è il soggetto a conoscenza delle proprie risorse) un onere di allegazione ragionevole e non vessatorio. Tale onere non lede alcun interesse del condannato, da un lato, e consente una istruttoria più rapida ed efficace al Tribunale di sorveglianza, con evidente vantaggio dello stesso soggetto interessato.

2.6.3. Elementi valorizzabili dal Tribunale di sorveglianza

Il Tribunale di Sorveglianza, al fine di formulare un giudizio prognostico di rieducabilità sul condannato, analizza pertanto una serie di elementi rilevanti per la valutazione della sua personalità.

In primo luogo viene in considerazione il reato commesso, (129) che rappresenta il punto di emersione della pericolosità sociale del condannato e costituisce il punto di partenza del giudizio del Tribunale di Sorveglianza. La Suprema Corte a tal proposito ha affermato (130) infatti che la valutazione prescritta dal secondo comma dell'art. 47 Ord. Penit. deve essere formulata anche con riferimento alla natura e gravità del reato commesso, che, seppure non decisiva, costituisce comunque il punto di partenza dell'indagine prognostica.

A tal fine il Tribunale è chiamato a valutare, tramite l'acquisizione della sentenza di condanna, le modalità e le circostanze del reato, i mezzi utilizzati per la sua consumazione, l'entità dell'offesa cagionata al soggetto passivo, l'intensità del dolo e i motivi che sono all'origine della condotta criminosa posta in essere dal reo.

In secondo luogo assumono rilievo i precedenti penali, ed in particolare le condanne per delitti della stessa indole, che eventualmente figurano a carico del reo quali emergono dal certificato penale. A questo riguardo si è affermato che per il giudice è doveroso valutare i precedenti penali del soggetto, senza però che tale valutazione possa assumere carattere esclusivo, dovendo essa essere compiuta in collegamento con ogni altro elemento di giudizio, ed in primo luogo, come vedremo con il comportamento successivo alla commissione del reato. (131) I precedenti penali, pur non potendo essere ostativi in assoluto alla applicazione dell'affidamento, possono tuttavia entrare legittimamente nel novero degli elementi valutabili dal Tribunale di Sorveglianza al fine appunto della formulazione del giudizio prognostico ad esso demandato.

Soprattutto quando la richiesta di affidamento in prova al servizio sociale proviene da persona che si trova nello stato di libertà, il Tribunale di Sorveglianza, non disponendo dei risultati dell'osservazione personologica inframuraria, valuterà la condotta del condannato che segue la condanna, desumendola appunto dai precedenti e dalle pendenze penali.

Dall'esame del certificato penale inoltre il Tribunale può acquisire ultreriori elementi di valutazione rilevanti ai fini della formulazione della prognosi di rieducabilità di cui al 2º comma dell'art. 47. In particolare dall'esame di esso può emergere che il condannato è sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di cui all'art. 3 della legge 27.12.1956, n. 1423 ("Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e la pubblica moralità"), circostanza che la recente giurisprudenza ha ritenuto astrattamente configurabile come un'incompatibilità logico-giuridica con l'affidamento in prova, ravvisando una contraddizione in termini fra la dichiarazione di pericolosità sociale, concreta ed attuale, del soggetto e la fiducia sull'idoneità della misura alternativa a contribuire alla sua rieducazione e ad assicurare la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati. (132)

L'esame del certificato penale può infine consentire di verificare se il reato per il quale è stata inflitta la pena che il condannato chiede di espiare in regime di affidamento è stato commesso successivamente alla applicazione di altre misure alternative, circostanza che potrebbe apparire dimostrativa della inidoneità della misura extramuraria a contribuire al recupero sociale del reo.

In terzo luogo (133) il Tribunale di Sorveglianza deve tener conto della condotta successiva al reato desumibile dai dati dell'osservazione personologica "effettuata collegialmente per almeno un mese in istituto", (art. 47 comma 2º), ove si tratti di soggetti nello status detentivo, mentre quando l'istanza tendente ad ottenere l'applicazione dell'affidamento provenga da persona, che si trova nello stato di libertà il Tribunale, non disponendo dei dati dell'osservazione della condotta carceraria dovrà ricavare tale giudizio dal certificato dei carichi pendenti, dalle informazioni degli organi di polizia, e dai risultati dell'indagine sociofamiliare operata dal Centro di Servizio Sociale per Adulti. La giurisprudenza afferma che il beneficio dell'affidamento non potrà essere concesso ove risulti che la condotta serbata dal condannato in libertà non sia stata osservante della legge penale o di prescrizioni imposte a fini di prevenzione. (134)

Merita di essere sottolineato che, in generale, ai fini del giudizio di pericolosità è ritenuto dalla Suprema Corte, non necessario il passaggio in giudicato dell'accertamento di fatti costituenti reato, la cui valutazione "incidenter tantum" è rimessa al Tribunale di Sorveglianza, tenuto conto dei poteri istruttori attribuitigli (art. 666 comma 5º del c.p.p.) e della autonomia di valutazione e convincimento. Nel procedimento di sorveglianza infatti ben possono essere valutati fatti storicamente accertati, costituenti ipotesi di reato riferibili al condannato, senza necessità di attendere la definizione del relativo procedimento penale. Quel che conta è solo la valutazione della condotta del condannato al fine di stabilire se lo stesso (prescindendo quindi dall'accertamento giudiziale della sua responsabilità) sia meritevole del beneficio penitenziario alternativo alla detenzione. (135)

In merito alla rilevanza attribuibile ai procedimenti pendenti a carico del condannato sembra opportuno distinguere tra i casi in cui il pubblico ministero ha esercitato l'azione penale tramite citazione diretta ex art. 550 c.p.p. ed i casi in cui il rinvio a giudizio dell'imputato si ricollega al decreto emesso ex art. 429 c.p.p. all'esito dell'udienza preliminare. Al riguardo va ricordato che le innovazioni introdotte dalla legge 16.12.1999, n. 479 (cosiddetta legge Carotti) hanno determinato un profondo mutamento dell'udienza preliminare sul piano sia della qualità e quantità degli elementi valutativi che vi possono trovare ingresso, sia dei poteri cognitivi e decisori attribuiti al giudice. Quest'ultimo, infatti, è legittimato a disporre l'integrazione delle indagini (art. 421-bis c.p.p.), a disporre, anche di ufficio, l'assunzione dei mezzi di prova dai quali appaia evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere (art. 422 c.p.p.). (136)

Ne consegue che, proprio a seguito delle incisive innovazioni introdotte dalla legge 479/1999 in ordine alla struttura e alla funzione dell'udienza preliminare, il decreto che dispone il giudizio non costituisce più un atto di mero impulso processuale, configurandosi invece come un provvedimento che presuppone una valutazione di merito sulla consistenza e fondatezza dell'accusa, consistente in una prognosi di successo nella fase dibattimentale. (137)

Da ciò deriva, ferma restando la presunzione di innocenza quale garanzia posta a tutela della persona soggetta ad indagini, che, ai fini della formulazione della prognosi di cui all'art. 47 della legge 354/1975, la rilevanza attribuibile ad un procedimento pendente sussistente a carico di colui che invoca l'applicazione dell'affidamento è senza dubbio maggiore nei casi in cui la richiesta ha superato il filtro dell'udienza preliminare, rispetto ai casi in cui tale controllo giurisdizionale preventivo non ha avuto modo di esplicarsi.

Dal rapporto informativo dell'organo di polizia il Tribunale può ricavare dati relativi alla condotta serbata dal condannato durante la sottoposizione ad una misura cautelare diversa dalla custodia in carcere applicata nell'ambito del procedimento definito con la sentenza che ha inflitto la pena da eseguire; la sottoposizione del condannato a misure di prevenzione quali l'avviso orale o il rimpatrio con foglio di via obbligatorio; la sussistenza di denunce; o infine, la sottoposizione del condannato a misure cautelari per un fatto diverso da quello oggetto della condanna da eseguire.

Nel caso dei reati elencati nel secondo periodo del 1º comma dell'art. 4-bis della legge 354/1975 le informazioni dell'organo di polizia, nel caso di specie individuato dal legislatore nel Questore, hanno inoltre la funzione essenziale di portare a conoscenza il Tribunale della esistenza di "elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva", circostanza che il legislatore ha configurato come una condizione ostativa alla concessione della misura alternativa. Nella fattispecie i reati sono: l'omicidio, la rapina aggravata, l'estorsione aggravata, il reato di cui all'art. 73 del d.p.r. 309/1990, aggravato ex art. 89, 2º comma del medesimo d.p.r.; il delitto di cui all'art. 291-ter del d.p.r. 23.01.1973, n. 43; l'associazione di tipo mafioso di cui all'art. 416 c.p. finalizzata alla commissione dei delitti previsti dal libro II, titolo XII, capo III del codice penale; dagli articoli 609-bis, 609-quater; e 609-octiesc.p., e dei delitti di cui all'art. 12, commi 3, 3-bis e 3-ter del decreto legislativo 25.07.1998, n. 286.

Occorre ricordare che, mentre per i delitti elencati nel primo periodo del 1º comma dell'art. 4-bis è necessario acquisire elementi di prova che escludano l'esistenza del collegamento con la criminalità organizzata, per i delitti elencati nel secondo periodo della norma è sufficiente che non vi siano elementi che ne facciano ritenere la sussistenza. (138) Nel caso in cui il condannato sia cittadino extracomunitario il rapporto informativo dell'organo di polizia consentirà inoltre di verificare se egli è o meno titolare del permesso di soggiorno.

Al riguardo deve essere segnalata la recentissima sentenza (139) delle Sezioni Unite n. 7458 del 28 marzo 2006 concernente, in tema di esecuzione della pena, la possibilità (sempre che ne esistano i presupposti stabiliti dall'ordinamento penitenziario) di applicazione delle misure alternative alla detenzione anche allo straniero extracomunitario che sia entrato illegalmente in Italia o sia privo di permesso di soggiorno. Le Sezioni Unite infatti sono state chiamate a risolvere la questione ivi esposta, (sulla quale si sono registrate nella più recente giurisprudenza di legittimità linee interpretative nettamente divergenti) dandone risposta positiva.

Secondo un primo indirizzo:

"la condizione di clandestinità o di irregolarità dello straniero extracomunitario è, di per sé, preclusiva all'applicazione di misure alternative alla detenzione, perché, nel rigore della normativa dettata dal vigente testo unico sull'immigrazione (d.lgs. n. 286 del 1998, modif. prima dalla l. n. 189 del 2002 e poi dal d.l. n. 241 del 2004, conv. in l. n. 271 del 2004, artt. 13, 14, 15 e 16) è oggettivamente impossibile instaurare l'interazione tra il condannato e il servizio sociale a causa dell'illegale permanenza nel territorio dello Stato, né può ammettersi che l'esecuzione della pena abbia luogo con modalità tali da comportare la violazione o l'elusione delle regole che configurano detta illegalità." (140)

La Cassazione ha argomentato tale linea, partendo dal principio per cui è immanente nell'ordinamento il limite (che attiene a "essenziali esigenze di coerenza ed omogeneità dell'intero sistema") riferibile alla legalità estrinseca di un provvedimento giurisdizionale, ossia all'assenza di un contrasto con le norme imperative, ciò che invece si realizzerebbe nel caso di uno straniero che vi ha fatto ingresso clandestinamente.

Pertanto è stato affermato che, lo "status" di clandestinità dello straniero, anche se non preclusivo sotto il profilo soggettivo, (non implicando alcuna presunzione di pericolosità, che va, invece, accertata specificamente), è, tuttavia, oggettivamente ostativo alla applicazione di misure alternative extracarcerarie. Il motivo risiederebbe nella radicale incompatibilità (141) delle loro modalità esecutive con l'osservanza delle norme che disciplinano l'ingresso, il soggiorno e l'allontanamento dallo Stato di cittadini appartenenti a Paesi extracomunitari contenute nel decreto legislativo 25.07.1998 n.286, modificato dalla legge 30.07.2002, n.189 (Bossi-Fini). Quest'ultimo prevede come misura alternativa applicabile allo straniero l'espulsione dal territorio dello Stato cioè una misura che comporta l'allontanamento coattivo del condannato, escludendo la sua permanenza in Italia.

L'opposto orientamento sostiene, invece, che la condizione dello straniero clandestino o irregolare, pur se soggetto ad espulsione amministrativa da eseguire dopo l'espiazione della pena, non è di per sé ostativa alla concessione di misure extramurarie. Tale linea interpretativa, dapprima affermatasi in riferimento alla semilibertà (Cass., Sez. I, 14/12/2004, P.G. in proc. Sheqja, rv. 230586), è stata ripresa e sviluppata, da una successiva sentenza riguardante l'affidamento in prova al servizio sociale (Cass., Sez. I, 18/5/2005, Ben Dhafer Sami, rv. 232104), cui hanno poi aderito altre decisioni della stessa Sezione (Sez. I, 18/10/2005, P.G. in proc. Tafa; Sez. I, 25/10/2005, P.G. in proc. Chafaoui; Sez. I, 24/11/2005, P.G. in proc. Metalla).

Le Sezioni Unite (142), sulla base di recenti affermazioni della Corte Costituzionale secondo le quali l'affidamento in prova costituisce "una misura restrittiva di esecuzione penale", "una pena essa stessa, alternativa alla detenzione o se si vuole una modalità di esecuzione della pena", e che le relative prescrizioni hanno "carattere sanzionatorio-afflittivo", al pari di ogni conseguenza restrittiva discendente da una condanna penale, ha dunque optato per il secondo dei richiamati indirizzi giurisprudenziali.

Le motivazioni addotte sono innanzitutto da ricercare nel fatto che:

"l'ordinamento penitenziario non opera alcuna discriminazione del relativo trattamento sulla base della liceità, o non, della presenza del soggetto nel territorio dello Stato italiano, e non contiene alcun divieto, esplicito o implicito, di applicazione delle misure alternative alla detenzione a favore del condannato straniero che sia entrato o si trattenga illegalmente in Italia."

E' logicamente insostenibile infatti configurare la detenzione come una condizione di extra-territorialità del detenuto, come se la permanenza in carcere non fosse una permanenza sul territorio dello Stato italiano.

Se, come sosteneva la Corte (143), la condizione di illegalità del "clandestino" impedisce che "l'esecuzione della pena abbia luogo con modalità tali da comportare la violazione e l'elusione delle norme che rendono configurabile tale illegalità", allora ogni forma di esecuzione della pena sul territorio nazionale dovrebbe essere vietata, sia quella carceraria, sia quella in misura alternativa. La permanenza sul territorio dello Stato è richiesta infatti da entrambe le forme di esecuzione. E' evidente che la tesi della Corte provava "troppo". (144)

Il titolo che legittima la presenza del migrante irregolare sul territorio dello Stato è infatti il medesimo in entrambe le circostanze: l'ordine di esecuzione pena. In entrambi i casi il condannato si trova "in regime di esecuzione penale", dunque la permanenza sul territorio dello Stato trova la propria giustificazione formale nell'esecuzione della pena che rende la permanenza non solo possibile, ma obbligatoria.

La Corte giustificava la discriminazione tra diverse forme di esecuzione penale sulla base dell'art. 16 del Testo Unico del 1998 (modificato dalla legge 189 del 2002), secondo il quale nei confronti dello straniero "clandestino", in relazione all'espiazione di pene brevi, è prevista come unica sanzione sostitutiva alla detenzione l'espulsione, cioè una misura che comporta l'allontanamento coattivo del condannato, escludendo la sua presenza nel territorio dello Stato. Ebbene, non è chiaro da quale presupposto la Corte abbia dedotto che l'espulsione sia anche "l'unica" sanzione alternativa, in quanto lo stesso art. 16 del T. U. al comma 1, prevede che il giudice applichi la sanzione sostitutiva dell'espulsione "quando ritiene di dover irrogare la pena detentiva entro il limite di due anni e non ricorrano le condizioni per ordinare la sospensione della pena ai sensi dell'art. 163 del codice penale..", quindi il legislatore non ha affidato al giudice il compito di espellere in ogni caso il migrante irregolare: il giudice può sospendere la pena, qualora ritenga che ve ne siano i presupposti.

In questo caso il problema della non permanenza contra legem del migrante irregolare sul territorio dello Stato è un problema amministrativo e non interferisce con l'esito del processo penale. Non è chiaro perché invece allora il problema dell'espulsione amministrativa dovrebbe interferire con l'esecuzione della pena, impedendo al magistrato di sorveglianza di determinare modalità alternative di esecuzione della pena, qualora ritenga che ne ricorrano i presupposti soggettivi. (145)

A tal proposito merita sottolineare che con le ordinanze n. 226 del 15 luglio 2004 e n. 369 del 1999 la Corte Costituzionale ha stabilito che l'espulsione dello straniero non può essere intesa come una "sanzione" alternativa o sostitutiva: essa resta un provvedimento amministrativo che dovrebbe essere adottato a fine pena e che viene anticipato, perché ne ricorrono già i presupposti. Questo significa che la Consulta interpreta l'art. 16 del Testo Unico del 1998 come un'autorizzazione data dal legislatore a derogare al principio dell'indefettibilità della pena e ad anticipare la misura amministrativa che dovrebbe essere applicata dopo che la pena sia stata interamente scontata (quando ricorrono le condizioni per anticipare la misura, condizioni che ovviamente non ricorrono, per esempio, se il migrante irregolare è in espellibile ex art. 19 del T.U. del 1998). (146)

Questa interpretazione sembra quindi confermare che l'esecuzione della pena (a prescindere delle sue modalità di esecuzione) è un titolo che legittima la permanenza sul territorio dello Stato dello straniero irregolare.

Inoltre in linea di principio:

"considerati i preminenti valori costituzionali della uguale dignità delle persone e della funzione rieducativa della pena (artt. 2, 3 e 27, comma 3, Cost.), che costituiscono la chiave di lettura delle disposizioni dell'ordinamento penitenziario sulle misure alternative e di cui sono lineare espressione anche gli artt. 1 e 13 del medesimo ordinamento sulle modalità del trattamento, l'applicazione di dette misure non può essere esclusa, a priori, nei confronti dei condannati stranieri, che versino in condizione di clandestinità o di irregolarità e siano perciò potenzialmente soggetti ad espulsione amministrativa da eseguire dopo l'espiazione della pena." (147)

Una giurisprudenza ormai trentennale della Corte Costituzionale ha configurato la possibilità di accesso alle misure alternative alla detenzione come l'elemento che qualifica la pena detentiva come "tendente alla rieducazione del condannato". L'art. 27, comma 3, impone quindi allo Stato il dovere di configurare la pena in modo che "tenda alla rieducazione del condannato" e non definisce la possibilità di scontare una pena con queste caratteristiche come un diritto del solo cittadino o del solo migrante "regolare".

Anzi, la Corte Costituzionale nella sentenza 204 del 1974 più volte richiamata in pronunce successive in materia di esecuzione pena, ha parlato addirittura di dovere dell'amministrazione penitenziaria di creare organi appositi che facilitino il reinserimento sociale dei detenuti (148). A tali coordinate interpretative si è costantemente uniformata la risalente giurisprudenza di legittimità (149), allorché ha stabilito che:

"le misure alternative alla detenzione in carcere, per la finalità rieducativa e risocializzatrice che ad esse è propria, devono essere applicate nei confronti di tutti coloro che si trovano ad espiare pene inflitte dal giudice italiano in istituti italiani, senza differenziazione di nazionalità, non esistendo alcuna incompatibilità tra l'espulsione da eseguire a pena espiata e le varie opportunità trattamentali che l'ordinamento offre, dirette a favorire il reinserimento del condannato nella società, posto che, in un'ottica transnazionale, la risocializzazione non può assumere connotati nazionalistici, ma va rapportata alla collaborazione fra gli Stati nel settore della giurisdizione penale".

Va ricordato inoltre che, a riprova della piena legalità dell'ipotesi che un migrante irregolare sconti, in tutto o in parte, la pena nella forma della misura alternativa al carcere, il Ministero dell'interno, con la circolare 2.12..2000 n.300 - C2000/706/P12.229.39/1^div., ha sottolineato che:

"in riguardo alla posizione di soggiorno dei cittadini stranieri detenuti ammessi alle misure alternative previste dalla legge, quali la possibilità di svolgere attività lavorativa all'esterno del carcere, si rappresenta che la normativa vigente non prevede il rilascio del permesso di soggiorno ad hoc per detti soggetti. In queste circostanze non si reputa possibile rilasciare un permesso di soggiorno per motivi di giustizia né ad altro titolo, ben potendo l'ordinanza del Magistrato di sorveglianza costituire ex se un'autorizzazione a permanere nel territorio nazionale."

La circolare ricorda inoltre che:

"la possibilità per gli stranieri di cui trattasi, di svolgere attività di lavoro all'esterno del carcere è stata disciplinata dalla circolare n. 27/93 (150) del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale con la quale è stato chiarito che è sufficiente un apposito atto di avviamento al lavoro rilasciato dagli Uffici provinciali del lavoro, di validità limitata al tipo di attività lavorativa e a quel periodo indicato nel provvedimento giudiziario di ammissione al beneficio de quo."

La possibilità dunque che un migrante irregolare sconti la pena nella forma della misura alternativa appare ovvia al Ministero della Giustizia fin dal 1993, e lo stesso Ministero si è preoccupato di rendere effettiva questa possibilità prevedendo per i migranti irregolari le modalità di accesso al lavoro, requisito di fatto essenziale per accedere alla semilibertà e all'affidamento in prova al servizio sociale.

2.6.4. Il contributo dei servizi sociali

Tornando all'analisi dei singoli elementi valorizzabili dal Tribunale di Sorveglianza, un ruolo particolarmente importante lo esercita la relazione dei servizi sociali. Occorre però prima di esaminare il lavoro svolto da queste strutture, rendere conto della modifica intervenuta di recente all'art. 72 della legge 26 luglio 1975, n. 354 che costituiva i Centri di servizio sociale per adulti dell'amministrazione penitenziaria.

Con la legge 27 luglio 2005, n. 154 (cosiddetta legge Meduri) (151) vi è stata infatti la trasformazione dei "Centri di servizio sociale per adulti" (C.S.S.A.) in "Uffici di esecuzioni penale esterna" (U.E.P.E.). La modifica è intervenuta nella più ampia riforma concernente la carriera dirigenziale penitenziaria, per questo motivo ha suscitato più di un contrasto all'interno della categoria degli assistenti sociali. Le osservazioni che sono state avanzate (152) contro questa nuova normativa concernono il fatto che se apparentemente non modificano niente (eccetto la terminologia utilizzata), in realtà viene posto l'accento solo sull'esecuzione della pena (quindi sul controllo) considerando la presa in carico dal punto di vista sociale come un utile accessorio "assistenziale" (il titolo del capo terzo del titolo II della legge 354/75 diventa: "Esecuzione penale esterna e assistenza"). La preoccupazione avvertita è che questo intervento normativo sia il primo passo verso un cambiamento di rotta (e di cultura) della legislazione penitenziaria, accentuando le funzioni di controllo della pena a scapito della funzione di inserimento curata degli assistenti sociali.

Al di là delle preoccupazioni espresse l'Ufficio di Esecuzione svolge un'inchiesta di servizio sociale per fornire al Tribunale di Sorveglianza, elementi oggettivi e soggettivi, relativi al condannato con particolare riferimento all'ambiente sociale e familiare di appartenenza ed alle risorse personali, familiari, relazionali ed ambientali su cui fondare un'ipotesi di intervento e di inserimento.

La relazione dell'Ufficio di esecuzione dovrebbe quindi offrire al Collegio importanti elementi di valutazione concernenti le condizioni economiche, sociali e culturali del reo, le esperienze scolastiche e lavorative, i rapporti familiari, le abitudini di vita e gli ambienti frequentati, al fine non solo di delineare il profilo della personalità del reo, ma anche allo scopo di identificare i fattori ambientali ed individuali che sono stati all'origine della condotta criminosa. Il ripristino delle stesse condizioni ambientali nelle quali il soggetto ebbe a delinquere, costituirebbe altrimenti, fattore negativo ad un suo positivo reinserimento sociale.

Nella prassi le relazioni sono utilizzate quale fonte di conoscenza, unitamente al rapporto informativo proveniente dagli organi di polizia, per accertare la disponibilità da parte del condannato di una sistemazione alloggiativa o comunque di una fissa dimora, e di una attività lavorativa.

Con riferimento alla sistemazione alloggiativa, è divenuta elemento indispensabile per la concessione dell'affidamento in prova; l'art. 677 c.p.p. 2º comma bis infatti prevede espressamente l'onere per l'istante di dichiarazione o elezione di domicilio.

Riguardo invece l'attività lavorativa, come già affermato, la giurisprudenza oscilla tra l'orientamento che esclude che l'insussistenza di detto elemento possa giustificare il rigetto dell'istanza e quella all'opposto che attribuisce una importanza non secondaria alla circostanza che l'istante abbia garantita una attività lavorativa che lo sostenga nel reinserimento nella società. (153) In ogni caso sembra difficile negare che la mancanza di una attività lavorativa, o comunque di un'attività risocializzante, finisca con il rendere l'affidamento in prova privo di contenuti sostanziali, ed in quanto tale inidoneo a perseguire la finalità istituzionale di contribuire al recupero sociale del reo.

2.6.5. Osservazione "scientifica" condannato detenuto

Nel caso in cui l'istanza tendente ad ottenere l'applicazione dell'affidamento sia avanzata da un condannato detenuto ai fini della formulazione del giudizio prognostico di cui all'art. 47 comma 2º della legge 354/1975 assumono un rilievo preminente le risultanze dell'osservazione della personalità "condotta collegialmente per almeno un mese in istituto".

Il legislatore, come sappiamo, ha posto a carico delle istituzioni statali l'obbligo di attuare, nei confronti dei condannati ed internati, un trattamento rieducativo "che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi" (art. 1, comma 6, L. 354/75). E' previsto, che tale trattamento, venga attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.

L'osservazione "scientifica" della personalità del condannato detenuto, (detta anche osservazione criminologica) costituisce quindi il presupposto per l'attuazione del trattamento rieducativo individualizzato, che deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto. (154)

Contemplata dall'articolo 13 della legge n. 354 del 1975, l'osservazione scientifica della personalità fu introdotta per la prima volta nel sistema carcerario italiano nel 1961 attraverso un provvedimento amministrativo (la circolare ministeriale n. 1205/3666) quale "presupposto di una esecuzione penitenziaria che voglia assurgere al livello di un vero e proprio trattamento rieducativo". L'art. 13, 2º comma della legge 354/1975 precisa che l'osservazione della personalità è diretta a "rilevare le carenze fisico-psichiche e le altre cause di disadattamento sociale". La disposizione risente, in sostanza, di quell'approccio "medicale" che ha caratterizzato le Regole minime delle Nazioni Unite (155). Occorre tuttavia precisare che l'articolo 27 del vecchio regolamento di esecuzione del 1976 (recepito anche dal nuovo regolamento penitenziario emanato con D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230) stabilisce che le carenze di ordine fisico-psichico, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all'instaurazione di una normale vita di relazione sono da considerarsi solo "eventuali". In dottrina sono state poste critiche alle norme richiamate, in quanto aderenti al modello criminale del disadattamento "classico", trascurando la realtà delle molteplici forme criminali esistenti, quali ad esempio la criminalità dei colletti bianchi, i tossicodipendenti e la criminalità politica. (156)

L'osservazione criminologica è svolta da una équipe composta dal direttore dell'istituto penitenziario, dall'educatore, dall'assistente sociale, da professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia e criminologia clinica, nonché (per effetto della legge di riforma del Corpo degli agenti di custodia, 15 dicembre 1990, n. 395) dal personale della polizia penitenziaria. I risultati dell'osservazione, compiuta ai sensi dell'art. 47 2º co., Ord. Penit., sono inseriti nella cartella personale (art. 13, 4º co., Ord. Penit.), trasmessa dal direttore del carcere all'organo giudicante, successivamente alla richiesta di affidamento in prova da parte del detenuto. Alla cartella (157) personale del detenuto il nuovo Regolamento di esecuzione dell'Ordinamento Penitenziario, adottato con D.P.R. 30.06.2000, n. 230, dedica l'art. 26. La cartella fondamentale strumento informativo e valutativo sulla condotta del detenuto, oltre ad identificare il soggetto, ne indica ricompense attribuitegli, infrazioni commesse e sanzioni comminate e contiene l'annotazione di tutti i provvedimenti del magistrato e del Tribunale di sorveglianza.

Nell'ottica della legge di riforma penitenziaria, la fase di osservazione si svolge con il necessario supporto e contributo degli operatori del servizio sociale. Questi sono infatti chiamati ad intervenire in prima persona nella fase di raccolta dei dati e delle informazioni necessarie e compongono l'equipe di osservazione contribuendo in misura significativa ad elaborarne le conclusioni, come precisato dall'art. 72, 2º comma Ord. Penit.

Le attività di osservazione, espletate di regola presso gli stessi istituti dove si eseguono le pene, comprendono la fase diagnostica e la fase predittiva o prognostica del reo. (158)

Per quanto concerne, la prognosi criminologica, (presupposto imprescindibile per la concessione del beneficio penitenziario), si fonda essenzialmente sull'esame comportamentale del condannato. Questa attività è incentrata sulle modalità di condotta poste in essere dal soggetto all'interno dell'istituto, analizzando in particolare le dinamiche relazionali con gli operatori del carcere e con i compagni di detenzione, l'atteggiamento tenuto nei confronti della disciplina carceraria, l'interesse verso le attività lavorative, culturali e ricreative, i legami con la famiglia, l'esito di eventuali permessi o licenze, la presenza o meno di infrazioni disciplinari.

Le tecniche e le modalità valutative richieste agli operatori penitenziari sono evidentemente piuttosto complesse, poiché devono coinvolgere non solo il comportamento tenuto dal reo nel breve periodo di osservazione, ma anche i suoi problemi ambientali, relazionali e familiari e l'analisi della sua personalità da un punto di vista psicologico-psichiatrico. (159) L'obbiettivo dichiarato è quindi quello di raggiungere una conoscenza con lo spettro più ampio possibile sulla personalità del reo e sulle sue eventuali modificazioni durante il trattamento penitenziario, allo scopo di valutare la concedibilità della misura alternativa e quindi la possibilità di uscita dallo stato di detenzione.

In ossequio, al principio della gradualità del trattamento, soprattutto nel caso di pene elevate, il Tribunale di Sorveglianza può trarre (sotto il profilo della affidabilità del condannato e della sua capacità di autogestirsi nella società libera) utili elementi di valutazione, ai fini della formulazione del giudizio prognostico di cui all'art. 47, 2º comma della legge 354/1975 dalla condotta serbata dal condannato durante la fruizione dei permessi premio di cui all'art. 30-ter della legge 354/1975.

In questa prospettiva la Cassazione (160) ha affermato che la legge nel disporre che l'affidamento in prova al servizio sociale può aver luogo sulla base dei risultati dell'osservazione della personalità, fa chiaramente riferimento anche ad una progressività e gradualità dei risultati che il trattamento può conseguire. Pertanto, oltre a richiedere, di volta in volta la concreta dimostrazione di elementi positivi, atti a far ritenere che la misura alternativa possa trovare applicazione, funzione delle finalità ad essa espressamente attribuite, la legge non esclude, ed anzi favorisce la scelta di far precedere l'ammissione alla misura alternativa dalla concessione di permessi premio, esperienza che si considera esplicitamente come parte integrante del programma di trattamento. (161)

Dall'altra parte è la stessa Corte Costituzionale ha valorizzare la funzione pedagogico-propulsiva assolta dal permesso premio quale "fondamentale strumento di rieducazione in quanto idoneo a consentire un graduale reinserimento del condannato nella società, così da potersene trarre elementi utili per l'eventuale concessione di misure alternative alla detenzione". (162)

L'esame comportamentale condotto in istituto viene, peraltro, integrato dai dati documentali (ad esempio, il certificato del casellario giudiziale e le informazioni degli organi di polizia). E' opportuno sottolineare che il giudizio prognostico presenta inevitabilmente dei margini di incertezza legati soprattutto al fatto che l'uomo è libero di scegliere le proprie condotte e che le previsioni sul comportamento umano sono fondate su di un criterio statistico: il giudizio sulla futura condotta viene, infatti, espresso tenendo conto, per l'esperienza maturata e per le conoscenze acquisite, di quelle caratteristiche che più frequentemente si riscontrano in chi si è trovato in analoghe circostanze. (163)

Sebbene, quindi, la criminologia (ed in genere le scienze dell'uomo) forniscano un patrimonio cognitivo che può ridurre i margini di errore, si deve avere consapevolezza della relatività della prognosi criminale. Il rischio è che ad esempio il detenuto scaltro ed insincero possa strumentalizzare l'esperto operatore penitenziario per usufruire dei benefici previsti dall'ordinamento penitenziario. (164)

Sempre con riferimento all'osservazione criminologica, si deve rilevare che il nuovo regolamento di esecuzione di cui al D.P.R. n. 230/2000 ha recepito i recenti orientamenti di politica criminale particolarmente sensibili alle esigenze della vittima del reato ed all'aspetto della riparazione del danno cagionato attraverso la commissione dell'illecito penale. Infatti l'art. 27, comma 1, del citato regolamento stabilisce che, sulla base dei dati giudiziari acquisiti, viene espletata, con il condannato o l'internato, una riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l'interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento del danno alla persona offesa. (165)

Mette conto precisare che, in forza di quanto stabilisce l'art. 678, 2º comma c.p.p., il Tribunale è obbligato ad acquisire ed a valutare la documentazione relativa all'osservazione penitenziaria. La decisione in merito alla concessione o al diniego dell'affidamento costituisce come sappiamo espressione di una valutazione complessiva ed unitaria di tutti gli elementi ed i dati conoscitivi acquisiti dal Tribunale, che è chiamato ad operare un bilanciamento tra gli elementi di carattere positivo e quelli che viceversa assumono, o sono suscettibili di assumere, una valenza negativa. Nessun vincolo è, ovviamente, imposto all'organo giudicante dalle risultanze della osservazione penitenziaria della personalità, il tribunale ha solo l'onere di adeguata motivazione circa le ragioni del rigetto. Infine va ricordato che il Tribunale di Sorveglianza, al fine di acquisire elementi di valutazione in merito alla personalità ed alla pericolosità del reo, può disporre, anche d'ufficio stante il carattere inquisitorio che contraddistingue il procedimento di sorveglianza, l'esperimento della cosiddetta perizia criminologica, mezzo di prova vietato nell'ambito del giudizio di cognizione, ma ammissibile, secondo quanto stabilisce l'art. 220, 2º comma c.p.p., nella fase esecutiva.

Si deve rilevare comunque che l'osservazione della personalità (da condursi collegialmente in istituto per il periodo minimo di un mese) sebbene sia qualificata "scientifica" dall'ordinamento, non implica necessariamente un'indagine integrata da specifiche attività tecniche ma può essere attuata sulla base di schemi liberi purché idonei a consentire l'indagine sulla personalità del condannato, sulla sua evoluzione e sulla sua idoneità a fruire, con prognosi favorevole, alla misura alternativa. (166)

La gravità del reato commesso, la pericolosità ritenuta dal giudice di cognizione, i precedenti penali e le pendenze giudiziarie possono costituire elementi di valutazione, da parte del tribunale di sorveglianza, purché inquadrati nell'osservazione della personalità ed utilizzati per la verificazione dell'attuale condizione del soggetto, in relazione alle eventuali carenze psico-fisiche, affettive, educative e sociali, tali da poter costituire pregiudizio all'instaurazione di una normale vita di relazione per la determinazione delle opportune prescrizioni. Tuttavia, questi elementi, in sé per sé considerati, non possono costituire sufficiente elemento di motivazione per il diniego dell'affidamento in prova in contrasto con le emergenze dell'osservazione e la comprovata, positiva evoluzione della personalità, nel tempo successivo alla perpetrazione dei fatti sanzionati. (167)

2.6.6. Osservazione condannato in libertà

La valutazione della condotta serbata in epoca successiva alla commissione del reato assume un rilievo particolare nel caso in cui l'istanza tendente ad ottenere l'applicazione dell'affidamento provenga da persona che si trova nello stato di libertà.

Come già affermato, l'affidamento in prova senza osservazione in istituto fece la sua comparsa con la legge riforma n. 663 del 1986. La novità in materia era individuabile nel dettato del combinato disposto del 3º e 4º comma dell'art. 47 Ord. Penit., che faceva per la prima volta assumere all'istituto caratteri davvero assimilabili alla "probation" anglosassone. In campo dottrinario però, tale disciplina apparve subito "vuota di criteri" (168) priva com'era di indicazioni predeterminate circa il comportamento che il condannato avrebbe dovuto serbare nel periodo di libertà successivo alla commissione del reato.

La normativa in esame inoltre fece sorgere molteplici dubbi relativi alla disparità di trattamento tra soggetti sottoposti a custodia cautelare e soggetti mai cautelarmente ristretti, così come tra coloro che avevano tempestivamente presentato istanza di sospensione dell'emissione o dell'esecuzione dell'ordine di carcerazione e coloro che non lo avevano fatto e che, quindi, venivano necessariamente sottoposti a pena detentiva. (169) Si è già segnalato che, con sentenza 22.12.1989, n. 569, la Corte Costituzionale ha ritenuto concedibile l'istituto in esame indipendentemente da un periodo di detenzione per espiazione di pena o per custodia cautelare, introducendo così di fatto nel nostro ordinamento l'affidamento in prova "senza assaggio di pena", che verrà poi ripreso ed ampliato dalla cosiddetta "legge Simeone" del 1998.

L'intervento della Consulta ha relegato la disciplina per così dire "storica", di accesso al beneficio dell'affidamento (che presuppone l'osservazione inframuraria del condannato) ad un ruolo marginale, riservandola principalmente ai soli condannati a pene detentive lunghe, quando la soglia dei tre anni costituisce il residuo ancora da scontare.

Risulta dunque importante, soffermarsi con attenzione sulla valutazione del comportamento serbato dal condannato in stato di libertà, in quanto gli indici valutativi elaborati in giurisprudenza sotto la vigenza della legge riforma del 1986 dovranno necessariamente valere anche con riferimento al nuovo accesso dalla libertà all'istituto, così come disciplinato dalla più recente riforma del 1998, che in questo senso non ha portato sostanziali novità ad una normativa che, già all'indomani dell'emanazione della legge Gozzini, era stata valutata come "vuota di criteri" (170).

Innanzitutto, (posto che, nei casi disciplinati dagli "allora" 3º e 4º comma dell'art. 47, il giudizio sulla personalità del reo deve pacificamente e imprescindibilmente basarsi sul comportamento tenuto in libertà, così da far ritenere illegittimo il rigetto dell'istanza che prescinda da tale valutazione), la Suprema Corte ha stabilito che, al fine dell'ammissione al regime dell'affidamento, il Tribunale di Sorveglianza può legittimamente avvalersi delle informazioni fornite dall'Autorità di Pubblica sicurezza in ordine al comportamento serbato dal condannato in libertà. (171)

Si è inoltre stabilito che il comportamento del condannato va rilevato attraverso l'osservazione del servizio sociale (172) e delle forze di polizia addette alla vigilanza, al fine di stabilire se la sua personalità si sia evoluta in senso positivo e se la sua eventuale residua pericolosità possa essere agevolmente fronteggiata fino a sparire del tutto. Il Tribunale di Sorveglianza è libero di disporre le indagini più opportune atte a fornire elementi di giudizio, compresa l'acquisizione del parere, non vincolante, del servizio sociale, sul quale si incentra l'esperimento, in ordine alla personalità dell'interessato, e può trarre utili elementi, per valutare la credibilità del condannato, dalla sua omessa presentazione all'incontro sollecitato dal servizio stesso nonché dalla mancata partecipazione all'udienza fissata nel procedimento suddetto. (173)

Una volta presentata la richiesta di affidamento in prova al servizio sociale, il condannato ha l'obbligo di collaborare con gli operatori del servizio sociale delegati a raccogliere utili informazioni sul suo conto, anche al fine di predisporre un programma di intervento con previsione delle prescrizioni idonee, da un lato, ad assicurare la rieducazione del reo e, dall'altro, a prevenire il pericolo di commissione di nuovi reati; pertanto, il comportamento del condannato che, dopo aver chiesto la concessione della misura alternativa in esame, faccia perdere le sue tracce, dimostra, senza alcun dubbio, la mancanza di volontà collaborativa con gli operatori del servizio sociale che hanno lo specifico compito di formulare proposte sulla base delle informazioni raccolte. La relazione dell'Ufficio di esecuzione penale (174) dovrebbe contribuire a far luce sull'atteggiamento assunto dal reo nei confronti del reato e delle conseguenze da esso derivanti, con particolare riferimento alla intrapresa da parte del medesimo di un processo di revisione critica ed alla disponibilità del medesimo a modificare il proprio stile di vita.

Sembra difficile negare che un minimo di revisione critica costituisca una condizione indispensabile per avviare qualunque processo di recupero sociale del soggetto deviante, così come sembra arduo sostenere che l'obiettivo della rieducazione possa prescindere dall'acquisizione da parte del condannato di una coscienza critica del reato commesso e delle conseguenze che essa ha provocato a cominciare dal danno arrecato alla persona offesa. (175) Quando il condannato ha mantenuto una condotta carceraria corretta, ma non è pervenuto ad una revisione critica del proprio passato, continuando a sostenere la propria innocenza, e non assumendo alcuna iniziativa processuale per ottenere la revisione del giudizio, tale comportamento escluderebbe la possibilità di formulare una prognosi positiva. Quello che è richiesto al reo è un rifiuto netto della pratica criminale, quale premessa per un giudizio prognostico favorevole sul comportamento futuro in caso di riacquisizione della libertà.

La Cassazione ha affermato che può essere valutata negativamente al fine della concessione dell'affidamento in prova la mancanza di senso critico verso la condanna subita da parte del reo, qualora sia espressione della persistenza di un atteggiamento mentale del condannato giustificativo del proprio comportamento illecito. Ciò lascerebbe dedurre una mancata risposta positiva al processo di rieducazione, la Corte però precisa che va comunque salvaguardato il diritto morale del condannato di professare la propria innocenza che è diritto incontestabile di ciascuno, non soltanto in pendenza di un processo, ma anche dopo il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna, considerata la possibilità di una revisione di essa. (176)

Un opportuno punto di equilibrio, considerato che lo scopo cui la misura deve essere idonea è il contribuire alla "consapevolezza della necessità di rispettare le leggi penali e di conformare, in genere il proprio agire ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale", (177) è nella valutazione delle modalità di tale professione di non colpevolezza. E' fuori di dubbio che il carattere inverosimile e malizioso del modo di porre la propria innocenza (ad esempio, sottacendo o alterando dati risultanti dagli atti) sia infatti elemento valorizzabile nel giudizio di affidabilità del condannato.

Per quanto concerne il risarcimento del danno, tale elemento non costituisce, a differenza di quanto previsto dall'art. 176, 4º comma c.p. in materia di liberazione condizionale, un presupposto di applicabilità della misura, con la conseguenza che deve ritenersi sicuramente illegittima l'ordinanza di rigetto dell'istanza motivata con esclusivo riferimento al mancato adempimento di tale obbligazione. (178) Allo stesso tempo però sembra difficilmente contestabile che in un'ottica speciale preventiva (finalità perseguita dalle misure alternative alla detenzione) l'avvenuta o mancata riparazione dell'offesa possa essere valutata come indice della disponibilità del condannato a recuperare un rapporto corretto con l'ordine giuridico violato in quanto condotta dimostrativa di un chiaro atteggiamento di ravvedimento rispetto ai fatti delittuosi commessi. (179)

In questa prospettiva la Suprema Corte ha stabilito che ai fini del giudizio prognostico relativo alla concessione dell'affidamento, il Tribunale di Sorveglianza può legittimamente desumere dall'omesso risarcimento dei danni patiti dalla vittima del reato un elemento negativo di valutazione che, in relazione alla natura del reato commesso ed alla sua oggettiva gravità, può essere ritenuto sintomatico del mancato ravvedimento del condannato. (180)

Un problema particolare, emerso soprattutto con riferimento alle richieste di affidamento avanzate dai così detti colletti bianchi (181) o comunque da persone socialmente integrate, (tipologia venuta alla ribalta a seguito delle inchieste sui fenomeni di corruzione politico-imprenditoriale, es. "tangentopoli") attiene alla rilevanza attribuibile al risarcimento del danno cagionato alla persona offesa o alla eliminazione delle conseguenze dannose derivanti dal reato commesso.

E' stato infatti affermato che in caso di condanna inflitta per reati da "colletto bianco", il presupposto dell'utilità della misura al fine del reinserimento sociale, va inteso con particolare riguardo all'esigenza di una "autentica e profonda" revisione critica del comportamento, fondata sul distacco dalle precedenti scelte devianti e sulla coscienza del danno sociale causato: il beneficio nel caso specifico va negato al condannato che:

"pur avendo tenuto un buon comportamento carcerario, ed avendo partecipato ad attività risocializzanti, ometta una esplicita presa di distanza dal passato delittuoso, limitandosi ad affermare di avere maturato una non meglio chiara "autocritica", ed abbia, in relazione ad uno dei procedimenti a suo carico, risarcito solo una parte dell'ingente danno causato" (182)

La Cassazione ha poi stabilito che anche in quest'ultimi casi, la valutazione della gravità del reato si pone come necessaria ai fini dell'esame della personalità del condannato e della individualizzazione del trattamento rieducativo. L'idea che gli elementi di valutazione per la concessione dell'affidamento devono essere modulati in base alle caratteristiche peculiari di questa categoria di condannati è stata scartata, in quanto la rieducazione deve essere concettualmente identica per tutti i condannati indipendentemente dal reato commesso, e di conseguenza nella valutazione dei progressi compiuti occorre verificare se ed in quale misura vi sia in atto un processo modificativo dei precedenti comportamenti antisociali. (183)

Più in generale, l'indeterminatezza in ordine alla valutazione del comportamento del soggetto in libertà comporterà una maggiore attenzione rivolta ai dati relativi ai precedenti penali e giudiziali del reo, indagine le cui risultanze finiranno per essere senz'altro utilizzate ai fini del giudizio sulla personalità del reo, in quanto la "carriera delinquenziale" dello stesso può sicuramente illuminare in ordine alla sua personalità e pericolosità sociale. In assenza dei risultati dell'osservazione della personalità si è così riconosciuta necessaria la considerazione dei precedenti penali, ovvero della gravità del reato e di tutte le circostanze da cui sia deducibile la personalità del condannato.

2.7. Preclusioni alla concessione della misura

Dopo aver analizzato i vari presupposti necessari per la concessione dell'affidamento in prova, pare opportuno dare riferimento ai divieti e limiti generali di concessione della stessa. Originariamente, come già affermato, la disciplina dell'istituto, prevedeva una serie di condizione ostative volte ad impedire la concessione dell'affidamento a condannati ritenuti socialmente pericolosi e quindi, per esigenze di difesa sociale. (184)

Una prima preclusione derivava, ex art. 47, 1º co. Ord. Penit. (del testo originario), dall'applicazione al condannato di una misura di sicurezza detentiva, successivamente con la legge 663/86 si ebbe il superamento di questa limitazione; altre preclusioni ormai venute meno, erano relative ai recidivi ed agli autori dei "reati ostativi", con d.l. convertito in legge 12.01.1977, n.1 si procedette infatti in breve tempo alla soppressione della norma sui recidivi mentre con la legge riforma 663/1986 venne sostituito il testo del 2º co. dell'art. 47 rendendo ininfluente la natura del reato commesso.

Attualmente, al fine della concessione della misura dell'affidamento in prova (e più in generale delle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI della legge 26 luglio 1975, n. 354, fatta eccezione per la liberazione anticipata) una rilevante preclusione è data dalle fattispecie criminose elencate nell'art. 4-bis Ord. Penit., inserito con l'art. 1 del d.l. 13.05.1991, n. 152, convertito in legge 12.07.1991, n.203 e successivamente modificato con d.l. 08.06.1992, n. 306, convertito in legge 07.08.1992, n.356 e con l. 23.12.2002, n.279. (185)

Nella norma sono elencate alcune fattispecie criminose particolarmente gravi e capaci di provocare allarme sociale, agli autori di tali reati in linea di principio non possono essere mai concessi benefici penitenziari. Alcuni autori, in occasione dell'intervento del legislatore, convogliarono la loro critica nei confronti di un "irrigidimento normativo" (186) che non si poneva in linea con il testo vigente della legge 354/1975, non a caso, si parlò di "provvedimenti d'emergenza", adottati in circostanze tristemente famose, anche per l'escalation degli omicidi a stampo mafioso nei primi anni novanta.

L'introduzione dell'art. 4-bis seppur motivato da istanze preventive e da una situazione di chiara emergenza, rappresentò un punto di rottura rispetto alla consolidata funzione risocializzativa delle misure alternative alla detenzione. (187) L'intervento del legislatore, in controtendenza rispetto alla "Gozzini" ed alle precedenti modifiche all'Ordinamento penitenziario, creò una sorta di "doppio binario", non a caso tali modifiche furono oggetto di alcune dichiarazioni di illegittimità costituzionale.

I delitti previsti dall'art. 4-bis Ord. Penit., in seguito all'intervento del legislatore che con la legge 23.12.2002, n. 279 ha riscritto integralmente il 1º co. dell'articolo in questione, possono distinguersi in due categorie.

A) In una prima categoria, che si ricava dal primo periodo del primo comma dell'art. 4-bis vi rientrano:

  1. delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell'ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza;
  2. delitto di cui all'art. 416 bis: associazione di tipo mafioso;
  3. delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis c.p. o al fine di agevolare l'attività di associazioni dallo stesso previste;
  4. delitti di cui agli artt. 600 c.p. - riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù - 601 c.p. - tratta di persone - 602 - acquisto o alienazione di schiavi;
  5. sequestro di persona a scopo di estorsione: art. 630 c.p.;
  6. delitto di cui all'art. 291 quater del T.U. leggi doganali di cui al DPR 23.1.1973, n. 43;
  7. associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope: art. 74 DPR 309/90.

In riferimento ai soggetti detenuti ed internati per tutte le suddette fattispecie criminose, si applica quindi, il sistema del "doppio binario": l'ammissione di tali rei alle misure alternative alla detenzione (fatta eccezione per la concessione della liberazione anticipata), ai permessi-premio ed al lavoro all'esterno è infatti subordinata ad una condizione essenziale: la "collaborazione con la giustizia" a norma dell'art. 58-ter Ord. Penit.

E' fatta salva ovviamente la applicazione della normativa speciale che riguarda i collaboratori di giustizia sottoposti a programma di protezione, richiamata dal secondo periodo del comma 1 dell'art. 4 bis: si tratta degli artt. 16nonies 17bis della l. 15.3.1991, n. 82, così come modificata dalla l. 13.2.2001, n.45.

Secondo l'art. 58-ter Ord. Penit., collaborano con la giustizia "coloro che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individualizzazione o la cattura degli autori dei reati".

L'organo chiamato ad accertare la ricorrenza di queste condizioni è il Tribunale di Sorveglianza, il quale può avvalersi della collaborazione del P.M. competente e può assumere le "necessarie informazioni" (Ord. Penit. 58-ter 2º co.).

In più occasioni, la Corte Costituzionale ha soffermato la sua attenzione sul tema delle collaborazioni con la giustizia "irrilevanti", "inesigibili" o "impossibili". Infatti non sempre, per la marginalità del ruolo tenuto dal reo nell'azione criminosa o per la presenza di circostanze impeditive, è possibile richiedere al condannato la collaborazione con la giustizia ex art. 4-bis, 1º co. Ord. Penit.

Facendo propri gli assunti di alcune delle pronunce adottate dalla Corte Costituzionale, il legislatore del 2002 quindi ha rielaborato l'ultima parte dell'art. 4-bis, 1º co., Ord. Penit.; nell'odierna formulazione, tale norma precisa il ruolo giocato dall'impossibilità o dall'irrilevanza della collaborazione con la giustizia al condannato per l'ammissione ai benefici penitenziari. Quest'ultimi potranno allora essere concessi qualora siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata:

  1. nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l'integrale accertamento dei fatti operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un'utile collaborazione con la giustizia;
  2. nonché nei casi in cui, anche se la collaborazione risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall'art. 62, n. 6, anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall'art. 114 ovvero dall'art. 116, secondo comma del codice penale.

Va quindi rilevato che l'impossibilità della collaborazione, per limitata partecipazione al fatto criminoso o per integrale accertamento della responsabilità, non esonera il giudicante dal compiere una valutazione distinta riguardo all'esclusione dell'"attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva".

B) Una seconda categoria di delitti si ricava dal quarto periodo del comma 1º dell'art. 4-bis:

  1. omicidio (art. 575 c.p.);
  2. rapina e estorsione aggravate ai sensi artt. 628, comma 3, e 629, comma 2, c.p.;
  3. delitto di cui all'art. 291ter del T.U. delle leggi doganali di cui al D.P.R. 23.1..1973, n.43;
  4. produzione o traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, ex art. 73 D.P.R. 309/90 aggravato ai sensi comma 2º art. 80 (cioè quando il fatto riguarda ingenti quantità di tali sostanze ovvero se le sostanze stesse sono state adulterate o commiste ad altre in modo che risulti accentuata la potenzialità lesiva);
  5. nonché il delitto di cui all'art. 416 c.p. - associazione a delinquere - finalizzato alla commissione dei delitti di cui al Libro II, titolo XII, capo III, sezione I e dagli artt. 609-bis, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies del codice penale nonché dall'art. 12, commi 3, 3-bis e 3-ter del T.U. delle leggi sull'immigrazione, di cui al decreto legislativo 25/7/1998, n. 286.

In relazione a questi reati, considerati evidentemente di notevole gravità, i benefici possono essere considerati solo se non sussistono elementi tali da far ritenere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva. (188)

La giurisprudenza formatasi nei primi anni successivi all'entrata in vigore dell'art. 4-bis Ord. Penit. costituisce tuttora un importante punto di riferimento, nonostante i mutamenti nell'indicazione dei reati operata nel secondo periodo del 1º comma.

La Suprema Corte, in particolare, ha evidenziato la spettanza al giudice di merito del compito di esplicitare in motivazione la ricorrenza degli elementi ostativi la concessione, sulla base delle dettagliate informazioni (189) fornite dal competente Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, indicando, gli elementi raccolti a carico del condannato che realmente dimostrino l'esistenza di collegamenti con la delinquenza organizzata. (190)

Nei fatti quindi, distinguendo le ipotesi di cui al primo periodo (gruppo delitti A) da quelle previste nel secondo periodo del 1º comma (gruppo delitti B), il legislatore ha considerato meno pericolosi i condannati autori di pur gravi delitti, vincolando però il loro accesso alle misure alternative alla "mancanza" di elementi tali da far ritenere sussistenti collegamenti in atto con la criminalità organizzata. Per la ricorrenza di questo requisito, occorre avere abbandonato anche un qualsiasi rapporto con persone appartenenti alle organizzazioni, anche la presenza di "meri indizi" dell'esistenza attuale dei suddetti legami può comportare, secondo la giurisprudenza di legittimità, la mancata ammissione ai benefici. (191)

Un'altra disposizione limitativa della concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale e di altre misure alternative (detenzione domicialre art. 47-ter ord. Penit.; semilibertà art. 48 e ss. ord. Penit.) ci è data dall'art. 58-quater dell'ordinamento penitenziario. La norma infatti indica il divieto di concessione di quei benefici prima esposti, fondando la restrizione sulla presunzione di "temporanea inidoneità" del condannato che si è reso responsabile di condotte negative "emblematiche", quali l'evasione o la revoca di benefici precedentemente concessigli. (192)

Le fattispecie considerate dalla norma sono alquanto diversificate fra loro, si può operare una distinzione fra tre tipologie di condannati, ai quali viene ad applicarsi il suddetto divieto:

  1. i condannati per i gravi delitti previsti dall'art. 4-bis, 1ºco. Ord. Penit., anche se collaboranti con la giustizia, nel caso abbiano posto in essere una condotta punibile a norma dell'art. 385 c.p. o un reato doloso punito con la reclusione non inferiore nel massimo a tre anni, commesso durante la fruizione di una misura o di un beneficio penitenziario;
  2. i condannati nei cui confronti sia stata disposta la revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale, della detenzione domiciliare o della semilibertà;
  3. i condannati per reati di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione che abbiano cagionato la morte del sequestrato.

In forza del 1º co. dell'art. 58-quater Ord. Penit., ai condannati per i reati di cui all'art. 4-bis Ord. Penit., che abbiano posto in essere una condotta punibile ex art. 385 c.p. (evasione), non possono essere concessi benefici tra cui l'affidamento in prova ai servizi sociali.

Non è chiaro se il legislatore, parlando della commissione di una "condotta punibile", si sia riferito a tutti i casi di ricezione di una "notizia criminis", quindi di denuncia per il reato di evasione. La dottrina prevalente (193) ritiene sufficiente la denuncia, non richiedendo la norma una pronuncia di condanna, ancorché definitiva. In questa ipotesi il divieto di concessione dei benefici opera per tre anni "dal momento in cui è ripresa l'esecuzione della custodia o della pena" (Ord. Penit. 58-quater, 3ºco.).

Sempre al fine di inasprire il trattamento sanzionatorio nei confronti dei condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis Ord. Penit., il successivo 5º co. vieta la loro ammissione alle misure o, se già concesse, ne legittima la revoca se nei confronti di detti condannati "si procede o è pronunciata condanna per un delitto doloso punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni, commesso da chi ha posto in essere una condotta punibile ai sensi dell'art. 385 del codice penale ovvero durante il lavoro all'esterno o la fruizione di un permesso premio o di una misura alternativa alla detenzione" (Ord. Penit. 58-quater, 5º co). In questo caso, è richiesto, per l'applicazione del divieto, che si proceda, quindi che il P.M. eserciti nei fatti l'azione penale (non basta, quindi, in questo caso la denuncia).

L'applicazione più ampia dell'art. 58-quater è comunque legata al caso di revoca di alcune misure, precisamente l'affidamento in prova, la detenzione domiciliare e la semilibertà. I condannati considerati possono avere commesso qualsiasi reato; unico presupposto del divieto di concessione, che opera per un triennio dalla data dell'emissione del provvedimento di revoca, è infatti la revoca della misura. Qualora quindi ad un qualsiasi condannato venga revocata una misura alternativa, scatta un periodo triennale di pena "blindata" (194), durante il quale il medesimo non può usufruire dell'ammissione all'affidamento in prova e degli altri benefici. Questa normativa, evidentemente, contrasta con la realtà del percorso trattamentale, che non può essere concepito come lineare, ma è fatto di avanzamenti e ripiegamenti, ai quali deve corrispondere un sistema duttile di sanzioni positive e negative. La disposizione in esame si colloca in una posizione opposta rispetto a questo postulato.

Una grossa contraddizione è nata dall'interpretazione letteraria del comma 2º dell'articolo in esame, ove si afferma che "La disposizione del comma 1 si applica anche al condannato nei cui confronti stata disposta la revoca di una misura alternativa....".

L'interrogativo centrale concernente la disposizione è se essa precluda la concessione di futuri benefici nel solo caso di revoca operante su pene per i reati di cui all'art. 4-bis, ovvero in ogni caso. Sul piano strettamente letterale, la questione è irrisolvibile, (195) trattandosi di decidere se saldare le parole "al condannato", oppure "4-bis" del 1º co. In altri termini, tutto dipende dalla portata che si voglia dare al richiamo alla disposizione del 1º co. Se al solo effetto giuridico (la preclusione) o anche alla fattispecie, nella parte non incompatibile. Sul piano generale, possiamo comunque notare come l'interpretazione più severa renderebbe il comma in esame leggermente "anomalo" rispetto al sistema, posto che si tratterebbe dell'unica disposizione non riferita specificamente a reati cosiddetti ostativi.

La soluzione più rigorosa (196) (effetto preclusivo generale) è fatta propria dalla giurisprudenza della Suprema Corte (197) la quale ha affermato che il divieto di concessione in riferimento "opera con riguardo a qualsiasi condannato, indipendentemente dal titolo del reato cui la condanna si riferisce, e non con riguardo soltanto ai condannati per taluno dei reati di cui all'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, cui si riferisce il comma primo del citato art. 58 quater".

Su presupposti interpretativi conformi si è mossa anche la Corte costituzionale con ordinanza 26.06.2002, n. 289, la quale infatti ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del 2º co. dell'art. 58-quater Ord. Penit., in riferimento agli artt. 3, 1ºco., e 27, 3º co., Cost., nella parte in cui la norma estende il divieto di concessione dei benefici penitenziari a "tutti" i condannati nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa, anziché limitare tale divieto ai soli condannati per uno dei delitti previsti dall'art. 4-bis, 1º co., Ord. Penit.

La motivazione della Corte si basa essenzialmente sul fatto che i presupposti per il divieto per la concessione dei benefici si basa su presupposti diversi: nel comma 1 il divieto consegue ad una condotta punibile a titolo di evasione, mentre nel comma 2 la preclusione trova la sua causa nella revoca di precedenti benefici disposta a seguito dell'accertamento di un comportamento ritenuto incompatibile con la prosecuzione della misura.

L'ultima categoria di condannati per i quali è disposto il divieto è contemplato dal 4º co., dell'art. 58-quater Ord. Penit.: si tratta degli autori dei delitti di cui agli artt. 289-bis e 630 c.p. che abbiano causato la morte del sequestrato. Tali soggetti possono accedere alle misure solo dopo l'espiazione di almeno due terzi della pena o, per gli ergastolani, di ventisei anni di reclusione.

2.8. L'accesso alla misura: le due species di affidamento

A seguito di tutte le evoluzioni normative citate appare oggi netta la divaricazione funzionale fra due figure di affidamento in prova: la forma originaria di affidamento a cui il condannato accede dopo parziale espiazione della pena e l'affidamento cosiddetto anticipato, a cui il condannato accede dallo stato di libertà, e quindi prima dell'inizio dell'esecuzione.

La prima forma di affidamento, che occupa oggi un ruolo marginale per effetto delle modifiche introdotte dalla legge "Simeone", presuppone l'osservazione della personalità del condannato condotta collegialmente in istituto penitenziario per almeno un mese. Tale osservazione è finalizzata alla formulazione del giudizio prognostico per l'applicazione della misura, secondo cui la concessione dell'affidamento, anche attraverso le prescrizioni adottate, possa in concreto contribuire alla rieducazione del reo ed assicurare la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati (art. 47 co.2 Ord. Penit.).

La richiesta della misura alternativa dell'affidamento in prova ex art. 47 O.p. è proposta al Tribunale di Sorveglianza che dovrebbe decidere con ordinanza entro 45 gg. Il termine previsto per le decisioni del tribunale è ordinatorio e non perentorio. (198)

A norma del nuovo art. 47 co. 4 Ord. Penit., il magistrato di sorveglianza, a cui il detenuto può direttamente rivolgere l'istanza, può sospendere l'esecuzione della pena e ordinare la liberazione del condannato quando:

  1. sono offerte concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l'ammissione all'affidamento in prova;
  2. sono offerte concrete indicazioni in ordine al grave pregiudizio derivante dallo stato di detenzione;
  3. non vi sia pericolo di fuga.

Come si evince dal testo della legge, l'onere di allegazione della documentazione necessaria a provare la sussistenza delle condizioni previste dalla legge per l'applicabilità della misura alternativa grava sul condannato. E' stato peraltro osservato come questa previsione rischi di tradursi in una prassi discriminatoria, dal momento che solo i condannati attrezzati culturalmente o economicamente (non certo tossicodipendenti ed extracomunitari) saranno in grado di produrre la "documentazione necessaria" entro i 30 giorni prescritti. (199)

Nel caso in cui sia accolta l'istanza, il provvedimento ha solo effetto sospensivo dell'esecuzione e non determina l'inizio dell'affidamento. La sospensione opera fino alla decisione del tribunale di sorveglianza che dovrebbe pronunciarsi entro 45 giorni (termini ordinatorio). Laddove invece il magistrato non abbia ritenuto di sospendere l'esecuzione della pena, il condannato resterà in carcere in attesa della decisione del tribunale (secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, il decreto con il quale il magistrato di sorveglianza respinge la domanda di sospensione provvisoria è inoppugnabile - non essendo esperibile il ricorso per cassazione - avendo un carattere meramente interlocutorio e provvisorio). Se l'istanza non è accolta dal Tribunale di Sorveglianza, riprende l'esecuzione della pena e non può essere accordata una nuova sospensione quale che sia l'istanza successivamente proposta.

E' peraltro da osservare che il detenuto cui venga sospesa l'esecuzione per effetto di tale nuovo congegno applicativo viene a beneficiare di una libertà incondizionata, o "libertà selvaggia", (200) come è stata significativamente definita, al di fuori cioè di prescrizioni comportamentali e senza la guida del servizio sociale, non essendo stata prevista - come invece sarebbe stato ragionevole - l'applicazione provvisoria della misura da parte del magistrato di sorveglianza. Il proseguo della vicenda si rivela dunque paradossale qualunque sia l'esito della decisione del tribunale: in caso di rigetto, il condannato, dopo una parentesi di libertà, deve tornare a scontare la pena detentiva in carcere; in caso di accoglimento, invece, il condannato, dopo aver sperimentato una libertà piena, viene sottoposto alle restrizioni e ai vincoli propri di una libertà assistita e controllata. A fondamento della decisione, il tribunale prenderà in considerazione - oltre agli elementi già valutati dal magistrato - anche il comportamento serbato dal condannato nel periodo di libertà. Come è stato osservato, saranno presubilmente proprio i soggetti che hanno maggiore bisogno dell'intervento dei servizi sociali a dimostrarsi incapaci di gestire la libertà assoluta in cui si sono venuti a trovare in seguito alla provvisoria sospensione dell'ordine di esecuzione disposta dal magistrato di sorveglianza, determinando un provvedimento di rigetto da parte del tribunale. (201)

Ciò stravolge la sequenza logica di un percorso trattamentale nel quale, come è evidente, l'affidamento dovrebbe precedere e non seguire lo stato di libertà. Risulta pertanto chiara la totale compromissione della natura trattamentale dell'affidamento in prova, funzionalizzato ad un improprio obiettivo di deflazione carceraria. (202)

La sospensione ex art 47 co. 4º Ord. Penit. è tuttavia scarsamente concessa nella prassi perché si tende a dare un'interpretazione restrittiva della locuzione "gravi pregiudizi" (che possono essere legati tanto allo stato di salute quanto a prospettive occupazionali, di studio o affettivo - familiari). Il semplice ritardo nella decisione da parte del Tribunale di Sorveglianza non è considerato di per sé grave pregiudizio, tuttavia il ritardo può essere eccezionalmente ritenuto causa di tale grave pregiudizio quando:

  1. i tempi di decisione del tribunale creano un ritardo effettivo privando il soggetto di una possibilità (es. di lavoro) che non avrebbe più al momento della decisione;
  2. in considerazione della durata della pena del soggetto interessato il ritardo del tribunale comporta la concessione della misura quando ormai il soggetto ha scontato gran parte della pena in carcere, rendendo superflua la concessione dell'affidamento.

E' quindi preferibile che il detenuto presenti l'istanza direttamente al tribunale salvo che non vi sia reale urgenza di provvedere.

La seconda forma di affidamento, quello cosiddetto anticipato, è stato introdotto nel nostro ordinamento con la legge "Gozzini"; il suo campo di operatività si è progressivamente dilatato, al punto da costituire oggi l'ipotesi principale di affidamento in prova. (203)

L'accesso alla misura concerne i soggetti liberi o agli arresti domiciliari, la disciplina attuale fa riferimento alla cosiddetta legge "Simeone", che ha riformato l'art. 656 c.p.p. relativo all'esecuzione delle pene detentive. Lo scopo di questa legge è quello di garantire l'eguaglianza dei soggetti in sede di esecuzione pena, in particolare concedendo a tutti la possibilità di ottenere la sospensione della pena, nonché quello di rendere usufruibile le misure alternative ai condannati meno abbienti e alla tutela delle condizioni di salute. (204)

Tale misura è applicabile prima dell'inizio dell'esecuzione della pena detentiva, sulla base del comportamento tenuto dal condannato in libertà dopo la commissione del reato. L'osservazione per un mese in istituto viene perciò sostituita dalla valutazione del comportamento tenuto in libertà, assunto come elemento per la formulazione del giudizio prognostico di applicabilità della misura.

La procedura di accesso è ora regolata, per effetto della legge "Simeone", dall'art. 656 co. 5 c.p.p, in base al quale il p.m. sospende l'ordine di esecuzione relativo alle condanne a pena detentiva non superiore a 3 anni (ovvero a 4 nei casi di cui agli art. 90 e 94 del d.p.r. 9.10.90, n. 309) emettendo il decreto di sospensione. Il condannato ha 30 giorni di tempo dalla consegna dell'ordine di esecuzione e del contestuale decreto di sospensione per presentare istanza corredata delle indicazioni e della documentazione necessaria, volta ad ottenere la concessione dell'affidamento o di una delle misure alternative alla detenzione.

L'avviso informa altresì che ove non sia presentata l'istanza, l'esecuzione della pena avrà corso immediato. L'istanza di concessione della misura deve essere presentata al p.m. che la trasmette al tribunale di sorveglianza competente, che deve decidere entro il termine, ordinatorio, di 45 giorni.

Qualora l'istanza di misura alternativa non sia tempestivamente presentata o il tribunale la dichiari inammissibile ovvero la respinga, il P.M. revoca immediatamente il decreto di sospensione dell'esecuzione.

Il principio generale della sospensione automatica dell'esecuzione incontra, peraltro, alcuni limiti. Innanzitutto, in ordine ad una stessa condanna, la sospensione può essere disposta una sola volta, come stabilisce l'art. 656 co. 7 c.p.p. Il divieto di reiterabilità della sospensione sussiste anche nel caso in cui il condannato proponga l'istanza in ordine a diversa misura alternativa o in ordine alla medesima, diversamente motivata.

Inoltre sempre in base all'art. 656 c.p.p., la sospensione prevista al comma 5º dell'articolo in questione non può essere disposta:

  1. nei confronti dei condannati per uno dei delitti di cui all'art. 4-bis della legge n. 354/75;
  2. nei confronti di coloro che per il fatto oggetto della condanna da eseguire si trovano in stato di custodia cautelare in carcere nel momento in cui la sentenza diviene definitiva;
  3. nei confronti dei condannati ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'art. 99 co. 4ºdel c.p. (legge 5 dicembre 2005, n.251).

Per quanto concerne l'ipotesi n. 1 si è già evidenziato la disciplina del "doppio binario" vigente in relazione a determinate fattispecie criminose caratterizzate da un alto tasso di allarme sociale. (205)

L'ipotesi n. 2 fa espresso riferimento alla sola custodia cautelare per il fatto oggetto della condanna da eseguire, e in tali termini viene interpretato dai pubblici ministeri. Può dunque accadere che il soggetto si trovi in custodia cautelare per un titolo di reato e venga emesso ordine di esecuzione per un altro reato. In questo caso il P.M. si attiene rigorosamente alla lettera della legge e, se ne ricorrono i presupposti, sospende l'ordine di esecuzione (con la conseguenza pratica che un soggetto detenuto potrà avere più ordini di esecuzione sospesi). E' evidente, in queste situazioni, l'importanza del rispetto, da parte dell'organo dell'esecuzione, dell'obbligo di procedere al cumulo quando vi siano più ordini di esecuzioni concorrenti.

Per quanto riguarda infine la terza ipotesi, essa fa riferimento ad una legge di recente attivazione di cui ancora non sappiamo con esattezza i suoi risvolti nell'ambito penitenziario.

Può essere significativo però osservare che il testo del disegno di legge 27.5.1998 licenziato dalla Camera prevedeva un'ulteriore preclusione all'operatività della sospensione nei confronti di "coloro che abbiano 2 o più condanne a pena detentiva, complessivamente superiori a 3 anni, per delitti non colposi commessi nei 10 anni antecedenti alla condanna da eseguire". Tale preclusione è stata eliminata, perché ritenuta eccessivamente penalizzante per quelle situazioni in cui alla pluralità di condanne non si accompagna un'elevata pericolosità, ma piuttosto uno stato di malessere o di abbandono. (206)

Con l'introduzione di questa terza ipotesi si può allora desumere un'inversione d'orientamento nella politica criminale del legislatore, da un obiettivo di deflazione carceraria sembra essere stata intrapresa la via della più rigorosa logica di marcata difesa sociale, con il probabile effetto dell'aumento della popolazione carceraria, e quindi della questione del "sovraffollamento" con tutte le sue problematiche pertinenti.

Infine ci rimane da analizzare il caso del condannato che, al momento dell'emanazione dell'ordine di esecuzione, si trovi agli arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna da eseguire. In questa situazione il p.m. sospende l'ordine, trasmette ex officio gli atti al tribunale di sorveglianza, affinché provveda in ordine all'eventuale applicazione di una misura alternativa. Fino alla decisione del tribunale, il condannato permane nello stato detentivo in cui si trova e il tempo corrispondente è considerato come pena espiata (art. 656 co.10 c.p.p.).

Note

1. G. Flora, Considerazioni introduttive, in Le nuove norme sull'ordinamento penitenziario, Giuffrè, Milano, 1987, p. 11; G. Canepa, T. Bandini, Attuali prospettive criminologiche per l'individualizzazione giudiziaria dell'osservazione e del trattamento, in Rass. Crim., 1971, p. 158: "l'introduzione delle misure alternative è sempre stata accompagnata dai richiami all'esigenza di fondarne comunque la concessione su parametri ben precisi e sulla valutazione diagnostico-prognostica dei soggetti da trattare".

2. Corte Cost., 11 luglio 1989, n.385, FI, 1989, I, 3340, con nota di Albeggiani.

3. G. Grasso, Misure alternative alla detenzione, in Dizionario di diritto e procedura penale, a cura di G. Vassalli, Giuffrè, Milano, 1986, p. 654.

4. G. Flora, Misure alternative alla pena detentiva, (voce) in Novissimo Digesto it., Appendice, Utet, Torino, 1984, V, p. 99.

5. E. Fassone, Affidamento in prova al servizio sociale e riforma penitenziaria: un bilancio fra luci e ombre, in Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria, a cura di V. Grevi, Zanichelli, Bologna, 1982, p. 23.

6. G. Giostra, Un limite non giustificato in tema di misure alternative, in Politica del diritto, 1978, p. 441.

7. G. Comite, Brevi note sull'affidamento in prova al servizio sociale, in Temi Romana, 1985, p. 238.

8. G. Flora, op. cit., p. 99. "processo di degenerazione in chiave puramente clemenziale dell'affidamento in prova, ... e dello stravolgimento della finalità legislativa sottesa al limite di pena per la concedibilità della misura".

9. F. Della Casa, La crisi d'identità delle misure alternative tra sbandamenti legislativi, esperimenti di "diritto pretorio" e irrisolte carenze organizzative, in CP, p. 3280, ove l'autore afferma "si vuole alludere sia alla non sempre limpida coerenza che caratterizza il processo evolutivo in esame, dove campeggia un legislatore più interessato ai risultati pratici e immediati di decongestionamento delle strutture carcerarie che la più arduo obiettivo finale della rieducazione, sia alla conseguente dilatazione numerica dell'area penale esterna, dove alla crescita esponenziale degli "utenti" non corrisponde un rafforzamento adeguato dei servizi educativi".

10. Cass. Sez. I, 19.03.1980, Tummino, GI, 1980, 481.

11. Cass. Sez. I, 30.06.1981, Mavillonio, CP, 1983, 164.

12. Cass. Sez. I, 19.03.1980, Tummino, GI, 1980, p. 481.

13. L. Cesaris, L'affidamento in prova al servizio sociale tra Cassazione rigorista e legislazione lassista, in CP, 1993, p. 26, "Le modifiche apportate con la legge 10 ottobre 1986 da un lato hanno ampliato l'ambito di operatività della misura, abrogando le preclusioni ostative e innalzando per tutti indistintamente la soglia di pena al di sopra della quale non è consentita l'ammissione, e dall'altro hanno esaltato le potenzialità di prevenzione della recidiva rispetto alle opportunità risocializzanti, dando maggiore peso e risalto alle prescrizioni in tal senso. Il risultato così raggiunto dal legislatore del 1986 sembra, dunque, un'estensione della fruibilità della misura, tanto che questa finisce con essere più strumento di deflazione carceraria che di risocializzazione".

14. N. Galatini, La nuova disciplina dell'affidamento in prova al servizio sociale, in Ind. Pen., 1987, p. 463.

15. M. Canepa, S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, 2002, p. 241.

16. G.U., 30 novembre 1981, n.329, suppl.ord.n. 59. Modifiche al sistema penale. Depenalizzazione, sanzioni sostitutive e sanzioni amministrative.

17. F. Fiorentin, A. Marcheselli, L'ordinamento penitenziario, in Giurisprudenza Critica, Collana diretta da P. Cendon, Utet, 2005, p. 157.

18. Cass. Pen. Sez. I, 2.8.1989, Ridha, RP, 1990, 595.

19. Cass. Pen. Sez. I, 27.4.1998, Valentini, CED, rv. 210668.

20. Cass. Pen. Sez. I, 28.10.1999, Tognetti, CED, rv. 214429.

21. G. Di Gennaro, M. Bonomo, R. Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, 1984, p. 225. Viene descritta la natura giuridica dell'affidamento quale "vera e propria, alternativa alla pena detentiva tradizionale".

22. Cass. Pen. Sez. I, 27.1.1997, Morrone, CED, rv. 206976.

23. Cass. Sez. Pen.. I, 21.5.1997, Tortora, CED, rv. 207975.

24. M. Pavarini, B. Guazzaloca, L'esecuzione penitenziaria, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, Utet, Torino, 1996, p. 63. "Tra le varie misure alternative introdotte nel nostro ordinamento dalla legge 26 luglio 1975 n.354, non vi è alcun dubbio che l'affidamento in prova al servizio sociale, disciplinato dall'art. 47 della menzionata legge, abbia assunto, fin dai primi momenti di applicazione, un ruolo centrale (...) non può sfuggire come, quantomeno su di un terreno astratto, l'affidamento costituisca la reale concretizzazione del dettato costituzionale per il quale, ai sensi dell'art. 27 comma 3º, la deve deve tendere alla rieducazione del reo".

25. M. Canepa, S. Merlo, op. cit. pag. 404 ove si afferma che "le prescrizioni di cui all'art. 656 non sono suscettibili di interpretazione estensiva, e soprattutto, non può ritenersi che, a dette prescrizioni, si affianchi la statuizione generale dell'obbligo di un costante e corretto comportamento. In altri termini, deve ritenersi che la pena sostitutiva trovi la propria estrinsecazione ed il proprio contenuto afflittivo nell'osservanza delle prescrizioni fissate dalla norma".

26. Cass. Sez. Pen. I, 28.4.2000, Sereni, CED, rv. 216100.

27. G. Catelani, Manuale dell'esecuzione penale, Milano, Giuffrè, 1993, p. 327.

28. F. Fiorentin, A. Marcheselli, op. cit., p. 158.

29. Art. 3 Costituzione Della Repubblica Italiana: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali".

30. Cass. Sez. U., 19.12.2001, Saffico, RP, 2002, 465; "Si delinea, dunque, dal confronto delle regole che li presidiano, l'omogeneità fra la libertà controllata e l'affidamento in prova, confermata dall'espresso richiamo operato da varie norme della l. 689/81 a quelle dell'ordinamento penitenziario in materia di decisioni del magistrato o del tribunale di sorveglianza e d'interventi di sostegno del servizio sociale. Tale intreccio normativo rivela l'affinità di percorsi che viepiù connota di similarità le due misure, con particolare riferimento alla libertà controllata, non dissimile dall'affidamento in prova".

31. M. D'Onofrio, M. Sartori, Le misure alternative alla detenzione, in Fatto e Diritto, Giuffrè, 2004, p. 630.

32. M. Canepa, S. Merlo, op. cit., p. 405.

33. L. Degl'Innocenti, F. Faldi, Misure alternative alla detenzione e procedimento di sorveglianza, in Teoria e pratica del diritto, Cedam, 2005, p. 15. La ratio del divieto sancito dall'art. 67 cit. deve essere ravvisata "nella presunzione legislativa che, chi abbia violato le prescrizioni di un regime totalmente o parzialmente extracarcerario, nell'ambito dell'esecuzione della pena sostitutiva, si dimostri inidoneo ad un trattamento alternativo che ha in qualche modo un contenuto analogo, e suppone l'adesione del soggetto all'iter di risocializzazione propostogli".

34. Corte Costituzionale, 5.12.1997, n. 377, in Foro italiano, I, 1998, c.2736, spec. c. 2378; negli stessi termini Cass. Sez. Un. Baffico, cit. che fa riferimento ad una "presunzione assoluta di inadeguatezza della misura alternativa quando quella sostitutiva sia fallita, rivelandosi inidonea alla rieducazione del soggetto, insensibile alle opportunità di recupero, sta a dimostrare l'inutilità di un ulteriore tentativo di risocializzazione attraverso un percorso analogo a quello rivelatosi privo di risultati positivi".

35. Cass. Pen. Sez. I, 30.9.1997, Geniola, CED, rv 209174.

36. G. Flora, I destinatari dell'affidamento in prova, in Riv. It.Dir.Proc.Pen. 1977, p.691.

37. R. Li Vecchi, Scritta dalla Corte Costituzionale la parola "fine" sui contrasti giurisprudenziali intorno all'art. 47, primo comma, l. n.354 del 1975, in RP, 5-6.

38. G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, 1997, Giuffrè Milano, p. 225.

39. M. Canepa, S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, 2002, p. 242.

40. Cass. Sez. Un. 18.06.1993, Manisco, in Ced, 194058.

41. F. P. C. Iovino, L'affidamento in prova al servizio sociale, in Sospensione della pena ed espiazione extra moenia, Giuffrè, 1998, p.204.

42. Cass. Sez. I, 19.03.1980, Tummino, GI, 1980, 481.

43. Cass. Sez. I, 17.01.1978, De Cinque, GI, 1979, 462; Cass. Sez. I, 02.12.1977, Grassi, GP, 1978, II, 79; "Ai fini dell'applicazione in prova al servizio sociale, per stabilire se ricorra il presupposto di una pena non superiore a due anni e sei mesi di detenzione, occorre detrarre dalla pena irrogata con la sentenza definitiva i periodi di pena che non sono più espiabili per sopravvenute cause estintive".

44. Cass. Sez., I 24 giugno 1982, Balido in Giust. Pen., 1984, III, c.94. "La pena condizionalmente sospesa non deve essere presa in considerazione al fine della determinazione del limite della pena detentiva ancora da espiare, cui la legge subordina la possibilità della concessione della misura alternativa alla detenzione dell'affidamento in prova al servizio sociale".

45. Cass. Sez. I 8 luglio 1986, Esposito, in Cass. Pen. 1987, p.1819. "Relativamente al condono si è ritenuto che esso esplichi i suoi effetti fin dal momento della sua applicazione senza necessità di attendere la mancata verificazione di cause di revoca, per cui ai fini del computo occorre detrarre dalla pena la parte estinta".

46. Cass. Pen. I, 30 settembre 1980, Vessio, in Cass. Pen., 1982, p.366. "Si deve considerare la pena già scontata in stato di carcerazione preventiva, anche se vi sia soluzione di continuità tra questa e l'esecuzione della pena residua".

47. S. Pietralunga, op. cit. 1990, Cedam, Padova, p. 22.

48. Cass. Pen. Vessichelli, Ancora novità per il computo della pena per l'affidamento in prova al servizio sociale, 1991, 1392, p. 1836:

"La locuzione "pena inflitta" adoperata nel citato art. 47 avrebbe dovuto essere intesa esclusivamente come "pena irrogata" in sentenza. In altri termini, se la pena irrogata al condannato fosse stata superiore ai tre anni, ma, per effetto di uno o più condoni o per. effetto di custodia pre-sofferta (anche in relazione ad altri reati, sussistendo le condizioni per la fungibilità) avesse dovuto essere eseguita in misura inferiore a quel limite, la giurisprudenza in questione riteneva che non vi sarebbero stati i presupposti richiesti dalla legge per l'applicazione della misura alternativa alla detenzione".

49. Legisl. Pen. 1987, Cesaris, p.151. Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Legisl. Pen., 1987, p.151.

50. Cass. Sez. I, 22.01.1988, Zarbo, FI, 1988, II, 355. Per la quale occorre avere riguardo esclusivamente alla pena irrogata dal giudice quale risulta dal dispositivo della sentenza irrevocabile di condanna, non decurtata di quelle quantità di pene che, per fatti del tutto contingenti, eventuali e perfino posteriori alle decisioni (quali l'indulto ed altre cause di estinzione della pena, la fungibilità) riducano la pena da espiare in concreto.

51. Cass. Sez. unite 26.04.1989, Russo, CP, 1989, 1443.

52. M. Pavarini, B. Guazzaloca, (A cura di), Codice commentato dell'esecuzione penale, Vol.I, Utet, Torino 2002 p. 99.

53. Cass. Sez. I 8 settembre 1989, Verdiglione, in Cass. Pen. 1990, I, p.320.

54. Corte Cost., 11.07.1989, n.386, FI, 1989, I, 3340 con nota di Albeggiani.

55. B. Guazzaloca, op. cit., 2002, p.99; A. Alibrandi, Osservazioni sull'affidamento in prova al servizio sociale, in RP, 1995, 83-84.

56. F. P. C. Iovino, Sospensione della pena ed espiazione extra moenia, Commento alla legge 27 maggio 1998, n.165, Giuffrè, p.207; R. Colonna, L'affidamento in prova al servizio sociale dopo la sentenza della Corte costituzionale 11 luglio 1989 n. 386, in Giust. Pen. 1990, II, c. 632. La sentenza è stata oggetto di valutazione e disamina anche nel corso dei lavori preparatori. V. gli interventi dell'on. Carotti, sedute 11 luglio e 18 luglio 1996, in Appendice, §§3.2 e 3.3.

57. Corte Costituzionale, 11.07.1989, n.386, FI, 1989, I, 3340 con nota di Albeggiani.

58. A. V. Seghetti, Sui presupposti per l'ammissione all'affidamento in prova al servizio sociale, in Rivis. It. Dir. Proc. Pen., 1990, 283-288. "La Corte costituzionale ammise il contrasto dell'interpretazione accolta con il dettato dell'art. 47, che fa riferimento alla pena 'inflitta' e non a quella da 'espiare', e con le esigenze della generalprevenzione che impongono l'adozione della misura limitatamente a brevi pene detentive".

59. A. Bernasconi, Affidamento in prova e semilibertà nell'epoca post-rieducativa, in Esecuzione penale e alternative penitenziarie (a cura di Presutti A.), Cedam, Padova, 1999, p. 119.

60. Cass. Sez. unite 16.11.1989, Turelli, 1990, 591.

61. Cass. Sez. I, 22.06.1990, Accettola, RP, 1991, 544.

62. Corte Cost. ord. 26.10.1990, n.509, CP, 1991, 544.

63. A. Bernasconi, La divaricazione funzionale dell'affidamento in prova e l'obsolescenza del modello correzionale, in RIDPP, 1991, p.191-202. "L'affidamento vede dilatato il suo perimetro di operatività a favore di una fascia di destinatari diversa, sotto il profilo criminologico, da quella individuabile tramite la parificazione sostanziale tra pena inflitta e pena irrogata in sentenza".

64. Cass. Sez. Unite 01.01.1992, Alessandria, CP, 1993, 19 con nota di Cesaris. "Ai fini dell'affidamento in prova al servizio sociale per determinare se la pena detentiva inflitta per un singolo reato è o meno superiore a tre anni non può operarsi la detrazione della pena espiata, sicché l'affidamento in prova non può essere disposto quando l'esecuzione in corso concerne una pena superiore a tre anni inflitta per un solo reato, anche se la pena residua da espiare è di durata inferiore"; cfr F. Della Casa, I nuovi equilibri dell'art. 47 comma 1 ord. Penit. tra un revirement giurisprudenziale ed una legge d'interpretazione autentica... di non facile interpretazione, in Riv. It.dir. e proc. Pen., 1993, p. 802.

65. Corte Cost. 22.01.1992, n.17, FI, 1992, I, 1615.

66. M. D'Onofrio, M. Sartori, op. cit., p.77.

67. L. Cesaris, L'affidamento in prova al servizio sociale tra Cassazione rigorista e legislatore lassista, in Cass. Pen., 1993, p.28; P. Vellutini, Una svolta finale nell'interpretazione dei presupposti applicativi dell'affidamento in prova al servizio sociale, in CP, 1995, 2741, "Il legislatore ha cercato, mediante l'intervento sfociato nell'art. 14-bis di bloccare le continue oscillazioni fra le varie letture interpretative del concetto di pena inflitta offerte nel corso degli anni dalla giurisprudenza".

68. L. Cesaris, L'affidamento in prova al servizio sociale tra Cassazione rigorista e legislazione lassista, in CP, 1993, 26-33. "Non si può negare che le pronunce costituzionali (...) mirassero ad eliminare alcune disparità di trattamento, ma è certo che l'effetto è stato dirompente, nel senso di travolgere il limite edittale dei tre anni, che veniva così inteso come risultato di eventuali operazioni di scomputo di pene estinte, condonate o già espiate. In tal modo come è facile intuire, la misura originariamente pensata per i piccoli delinquenti veniva ad essere appetita anche da soggetti condannati a pene ben più rilevanti".

69. Corte Costituzionale, 27 giugno 1974, Pubblicazione in Gazz. Uff. n. 180 del 10 luglio 1974.

70. Cass. Sez. U. 18.06.1993, Manisco, CP, 1994, 49.

71. B. Guazzaloca, M. Pavarini, op. cit., Torino, 1995, p. 89.

72. Cass. Sez. I, 30.09.1997, Balbo, CP, 1998, 3100.

73. Cass. Pen. Sez. I, 21.2.1997, Peluso, CED, rv. 207231.

74. Cass. Sez. I, 31.03.1995, Falconi, CP, 1996, 1286.

75. A. Bernasconi, op. cit., 1999. p. 134; G. Marinucci, Il sistema sanzionatorio tra collasso e prospettive di riforma, in Riv. It. Dir. Proc. pen., 2000. p.160 e ss.

76. Cass. Sez. I 26.03.1990, Torrelli, RP, 1991, 205.

77. Cass. Sez. I 08.02.1991, Ertrugal, CP, 1991, 1831 con nota di Vessichelli.

78. Cass. Sez. I. 19.10.1992, Noventa, CP, 1994, 171.

79. F. Fiorentin, A. Marcheselli, L'ordinamento penitenziario, Utet, 2005, p. 157.

80. M. D'Onofrio, M. Sartori, Le misure alternative alla detenzione, Cedam, 2004, p. 90.

81. L. Filippi G. Spangher, Manuale di esecuzione penitenziaria, Milano, 2003.

82. Cass. Sez. I 21.11.1988, Calvaruso, CP, 1990, 152.

83. Cass. Sez. I, 14.10.1999, Lasalandra, RP, 2000, 411.

84. Cass. Sez. Unite 30.06.1999, Ronga, GI, 1999, 11. Il riferimento è quello del reo, condannato anche per reati ostativi ex. art. 4-bis Ord. Penit., che abbia espiato per intero la pena relativa. La questione riguardava la scindibilità delle pene unificate sotto il vincolo della continuazione, al fine di ammettere a fruire dei benefici penitenziari previsti, il condannato che, non avendo prestato collaborazione agli organi dell'investigazione, ne abbia fatta richiesta dopo aver già scontato l'intera pena applicata per il reato ostativo.

85. F. Contini, Il ripristino della pena edittale minima per il reato "satellite-ostativo": dalla inscindibilità del cumulo alla (discutibile) dilatazione dei tempi di accesso alle misure alternative, in CP, 2001, 1608-1618. "Sebbene il cumulo di pene si risolva nella determinazione di una pena unica e, quindi, imputabile contemporaneamente a tutte le condanne ed a ciascuna di esse, si impone lo scioglimento ogniqualvolta dal principio dell'intangibilità del cumulo derivi un grave danno per il condannato, al quale la valutazione separata delle singole pene, costituenti il cumulo, arrecherebbe, invece, un vantaggio".

86. G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, Giuffrè, 1997, p.223, ove si si sottolinea che l'introduzione dell'affidamento in prova nel nostro ordinamento testimonia la linea di pensiero che sostiene l'opportunità di articolare il sistema di difesa sociale dalla criminalità con il ricorso a misure differenziate.

87. V. Grevi, Misure cautelari, in Compendio di procedura penale, Cedam, 2003, p. 389.

88. L. Degl'Innocenti, F. Faldi, Misure alternative alla detenzione e procedimento di sorveglianza, Giuffrè, 2005, p. 21.

89. Cass. Sez. I, 26.09.2003, Crepella, in Ced, 226000.

90. Cass. Sez. I, 1.04.2003, Zaza, in Cass. Pen., 2004, n. 341 con nota di Ventura. La sentenza Zaza ha inoltre precisato che non è di per sé ostativa alla applicazione dell'affidamento in prova la circostanza che il condannato sia sottoposto ad una misura di sicurezza "in quanto in ogni caso opera il principio dell'esecuzione della pena - anche se scontato in regime alternativo - con eventuale sospensione della misura già in atto, salva la valutazione del giudizio di pericolosità sotteso all'applicazione della misura di sicurezza ai fini della ammissione alla misura alternativa".

91. B. Guazzaloca, M. Pavarini (a cura di), Codice commentato dell'esecuzione penale, Vol. I, Utet, Torino, 2002, p.106.

92. Cass. Sez. I, 29.11.1996, Drago, in Ced, 206982.

93. Cass. Sez. U. 13.07.1998, Griffa, CP, 1999, II, 1390, con nota Canevelli, La sospensione dell'esecuzione per il condannato agli arresti domiciliari.

94. M. Pavarini, B. Guazzaloca, op. cit., Torino, Utet, 2002, p. 105. La necessità di una stabile residenza quale presupposto per la concessione dell'affidamento in prova.

95. Cass. Sez. I, 14.10.1992, De Barre, in Ced, 192363.

96. L. Degl'Innocenti, F. Faldi, Misure alternative alla detenzione e procedimento di sorveglianza, Giuffrè, 2005, p.23.

97. Cass. Sez. I, 13.06.2001, Njume, in Ced, 219592 ove si puntualizza che l'irreperibilità del condannato può giustificare il rigetto dell'istanza per motivi di merito; Cass. Sez. I, 12 marzo 2001, Laurendino, in Ced, 218825, secondo cui l'istanza tendente ad ottenere l'applicazione dell'affidamento deve contenere, a pena di inammissibilità, "l'indicazione del luogo di residenza del richiedente, cioè del luogo in cui questi dovrebbe essere materialmente ricercato per l'assunzione delle necessarie informazioni e per la notifica degli atti necessari allo svolgimento della procedura".

98. F. Fiorentin, A. Marcheselli, L'ordinamento penitenziario, Utet, 2005, p. 168, ove si sottolinea che "la connessione con la sovranità statuale e il necessario collegamento con Centri di Servizio Sociale siti sul territorio nazionale hanno fatto ritenere non concedibile lo svolgimento della prova all'estero".

99. Cass. Sez. I, 31.12.1999, CED, rv 215027.

100. Cfr, per tutte, Cass., 26.06.1995, Battiloro, C.E.D. Cass. Pen., 202198; Cass., 11.04.1996, Musto, C.E.D. Cass. Pen., 205167; Cass., 14.07.1994, Panaro, MCP, 1995, fasc. 1, 56.

101. M. Pavarini, B. Guazzaloca, Codice commentato dell'esecuzione penale, Torino, Utet, 2002, p. 104.

102. Cass., 11.03.1999, Sica, CED Cass. Pen. 213558.

103. F. Mantovani, Diritto Penale, Cedam, 1992, p. 755, in vista di "esigenze specialpreventivo-risocializzative del soggetto".

104. C. Fiorio, Nota Cass. Sez. I, 28.06.1994, Paris, in GI, II, 419.

105. G. Neppi, Modona op. cit., 1976, p. 360.

106. S. Pietralunga, Affidamento in prova al servizio sociale, Cedam, 1990. p. 66.

107. P. Comucci, La riforma penitenziaria: una risposta ad alcuni problemi irrisolti, in Indice penale, 1987, p. 56.

108. E. Fassone, T. Basile, G.Tuccillo, La riforma penitenziaria, Jovene, Napoli, 1987, p. 56.

109. P. Comucci, op. cit., p. 481. "Al riguardo si rileva come non sia stata resa obbligatoria la presenza degli esperti di cui all'art. 80 nelle equipes, non sia stato reso più agevole il compito dell'educatore e dell'assistente sociale, e non sia stato, in generale, migliorato il coordinamento fra gli operatori".

110. L. Daga, Prime osservazioni sulla applicazione della legge n. 663/1986, in Questione Giustizia, n. 3, 1987, p. 63.

111. V. Grevi, L'ordinamento penitenziario dopo la riforma, Cedam, 1988, p. 166.

112. G. Di Gennaro, R, Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, 1997, p. 223.

113. A. Presutti Affidamento in prova al servizio sociale e affidamento con finalità terapeutiche, in L'ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza (a cura di V. Grevi), Cedam, Padova, 1988, 299 ss.

114. R. Stocco, L'affidamento in prova al servizio sociale, in Le nuove norme sull'ordinamento penitenziario (a cura di G. Flora), Milano, 1987, p.182.

115. Corte Costituzionale, 22 dicembre 1989, n. 569, in Cass. Pen. 1990. p.1442, con nota di Della Casa, Corte costituzionale e affidamento "anticipato": perfezionamento e rilancio del più recente modello di probation.

116. B. Guazzaloca, M. Pavarini, L'esecuzione penitenziaria, Utet, 1995, p. 109.

117. B. Guazzaloca, (a cura di), Codice commentato dell'esecuzione penale, Vol. I, Utet, Torino, 2002, p.115, ove si sottolinea che l'intervento della Consulta relegava la disciplina per così dire, "storica", di accesso al beneficio dell'affidamento (che presupponeva l'osservazione inframuraria dell'affidamento) ad un ruolo fisiologicamente marginale, riservandola ai soli condannati a pene detentive lunghe, quando la soglia dei tre anni costituisca il residuo ancora da scontare.

118. F. Della Casa, Corte costituzionale e affidamento "anticipato": perfezionamento e rilancio del più recente modello di probation, in CP, 1990, 1448 ove si sottolinea che la Corte afferma che la condizione del prescritto periodo di custodia cautelare è non solo priva di qualsiasi reale significato, ma altresì fonte di un evidente paradosso: quello per cui l'accesso anticipato all'affidamento viene precluso proprio ai condannati che, più di altri, possono offrire, per lo meno in relazione al fatto sanzionato con la condanna in esecuzione, adeguate garanzie di carattere personologico.

119. A. Presutti, Commento all'art. 47 ord. Penit., in Ordinamento penitenziario. Commento articolo per articolo (a cura di V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa), Cedam, Padova, 2000, p. 376.

120. M. Canepa, S. Merlo, op. cit., p.241.

121. A. Bernasconi, Affidamento in prova e semilibertà nell'epoca post-rieducativa in Esecuzione penale e alternative penitenziarie (a cura di A. Presutti), Cedam, Padova, 1999, p.119.

122. F. Fiorentin, A. Marcheselli, op. cit., p. 162.

123. M. Pavarini, B. Guazzaloca, op. cit., 109.

124. Cass.. 05.02.1998, Cusani, FI, 1998, II, 513. Contra, tuttavia, Cass. 14.10.1991, Siciliano (CP, 1993, 75) per cui l'affidamento in prova non è consentito qualora sussista una pericolosità sociale del condannato, essendo invece necessario che essa sia cessata o notevolmente attenuata.

125. Cass. Pen. Sez. I, 14.2.1997, Cordelli, CED, rv 207214.

126. Cass. Pen. Sez. I, 19.10.1992, Gullino, CPMA, 1993, fasc. 3, 69.

127. F. Fiorentin, A. Marcheselli, op. cit., Utet, 2005, p. 163.

128. Cass, Sez. I, 22.12.1998, Nikolic, CED, rv. 213368. "E' inammissibile per manifesta infondatezza la richiesta di affidamento in prova al servizio sociale ove la stessa sia priva della indicazione della residenza e dell'ambiente di inserimento, lavorativo o meno. Tale carenza, infatti, impedisce la valutazione delle prospettive di rieducazione e di prevenzione, cui è subordinata l'ammissione al beneficio, e non consente neppure di acquisire le necessarie notizie attraverso informativa dei competenti servizi sociali, a norma dell'art. 666 comma 5º, c.p.p.".

129. M. Canepa, S. Merlo, op. cit., p. 251.

130. Cass. Pen. Sez. I, 10.2.1997, Bertoncin, CED, rv 2072212.

131. Cass. Pen. Sez. I, 11.02.1994, Guarnieri, in CED, 196807.

132. Cass. Sez. I, 12.11.1999 Caliendo, in Cass. Pen., 2001; in senso contrario Cass. Sez. I, 12.03.2004, Ierardi, 228287, "l'applicazione di una misura di prevenzione quale quella della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, pur richiedendo l'esistenza della pericolosità sociale del soggetto, non è ostativa di per sé alla concessione di una misura alternativa alla detenzione, ma costituisce solo un elemento di valutazione della personalità del condannato di cui deve tener conto il giudice per esprimere in concreto un giudizio sulla pericolosità sociale".

133. L. Degl'Innocenti, F. Faldi, Misure alternative alla detenzione e procedimento di sorveglianza, Giuffrè, 2004, p.27.

134. Cass. Sez. I, 11.03.1997, Caputi, in Ced, 207998.

135. Cass. Sez. I, 18.9.1997, Fei, Ced, rv. 208789.

136. In dottrina, cfr A. A. Capitta, La nuova fisionomia dell'udienza preliminare e tutela della imparzialità del G.U.P., in Cass. Pen., 2003, n. 954, p. 3357 e ss., secondo cui l'udienza preliminare deve essere considerata come "una sorta di giudizio preventivo di merito, anticipato rispetto a quello dibattimentale, basato su un canone, sia pure prognostico, di colpevolezza o di innocenza"; per una diversa opinione, cfr. Casati, L'udienza preliminare come giudizio di merito, ivi, p. 3368 e ss, secondo cui l'udienza preliminare deve essere qualificata "come giudizio non sul merito, ma di merito, con conseguente sua estraneità a quel concetto di giudizio cui si riferisce l'art. 34, 2º comma c.p.p.".

137. Sulla nuova configurazione dell'udienza preliminare dopo l'entrata in vigore della legge 479/1999, cfr Cass. Sez. Unite 30.10.2002, Vottari, in Cass. Pen. 2003, n. 811; anche la giurisprudenza costituzionale in materia di incompatibilità ex art. 34 c.p.p., 4.07.2001, n. 224, in Giur. Cost., 2001, p. 1955.

138. F.P.C. Iovino, Osservazioni sulla recente riforma dell'ordinamento penitenziario, 1993, in CP, 440.

139. Sezioni Unite, n. 7458 del 28 marzo 2006 - depositata il 27 aprile 2006, Presidente N. Marvulli, Relatore G. Canzio.

140. Cass., Sez. I, 20/5/2003, Calderon, rv. 226134; Sez. I, 5/6/2003, Mema, rv. 225219; Sez. I, 11/11/2004, P.G. in proc. Hadir, rv. 230191; Sez. I, 22/12/2004, P.G. in proc. Raufu Emiola Orolu.

141. L. Degl'Innocenti, F. Faldi, op. cit., 2004, p.30.

142. Cass. Sez. U., 28.03.2006, n. 7458.

143. Cass. Sez. I, 17 luglio 2003, n. 30130.

144. E. Santoro, L'esecuzione penale nei confronti dei migranti irregolari e il loro "destino" a fine pena, 2004.

145. E. Santoro, op. cit.

146. Decr. Legisl.25 Luglio 1998, n.286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. Art. 19, Divieti di espulsioni e respingimento, "1. In nessun caso puo' disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione".

147. E. Santoro, op. cit.

148. Corte Cost. 27.06.1974, n.204, "La Corte enuncia l'«obbligo tassativo per il legislatore di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle».

149. Cass., Sez. I, 5/5/1982, Schubeyr, rv. 154508; Sez. I, 31/1/1985, Ortiz, rv. 168034; Sez. I, 13/12/1993, Mirbaki, rv. 196251; Sez. I, 3/10/1995, Padilla Chavez, rv. 202621.

150. Ministero di grazia e giustizia, circ. 15 marzo 1993, n. 27/93. Per i migranti irregolari la circolare prevede che venga rilasciato "un apposito atto di avviamento al lavoro ... prescindendo dalla iscrizione nelle liste di collocamento, dal possesso del permesso di soggiorno e dall'accertamento di indisponibilità".

151. Pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 177 del 1º agosto 2005, "Delega al Governo per la disciplina dell'ordinamento della carriera dirigenziale penitenziaria".

152. A. Muschitiello, segretaria del Coordinamento Assistenti Sociali Giustizia, intervista tratta dal sito Ristretti.it dove espone le critiche alla legge "Meduri".

153. Cass. Sez. I, 22.11.1994, Pisano, in Ced, 200104, relativamente ad una fattispecie in cui il soggetto che aveva avanzato l'istanza tendente ad ottenere l'affidamento svolgeva l'attività di "mago".

154. P. Vellutini, Una svolta finale nell'interpretazione dei presupposti applicativi dell'affidamento in prova al servizio sociale, in CP, 1995, p. 2743. "Il vaglio della personalità del soggetto condotto dal tribunale di sorveglianza al momento dell'ammissione, in quanto fondato sulla concreta valorizzazione degli elementi soggettivi di meritevolezza costituirà quindi il filtro attraverso cui recuperare quelle esigenze retributive, special preventive altrimenti vanificate dalla quantità della pena residua".

155. Esse approvate nel primo congresso delle Nazioni Unite a Ginevra il 30 agosto 1955, rispondevano alla necessità di standardizzare ed omogeneizzare, nel settore penitenziario, le condizioni di detenzione, a salvaguardia dei diritti umani.

156. G. Flora, Considerazioni introduttive, in Le nuove norme sull'ordinamento penitenziario (a cura di G. Flora), Giuffrè, Milano, 1987, p. 1." Secondo la dottrina, dunque, la natura di misura specialpreventiva dell'affidamento in prova esclude dal suo ambito di destinazione quei soggetti che la scienza criminologia definisce "colletti bianchi", o criminali dai colletti bianchi, in relazione ai quali prevale il momento punitivo della pena rispetto alla funzione di rieducazione e di trattamento".

157. Circ. D.A.P. 29 dicembre 1993, n. 3378/5828. "Cartella personale ed attività trattamentali".

158. Circ. D.A.P. Prot. n. GDAP-0217584-2005, "L'area educativa: il documento di sintesi ed il patto trattamentale" ove si sottolinea la distinzione tra l'èquipe ed il gruppo di osservazione e trattamento (GOT); il GOT è il gruppo allargato di cui fanno parte o possono essere chiamati a far parte, con il coordinamento dell'educatore, tutti coloro che interagiscono con il detenuto o che collaborano al trattamento dello stesso mentre l'èquipe è il "gruppo ristretto", avente rilevanza esterna, presieduto dal Direttore dell'Istituto (o dal suo sostituto ma non da un suo delegato).

159. G. Canepa, Personalità e delinquenza: problemi di antropologia criminale e di criminologia clinica, Milano, Giuffrè, 1974, p. 149, in Scritti di criminologia e diritto criminale. Collana de La scuola positiva; 10.

160. Cass. Sez. IV, 6.03.2003, Chiara, in Giust. Pen. 2004, II, p. 29.

161. G. La Greca, La disciplina dei permessi premio nel quadro del trattamento penitenziario, in L'ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza (a cura di Grevi), Cedam, Padova, 1994, p. 247, ove si sottolinea la finalità sia di natura premiale, sia specialpreventiva e rieducativa del permesso premio, definendolo "un istituto polivalente" a carattere "plurifunzionale".

162. Corte Costituzionale, 30.12.1997, n.445, in Foro it., I, c. 2732.

163. G. Ponti, Compendio di criminologia, Milano, R. Cortina, 1999, XX, p. 402.

164. F. Bricola, L'affidamento in prova, op. cit., 1976, p. 395; ove si sottolineano le critiche avanzate riguardo all'osservazione della personalità concernenti l'artificiosità dell'atteggiamento del condannato in ambiente carcerario, teso ad ottenere in ogni modo il maggior numero di benefici. In questo caso l'osservazione verrebbe falsata e strumentalizzata, in considerazione del fatto che, come è stato sottolineato, è impossibile diagnosticare la pericolosità di un soggetto basandosi sul comportamento di questi all'interno di un istituto penitenziario.

165. Circ. D.A.P., 14 giugno 2005 n. 3601/6051."Mediazione penale e Giustizia riparativa" ove si tracciano le linee di indirizzo sull'applicazione nell'ambito dell'esecuzione penale dei condannati adulti.

166. Cass. Sez. I, 19 febbraio 1979, Lo Vasto, RP, 1980, 89; e M. D'Onofrio, M. Sartori, Le misure alternative alla detenzione, p.112.

167. G. Giostra, Il procedimento di sorveglianza nel sistema processuale penale, Giuffrè, Milano 1983, p. 354, evidenzia la necessità che il processo di sorveglianza sia essenzialmente un "giudizio sull'autore" e non sul tipo di reato.

168. E. Fassone, T. Basile, G. Tuccillo, La riforma penitenziaria: commento teorico pratico alla L. 663-1986, Napoli, Jovene, 1987, p. 130.

169. S. Pietralunga, L'affidamento in prova al servizio sociale, Cedam, 1990, p. 71.

170. M. Pavarini, B. Guazzaloca, Codice commentato dell'esecuzione penale, 2002, Torino, Utet, p. 113, ove si sottolinea come in campo dottrinario, la disciplina apparve subito "vuota di criteri", priva com'era di indicazioni predeterminate circa il comportamento che il condannato avrebbe dovuto serbare nel periodo di libertà successivo alla commissione del reato.

171. Cass. 20.10.1989, De Santis, CP, 1991, 479.

172. Art. 72 ord. Penit. Comma 2 lettera b. (come modificato con legge 27 luglio 2005, n. 154).

173. Cass. 05.06.1995, D'Agostini, C.E.D. Cass. Pen., 202369.

174. Circ. D.A.P. Prot. n. GDAP-0217584-2005, "L'area educativa: il documento di sintesi ed il patto trattamentale"; ove si descrive come possa essere redatto il documento di sintesi: 1. Dati anamnestici e socio - familiari; 2. Dati inerenti l'osservazione (ed il trattamento); 3. Descrizione del percorso attuato in ordine al comma 1, punto 3 dell'art. 27 reg; 4. Ipotesi trattamentale; 5. Verifiche e aggiornamenti; I contenuti del documento di sintesi definito dall'équipe devono essere portati a conoscenza di tutti gli operatori del GOT interessati al singolo detenuto, per definire gli interventi di ciascuno durante il corso del trattamento, dare cadenze di valutazione congiunta, proporre modifiche del processo educativo garantendo una soluzione di continuità tra le varie fasi del lavoro circolare ed interconnesso del GOT e dell'équipe.

175. L. Degl'Innocenti, F. Faldi, Misure alternative alla detenzione e procedimento di sorveglianza, Giuffrè, 2004, p. 33.

176. Cass. Sez. I, 28.3.2000 Romano, CED, rv 216076.

177. Cass. Sez. I, 3.4.2000, Ferrante, CED, rv 216037.

178. Cass. Sez. I, 22.05.2000, Giorgio, in Ced, 216623.

179. M. P. Giuffrida, Verso la giustizia riparativa, in Studi e ricerche, Dedalo, 2004, p. 75, ove si sottolinea l'interesse per la giustizia riparativa e per la tutela della vittima sia a livello nazionale che internazionale.

180. Cass. Sez. I, 15.12.2000, Veneziano, in Cass. Pen., 2002, n. 964 ove si puntualizza che "l'ingiustificata indisponibilità del condannato a risarcire la vittima dei danni arrecatile rientra tra gli elementi di segno negativo valutabili per il diniego della misura".

181. E. H. Sutherland, Il crimine dei colletti bianchi: la versione integrale, Milano, A. Giuffrè, 1987.

182. Trib. Sorv. Milano, 23.07.1997, Cusani, in Foro it., 1998, II, c.31.

183. Cass. Sez. I, 5.02.1998, Cusani, con commento di La Greca, FI, 1998, II, 31.

184. G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, op. cit., p. 226.

185. In argomento, cfr. G. Giostra, F. Cesari, p. 39 e ss. in V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Ordinamento Penitenziario. Commento articolo per articolo, Padova, 2000; M. Canepa. S. Merlo, Manuale di Diritto Penitenziario, VI edizione, Milano, 2002. p. 459 e ss.

186. M. D'Onofrio, M. Sartori, Le misure alternative alla detenzione, Giuffrè, 2004, p. 309.

187. A. Bernasconi, op. cit., p. 89, ove si descrive "la stagione emergenziale di quei anni, caratterizzata non solo da una riedizione di istanze di prevenzione generale, ma anche da una del tutto inedita rifunzionalizzazione del sistema della pena alla ricerca della collaborazione del condannato con la giustizia".

188. F. P. C. Iovino, Osservazioni sulla recente riforma dell'ordinamento penitenziario, in CP, 1992, p. 440, ove si osserva come in tale ipotesi la ripartizione degli oneri della prova tornerebbe alla "fisiologia" con il gravarne il p.m.

189. M. Montagna, In tema di accertamento della pericolosità del condannato ed informazioni del c.p.o.s., in CP, 1993, p. 1555, ove si sostiene la ragionevolezza del giudizio di pericolosità quale mezzo di convincimento.

190. Cass. Sez. I, 17.09.1992 Dal Ponte, RP, 1993, 866.

191. Cass. Sez. I, 24.09.1992 Papalia, CP, 1994, 1651.

192. M. Coralli, Materiali didattici sulle misure alternative, per le lezioni tenute da Alessandro Margara nell'ambito del progetto "CIVITAS: ATTIVARE I DIRITTI. DA DETENUTI A CITTADINI".

193. M. Canepa, S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, Giuffrè, 1999, p. 422; B. Guazzaloca, M. Pavarini, L'esecuzione penitenziaria, Utet, 1995, p. 329.

194. F. Della Casa, La crisi d'identità delle misure alternative tra sbandamenti legislativi, esperimenti di "diritto pretorio"e irrisolte carenze organizzative, in CP, 2002, p. 3282.

195. F. Fiorentin, A. Marcheselli, L'ordinamento penitenziario, Utet, 2005, p. 469.

196. M. Coralli, in senso contrario vedi op. cit., ove si sottolinea come invece nella prassi il riferimento è all'intero comma 1 e quindi anche alla limitazione dello stesso ai soli reati di cui all'art. 4-bis.

197. Cass. Sez. I, 30.09.1996, Diofebo, CED, rv. 205704.

198. M. Coralli, op. cit., ove si afferma che di norma il tribunale di Sorveglianza di Firenze, attualmente, decide in media entro 3 mesi dalla ricezione dell'istanza.

199. A. Bernasconi, Affidamento in prova e semilibertà nell'epoca post-rieducativa, in Esecuzione penale e alternative penitenziarie, (a cura di A. Presutti), Cedam, Padova, 1999, p. 164.

200. A. Bernasconi, op. cit. p.163.

201. A. Bernasconi, op. cit. p. 166.

202. A. Presutti, Legge 27 maggio 1998 n. 165 e alternative penitenziarie: la pena rinnegata, in Esecuzione penale e alternative penitenziarie (a cura di A. Presutti), Cedam, Padova, 1999, p. 48.

203. A. Presutti, Commento all'art. 47 ord. Penit., in Ordinamento penitenziario. Commento articolo per articolo (a cura di V. Grevi, G. Giostra e F. Della Casa), Cedam, Padova, 2000, ove si rileva che la legge 165/1998 ha innovato l'affidamento in prova senza osservazione in istituto rimodellandolo in chiave marcatamente sostitutiva e sancendo il primato di questa forma della misura rispetto a quella regolata dal 2º co. dell'art. 47, ord. Penit., conservata nella sua natura trattamentale.

204. F. P. C. Iovino, L'affidamento in prova al servizio sociale, in Sospensione della pena ed espiazione extramoenia, (a cura di A. Dalia, M. Ferraioli), Giuffrè, 1998, p. 192 ove si afferma che la finalità del proponente è quella di superare l'irrazionalità del sistema, che, condiziona la possibilità di usufruire della sospensione della pena detentiva per accedere da liberi alle misure alternative.

205. V. Grevi, Verso un regime penitenziario progressivamente differenziato: tra esigenze di difesa sociale ed incentivi alla collaborazione con la giustizia, in Grevi (a cura di) L'ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, Padova, 1994, p. 3.

206. V. Maccora, La disciplina dell'art. 656 c.p.p. ed i provvedimenti di urgenza del magistrato di sorveglianza alla luce della riforma operata dalla legge 27.5.1998 n.165, 1999, p. 88.