ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo III
Il trattamento sanitario obbligatorio

Silvia Sbordoni, 1998

1. I diritti fondamentali della persona nella 180 e il Trattamento sanitario obbligatorio

Già ad una prima lettura della legge n. 180 non si può fare a meno di coglierne l'ispirazione acustodialistica e lo stampo antiautoritario che la caratterizzano nettamente e che la rendono per questo un testo fortemente innovativo.

Dall'analisi dell'articolo 1 risulta immediatamente l'intento di non concepire più la legislazione psichiatrica come un corpus di norme separato nell'ambito della normativa sull'assistenza pubblica, ma al contrario come una parte organica della legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), che sarebbe stata approvata il dicembre dello stesso anno. Il suddetto articolo infatti (e l'art. 33, della legge 833/78), prende in considerazione i trattamenti sanitari obbligatori (TSO) disposti per qualsiasi causa sanitaria, anche non psichiatrica (quale può essere ad esempio quello disposto per malattie infettive come il colera). Il legislatore del 1978 si propone di eliminare qualsiasi distinzione nel modo e, in parte, nelle sedi del trattamento tra malattia mentale ed ogni altra infermità. Questa scelta rientra nel più vasto tentativo di porre fine alla discriminazione dei malati di mente e di considerarli alla stregua degli altri malati, rendendo effettivo il principio di uguaglianza dei cittadini anche in tale ambito.

Così dunque l'art. 1: "Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari... possono essere disposti dall'autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura... Nel corso del trattamento sanitario obbligatorio chi vi è sottoposto ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno. Gli accertamenti e i trattamenti sanitari di cui ai precedenti commi devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di che vi è obbligato...".

Possiamo configurare l'art. 1 come una sorta di norma di principio, che sancisce cioè alcuni punti fermi, fondamentali, vincolanti per qualsiasi trattamento obbligatorio, sia esso disposto per motivi psichiatrici o genericamente sanitari, fermo restando comunque il principio - la cui fonte ispiratrice è direttamente l'art. 32 della Costituzione, ma che fino ad ora non aveva trovato alcuna enunciazione in termini così generali e perentori nella legislazione ordinaria - del consenso, della volontarietà di ogni intervento sanitario. Ai sensi dell'art. 1 il Trattamento sanitario obbligatorio si configura come un'eccezione espressamente prevista e disciplinata dal legislatore (nel pieno rispetto della riserva di legge sancita nel 2º comma dell'art. 32 della Costituzione): un cittadino, purché maggiorenne, può rifiutare ogni cura, salvo che la malattia da cui è affetto non sia mentale o contagiosa (1).

Il Trattamento sanitario obbligatorio per malati di mente, di cui si occupa nello specifico l'art. 2 della 180 (e l'art. 34 della 833), deve dunque considerarsi come un'eventualità del tutto eccezionale, una deroga espressamente autorizzata - e disciplinata nei minimi dettagli - dalla legge, al principio del necessario consenso. Configurandosi la volontarietà del trattamento la regola, e l'obbligarietà come l'eccezione, prima di giungere ad uno strumento sanitario coattivo deve percorrersi ogni strada che possa rivelarsi concretamente utile al raggiungimento del consenso. Si comprende quindi il senso e l'importanza di una disposizione come quella contenuta nel comma 5 dell'art. 1: "Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori... devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato".

Non può sfuggirci inoltre la volontà di creare un ampio quadro di garanzie di tipo sanitario, amministrativo e giurisdizionale. In particolare e, in conformità all'art. 32, 2º comma della Costituzione, si afferma che i trattamenti sanitari prestati in via coercitiva non devono violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana e dei suoi diritti fondamentali.

Il richiamo al rispetto della dignità della persona, è stato osservato, inciderebbe direttamente sulle modalità di esecuzione del trattamento sanitario obbligatorio, fissando un generale criterio di valutazione del comportamento posto in essere dal medico e dai suoi collaboratori nel corso dello stesso. In concreto risulterebbe contrario a detto principio l'uso di terapie non idonee o inefficaci, la somministrazione di medicinali non sufficientemente controllati dall'esperienza pratica. Su di un piano più generale lederebbe il rispetto della dignità della persona una condotta del medico che venisse meno agli obblighi di segretezza in ordine soprattutto al trattamento dei malati di mente (ma non solo, pensiamo alle reazioni sociali negative che si trovano a dover fronteggiare coloro che sono affetti da talune malattie contagiose), la cui conoscenza all'esterno costituisce ancora oggi causa di deprezzamento sociale, e conseguentemente motivo ulteriore di difficoltà in vista di un successivo reinserimento sociale (2).

Il legislatore precisa che il carattere coercitivo di un trattamento non potrà mai comprimere o pregiudicare l'esercizio "dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione". Ciò significa che un Trattamento sanitario obbligatorio non può negativamente incidere né sulla capacità di diritto privato, né sulla capacità di diritto pubblico del paziente. La fissazione di questa ulteriore garanzia non risulta casuale, né, tanto meno, un'inutile ripetizione. Se con la previsione del rispetto della dignità della persona, si è voluto "tutelare la persona in tutte le sue attribuzioni (integrità psico-fisica, riservatezza, identità, ecc.) ma staticamente considerata", col riconoscimento dei diritti civili e politici costituzionalmente garantiti il legislatore si è mosso piuttosto "sul terreno dello sviluppo della personalità del cittadino" (3).

Applicazioni ed espressioni di entrambi i principi - rispetto della dignità e della libertà della persona - devono considerarsi le facoltà riconosciute nello stesso articolo relativamente alla scelta del medico e del luogo di cura. Infatti lasciare al malato la possibilità di effettuare simili scelte, oltre a contribuire all'instaurazione di un rapporto terapeutico improntato sulla fiducia e ad evitare un allontanamento dal proprio mondo, significa esprimerli il suo riconoscimento ancora come uomo (prima che come malato) capace di autodeterminarsi.

Infine, sempre sul terreno delle garanzie, la legge conferisce all'individuo sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio il diritto di comunicare con chi ritenga opportuno. Attraverso tale previsione si introduce una importante novità nell'ambito dell'assistenza psichiatrica. Invero nei vari regolamenti speciali emanati ai sensi della legge del 1904 e del suo regolamento di attuazione, erano fissate norme indirettamente limitatrici di tale facoltà. Fra le numerose attribuzioni dei direttori dei manicomi emergevano quelle relative alla regolamentazione delle visite, all'ingresso dei visitatori, alla sorveglianza da effettuarsi nel corso delle stesse. Alla stessa logica di isolamento dal mondo esterno rispondeva il divieto imposto agli infermieri di dare ad estranei, o anche ai parenti, notizie sui ricoverati, la censura effettuata sulla corrispondenza, nonché il sottoporre ad autorizzazione dei sanitari la circolazione, all'interno dell'ospedale, di giornali e libri. Essendo ancora presenti nella memoria di tutti simili violazioni, al legislatore non è sembrata priva di senso, ma al contrario opportuna, l'affermazione di una facoltà, di per sé e normalmente, ovvia.

Ma non basta. Il legislatore, sempre nella stessa ottica garantista, si è assicurato che ogni possibile violazione non potesse più perpetuarsi abrogando espressamente quelle norme che, in fasi successive, erano giunte a completare il quadro di isolamento fissato soltanto in parte dalla legislazione manicomiale dell'inizio del secolo (4).

L'articolo 10, intitolato "Modifiche al codice penale", dispone la soppressione nella rubrica del libro III, titolo I, capo I, sez. III, paragrafo 6 del cod. pen., relativo a "contravvenzioni concernenti la custodia di alienati di mente, di minori o di persone detenute", delle parole "alienati di mente"; nella rubrica dell'art 716 cod. pen., dal titolo "omesso avviso all'Autorità della evasione o fuga d'infermi di mente o di minori", la soppressione delle parole "di infermi di mente", e, nel testo del medesimo articolo, delle parole "a uno stabilimento di cura".

Dopo le modifiche apportate dall'art. 10 a paragrafi, rubriche e norme, l'art. 11 incide direttamente sullo stesso gruppo di norme del paragrafo 6, abrogando, in forma espressa e totale, gli artt. 714 (contravvenzione nei confronti di chi accoglie senza autorizzazione dell'Autorità in stabilimento di cura una persona affetta da alienazione mentale, e per chi nello stesso caso, ma senza che sia prevista la suddetta autorizzazione, ometta di darne avviso all'Autorità; contravvenzione nei confronti di colui che, senza osservare le prescrizioni della legge, dimetta persone legittimamente ricoverate negli stabilimenti di cura e riformatori pubblici); 715 (contravvenzione nei confronti di chi, senza autorizzazione, riceve nella propria abitazione persona affetta da alienazione mentale, ovvero in caso di autorizzazione non osservi gli obblighi inerenti la custodia); 717 (contravvenzione nei confronti di colui che, nell'esercizio di una professione sanitaria, avendo assistito o esaminato persona affetta da malattia mentale o da grave infermità psichica, la quale dimostri o dia sospetto di essere pericolosa a sé o agli altri, ometta di darne avviso all'Autorità). Delle disposizione del codice civile risulta abrogata soltanto quella contenuta nell'art. 420 (nomina di un tutore provvisorio disposta dal tribunale con lo stesso provvedimento con il quale viene autorizzato in via definitiva l'internamento in ospedale psichiatrico) (5).

Giungendo finalmente ad eliminare una delle disposizioni più discriminatorie e punitive nei confronti del malato di mente concepite nel nostro ordinamento, sempre dall'art. 11 viene sancita l'abrogazione degli artt. 2 (numero 1) e 3 del D.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, i quali sospendevano il diritto di voto ai ricoverati negli ospedali psichiatrici a decorrere dalla data del decreto del tribunale che autorizzava in via definitiva l'internamento, ed a prescindere da un loro stato di capacità naturale. Limitazione questa, fra l'altro, destinata ad incidere sulla possibilità di assunzione del soggetto nell'ambito della Pubblica Amministrazione, stante il principio generale che impedisce l'accesso ad essa a coloro che siano esclusi dall'elettorato attivo politico.

Oltre all'abrogazione espressa di tali norme, si dispone l'abrogazione per incompatibilità "di ogni altra disposizione". Senza dubbio quelle contenute nel regolamento di attuazione del 1909 (6).

L'art. 1 si conclude introducendo ulteriori garanzie, questa volta di tipo procedimentale, per fronteggiare il rischio di eccessiva leggerezza nel proporre un Trattamento obbligatorio. "Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco, nella sua qualità di autorità sanitaria locale, su proposta motivata di un medico.".

La disciplina finora descritta, espressione dell'aspetto garantista della legge 180, è di fondamentale importanza: non può negarsi infatti che le situazioni segreganti, degradanti, emarginanti, se non addirittura di crudeltà e sopraffazione che si determinavano sovente nei vecchi ospedali psichiatrici, costituissero una violazione più o meno diretta dei diritti e delle libertà fondamentali della persona umana (pensiamo alla libertà personale, al diritto alla riservatezza, alla tutela della segretezza della corrispondenza, alla libertà di associazione e di riunione, alla libertà di culto). Allo stesso modo non può trascurarsi il fatto che, al di là delle teorie più estremistiche ed "antipsichiatriche" che si sono avute riguardo alle cause della malattia di mente, siano innegabili i danni più o meno profondi che tali violenze e violazioni possono produrre nell'equilibrio mentale di un individuo.

Le premesse normative, necessarie ad una effettiva tutela della personalità dell'infermo in occasione di un Trattamento sanitario obbligatorio, dunque non mancano. Il problema sta piuttosto nel tradurre queste solenni proclamazioni in realtà, e ciò dipende in misura rilevante anche dal luogo in cui si è ricoverati.

Tuttavia, riguardo al Trattamento sanitario obbligatorio si pone una ulteriore questione, un problema cioè di compatibilità di tale tutela, in primo luogo con la stessa natura coercitiva ed urgente del provvedimento - la quale realizza una soggezione al medico, estesa e non revocabile per volontà del paziente -, ma anche, e per via mediata, con la sua primaria e necessaria funzione terapeutica. Infatti proprio il fatto che al Trattamento sanitario obbligatorio sia "coessenziale l'esistenza e la possibilità di un programma di cura", può aprire la strada a qualsiasi iniziativa e legittimare ogni intervento, anche limitativo dei diritti della persona. Ciò perché "lo scopo positivo di curare consente di superare i limiti comuni dello stato di necessità nel giustificare comportamenti di lesione della personalità altrimenti illeciti" (7). In sostanza le norme volte a tutelare i diritti del malato sarebbero in vigore fino al limite della stretta necessità terapeutica. Il peso che ha nel Trattamento sanitario obbligatorio il superiore scopo di cura potrebbe limitare e condizionare le proclamazioni di libertà della legge. Configurandosi così, in ultima analisi, il rispetto della personalità e dignità del soggetto come un ostacolo alla potestà terapeutica, anziché come il suo fine.

Più in generale bisogna domandarsi quale sia il contenuto del diritto alla cura, se questo si identifichi anche col recupero della capacità di svolgimento della propria personalità, dunque con la tutela della stessa, oppure se si ponga in conflitto con essa. Se si accetta una definizione ampia di salute, come uno stato che consente un'espansione della personalità, e delle proprie risorse intellettuali e morali, allora lo scopo del trattamento diviene quello di "recuperare, e mantenere vitali... le capacità di espandimento della personalità del paziente nelle relazioni con le cose e con le persone... la preservazione e il recupero delle capacità di esercitare e godere i diritti della personalità" (8). In questo modo la tutela della personalità diviene lo scopo primario del Trattamento sanitario obbligatorio, senza poter più esser limitata.

2. Modalità e luoghi di svolgimento del Trattamento sanitario obbligatorio. Aspetti procedurali

2.1. La continuità terapeutica e i servizi psichiatrici di diagnosi e cura

Riguardo alle modalità di svolgimento del trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale - ispirandosi come già osservato il legislatore del 1978 al principio della cura in libertà dei malati di mente -, l'art. 6 della legge 180 premette che "Gli interventi di cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presidi psichiatrici extra ospedalieri" (così anche l'art. 34 legge 833, con la precisazione che deve essere una legge regionale a disciplinare l'istituzione di tali servizi in strutture dipartimentali). La gestione del disturbo psichiatrico, compresi i casi in cui si renda necessario un Trattamento sanitario obbligatorio, è attribuita quindi a servizi di natura dipartimentale costituiti prima di tutto da strutture territoriali (9).

La proposta di Trattamento sanitario obbligatorio può però prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera. Ma soltanto in presenza di tre requisiti, in mancanza di uno solo dei quali non è più possibile realizzare un Trattamento sanitario obbligatorio: se esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; se gli stessi non vengono accettati dall'infermo e se non vi sono le condizioni per adottare tempestive ed idonee misure extra ospedaliere, dunque soltanto se il servizio territoriale non è in grado di svolgere la sua funzione. In questo caso inoltre la proposta medica motivata deve essere convalidata da parte di un medico della struttura Sanitaria Pubblica (della unità sanitaria locale, come specificato successivamente all'art. 34 della legge 833, oggi azienda sanitaria locale).

Il Trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera si svolge in appositi servizi psichiatrici di diagnosi e cura situati all'interno degli ospedali generali. All'indomani dell'entrata in vigore della legge sorse una disputa in relazione alla collocazione spaziali di tali servizi. Alcuni ritenevano che i posti letto del servizio dovessero essere sparsi nei vari reparti dell'ospedale. Tuttavia tale versione non ha avuto alcun seguito: ovunque oggi i servizi psichiatrici di diagnosi e cura risultano strutturati spazialmente in maniera autonoma rispetto alle altre parti dell'ospedale.

A questo proposito può osservarsi come, sia la legge 180 (art. 6, 3º comma) che la legge 833 (art. 34 ultimo comma) si preoccupassero (dopo aver demandato alle Regioni l'individuazione degli ospedali generali nei quali dovevano essere istituiti i servizi psichiatrici di diagnosi e cura) di configurare il servizio psichiatrico di diagnosi e cura non come una struttura ospedaliera a sé stante, ma piuttosto come parte integrante della struttura dipartimentale della salute mentale comprendente anche, e, nell'ottica del legislatore del 1978 direi soprattutto, le strutture extra ospedaliere. Tale collegamento è stato deciso allo scopo di garantire una continuità terapeutica fra le strutture e gli operatori impegnati sui due fronti (ospedaliero ed extra ospedaliero) e nel territorio, quest'ultimo inteso come dimensione entro cui analizzare, riconoscere e dare risposte il più possibile esaustive e non frammentate alle esigenze del disagio psichico. Secondo gli addetti ai lavori tale continuità può rendere meno traumatica un'eventuale ospedalizzazione, la quale di per sé rappresenta comunque un momento delicato, determinando un'interruzione del vivere e delle relazioni sociali quotidiane. Una simile frattura può essere attenuata se gli stessi operatori che si occupano del paziente nella fase territoriale, continuano a farlo durante la degenza, risparmiando così al paziente anche la sensazione di essere "scaricato". (10)

Nelle previsioni del legislatore dunque, alla decretata chiusura dei manicomi si accompagna la parallela apertura di centri e servizi di assistenza distribuiti sul territorio e con competenza multidisciplinare, con il compito di rendere effettivo il processo di deospedalizzazione. In questo progetto, tra l'altro, c'è chi ha voluto intravedere un mutamento del ruolo dello psichiatra, non più detentore "di un sapere infallibile e oligarchico", bensì tecnico che interviene assieme a una pluralità di operatori al momento della identificazione della malattia, ma anche nelle varie fasi terapeutiche e di prevenzione che si hanno a livello quotidiano, e su di un piano sociale più vasto. (11)

Inoltre, nell'intento di evitare di ricreare all'interno dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura dei "piccoli manicomi", nuove strutture "totalizzanti" negli ospedali stessi, la legge 180, all'art. 6 afferma che i tali servizi non devono avere un numero di posti letto superiore a 15 (la legge 833 all'art 34, inoltre, e fermo restando il limite massimo fissato dalla 180, demanda al piano sanitario regionale, adottato ogni tre anni dal consiglio regionale, la determinazione del numero dei posti letto (12)) e, all'art. 7, specifica che ai servizi di diagnosi e cura è addetto personale degli ospedali psichiatrici (13) e dei servizi e presidi psichiatrici pubblici extra ospedalieri. Vale a dire, si tende a non creare una équipe ospedaliera autonoma, come sarebbe il caso di una divisione ospedaliera, cioè un reparto con la propria organizzazione interna, il suo primario, ma una situazione aperta ad interventi extra ospedalieri. Del resto il legislatore su questo punto è stato esplicito, dopo aver affermato infatti che "...Le Regioni...attuano il graduale superamento degli ospedali psichiatrici e la diversa utilizzazione delle strutture esistenti e di quelli in via di completamento" aggiunge "...È in ogni caso vietato costruire nuovi ospedali psichiatrici, utilizzare quelli attualmente esistenti come divisioni specialistiche psichiatriche di ospedali generali, istituire negli ospedali generali divisioni o sezioni psichiatriche e utilizzare come tali divisioni o sezioni neurologiche o neuropsichiatriche..." (art. 7, legge 180).

2.2. Il procedimento

Sempre a garanzia dei diritti fondamentali del cittadino, il legislatore ha inoltre avuto cura di definire dettagliatamente l'iter procedurale che deve essere messo in moto nel caso in cui si renda necessario un Trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale. Quanto con la vecchia legge era facile far scattare il meccanismo del ricovero coatto, quanto oggi è complicato e macchinoso (secondo alcuni anche troppo) ottenere tale provvedimento.

Di segno fortemente innovativo e garantista è l'intervento del sindaco, volto, nelle intenzioni del legislatore, a connotare ulteriormente la problematica della malattia mentale in senso terapeutico-sanitario e non più come una questione di pubblica sicurezza (14).

Come sottolineato in precedenza, la vecchia legge conferiva il potere di disporre il ricovero in manicomio all'autorità giudiziaria, nella figura del pretore quando autorizzato in via provvisoria, e del tribunale nell'ipotesi di ricovero definitivo. Nei casi di urgenza, era addirittura l'autorità di pubblica sicurezza a ordinarlo. Attraverso il nuovo procedimento di Trattamento sanitario obbligatorio il ricovero per malattia mentale viene a collocarsi nella sfera sanitaria, svincolandosi così, su di un piano formale, da qualsivoglia collegamento con ambiti di altra natura, precipuamente dall'area della pubblica sicurezza. Inequivocabilmente la legge attribuisce al sindaco che dispone il provvedimento la veste di "autorità sanitaria locale" (art. 1 comma 6, legge 180 ed art. 33 comma 3, legge 833). La formulazione adottata non risulta tuttavia sufficiente a spazzare il campo da qualsiasi ambiguità. Invero bisogna domandarsi quali e di che tipo siano le funzioni e le competenze conferite al sindaco in materia sanitaria, in particolare se l'emanazione del Trattamento sanitario obbligatorio rientri nelle competenze che egli esercita quale capo dell'amministrazione comunale o in qualità di ufficiale di governo. La legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, non offre delucidazioni, limitandosi ad affermare, all'art. 13, che i Comuni esercitano le funzioni amministrative in materia di assistenza sanitaria ed ospedaliera, non espressamente riservate allo Stato ed alle Regioni, mediante le USL e "ferme restando le attribuzioni di ciascun sindaco quale autorità sanitaria locale". Essa, certo, non fa altro che confermare una competenza in campo sanitario del sindaco avente origini remote (Regio Decreto 27 luglio 1894 n. 1265). Tuttavia è chiaro che la natura di queste funzioni, alla luce dei cambiamenti intervenuti anche a livello normativo negli ultimi decenni, risulta mutata, e su di essa si sono formate opinioni diverse. Alcuni ritengono, appunto, che il sindaco eserciti queste attribuzioni nella sua qualità di ufficiale di Governo (15), altri semplicemente quale autorità sanitaria locale, in relazione ai compiti assegnati ai Comuni nella gestione delle attività di tutela della salute (16). Le differenze - per quel che a noi interessa, sul piano di un provvedimento di Trattamento sanitario obbligatorio - non sono trascurabili.

Nella prima ipotesi infatti, in occasione di un Trattamento sanitario obbligatorio il sindaco eserciterebbe attribuzioni a lui assegnate nell'ambito di funzioni e servizi di competenza statale. Non a caso l'art 38 dell'Ordinamento delle autonomie locali (legge 8 giugno 1990 n. 142), intitolato "Attribuzioni del sindaco nei servizi di competenza statale", così dispone: "Il sindaco, quale ufficiale del Governo, sovraintende:

  1. alla tenuta dei registri di stato civile e di popolazione ed agli adempimenti demandatigli dalle leggi in materia elettorale, di leva militare e di statistica;
  2. alla emanazione degli atti che gli sono attribuiti dalle leggi e dai regolamenti in materia di ordine e sicurezza pubblica, di sanità e di igiene pubblica;
  3. allo svolgimento, in materia di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria, delle funzioni affidategli dalla legge;
  4. alla vigilanza su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l'ordine pubblico, informandone il prefetto.".

L'atto amministrativo attraverso il quale il sindaco esercita i suoi poteri nel suddetto ambito di funzioni e servizi di competenza statale, ogni qual volta egli debba imporre ad un soggetto un determinato comportamento - come in occasione di un Trattamento sanitario obbligatorio -, è l'ordinanza. Non scordiamoci che esercitando il potere di ordinanza, e soltanto attraverso l'esercizio di tale potestà attribuitagli in via esclusiva, il sindaco può far sorgere nei confronti di un cittadino un obbligo la cui inosservanza determina una sanzione. Obbligo che, in ultima analisi, trova la sua legittimità nella circostanza che il sindaco, nella veste di ufficiale di governo, risulta essere il soggetto chiamato ad esprimere e soddisfare un'esigenza, ancora una volta, di mantenimento dell'ordine e dell'equilibrio sociale. Esigenza dunque sottostante anche ad un provvedimento sanitario come il Trattamento sanitario obbligatorio. Non a caso, il sù citato art. 38 accomuna le attribuzioni in materia di ordine e sicurezza pubblica a quelle sanitarie, ponendole così sullo stesso piano.

In definitiva quindi, pur andando sicuramente oltre le originarie intenzioni del legislatore del 1978, si chiederebbe al sindaco, in qualità di garante dell'ordine e della sicurezza della comunità, di intervenire con l'ordinanza di Trattamento sanitario obbligatorio negli stessi casi e per le stesse esigenze in relazione alle quali interveniva l'autorità giudiziaria nella precedente legislazione: la garanzia di una pace, di una normalità e tranquillità sociale che la comunità non vuole più turbate da elementi di disturbo come i malati di mente.

Qualora invece giungessimo alla conclusione che il sindaco, adottando un ordinanza di Trattamento sanitario obbligatorio, agisce semplicemente in qualità di autorità sanitaria locale ed in quanto capo e rappresentante della comunità (17), allora, il suo intervento, almeno sulla carta, potrebbe connotare in senso terapeutico-sanitario, e non più custodialistico-punitivo, il relativo procedimento. In quest'ultimo caso la contemporanea presenza del sindaco e di figure sanitarie sarebbe volta a realizzare fra il primo e le seconde una sorta di reciproca collaborazione e controllo, ovvero il sindaco, attraverso una verifica sulla regolarità formale della proposta del medico, garantirebbe contro eventuali abusi "sanitari". D'altra parte, non avendo egli gli strumenti per entrare nel merito dell'effettiva sussistenza dei presupposti del trattamento, si servirebbe allo scopo della USL, la quale, chiamata a convalidare la suddetta proposta, assumerebbe le vesti di strumento tecnico utilizzato dal sindaco al fine di acquisire tutti gli elementi di valutazione necessari per giustificare l'esercizio delle sue competenze (18).

Sennonché, anche avallando una simile interpretazione, rimane la possibilità di legittimare un intervento sanitario coercitivo invocando semplicemente la necessità di tutelare un interesse pubblico della collettività per conto della quale - per l'appunto - il sindaco agisce proprio in tale ambito. Anzi, a maggior ragione l'obbligo derivante dal provvedimento di Trattamento sanitario obbligatorio troverebbe la sua legittimazione nel fatto che il sindaco si configura come il soggetto al quale i cittadini attribuiscono funzioni di rappresentanza generale. Un ruolo, quello di capo e rappresentante diretto della comunità, consolidato e rafforzato dalla recente introduzione dell'elezione diretta del primo cittadino, e che, soprattutto nei piccoli Comuni, potrebbe influire non poco sulle decisioni di ricovero nella direzione di determinarne un aumento a fronte delle pressioni esercitate da una cittadinanza che manifesti insofferenza al problema. Se così fosse in definitiva l'inserimento del sindaco nel procedimento di ricovero in Trattamento sanitario obbligatorio, contemplato proprio al fine di attribuire a tale procedimento una nuova connotazione, di tipo amministrativo-sanitaria, non riuscirebbe ad incidere concretamente su una realtà caratterizzata ancora da diffidenza ed insofferenza.

Ad ogni modo, corredato dalla convalida del medico della struttura sanitaria pubblica il provvedimento del sindaco (da emanarsi entro 48 ore dal suddetto atto di convalida, secondo la puntualizzazione fornita dall'art. 35, comma 1, legge 833) deve essere notificato, entro 48 ore dal ricovero, al giudice tutelare, il quale, entro le successive 48 ore, "assunte le informazioni e disposti gli eventuali accertamenti" (art. 3, legge 180/78 ed art. 35 legge 833/78), può convalidarlo o meno con decreto motivato. In caso di mancata convalida il sindaco deve disporre immediatamente la cessazione del Trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera.

Taluno ha inteso vedere nell'art. 3 un tentativo di imitazione del procedimento descritto dall'art. 13, comma 3 della Costituzione in tema di restrizioni provvisorie alla libertà personale. In particolare, il termine di quarantotto ore previsto dalla stessa lettera della legge per la notificazione del provvedimento del sindaco al giudice, ed entro il quale quest'ultimo deve convalidare il provvedimento del primo, ricalcherebbe gli stessi termini richiesti dal comma 3 dell'art. 13 Cost (19). Questo perché, pur essendosi abbandonato il fine di difesa sociale nei confronti dei malati di mente (da realizzarsi attraverso la loro custodia), resta il fatto che i Trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera comportano comunque, ed in concreto, una limitazione della libertà personale, con conseguente e necessario intervento dell'autorità giudiziaria. Contrasta con una simile lettura la tesi di coloro che, arrivando a negare qualsivoglia collegamento fra le due norme, sottolineano come "le misure previste dal secondo comma dell'art. 13 sono indirizzate a fini di difesa sociale contro forme di devianza sociale" (20), non così i Trattamenti sanitari obbligatori misure esclusivamente sanitarie, nelle quali sarebbe quindi assente quella forma di stigma sociale che accompagna i provvedimenti contro la criminalità. Ed ancora affermano che "la vera e sostanziale garanzia che si prospetta come limite al potere impositivo della legge di obbligare il soggetto a sottoporsi ad un determinato trattamento sanitario è costituita dal rispetto della persona umana", così come sancito dalla Costituzione e dalla stessa legge 180. D'altra parte, "la stessa imposizione del trattamento sanitario costituisce una chiara specificazione del diritto alla tutela della salute previsto dal comma 1 dell'art. 32", e dunque "l'obbligo si specifica come strumento per la realizzazione del diritto", ricavandosi così un ulteriore limite al Trattamento sanitario obbligatorio, il quale non può essere imposto a meno che non sia volto a favorire direttamente la salute del singolo che è chiamato a subirlo (21).

In questa versione interpretativa dunque, l'intervento dell'autorità giudiziaria contemplato dall'art. 3, sarebbe sì volto ad impedire restrizioni della libertà personale, ma non in quanto insite e connaturali ad un Trattamento sanitario obbligatorio (se così fosse allora il provvedimento dovrebbe essere adottato direttamente dall'autorità giudiziaria come in precedenza previsto), piuttosto perché esse potrebbero delinearsi come diretta conseguenza di un Trattamento sanitario obbligatorio adottato in assenza dei rigidi presupposti di cui all'art. 2. Ecco perché il giudice tutelare non interviene nella fase dispositiva del ricovero (riservata alla competenza dei sanitari e del sindaco), quanto invece soltanto una volta che l'internamento in ospedale si sia già verificato, per convalidarlo o meno.

Tuttavia è innegabile una certa ambiguità di fondo presente in questa parte della legge, e più in generale in un provvedimento così ambivalente come il Trattamento sanitario obbligatorio. Nella stessa relazione del Presidente del Consiglio di presentazione alla legge 180, dopo aver affermato che l'organo investito del potere decisionale in occasione di un Trattamento sanitario obbligatorio, essendo "il fine da perseguire un'esigenza propriamente sanitaria", non può essere che sanitario e non giudiziario (ovvero "al momento, il sindaco nella sua qualità di autorità sanitaria"), si sottolinea la previsione normativa di garanzie giurisdizionali riguardanti "più propriamente gli effetti sulla libertà personale che conseguono al trattamento obbligatorio" (22), confermando implicitamente la "doppiezza" sottostante ad un simile intervento, la cui natura sanitaria non elimina inevitabili restrizioni alla libertà dell'individuo.

Continuando nella definizione del procedimento relativo al trattamento obbligatorio ospedaliero, l'art. 3 comma 5 obbliga il sanitario responsabile del servizio psichiatrico a comunicare al sindaco, in caso di dimissione del ricoverato, la cessazione delle condizioni che richiedono l'obbligo del trattamento. Non solo. Lo stesso iter deve essere percorso ogni qual volta sopraggiunga il convincimento dell'impossibilità di proseguire utilmente il trattamento. È stato osservato in proposito come, data l'elasticità della formula, in questa indicazione dovrebbero rientrare "tutte quelle forme di infermità psichica per le quali anche il trattamento in condizioni di degenza ospedaliera non può più apportare apprezzabili miglioramenti" (23). In questo senso è rintracciabile nella norma il proposito di evitare che i nuovi servizi psichiatrici diventino, come in passato, luoghi di ricovero per lungodegenti.

L'intento di porre fine alla vergogna degli internamenti definitivi contemplati nella precedente normativa, è comunque specificatamente perseguito e realizzato dal legislatore, fissando la durata massima del Trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera nel termine di sette giorni. Termine sì prolungabile, ma soltanto in presenza di una proposta motivata del sanitario responsabile del servizio psichiatrico di diagnosi e cura comunicata al sindaco che ha disposto il ricovero, la quale indichi la ulteriore durata presumibile del trattamento, e che peraltro fa scattare nuovamente il procedimento appena descritto (art. 3, comma 4 legge 180/78 e art. 35, comma 4 e 5 legge 833/78).

3. Il giudice tutelare, il problema dell'amministrazione dei beni dell'infermo

3.1. Ruolo e funzioni

L'autorità giudiziaria, nella figura del giudice tutelare, è chiamata a conoscere il provvedimento coattivo di cura, nonché a svolgere rispetto ad esso una funzione di controllo, quest'ultima - come precisato - volta a verificare l'assoluta necessità terapeutica del Trattamento sanitario obbligatorio e l'effettiva presenza dei requisiti fissati nell'art. 2 comma 2. La legge 180 non ha quindi conferito al giudice alcun potere decisorio in ordine al trattamento sanitario. Ciò non toglie che, al momento di emettere il decreto di convalida o di non convalida, egli sia chiamato a entrare nel merito del provvedimento, non limitandosi ad esercitare un controllo puramente formale.

In concreto, ed in vista dell'accertamento dei presupposti di legge, il giudice può sentire tutte le persone in grado di fornire notizie utili sulla malattia mentale del soggetto, e/o disporre una perizia psichiatrica (per forza di cose sommaria visti i tempi stretti fissati per la convalida).

La prospettiva dunque è senza dubbio mutata, il provvedimento col quale si autorizza il ricovero non è più un atto dell'autorità giudiziaria, come stabilito nella vecchia legislazione manicomiale, ma al contrario, essendone mutate le finalità (terapeutiche e non custodialistiche), riservato alla competenza di un'autorità sanitaria (medici e sindaco, anche se quest'ultimo, solo in astratto e su di un piano formale, può considerarsi tale).

In verità sul punto il legislatore sembra aver adottato una soluzione di compromesso. Infatti, pur non avendo riconosciuto una gestione totalmente ed esclusivamente sanitaria del trattamento sanitario degli infermi di mente, configura la fase iniziale e dispositiva del procedimento di Trattamento sanitario obbligatorio come dominata dalle determinazioni dell'autorità sanitaria. Al contempo tuttavia, ponendosi un problema di tutela della libertà della persona, attribuisce al giudice tutelare un potere di controllo esercitabile sui comportamenti e le determinazioni degli organi sanitari, e volto ad evitarne possibili abusi.

Il ruolo assunto dal giudice tutelare nell'ambito degli accertamenti e trattamenti sanitari per malattie mentali, merita un'ultima considerazione. Non può certo considerarsi casuale la scelta, operata dalla legge 180, di una simile figura, preposta, ex art. 344 cod. civ., a sovraintendere alle tutele e alle curatele, in un collegamento diretto con gli organi della pubblica amministrazione, e perciò particolarmente indicata (o comunque meglio di altri organi giurisdizionali) a conoscere di esperienze umane così delicate.

Nello stesso senso la relazione di presentazione alla legge:

"La scelta del giudice tutelare non è senza significato: anzitutto si è fatto riferimento a una categoria di magistrati che è presente capillarmente sul territorio: inoltre nel trattamento sanitario obbligatorio si è voluto vedere non tanto una limitazione della libertà del singolo cittadino quanto piuttosto una misura sanitaria. Sarà il giudice tutelare, che è competente per la tutela dei minori, degli interdetti, degli inabilitati e degli incapaci, a valutare l'opportunità di adottare i provvedimenti urgenti che possono occorrere per conservare e amministrare il patrimonio dell'infermo" (24).

3.2. L'applicazione dell'art. 3, comma 6, della legge 180

Allo scopo di fornire al soggetto posto in Trattamento sanitario obbligatorio un'adeguata tutela del suo patrimonio, l'art. 3, comma 6 (poi confluito nell'art. 35, comma 6, della legge 833) attribuisce al giudice tutelare ampi poteri di intervento in materia di amministrazione dei beni dell'infermo: "Qualora ne sussista la necessità il giudice tutelare adotta i provvedimenti urgenti che possono occorrere per conservare e per amministrare il patrimonio dell'infermo". Una disposizione questa quanto mai opportuna, considerata la pur transitoria compressione della libertà personale derivante dal Trattamento sanitario obbligatorio e l'eventualità che il soggetto nel corso del trattamento, a causa delle sue condizioni di salute, non sia in grado di provvedere adeguatamente ai propri interessi.

L'elasticità della formula utilizzata, consente l'adozione di tutti quei provvedimenti che di volta in volta, ed in relazione alla natura del patrimonio dell'infermo, nonché della durata del ricovero e delle circostanze che lo determinano, si presentano idonei ad evitare dispersioni, deterioramenti o danneggiamenti. Il giudice potrà disporre così la nomina di un curatore provvisorio, il cui ufficio è sicuramente di natura temporanea e circoscritto al compimento di atti di ordinaria amministrazione. Un provvedimento questo, che in nessun modo potrà incidere sulla capacità di agire dell'infermo, non implicando alcun giudizio sulla sua idoneità a realizzare i propri interessi, ma rientrando al contrario fra le misure di tipo patrimoniale che il giudice può adottare pur sempre in un quadro di tutela della salute psichica del soggetto. Per quanto concerne invece la conservazione, il giudice potrà ordinare l'apposizione di sigilli, nelle forme dell'art. 752 ss del cod. proc. civ., allo scopo di immobilizzare provvisoriamente elementi del patrimonio suscettibili di dispersioni, od ancora disporre l'inventario degli stessi in vista del medesimo scopo (ai sensi dell'art. 769 ss del cod. proc. civ.). (25)

Sennonché l'operatività dell'art. 3 comma 6 risulta condizionata al fatto che un Trattamento sanitario obbligatorio sia in corso. Allo stesso tempo, come sappiamo, il legislatore del 1978 ha avuto cura di abrogare l'art. 420 del cod. civ. (nomina di un tutore provvisorio in caso di internamento definitivo in ospedale psichiatrico).

Il rischio allora, per tante persone, è di risultare privi di un sostegno legale in materia patrimoniale nei periodi di maggior fragilità psichica, e di rimanere contemporaneamente in balia di una gestione svolta in linea di fatto da congiunti ed amici, nell'assenza di un qualsiasi controllo.

È necessario ricordare che la disciplina vigente in materia di amministrazione dei beni dell'infermo di mente (identificandosi fra l'altro, attraverso un rinvio operato dal legislatore all'art. 424, con quella prevista in materia di tutela di minori), si preoccupa di proteggere soltanto il malato di mente che sia stato dichiarato interdetto attraverso una sentenza (26).

D'altra parte il processo e la sentenza di interdizione possono rallentare o addirittura compromettere il recupero psicologico della persona. La tendenza a configurare ormai come del tutto eccezionale il ricorso nella pratica a tali istituti (interdizione, ma anche inabilitazione), deriva da un diffuso giudizio negativo espresso da qualche tempo sul loro conto. Se ne criticano soprattutto gli aspetti limitativi, ossia le gravi restrizioni a diritti personali che ne derivano (ad esempio in materia di matrimonio, art. 85 cod. civ.) e che nei fatti realizzano una sorte di "morte civile". In definitiva questa loro connotazione si pone in contrasto con la prospettiva di una vita non emarginata ed inserita nel tessuto sociale, così come delineata dalla legge 180 (27).

Detto questo resta l'esigenza di evitare di creare "un vuoto protettivo" intorno al malato mentale non sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio, cercando il più possibile di conciliare le opposte esigenze in gioco: la volontà di evitare la traumatica "condanna" dell'interdizione da una parte, la necessità di provvedere agli interessi patrimoniali del soggetto, allo scopo di prevenire anche eventuali abusi di terzi (non necessariamente estranei) dall'altra.

Proprio in quest'ottica hanno operato alcuni giudici tutelari (28) i quali, attraverso un'interpretazione estensiva dell'art. 6, hanno provveduto a nominare ex officio un rappresentante occasionale (ossia inoperante per la maggior parte del tempo, e chiamato a svolgere per conto dell'infermo soltanto le attività che questi non è, in quel momento, in grado di compiere da solo) ad infermi psichici pur capaci legalmente e non assoggettati a Trattamento sanitario obbligatorio.

Questa linea di intervento è condivisa da chi ha interpretato da sempre l'art. 3, comma 6, come una norma avente "valore generale", applicabile cioè "anche alle ipotesi di trattamento volontario, nonché alle situazioni in cui nessuna terapia sia in atto", e "benché le norme di cui sopra siano previste solo con riferimento ad un trattamento sanitario in corso" (29). Interpretazione questa resa necessaria dalla esistenza di una notevole lacuna in materia, imputabile al legislatore della riforma psichiatrica.

Tuttavia non è mancato chi ha sottolineato i rischi che da simili decisioni possono derivare, ovvero favorire l'instaurazione ed il mantenimento a tempo indeterminato di tutele in questo modo non più provvisorie. In sostanza potrebbero realizzarsi ancora limitazioni di fatto alla capacità di agire, senza che al contempo siano stabilite, su di un piano normativo, garanzie per quel che riguarda la definizione e l'accertamento dei presupposti dell'intervento (30).

In definitiva le carenze della legge in materia di amministrazione dei beni dell'infermo, inducono a ritenere opportuna l'introduzione di una espressa previsione normativa volta a colmare i vuoti lasciati dalla 180. Sarebbe necessario creare uno strumento meno rigido dell'interdizione (soprattutto privo degli stessi costi sociali ed umani), ma in grado di fornire una effettiva e tempestiva tutela a chi non è in grado di provvedere a sé stesso, ponendo fine così ad una prassi instauratasi forzando i confini della legge e dunque rischiosa.

Qualche spunto lo si potrebbe forse trarre dal sistema di protezione degli incapaci introdotto in Francia attraverso la legge del 3 gennaio 1968, numero 68-5. Tale legge protegge chi, per "maladie, infirmitè, affaiblissement dû à l'âge", subisca un'alterazione delle facoltà mentali o fisiche che gli impedisce la manifestazione della propria volontà, rendendolo perciò bisognoso "d'être protegé dans les actes de la vie civile" (artt. 490 e 491 Code civil). La suddetta protezione si concretizza non soltanto nella previsione dei tradizionali istituti della tutela e della curatela (rispettivamente artt. 492 e 508 Code civil). La riforma ha infatti affiancato ad essi un terzo strumento assolutamente nuovo, la sauvegarde de justice (art. 491 Code civil). Con essa vengono tutelati, in via temporanea, tutti quei soggetti che subiscono alterazioni delle facoltà mentali, aventi diversa origine (ad esempio malattia, età), soggetti non incapaci legalmente, ma, in quanto deboli, ugualmente protetti. La sauvegarde de justice si instaura agilmente sulla base di una semplice dichiarazione resa al procuratore della repubblica, e senza che da essa derivi una perdita della capacità d'agire. In concreto ciò significa che l'individuo potrà continuare a compiere direttamente gli atti della vita civile, potendosi eventualmente intervenire in caso di lesione, attraverso l'esercizio di un'azione di rescissione, o di riduzione della prestazione sproporzionata, e dietro valutazione discrezionale delle circostanze concrete da parte del giudice. Ma l'originalità dell'istituto risiede piuttosto nella previsione, parallelamente alla legittimazione diretta del soggetto protetto al compimento dell'atto, di una legittimazione simultanea (ma alternativa) in capo ad altre persone (coloro che avrebbero potuto richiedere l'interdizione, il direttore della struttura che ha in cura l'infermo, colui che lo ospita nel suo domicilio), senza che un loro intervento determini una limitazione di capacità dell'interessato.

Nell'esperienza francese viene dunque abbandonato, almeno in tale caso, l'imprescindibile legame fra accesso al regime di protezione e pronuncia di incapacità, e ciò attraverso la creazione istituzionale di una figura di "protettore naturale", che con la sua attività (che ha il diritto ma anche, ed in relazione alle circostanze, l'obbligo di compiere) si affianca alla persona protetta, non escludendone la capacità (31).

4. Questioni interpretative sulla disciplina del Trattamento sanitario obbligatorio

La complessità del procedimento da attivare per ottenere un Trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale in condizioni di degenza ospedaliera, ha sollevato perplessità e reazioni contrastanti. In particolare ne è stata sottolineata l'eccessiva lunghezza e macchinosità, nonché la concentrazione di troppo potere decisionale nelle mani delle autorità amministrative piuttosto che in quelle dei sanitari.

Bisogna non scordare tuttavia che i numerosi oneri burocratici imposti dalla legge, riflettono la preoccupazione di evitare un ricorso sproporzionato al Trattamento sanitario obbligatorio che ne snaturerebbe la natura di extrema ratio, di strumento terapeutico attivabile soltanto quando tutti i tentativi volti ad ottenere un consenso del paziente alle cure siano falliti, e non di fronte a situazioni di urgenza, che per carenze organizzative o per incapacità dei servizi territoriali, non si è in grado di gestire diversamente. Non solo. Il legislatore ha voluto circondare tale misura di tutta una serie di garanzie, anche procedimentali, percependo i connotati del tutto peculiari di un simile intervento sanitario, volto a curare non un apparato o un organo, ma una persona nella sua interezza, i suoi comportamenti e atteggiamenti, pur sempre espressione di quelle libertà tutelate con forza dalla Costituzione. Un provvedimento dunque, il Trattamento sanitario obbligatorio, che viene ad incidere drammaticamente sulla libertà del soggetto e la cui adozione quindi non può non essere accompagnata da mille cautele ed accorgimenti. Anzi, proprio per questo è stata manifestata la preoccupazione che il ruolo del sindaco nel disporre il ricovero, soprattutto nelle grandi città, sia meramente burocratico senza che sia svolto un effettivo controllo sulla procedura, risolvendosi il tutto al riempire moduli "preconfezionati" (32).

Strettamente connesse alla questione della complessità del procedimento di Trattamento sanitario obbligatorio, sono le critiche mosse all'assoluta brevità del periodo automatico di durata del ricovero (sette giorni), giudicata insufficiente per avviare un progetto terapeutico adeguato, col rischio che si aggredisca l'infermo con dosi massicce di psicofarmaci, per ottenere i massimi risultati nel minor tempo possibile. È vero che il sanitario responsabile del servizio psichiatrico può chiedere al sindaco una proroga motivata, ma tale richiesta fa scattare nuovamente l'articolato iter burocratico descritto nella legge. La proroga dunque richiede tempi lunghi e risulta esser vincolata più alle necessità burocratiche che a quelle terapeutiche.

In realtà le scelte del legislatore sembrano esser dettate anche questa volta dalla paura di vedere riprodotte situazioni segreganti e isolanti, anzi possiamo affermare che il ricovero di per se stesso è percepito come segregante ed emarginante.

È possibile intravedere a questo punto un elemento di contraddizione nella legge la quale, se da una parte configura l'ospedale generale in cui deve effettuarsi il ricovero non come un luogo d'internamento sostitutivo del manicomio ma soltanto come uno dei settori di intervento collegato con il territorio, dimentica forse la rigida organizzazione e l'isolamento dell'ospedale, la logica del quale rimane quella della netta separazione fra le varie divisioni che lo compongono e fra queste e la società esterna. Il pericolo quindi è quello di spostare, tradendo le intenzioni del legislatore, la centralità dell'intervento psichiatrico dal territorio all'ospedale e di configurare questo come una nuova struttura emarginante e ghettizzante.

4.1. L'esecuzione dell'ordinanza del sindaco

Una delle prime incertezze è stata manifestata in ordine alla questione della esecuzione dell'ordinanza del sindaco che dispone il Trattamento sanitario obbligatorio. La legge non indica infatti chi debba procedervi. In proposito è doveroso rammentare che il Regolamento del 1909 attribuiva espressamente all'autorità di Pubblica Sicurezza "l'avviamento dell'alienato al luogo di cura", in coerenza con la nozione di pericolosità del malato di mente e con l'obiettivo di difesa sociale che sottostavano alla normativa dell'epoca. Il superamento di tale norma da parte della legge 180 è stato sì attuato, ma in termini meramente abrogativi, non essendo stata formulata alcuna soluzione alternativa. Ecco che si sono susseguiti così dubbi, incertezze, interpretazioni e pareri discordanti.

Le posizioni più conservatrici sono state assunte da coloro i quali hanno affermato la natura di operazione di polizia amministrativa del prelevamento coatto del malato di mente, in virtù della natura di provvedimento amministrativo diretto alla generale tutela degli interessi della collettività che riveste il Trattamento sanitario obbligatorio: un'ordinanza emessa dal sindaco quale autorità sanitaria locale. Da combinate disposizioni di legge (DPR 191/1979; DPR 616/1977; L. 382/1975; art. 221 cod. proc. pen.) l'esecuzione di un provvedimento sanitario emesso dal sindaco, quale il Trattamento sanitario obbligatorio, si profilerebbe come compito della polizia municipale. Pertanto, al personale dei servizi psichiatrici, dovrebbero affiancarsi sempre i vigili urbani.

Questa è comunque l'opinione, occorre sottolinearlo, di chi vede nel trattamento sanitario obbligatorio un intervento con un duplice obiettivo: terapeutico (realizzato questo dunque attraverso l'équipe psichiatrica) e costrittivo, in sostanza ancora di difesa sociale (ecco quindi fornita la giustificazione all'intervento, non eventuale ma necessario e concorrente con quello del personale sanitario, della polizia municipale, corpo peraltro poco caratterizzato in senso repressivo) (33). O comunque di chi ritiene che in questa fase di accompagnamento dell'infermo di mente al luogo di cura si esplichi, non un'attività sanitaria, ma di tutela della sicurezza dei cittadini (34).

Nello stesso senso ma più pacatamente, è stato sottolineato che l'esecuzione di un'ordinanza non si configura come un atto sanitario e che dunque il personale di cui si deve servire il sindaco non è individuabile in via esclusiva fra quello sanitario. In particolare, qualora ogni intervento del personale sanitario si mostri vano, rendendosi necessario l'uso della coazione fisica per vincere la resistenza opposta dal paziente, subentra la competenza della polizia municipale, tenendo presente che anche in questo momento, così come durante tutta l'esecuzione dell'ordinanza, la presenza del personale del servizio psichiatrico resta obbligatoria, a perenne garanzia della tutela della salute dell'interessato (35).

Il Pretore di Monfalcone, poco più di un anno dopo l'emanazione della legge 180, chiamato a pronunciarsi su un caso di imputazione del reato di rifiuto di atti di ufficio, di cui all'art. 328 del cod.pen., avverso un vigile che aveva omesso di dare esecuzione a un'ordinanza del sindaco riguardante un Trattamento sanitario obbligatorio (esecuzione che implicava un costringimento fisico nei confronti della paziente che si rifiutava di salire in ambulanza), ha affermato che la competenza in ordine al prelievo e all'accompagnamento al luogo di cura del paziente psichiatrico sottoposto a Trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera, atto questo non più di polizia, ma mera operazione sanitaria, è del personale medico ed infermieristico, anche nel caso si renda necessario il ricorso a forme di coercizione fisica. Si potrà ricorrere, in via del tutto eccezionale, alla Forza Pubblica (intesa sempre come Polizia Municipale), soltanto se si profila la commissione di qualche grave reato o un serio perturbamento dell'ordine pubblico da parte del malato, che metta a repentaglio l'incolumità e la sicurezza dei consociati. D'altra parte, qualora l'uso di mezzi coercitivi si renda necessario, il personale psichiatrico non può e non deve esser lasciato solo, altrimenti si rischierebbe di restituirgli quei poteri coattivi, di tutela dell'ordine pubblico, quindi extra sanitari, che gli conferiva la vecchia legislazione. Questa è la soluzione più coerente, sostiene il pretore, con lo spirito della legge del 1978, la quale ha ripudiato ogni presunzione assoluta di pericolosità del malato e ogni conseguente affidamento della materia alla competenza della Polizia di Sicurezza. A sostegno di tale decisione il pretore cita un parere emesso dall'Avvocatura dello Stato nell'ottobre del 1979 in merito ad un quesito posto dal Ministero degli Interni (Direzione Generale di Pubblica Sicurezza) volto a definire a chi spetta, a seguito della nuova normativa psichiatrica il compito dell'avviamento dell'alienato al luogo di cura.

D'altra parte, si aggiunge nella sentenza, la suddetta legge ha voluto restituire all'infermo di mente il suo status giuridico-sociale di persona ammalata, e perciò configura l'intervento del sindaco come intervento di un'autorità sanitaria. Conseguentemente anche il prelievo e il trasporto del malato di mente deve intendersi come un'operazione sanitaria a tutela della salute del malato stesso, che il personale sanitario meglio di chiunque altro è in grado di effettuare. (36)

La pronuncia del Pretore di Monfalcone si dimostra particolarmente interessante, non soltanto perché risulta essere l'unica concernente la spinosa questione dell'esecuzione del provvedimento di Trattamento sanitario obbligatorio, ma anche e soprattutto perché fondamentalmente disattesa nella pratica. Come vedremo infatti normalmente l'ordinanza di ricovero viene eseguita dai vigili. Il sindaco non si serve della polizia municipale, soltanto di fronte a soggetti particolarmente tranquilli che vengono accompagnati in ospedale dal personale sanitario o dai familiari. Caso, quest'ultimo, abbastanza raro, considerati i presupposti di un Trattamento sanitario obbligatorio, un provvedimento al quale si ricorre in circostanze drammatiche ed in presenza di situazioni familiari esasperate.

4.2. Il problema della contenzione fisica e della sorveglianza nel corso di un Trattamento sanitario obbligatorio

La necessità di un chiarimento si è sentita anche riguardo ad un'altra questione "scottante", ovvero quella della possibilità o meno di usare mezzi di coercizione fisica, laddove si rendano necessari, durante il Trattamento sanitario obbligatorio.

I dubbi sono sorti per il fatto che, al contrario della vecchia legislazione che nelle disposizioni di attuazione disciplinava nei dettagli tale aspetto, la nuova legge tace sul punto. Al riguardo deve osservarsi fra l'altro che il regolamento del 1909 conteneva sulla questione disposizioni sorprendentemente illuminate, rispetto alla legge 36/1904. All'art 60 affermava infatti: "nei manicomi devono essere aboliti o ridotti ai casi assolutamente eccezionali i mezzi di coercizione degli infermi e non possono essere usati se non con l'autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell'istituto". Sta di fatto comunque che tale normativa, anche se in via del tutto eccezionale, permetteva la contenzione fisica e di essa si faceva largo uso. Ma oggi, considerato il silenzio delle nuove disposizioni, tutto ciò deve ritenersi ancora possibile?

Le interpretazioni sono divergenti. Ad alcuni, avendo la legge 180 abolito gli articoli qualificanti della legge del 1904, nonché gli articoli del cod.pen. e cod.civ. collegati, parrebbe ovvio e consequenziale sostenere la tacita abrogazione anche del regolamento di attuazione della stessa legge, visto e considerato inoltre che la nuova normativa si è preoccupata anche di garantire i diritti civili e politici del paziente in Trattamento sanitario obbligatorio, nonché la sua dignità umana, e la possibilità di comunicare con chi desideri (37).

C'è anche chi però, appellandosi allo "stato di necessità" nel quale possono trovarsi in situazioni particolarmente drammatiche gli psichiatri dei servizi di diagnosi e cura, riconosce loro il potere di decidere l'uso di tali misure mediante l'impiego di strumenti farmacologici o fisici. Precisando peraltro che deve essere una ponderata valutazione del bilancio rischio-beneficio, indicazioni-controindicazioni, a guidare la decisione dello psichiatra, e che sono sempre queste ultime a dover essere più attentamente soppesate. Senza scordare infine che ogni eventuale responsabilità per effetti dannosi in capo al paziente ricade sul medico stesso (38).

Come si vede dunque un chiarimento risulterebbe opportuno su una questione così delicata e che può prestarsi anche a strumentalizzazioni pericolose.

A tale problema è ricollegabile tra l'altro un ulteriore tema spinoso e anch'esso aperto a interpretazioni che possono rivelarsi dannose per il paziente, ovvero quello delle misure di sorveglianza da applicarsi al malato in Trattamento sanitario obbligatorio. Invocando infatti "giustificati motivi di carattere prettamente sanitario" nonché il loro essere legate "alla peculiare dimensione terapeutica della malattia mentale", si è definita irrinunciabile l'adozione di tali misure, pur ammettendo l'assenza dei relativi presupposti normativi che le consentirebbero (39).

Sennonché, traendo spunto dalla caduta della presunzione assoluta di pericolosità del paziente implicita nella abrogazione della precedente legislazione di stampo custodialistico sui malati di mente, è oggi opinione diffusa che una sorveglianza non sia più ipotizzabile. Tuttavia, è stato osservato come la riforma psichiatrica, pur avendo indubbiamente eliminato un obbligo istituzionale di sorveglianza nei confronti della categoria dei malati di mente in quanto tale e perché tale, non abbia sorpassato del tutto una simile eventualità. Infatti, l'abbandono della idea di una pericolosità insita e connaturata nella malattia mentale, non comporta il superamento della necessità sociale di arginare situazioni di crisi, accessi di aggressività o autodistruttivi del malato di mente; ciò che riconoscerebbe anche la legge sancendo (pur sulla base di presupposti almeno sulla carta diversi) la possibilità di interventi terapeutici coattivi.

Si è detto: i malati di mente, così come tutti gli altri soggetti per cause diverse, sono potenzialmente in grado di attentare a situazioni giuridiche protette di altri. In questo modo la malattia mentale costituirebbe non più la fonte diretta, ma la causa indiretta di un obbligo di sorveglianza che troverebbe il suo fondamento giuridico proprio nella possibilità, sancita dalla legge, di un intervento sanitario impositivo come il Trattamento sanitario obbligatorio. Invero, è indubbio che l'adempimento di un simile obbligo di sorveglianza non possa non tradursi in misure di limitazione della libertà di movimento e di azione del malato, così come risulta palese la volontà del legislatore di configurare la libertà ed il consenso del malato come la norma. Tuttavia è la legge stessa che consente, sia pure eccezionalmente ed in presenza di precisi requisiti (mancanza del consenso al trattamento, impotenza terapeutica dei presidi extraospedalieri, alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici) restrizioni alla libertà personale, ammettendo infatti in tali circostanze un Trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera (40).

Emerge dunque attraverso una lettura non superficiale delle norme in materia di Trattamento sanitario obbligatorio, la possibilità di trovare un fondamento giuridico, sia pure in via mediata, al dovere-obbligo di sorveglianza nei confronti del malato. La giustificazione, sia pure indiretta, di tali misure risiederebbe in un ragionamento sottostante in modo latente alla legge: il ricorrere dei presupposti descritti prevarrebbe sulla libertà del malato, rendendo praticabile un trattamento obbligatorio, e specularmente l'adozione di misure di sorveglianza.

Accettando comunque una simile interpretazione, dovrebbe al contempo invocarsi una regolamentazione nei dettagli dei casi e dei modi di esercizio di una tale sorveglianza, allo scopo di evitare ogni abuso e forma di sopraffazione, così frequenti in passato.

5. Forme di tutela amministrativa e giurisdizionale previste dalla legge 180

5.1. La revoca e la modifica del provvedimento di Trattamento sanitario obbligatorio

L'art. 4 della legge 180, predisponendo una tutela di tipo tecnico-amministrativo in favore dei soggetti sottoposti a Trattamento sanitario obbligatorio, denota un carattere fortemente innovativo. Nella precedente legislazione l'unica forma di tutela contro ricoveri ritenuti indebiti, era infatti rappresentata da un'azione esercitabile di fronte all'autorità giudiziaria ad opera di "qualunque cittadino" (art. 70, R.D. 1909). Una tutela dunque di ordine giurisdizionale. Sennonché la novità delineata dall'art. 4 risiede proprio nell'aver contemplato - accanto naturalmente alla possibilità di un regolare ricorso all'autorità giurisdizionale, previsto questo all'art. 5 - un'istanza di riesame da rivolgersi allo stesso soggetto cui è imputabile il provvedimento dispositivo del ricovero, ovvero il sindaco.

Così il suddetto articolo: "Chiunque può rivolgere al sindaco richiesta di revoca o di modifica del provvedimento con il quale è stato disposto o prolungato il trattamento sanitario obbligatorio". In base ad esso, in qualsiasi momento - ovvero sia prima che dopo il decreto di convalida del giudice tutelare -, e senza che sia prescritto il compimento di particolari formalità, chiunque può rivolgersi direttamente al sindaco chiedendo la caducazione totale (revoca), o la modificazione (essenzialmente la riduzione o l'ulteriore prolungamento del provvedimento con il quale è già stato autorizzato il prolungamento del trattamento (41)) del provvedimento di Trattamento sanitario obbligatorio. La legittimazione attiva è conferita dalla legge a "chiunque" ed il sindaco è chiamato a pronunciarsi sull'istanza entro 10 giorni.

L'articolo, di portata apparentemente onnicomprensiva, si adatta particolarmente ai trattamenti obbligatori per malattia mentale, quasi che il legislatore formulandolo avesse avuto in mente proprio i problemi che da questi possono sorgere (42). È opinione diffusa infatti che così come risulta particolarmente difficile l'accertamento diagnostico dei disturbi psichici, altrettanto ardua si configura la determinazione della loro durata. Non a caso, come abbiamo visto, il legislatore all'art. 3 permette un prolungamento del Trattamento sanitario obbligatorio, ed all'art. 4, avendo presente tali difficoltà diagnostiche, nonché l'evoluzione spesso discontinua del disturbo mentale, prevede una richiesta di modifica del medesimo provvedimento di prolungamento.

La norma si conclude con una precisazione: "I provvedimenti di revoca e di modifica sono adottati con lo stesso procedimento del provvedimento revocato o modificato". Perciò se, ad esempio, oggetto dell'istanza è un Trattamento sanitario obbligatorio ospedaliero disposto per malattia mentale, affinché questa venga accolta dovrà aversi, in primo luogo la certificazione medica motivata in punto delle ragioni di revoca o di modifica, il successivo atto di convalida del medico della USL, ed infine il decreto di convalida del giudice, naturalmente nei tempi e nelle forme di cui all'art. 3.

5.2. La tutela giurisdizionale

In una legge, come la 180, preoccupata di fornire al cittadino sottoposto in via coercitiva ad un trattamento sanitario una tutela il più possibile completa, non poteva mancare la previsione di adeguate garanzie di tipo giurisdizionale. A ciò provvede puntualmente l'art. 5 riconoscendo, a "chi è sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio" ed a "chiunque vi abbia interesse", il diritto di ricorrere al tribunale competente per territorio (cioè al tribunale nel cui circondario ha sede il giudice tutelare) contro il provvedimento di Trattamento sanitario obbligatorio convalidato dal giudice tutelare.

Il secondo comma attribuisce analogo potere di ricorso al sindaco, ovviamente avverso l'opposto decreto di mancata convalida del provvedimento di ricovero da lui emesso.

Riguardo ai provvedimenti suscettibili di ricorso peraltro occorre aggiungere che, praticamente dal momento dell'entrata in vigore della legge, l'opinione prevalente è sempre stata quella di ritenere opportuna un'interpretazione estensiva della legge sul punto, nonostante la formula restrittiva scelta dal legislatore (43). Vale a dire, deve considerarsi sicuramente soggetto a reclamo il provvedimento convalidato che autorizza il prolungamento della degenza ospedaliera, e, sulla base di un'interpretazione ancor più ampia, anche il decreto con il quale il giudice dichiara di non convalidare il suddetto provvedimento di prolungamento (44). L'assunto dal quale partono simili interpretazioni è che, trattandosi di misure che incidono sul medesimo tipo di interessi, non dovrebbero esservi ostacoli ad ammettere anche nei loro confronti la tutela di cui all'art. 5. In particolare, anche nell'ipotesi in cui nel corso dei "canonici" sette giorni di trattamento sanitario obbligatorio non emergano interessi contrari al ricovero, questi potrebbero ugualmente (ed anzi a maggior ragione) sopraggiungere in fase di prolungamento della terapia.

I soggetti legittimati al reclamo sono individuati, oltreché naturalmente nel destinatario del provvedimento, in "chiunque vi abbia interesse". Rispetto alle istanze di revoca o di modifica, di cui all'art. 4, il legislatore ha dunque scelto di restringere la cerchia della legittimazione attiva nell'ambito della tutela giurisdizionale. In concreto possono presentare ricorso coloro che dal ricovero dell'infermo, e dalla conseguente limitazione di libertà del medesimo, ricevono un pregiudizio, per cui ad esempio il coniuge; o il legale rappresentante (genitore o tutore); ed ancora il pubblico ministero, il cui interesse nasce dall'obbligo posto a suo carico dall'art. 73 dell'ordinamento giudiziario, di vegliare alla tutela degli incapaci.

Ma di grande interesse è la prevista possibilità per il sindaco di avvalersi della tutela giurisdizionale ex art. 5. In proposito è stato evidenziato come, nel caso del primo comma (ricorso dell'interessato e di altri legittimati avverso il provvedimento di ricovero), emerga l'intenzione del legislatore di proteggere l'interesse dell'infermo a non subire trattamenti sanitari obbligatori in assenza dei presupposti di legge, o comunque quando questi siano venuti a mancare. Al contrario attraverso l'attribuzione al sindaco del potere di ricorso si vuole non sottovalutare "gli interessi della collettività", operando dunque ed in ultima analisi la tutela giurisdizionale dell'art. 5 "sul duplice fronte della protezione dell'individuo e degli interessi sociali connessi con la malattia" (45).

Per concludere merita attenzione la natura del procedimento di reclamo che si svolge avanti il tribunale. La normativa in questo caso, ispirandosi a criteri di grande semplicità, non ha inteso disegnare aprioristicamente l'iter processuale, ma al contrario offrire al giudice la possibilità di adattare le diverse fasi alle molteplici necessità ed esigenze che in concreto, e di volta in volta, si presentano.

In primo luogo le parti possono stare in giudizio senza ministero di difensore e farsi rappresentare da persona munita di mandato che agisce quindi in nome e per conto del ricorrente. Anche con riguardo allo svolgimento dell'udienza di comparizione non vengono prescritte particolari formalità, il tribunale potrà ammettere o non ammettere le prove richieste dalle parti, assumere le informazioni che ritiene necessarie (ad esempio dai medici curanti), disporre eventuali prove d'ufficio, come una perizia psichiatrica o testimonianze che appaiono utili in seguito alle informazioni assunte. Infine, derogando espressamente al principio per cui al giudice ordinario è vietato annullare, revocare, sospendere atti amministrativi, la legge, al comma 5 dell'art. 5, attribuisce al presidente, acquisito il provvedimento che ha disposto il Trattamento sanitario obbligatorio e sentito il pubblico ministero, il potere di sospendere il trattamento anche prima dell'udienza di comparizione delle parti. Qualora invece il tribunale accolga il reclamo contro il provvedimento di Trattamento sanitario obbligatorio convalidato dal giudice tutelare (ritenendone insussistenti i presupposti di legge), vi è chi ritiene che esso non possa comunque annullarlo (in mancanza di una espressa disposizione contraria che deroghi al principio relativo agli atti amministrativi, come fa il comma 5 in riferimento all'ipotesi di sospensione), dovendo al contrario revocare il decreto emesso dal giudice tutelare, con conseguente obbligo per il sindaco di ordinare l'immediata cessazione del trattamento, rimasto ormai senza titolo (46).

6. L'abbandono del concetto di pericolosità. I criteri guida nel procedimento di Trattamento sanitario obbligatorio ospedaliero

Come si vede il punto di rottura assoluta con la normativa precedente è rappresentato dall'abbandono della nozione di pericolosità, quale criterio per decidere il ricovero d'autorità, pericolosità rigettata perché sentita come qualcosa di profondamente stigmatizzante nei confronti dell'individuo. Scompare così ogni accenno ad essa. Ciò che determina l'intervento è la malattia, e l'intervento di conseguenza non può essere se non terapeutico, il paziente viene ricoverato soltanto nei casi in cui ciò sia giudicato necessario per la sua salute e non per una presunta condizione di pericolosità sociale. Ma non solo. Occorre fare molta attenzione a questo punto, infatti secondo la legge non è neanche la gravità della malattia e lo stato di emergenza che essa può provocare a far scattare il meccanismo del Trattamento sanitario obbligatorio, o quantomeno ciò non basta. Il Trattamento sanitario obbligatorio avviene per l'esistenza di alterazioni psichiche di grado tale da richiedere un trattamento urgente e se tale trattamento viene rifiutato dal paziente. Il meccanismo scatta dunque con il rifiuto del paziente a sottoporsi a quei trattamenti in quel momento ritenuti necessari dai sanitari: se la persona accetta di essere curata non può essere posta in Trattamento sanitario obbligatorio.

Il problema dell'individuazione dei soggetti legittimati a consentire, verosimilmente allo scopo di non sminuire in alcun modo la perentorietà del principio del consenso, non è stato affrontato dal legislatore. Tuttavia, nel silenzio delle disposizioni, si deve ritenere che soltanto l'individuo destinatario del trattamento sia legittimato in tal senso, e che in alcun modo il consenso espresso da altre persone vicine all'interessato, congiunti o amici, possa dirsi sostitutivo e perciò sufficiente (47).

Il fatto che fra le condizioni richieste dalla legge per procedere ad un Trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera vi sia la presenza di "alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici" (art. 2, legge 180/1978), pone tuttavia il problema, di non poco conto, di definire l'area delle urgenze in psichiatria. È stata proprio la riforma psichiatrica a sollevare una serie di riflessioni e studi sul tema.

Ora, la terminologia medica distingue tra: un'emergenza, la quale richiede un pronto intervento, ma un'assistenza meno immediata, in quanto legata a situazioni di disagio e di disadattamento sociale che devono trovare una risposta al di fuori di quella psichiatrica; e un'urgenza, ovvero una situazione di sofferenza psichica acuta e grave che necessita di un intervento diagnostico e terapeutico immediato. Si è tentato tuttavia, e sempre nell'ottica delle diverse competenze e risposte terapeutiche da dare, di distinguere ulteriormente all'interno della generica categoria delle urgenze, quelle legate a un quadro psicopatologico - quali ad esempio disturbi depressivi, maniacali, d'ansia, scompensi deliranti - che necessitano di risposta psichiatrica (di vario tipo: terapia farmacologica; psicoterapia; proposta di ricovero e, soltanto come ultima spiaggia, il Trattamento sanitario obbligatorio), e quelle che richiedono invece una risposta socio-ambientale e/o assistenziale (non dunque un Trattamento sanitario obbligatorio ospedaliero o extraospedaliero), quali possono essere le situazioni psichiatriche croniche ma non acute, o le patologie organiche neurologiche (48).

Le definizioni di carattere più generico che ho esposto prima sono quelle condivise, seppur con diverse sfumature, da alcuni dei maggiori studiosi del settore (49). Le divergenze peraltro non mancano, o meglio, è stato sottolineato il valore meramente accademico (o l'inesistenza, almeno in psichiatria) della distinzione - e delle conseguenti definizioni - fra emergenza ed urgenza, sostenendo che nella pratica poi il problema che si pone di fronte ad una richiesta di aiuto, è soltanto e comunque quello di dare una risposta immediata, di tamponare una situazione di tensione nel gruppo di appartenenza, pur in mancanza di quei sintomi che rientrano in senso stretto nell'urgenza (50).

Ma l'elemento più inquietante è l'insinuazione più o meno velata dell'operare nella realtà dei fatti, e nella pratica quotidiana, non più del criterio della pericolosità (o per lo meno non sempre), quanto di un nuovo parametro per valutare l'urgenza e stabilire il limite oltre il quale inoltrare una proposta di Trattamento sanitario obbligatorio: il grado di sopportazione e il quoziente di tolleranza esistente rispetto al soggetto nel suo ambiente. Non a caso ciò che sembra caratterizzare la richiesta di trattamento sanitario obbligatorio non è tanto il quadro clinico, quanto piuttosto aspetti socio-ambientali-relazionali di forte tensione ed insofferenza. L'urgenza psichiatrica, a differenza di quella medica, nascerebbe in stretta correlazione al contesto ambientale, in specie familiare, nel senso che, minore è la tolleranza e l'aiuto fornito da tale contesto, maggiori sono le probabilità che una condizione psichiatrica si trasformi in un'urgenza. Ecco il motivo per cui sovente il ricovero potrebbe rappresentare una risposta soprattutto alle richieste di aiuto provenienti dalle persone vicine al paziente e/o una via di uscita alle inadeguatezze del servizio psichiatrico territoriale.

Una simile preoccupazione è stata manifestata da chi, quotidianamente e nell'ambito dei servizi psichiatrici, si trova a dover fronteggiare tali richieste e inadeguatezze. I due aspetti -insofferenza sociale e familiare, inefficienza e carenza delle strutture extraospedaliere - risultano in concreto strettamente collegati. Entrambe si incrociano, alimentandosi reciprocamente, nel contesto di una applicazione distorta e strumentale della legge. Viene denunciato come in Italia, nella messa in atto della riforma e dei suoi principi, si sia posto esclusivamente attenzione "in modo assolutamente ambiguo e perverso, da un lato alla garanzia della libertà personale (non intervento) ed, all'estremo opposto, al trattamento sanitario obbligatorio. A ciò corrisponde la proliferazione dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura e la scarsa realizzazione dei servizi territoriali integrati. Questo perché, nel nostro paese, come già da tempo ad esempio negli Stati Uniti, le modalità attraverso cui si pone attenzione al malato di mente sembrano soggiacere ad un sistema binario." Ovvero "Da un lato il non intervento, l'abbandono", i quali determinano fra l'altro l'esclusione dalla famiglia, dal contesto sociale o dal lavoro, "dall'altro, ove l'abbandono conduca a situazioni di allarme sociale, di attentato alla proprietà privata, di disturbo alle altrui libertà, scatta l'intervento di legge coattivo, repressivo, o comunque lesivo della libertà individuali" (51).

In ultima analisi tutto ciò mostrerebbe come la sensibilità sociale rispetto al problema dei malati di mente, già compromessa da una secolare tradizione di emarginazione e segregazione anche all'interno dei nuclei familiari interessati, risulti oggi (e nonostante la 180) sicuramente trasformata, ma forse non sempre nella direzione auspicata dal legislatore.

I dubbi sollevati si inseriscono ed investono un problema più ampio. La lotta alle istituzioni manicomiali trova in questa legge la sua massima espressione: non si tratta di riformarle, modificarle, migliorarle, ma semplicemente di abolirle, esse ricevono una condanna senza appello. In un solo colpo si ribalta la logica precedente: si supera ogni concezione custodialistica della malattia mentale, si abbandona ogni motivo funzionale di difesa sociale, passando invece alla predisposizione di strutture e servizi territoriali che consentano al cittadino di vivere il proprio disagio e sofferenza psichica, mantenendo i legami con quella società di cui resta un membro.

A questo punto è giusto chiedersi però se tale volontà si è realmente realizzata, in quali forme e in che misura, se lo spirito del legislatore del 1978 è stato tradito o rispettato. Forse, possiamo dirlo fin da ora, tale legge (fondata su presupposti troppo radicali, o che comunque la cultura del nostro paese non era ancora sufficientemente pronta ad accogliere, in quanto avrebbero messo in discussione vecchie certezze scientifiche e consolidati equilibri sociali (52)), ha avuto la velleità di chiudere un discorso lungo e sofferto una volta per tutte, in un solo colpo. O forse ad essa è stato chiesto troppo, di essere esaustiva e risolutiva, dimenticando che le leggi non sono che strumenti rimessi nelle mani ed alla volontà di chi è chiamato ad applicarle. Così si esprimeva lo stesso Franco Basaglia, poco più di un anno dopo l'entrata in vigore della legge 180:

"...le leggi non risolvono i problemi, ma servono semmai a definire i principi ed a suggerire i criteri per la loro soluzione pratica... All'indomani della legge il mondo non è cambiato: da quel momento in poi spetta ai tecnici, agli amministratori, ai politici, il compito di mutare lo stato di cose presenti alla luce dei nuovi principi" (53).

7. Conclusioni

La legge 180/1978 ha suscitato infiniti dibattiti, scontri e conflitti, è stata oggetto, a fasi alterne, di mitizzazioni o demonizzazioni.

Il suo indiscusso carattere rivoluzionario richiedeva un mutamento radicale non solo in termini di competenze, poteri, strutture dell'assistenza psichiatrica e dell'organizzazione sanitaria in genere, ma anche, ed insieme, dei soggetti e delle culture. Tuttavia i tempi necessari a produrre cambiamenti di questo tipo sono molto spesso più lunghi di quelli richiesti per modificare una legge. È lecito e doveroso domandarsi se il modo di pensare intorno alla malattia mentale, sottostante la precedente normativa ed impostato sulla paura ed esclusione di chi ne è affetto, possa considerarsi del tutto superato; se il paradigma della pericolosità che guidava la decisione sull'internamento permanga negli episodi della vita quotidiana (ad esempio nel mondo del lavoro), o anche nel disporre un Trattamento sanitario obbligatorio (si è detto infatti: non si costituisce un obbligo se non al momento in cui si pensa che la sua inosservanza costituisca un pericolo per sé o per gli altri).

Proprio in riferimento al Trattamento sanitario obbligatorio deve osservarsi che in esso convivono due dimensioni solitamente separate perché conflittuali: le garanzie giuridiche e i diritti della persona da una parte, e il bisogno urgente di cure che il servizio ha il dovere di soddisfare dall'altra. Ed ancora, il divieto di internamento e di coazione, insieme all'obbligo di intervenire. Questa difficile compresenza determinata dal legislatore configura il Trattamento sanitario obbligatorio come un intervento terapeutico problematico, conflittuale ed aperto ad una serie di rischi vecchi e nuovi.

A distanza di quasi venti anni dall'apertura di una nuova fase nell'assistenza psichiatrica, cresce sempre più l'esigenza di valutare e stimare i risultati raggiunti nell'ambito dei servizi territoriali ed extraospedalieri sostituitisi all'istituzione manicomiale. Nell'ambito di alcuni dei suddetti servizi in questi anni sono nati dei veri e propri "laboratori psichiatrici", luoghi di studio e di sviluppo di nuove idee e pratiche di intervento, dirette a privilegiare una dimensione preventiva e di promozione della salute mentale.

D'altra parte, come già osservato, sarebbe un grave errore credere che con la scomparsa del manicomio si assista necessariamente alla fine delle logiche e delle dinamiche di esclusione e di violenza che si perpetravano al suo interno. Il pericolo del riprodursi di tali meccanismi nell'ambito dei nuovi servizi psichiatrici ospedalieri ed extraospedalieri, sussiste. Non solo, il sistema manicomiale può ricrearsi, con manifestazioni diverse, in qualunque struttura organizzativa della società: in un ospedale, attraverso la contenzione, la somministrazione massiccia di psicofarmaci, la chiusura degli spazi; in un gruppo appartamento, nel quale si impone comunque una convivenza forzata così come avveniva in manicomio; ma anche in una famiglia, nei casi in cui essa non sia in grado o non voglia affrontare un disagio psichico esistente al suo interno che rompendo l'equilibrio familiare, si preferisce rimuovere o soffocare attraverso l'occultamento, la repressione, l'emarginazione o, peggio, la contenzione e la violenza.

Note

1. Malattia mentale e malattia infettiva, nella loro totale diversità, sono sempre state accomunate in quanto considerate un pericolo per la comunità. In entrambe i casi il medico ha un duplice dovere da assolvere: proteggere e curare il paziente, proteggere la comunità. Vedi E. Goffman, Asylums, cit., p. 360.

2. L. Bruscuglia, Legge 13 maggio 1978, n.180, in Le nuove leggi civili commentate, I, 1979, Cedam, Padova, 1979, p. 187.

3. L. Bruscuglia, Legge 13 maggio 1978, cit., p. 188.

4. Naturalmente soltanto dopo aver disposto l'abrogazione espressa degli articoli 1, 2, 3 e 3-bis della legge 36/1904, gli stessi oggetto della richiesta del referendum abrogativo indetto pochi mesi prima. Vedi § 4.1., cap. II.

5. Cfr. § 9.2., cap. II.

6. L. Bruscuglia, Legge 13 maggio 1978, n.180, cit., p. 215.

7. P. Zatti, Infermità di mente e diritti fondamentali della persona, in P. Cendon (a cura di), Un altro diritto per il malato di mente, cit., p. 111.

8. P. Zatti, Infermità di mente e diritti fondamentali della persona, in P. Cendon (a cura di), Un altro diritto per il malato di mente, cit., p. 119.

9. Sul punto (svolgimento del trattamento sanitario obbligatorio anche in strutture extraospedaliere) la legge in verità può prestarsi a letture diverse. L'interpretazione ormai prevalente è comunque quella di ritenere possibile un trattamento sanitario obbligatorio extraospedaliero, nonostante la legge non ne faccia esplicita e diretta menzione e pur non avendone regolato nei dettagli gli aspetti formali. Ciò sulla base di un'attenta lettura degli articoli n. 1 comma 3º legge 180/1978, e n. 33 comma 4º legge 833/1978, nella parte in cui affermano "Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori...sono attuati dai presidi sanitari pubblici territoriali e, ove necessiti la degenza, nelle strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate.". Vedi R. Catanesi, O. Greco, Responsabilità professionale, a cura di A. Pazzagli, in P. Pancheri, G.B. Cassano (coordinatori), Trattato italiano di psichiatria, cit., pp. 2841-2855, i quali fra l'altro, riferendosi al problema della definizione dei requisiti necessari per attuare un trattamento sanitario obbligatorio extraospedaliero, precisano: "A nostro avviso ad esso può farsi ricorso allorquando, pur presenti le condizioni richieste per il trattamento sanitario obbligatorio in regime di degenza ospedaliera, sia possibile attuare i necessari interventi in via extraospedaliera, ovvero ambulatoriale o domiciliare".

10. A.Brignone, Le situazioni di crisi in psichiatria, ETS, Pisa, 1990, p. 92.

11. P. Cendon Il prezzo della follia, cit., p. 82.

12. L'attuale piano sanitario regionale della Toscana stabilisce un rapporto n. posti letto/abitanti pari a 0,6/10.000.

13. Individuare il personale dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura anche in quello degli ospedali psichiatrici ha significato per quest'ultimo realizzare un difficile passaggio, da un'attività improntata in senso custodialistico ad una effettiva attività terapeutica, rispetto al quale spesso si è trovato tecnicamente e culturalmente impreparato. Allo scopo di prevenire e fronteggiare, anche se soltanto in parte, tali disagi, opportunamente, la legge di riforma sanitaria, pochi mesi dopo, precisa: "...la Regione provvede all'aggiornamento e alla riqualificazione del personale infermieristico, nella previsione del superamento degli ospedali psichiatrici ed in vista delle nuove funzioni di tale personale nel complesso dei servizi per la tutela della salute mentale delle unità sanitarie locali" (art. 64 comma 8).

14. In questo senso si è pronunciata anche la Corte Costituzionale in una sentenza emessa a fronte di una questione di costituzionalità sollevata con ricorso dal Presidente della Giunta provinciale di Bolzano, intorno agli art. 2 ultimo comma, 3 commi, 3, 4 e 5, 4, 5 comma 2 e 8 commi 2 e 3 della legge 180, per preteso contrasto con l'art. 20 stat. T.A.A. In quella occasione la Corte, volendo sottolineare il "mutamento profondo intervenuto nella concezione giuridica della malattia mentale" a seguito della legge 180, ha affermato che, proprio la suddetta legge, ha trasformato il trattamento dei malati di mente "da problema di pubblica sicurezza a problema essenzialmente sanitario". "Di conseguenza", ha proseguito la Corte, "mentre i poteri di pubblica sicurezza esercitabili in tale materia si assottigliano enormemente o scompaiono, quelli attinenti agli accertamenti e ai trattamenti sanitari obbligatori vengono riclassificati e attribuiti ai sindaci". Corte Costituzionale, sentenza (11 febbraio) 25 febbraio 1988 n. 211, in Giurisprudenza Costituzionale, vol. I-I, Giuffrè, Milano, 1988, p. 795-800.

15. G.L. Fontana, Legge 23 dicembre 1978, n. 833, in Le nuove leggi civili commentate, II, 1979, Cedam, Padova, 1979, p. 1275.

16. P. Bernacchi, Il servizio sanitario nazionale, in F. Narducci (a cura di), Guida normativa per l'amministrazione locale 1997, vol. II, Editrice CEL, Gorle (BG), 1996, p. 1831-1900.

17. P. Bernacchi, Il servizio sanitario nazionale, cit. p. 1889.

18. P. Bernacchi, Il servizio sanitario nazionale, cit., p. 1834. Tuttavia ho verificato come nella prassi tali accertamenti e valutazioni non vengano mai compiute: né dal medico che emette il certificato di convalida, né dal sindaco che al momento in cui dispone con ordinanza il ricovero. Vedi § 3, cap. IV.

19. In questo senso C. Castronovo, La legge 180, la Costituzione e il dopo, in P. Cendon (a cura di), Un altro diritto per il malato di mente, cit., p. 207, ed anche G. L. Fontana, Legge 23 dicembre 1978, n.833, cit., p. 1265. Contra: F. D. Busnelli, U. Breccia, Il diritto alla salute, Zanichelli, Bologna, 1979, i quali, ponendosi su un piano più generale di rapporto fra il comma 2, art. 32 della Costituz. e l'art. 13 della Cost., ritengono "inopportuno" un collegamento fra le due disposizioni, parlando la prima di trattamento obbligatorio a tutela della salute, e riferendosi la seconda alla detenzione, ispezione e perquisizione personale.

20. D. Vincenzi Amato, Commento al 2º comma dell'art. 32, in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli, Bologna, 1976, p. 170.

21. F. D. Busnelli, U. Breccia, Il diritto alla salute, cit., pp. 106-107.

22. Relazione Andreotti, Presidente Consiglio Ministri, in La legislazione italiana: 1978, cit., pp. 53-54.

23. L. Bruscuglia, Legge 13 maggio 1978, n.180, cit., p.195.

24. Relazione Andreotti, Presidente Consiglio Ministri, in La legislazione Italiana: 1978, cit., p.54.

25. L. Buscuglia, Legge 13 maggio 1978, n.180, cit., p. 198. G.L. Fontana, Legge 23 dicembre 1978, n.833, cit., p. 1272.

26. È pur vero che il giudice dopo l'esame dell'interdicendo, quindi prima della sentenza, può nominare un tutore provvisorio (art. 419, comma 3, cod. civ.). Tuttavia anteriormente al giudizio di interdizione non sussiste alcuna tutela, se non quella in negativo apprestata dall'art. 428 cod. civ.: "Gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se non risulta un grave pregiudizio all'autore".

27. Cfr. § 9.2., cap. II.

28. Attraverso una lettura estensiva dell'art. 3, comma 6, il giudice tutelare di Milano, ha realizzato pur in assenza di un trattamento sanitario obbligatorio, "una specie di gestione utile previamente autorizzata e controllata" da lui stesso (così definita da E. Ceccarelli, L'applicazione dell'art. 6, 6º comma, l. 180/78, in P. Cendon (a cura di), Un altro diritto diritto per il malato di mente, cit., pp. 434-435.). Essenzialmente attraverso autorizzazioni a svolgere per conto di altri atti di ordinaria amministrazione (ad esempio la riscossione della pensione), nonché di straordinaria amministrazione (come divisioni ereditarie o vendite di immobili), ed in entrambe i casi con obbligo di rendiconto (annuale nel primo caso, ogni due mesi nel secondo), egli, come altri giudici, ha dato vita ad una situazione giuridica nuova e di difficile inquadramento teorico.

29. P. Cendon, Il prezzo della follia, cit., p. 102.

30. E. Ceccarelli, L'applicazione dell'art. 3, 6º comma, l. 180/78, in P. Cendon (a cura di) Un altro diritto per il malato di mente, cit., p. 435.

31. F. D. Busnelli, U. Breccia, Il diritto alla salute, cit., p. 138-139. L. Bruscuglia, G. Del Medico, G. Germano, F. Giardina, L'amministrazione dei beni nella protezione del malato, in P. Cendon (a cura di), Un altro diritto per il malato di mente, cit., pp. 445-446-447.

32. Cfr. § 3, cap. IV.

33. F. Buzzi, "Questioni medico-legali e profili di responsabilità nel trattamento sanitario obbligatorio del malato di mente", in Archivio di Medicina Legale e delle Assicurazioni, 7, 1985, p. 32-51. E. Palermo, "Brevi note sulla natura giuridica del provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio per persona affetta da malattia mentale", in Rivista Italiana di Medicina Legale, III, 1981, pp. 337-346.

34. L. Fiorini, La polizia municipale, in Guida normativa per l'amministrazione locale 1997, vol. II, Editrice CEL, Gorle (BG), 1996, p. 1179.

35. M. Casacchia, G. Colombo, P. Stratta, Psichiatria d'urgenza, a cura di L. Pavan, in P. Pancheri, G.B. Cassano, (Coordinatori), Trattato italiano di psichiatria, cit., pp. 2745-2760.

36. Pretore di Monfalcone, sentenza 2 giugno 1980, n. 160/80, in A. Realdon., "Malati di mente e ricovero coatto". Commento a sentenza, Rivista Italiana di Medicina Legale, 59, 1980, pp. 910-919.

37. V. Volterra, G. Donnini, Legislazione psichiatrica, cit., pp. 2805-2815.

38. F. Buzzi., "Questioni medico-legali e profili di responsabilità nel trattamento sanitario obbligatorio del malato di mente", in Archivio di Medicina Legale e delle Assicurazioni, 7, 1985, p. 32-51.

39. F. Buzzi, "Questioni medico-legali e profili di responsabilità nel trattamento sanitario obbligatorio del malato di mente", in Archivio di Medicina legale e delle Assicurazioni, 7, 1985, p. 40.

40. A. Bregoli, Figure di sorveglianti dell'incapace dopo l'avvento della legge 180, in P. Cendon (a cura di), Un altro diritto per il malato di mente, cit., pp. 827-846.

41. L. Bruscuglia, Legge 13 maggio1978, n.180, cit., p. 199.

42. L. Bruscuglia, Legge 13 maggio 1978, n.180, cit., p. 200.

43. L. Bruscuglia, Legge 13 maggio1978, n.180, cit., p. 201.

44. G.L. Fontana, Legge 23 dicembre1978, n.833, cit., p. 1276.

45. L. Bruscuglia, Legge 13 maggio1978, n.180, cit., pp. 201-202. Ciò fra l'altro rafforzerebbe la tesi di un intervento del sindaco determinato in parte dalle pressioni esercitate dalla comunità che rappresenta.

46. G.L. Fontana, Legge 23 dicembre1978, n.833, cit., pp. 1277-1278.

47. Su una simile conclusione non vi possono essere dubbi, considerato anche l'abbandono, in sede di redazione definitiva del testo della 180, della soluzione adottata nel progetto di riforma sanitaria all'art. 30 (oggetto del successivo stralcio). In esso rientravano fra i trattamenti volontari anche quelli richiesti da familiari conviventi dell'infermo, "ove questo non si opponga e risulti evidente la finalità terapeutica della richiesta". (L. Bruscuglia, Legge 13 maggio 1978, n. 180, cit., p. 182).

48. M. Casacchia, G. Colombo, P. Stratta, Psichiatria d'urgenza, cit., pp. 2745-2760.

49. M. Cuzzolaro, L'urgenza in psichiatria, in G. C. Reda (a cura di), Trattato di psichiatria, USES, Firenze, 1982. L. D. Hankoff, Emergency Psychiatric Treatment, C. Thomas Publ., Springfield (II), 1969. L. Ferronato, Meloni G. e altri, Le urgenze in psichiatria, in G. Colombo (a cura di), Urgenze in psichiatria, Cleup, Padova, 1989. M. Casacchia, V. Sconci, Urgenza, emergenza e crisi in psichiatria, in M. Casacchia (a cura di), Urgenze in psichiatria, Masson, Milano, 1990.

50. F. Asioli, Le emergenze in psichiatria, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1984.

51. G. Dell'Acqua, R. Mezzina, M. G. Cogliatti, Lesioni e minacce alla salute psichica, in P. Cendon (a cura di), Un altro diritto per il malato di mente, cit., pp. 808-809.

52. F. Ongaro Basaglia, L'impatto della legge 180 nella cultura nazionale ed internazionele, in P. Cendon (a cura di), Un altro diritto per il malato di mente, cit., pp. 903-970.

53. F. Basaglia, "Il fascino discreto del manicomio", in "La Repubblica" del 16 settembre 1979.