ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo II
Il contesto normativo del trattamento sanitario obbligatorio

Silvia Sbordoni, 1998

1. Premessa

Il 16 maggio 1978 sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica vedeva la luce la legge n. 180, "Accertamenti e trattamenti sanitari volontari ed obbligatori". È a questa data che dobbiamo fare riferimento per affrontare il tema dell'organizzazione psichiatrica pubblica nel nostro paese. Esiste per tutti, operatori del settore e comune cittadino, un prima e un dopo il 1978. La suddetta legge rappresenta infatti uno spartiacque, non soltanto rispetto alle norme e alla prassi precedente, ma anche al sentire comune sulla malattia mentale, nonostante, è opportuno sottolinearlo fin da ora, non abbia incontrato, almeno in un primo momento, l'approvazione incondizionata dell'opinione pubblica, dei familiari dei malati e di alcuni addetti ai lavori.

Essa ha ridisegnato i compiti ed i ruoli della psichiatria, chiamata a darsi una nuova identità, un nuovo mandato di tipo "sanitario" e non più ispirato a preponderanti finalità di ordine pubblico. La legge 180 ha decretato la fine del manicomio, mantenendo tuttavia la possibilità di adottare soluzioni coercitive nei confronti dei malati di mente. Attraverso un Trattamento sanitario obbligatorio, provvedimento adottabile peraltro soltanto in presenza di precisi e rigidi presupposti e solamente rispettando una complessa e dettagliata procedura, è ancora possibile disporre misure restrittive della libertà personale - in particolare il ricovero coatto - nei confronti di un soggetto, il malato di mente, formalmente ritenuto non più pericoloso a sé e agli altri, ma soltanto (al pari degli altri infermi) bisognoso di cure.

Per capire in profondità il senso e la portata della svolta è necessario analizzare l'evoluzione storica in Italia della legislazione psichiatrica.

2. Fondamenti teorici e tratti istituzionali del sistema manicomiale

La legge 13/5/1978, n. 180, ha posto fine al vecchio sistema manicomiale basato essenzialmente sulla legge n. 36 del 14 febbraio 1904, intitolata "Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati". Questa legge infatti, salvo alcune non trascurabili modifiche introdotte nel 1968, regolava ancora l'assistenza psichiatrica nel nostro paese. La normativa del 1904 si ispirava, come del resto le legislazioni psichiatriche elaborate in precedenza negli altri paesi europei, alla legge francese del 1838. Quest'ultima, espressione delle concezioni dello Stato liberale, delineava un sistema a carattere sostanzialmente asilare, basato sull'obbligatorietà del trattamento e sulla nozione di pericolosità sociale dell'infermo di mente. In verità la legge n. 39 già alla sua nascita appariva vecchia: era infatti stata elaborata in un momento in cui, negli altri stati europei, si levavano già le prime voci contro il sistema manicomiale e si tentava il superamento del "modello" francese.

Quali sono i principi informatori di questa legge, espressione delle concezioni psichiatriche dell'epoca?

Essa non si poneva alcun fine terapeutico o riabilitativo, avendo piuttosto un diverso e duplice scopo. Da una parte mantenere e rafforzare una visione custodialistica e segregante della malattia mentale, vista come una realtà da occultare in quanto problema al quale la nostra organizzazione sociale non vuole o non è in grado di dare risposte diverse. Dall'altra fornire strumenti di difesa e controllo sociale verso la stessa, tali da sollevare la società dal peso della presenza di soggetti che, pur non essendosi resi colpevoli di alcunché, suscitano paura e creano disturbo all'ordine costituito.

Il concetto basilare e discriminante sul quale la legge si fondava era quello della pericolosità del malato mentale, o, per usare il linguaggio di allora, dell'alienato. Recitava infatti l'articolo 1: "Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualsiasi causa da alienazione mentale quando siano pericolose a sé o agli altri ...". La pericolosità (verso sé stessi e/o verso gli altri) rimaneva peraltro, senza altre indicazioni, un concetto fin troppo generico.

La nozione di pericolosità si collocava nel quadro di ciò che ha rappresentato, a partire dalla seconda metà del 1800 e fino ai primi anni sessanta di questo secolo, l'ideologia e il modello interpretativo prevalente della patologia psichiatrica, ovvero quello biologico. Tale modello, nella sua formulazione più tradizionale, vede in alterazioni biologiche la causa dei disturbi del comportamento, sottovalutando i fattori psicosociali o interazionali a livello di famiglia, di gruppo o, più in esteso, di società.

Il terzo criterio, che faceva scattare il ricovero d'autorità in manicomio, era quello del "pubblico scandalo", un parametro quindi ancora più soggetto ai condizionamenti culturali e storici, ma soprattutto teoricamente più debole. Proseguiva infatti l'articolo 1 "...o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi..."

Dunque la legge si disinteressava totalmente degli alienati non pericolosi, i quali non avrebbero sì subito alcuna limitazione della propria libertà personale, ma ai quali non veniva riconosciuto neanche alcun diritto terapeutico, nonostante la dichiarata finalità terapeutica della medicina.

A quest'ultimo proposito tuttavia bisogna precisare che la finalità terapeutica ha, fin dalle origini, inciso ben poco sulle decisioni a carattere psichiatrico. Il mandato della psichiatria, influenzata dalle regole e convenzioni sociali più di quanto non accada ad altre discipline della medicina, per molto tempo e prima di tutto, è stato di ordine pubblico e di difesa sociale, piuttosto che terapeutico.

Dalla sua nascita, agli inizi del XIX secolo, fin quasi ad oggi la psichiatria si è occupata del malato soltanto dal momento in cui il suo comportamento diveniva pericoloso. Solo a partire dalla legge n. 431 del 18 marzo 1968, intitolata "Provvidenze per l'assistenza psichiatrica", si riconosce l'opportunità, per chiunque manifesti un disturbo psichico, e, come accade per qualsiasi altro tipo di infermità, di poter chiedere aiuto. L'articolo 4 della suddetta legge infatti affermava che "La ammissione in ospedale psichiatrico può avvenire volontariamente, su richiesta del malato, per accertamento diagnostico e cura, su autorizzazione del medico di guardia...".

Nel corso degli ultimi decenni quindi si è registrato non soltanto un mutamento dell'offerta assistenziale psichiatrica (come vedremo), ma anche della domanda ad essa indirizzata.

Ma come disciplinava l'internamento in manicomio la legge n. 36?

L'ammissione veniva stabilita in via ordinaria dal pretore sulla base di un certificato medico e su richiesta dei parenti, dei tutori, "e di chiunque altro nell'interesse degli infermi e della società" (art. 2, comma 1 e 2). Ma ben più spesso si ricorreva alla procedura del ricovero d'urgenza, così regolamentato: "L'Autorità locale di Pubblica sicurezza può, in caso di urgenza, ordinare il ricovero, in via provvisoria, in base a certificato medico" (art. 2, comma 3), essendo poi obbligata a riferirne entro tre giorni al Procuratore del Re (poi della Repubblica). L'estrema facilità con la quale poteva esser disposto tale ricovero d'urgenza, e la totale assenza di garanzie per il paziente sia prima che durante la procedura di ricovero, spiegano l'abuso che è stato fatto di tale strumento.

Secondo il Regolamento di attuazione uscito, con un certo ritardo, nel 1909 e contenuto nel Regio Decreto n. 615 del 16 agosto del 1909 con il titolo "Regolamento per la esecuzione della legge 14 febbraio 1904 n. 36", il certificato medico che stabiliva la necessità del ricovero doveva essere estremamente dettagliato ed esauriente nell'indicare l'indole dell'infermità mentale, i sintomi, l'origine e il decorso di essa, enunciando "in modo chiaro e particolareggiato" i fatti dai quali "si deduca la manifesta tendenza dell'individuo a commettere violenza contro se stesso o contro altri o ad uscire di pubblico scandalo" (art. 39). Sta di fatto che tale norma era largamente disattesa e i suddetti certificati si riducevano all'indicazione di un generico stato psichico alterato, in particolare la formula più ricorrente era quella di "agitazione psicomotoria" (1).

Ma l'aspetto più inquietante della vecchia legislazione era forse rappresentato dalla assenza di limiti temporali alla degenza. Dopo un periodo massimo di osservazione di circa un mese infatti scattava, su indicazione del direttore, il procedimento giudiziario che internava definitivamente il paziente ed in conseguenza del quale questi perdeva la sua capacità d'agire in senso giuridico. Il ricovero diveniva definitivo con un decreto emesso dal tribunale, che deliberava su iniziativa del procuratore della repubblica, al quale era trasmessa dal direttore del manicomio una relazione sull'infermo in seguito al suddetto periodo di osservazione (art. 2, comma 2, legge 36/1904).

Occorre tener presente inoltre, che alla suddetta legge si affiancarono via via una serie di disposizioni tese a rafforzare il sistema manicomiale: si va dalle norme che introducono l'obbligo, a carico degli esercenti una professione sanitaria, di denunciare all'autorità di P.S. "le persone da loro assistite o esaminate che siano affette da malattie di mente o da gravi infermità psichiche, le quali dimostrino o diano sospetto di essere pericolose a sé e agli altri" (art. 717 cod.pen. ed art. 153 T.U. leggi di P.S.), a quelle che disciplinano la nomina di un tutore provvisorio per il soggetto il quale sia stato internato in un ospedale psichiatrico (art. 420 cod.civ.), fino a quelle disposizioni che sospendono il diritto di voto ai ricoverati (artt. 2 e 3, d. p. r. 20 marzo 1967, n. 223). Inoltre, anche nei rari casi in cui si attivava il procedimento inverso di dimissione, restava comunque traccia indelebile della permanenza in manicomio nel casellario giudiziale della persona. È doveroso ricordare tuttavia che agli effetti discriminatori e stigmatizzanti che seguivano a tale iscrizione, pose fine la legge 18/03/1968, n. 431 abrogando, all'articolo 11, l'articolo 604 del vecchio codice di procedura penale nel quale era previsto l'obbligo dell'annotazione dei provvedimenti di ammissione e di dimissione emessi dal giudice.

Un altro elemento che caratterizzava la degenza e l'organizzazione interna del manicomio era il potere illimitato conferito al direttore dell'istituto, sancito sia dalla legge n. 36 che dal regolamento del 1909. Così l'articolo 4 della legge "Il direttore ha piena autorità sul servizio interno sanitario e l'alta sorveglianza su quello economico per tutto ciò che concerne il trattamento dei malati, ed è responsabile dell'andamento del manicomio e della esecuzione della presente legge nei limiti delle sue attribuzioni. Esercita pure il potere disciplinare nei limiti del seguente articolo...". Il regolamento del 1909, all'articolo 28, ribadiva la posizione di assoluta preminenza del direttore e, all'articolo 34, stabiliva la responsabilità degli infermieri nella sorveglianza dei degenti. Coinvolgimento giuridico quest'ultimo che, fra l'altro, determinò la resistenza degli infermieri stessi nei confronti di tentativi di alcuni medici, operati ancor prima della legge n. 180, di liberalizzare la vita dei degenti.

Per comprendere a fondo il senso e lo spirito di queste disposizioni, bisogna calarsi nella realtà di allora e riflettere sul fatto che esse sono il frutto, in primo luogo dell'atmosfera autoritaria del tempo che induceva ad accomunare il problema dei malati di mente a quello di altri individui socialmente indesiderati come i vagabondi, gli oziosi, gli invalidi, le prostitute, o socialmente pericolosi, come i criminali. Soggetti, questi, che avevano in comune unicamente il dato di un "comportamento abnorme" capace di turbare l'ordine costituito e la tranquillità sociale. A tutto ciò si aggiunge l'influenza della dottrina psichiatrica dell'epoca, dominata, come già osservato, dalla visione organica e biologica del disturbo mentale. In essa dominava incontrastata la nozione di malattia psichica elaborata dalla scienza medica dell'ultimo Ottocento, ossia l'idea della follia come forma di inspiegabile alienazione (nel senso etimologico del termine, di alterità cioè rispetto all'universo delle persone normali), un'idea che vedeva come inscindibilmente legati tra loro disturbo psichico e pericolosità sociale (2). La conseguenza di tutto ciò era rappresentata dal fatto che una parte consistente delle patologie era considerata inarrestabile e inguaribile, e, non essendo conosciuti interventi terapeutici e farmacologici efficaci, il trattamento si riduceva essenzialmente all'internamento e più tardi alle terapie shock.

3. Gli anni cinquanta e sessanta: verso un ripensamento del sistema

3.1. L'introduzione degli psicofarmaci

Intorno agli anni cinquanta i progressi registrati in ambito terapeutico con l'introduzione, nel secondo dopoguerra, degli psicofarmaci (destinati a rivoluzionare ogni concetto prognostico rispetto alle malattie psichiatriche), contribuirono pur timidamente a smuovere le acque e a suscitare le prime reazioni negative nei confronti della legislazione psichiatrica. In particolare il mese di osservazione concesso dalla legge prima dell'internamento definitivo, cominciò ad apparire troppo breve per poter portare a termine una terapia (3).

Si trattò tuttavia di proteste e obiezioni circoscritte all'ambiente professionale. Le discussioni sulla necessità di sostituire al concetto di custodia quello di cura, di introdurre servizi extra ospedalieri, di prevedere un ricovero volontario nell'ospedale psichiatrico, non furono diffuse dagli organi di informazione e non varcarono quindi il confine degli addetti ai lavori (4). Ogni proposta di modifica cadde nel vuoto.

3.2. Gli anni sessanta in Europa e in Italia

A partire dagli anni sessanta si diffondono concezioni della malattia mentale diverse da quelle puramente organicistiche.

In particolare furono riutilizzate in chiave critica, - e insistendo soprattutto sul ruolo fondamentale dei fattori socio-ambientali nella costituzione e sviluppo della personalità - le concezioni psicoanalitiche sviluppatesi negli anni trenta con Freud.

Ma soprattutto iniziò a penetrare anche nel nostro paese il pensiero sociologico americano, tendente a demistificare molti aspetti della psichiatria tradizionale, fortemente critico verso le istituzioni totali, e che per questo offrì nuove spunti e prospettive all'analisi del disturbo psichico, trovandone le radici soprattutto in contraddizioni di ordine sociale.

L'intera Europa è attraversata nel corso di questo decennio da esperienze di psichiatria alternativa di grande valore scientifico, o quanto meno culturale e politico, ed espressione di un travaglio che il mondo dei giovani psichiatri di allora - insoddisfatti della pratica e della cultura psichiatrica ufficiale - attraversava. Basti citare l'antipsichiatria, corrente nata e sviluppatasi in Inghilterra a partire dal 1965 ad opera di un gruppo di psichiatri capeggiati da Ronald Laing, le cui concezioni fondamentali sono: una gestione alternativa della follia che rifiuti ogni distanza fra staff e pazienti ed ogni forma di gerarchizzazione; una spiegazione della stessa in termini psicologici e non più patologici; l'idea che la follia non sia necessariamente qualcosa di negativo che va curato (5).

Oppure pensiamo alla psichiatria di settore sviluppatasi in Francia, la quale, basandosi sul principio della continuità terapeutica, tentò di razionalizzare l'assistenza psichiatrica della città di Parigi suddividendo in parti l'ospedale psichiatrico e facendo corrispondere ad ognuna di esse un territorio. Allo stesso tempo ciascuna circoscrizione veniva dotata di servizi e presidi per la cura, la riabilitazione e la prevenzione.

Nonostante queste esperienze mostrassero comunque una presa di coscienza di come il sistema manicomiale si rivelasse nella pratica strumento di oppressione o, nel migliore dei casi, contenimento della sofferenza psichica, esse non riusciranno tuttavia a intaccare la realtà istituzionale.

In questo fermento culturale si formarono in Italia alcuni isolati gruppi di psichiatri guidati da Franco Basaglia che, insoddisfatti della cultura e della pratica della psichiatria ufficiale, alla fine degli anni sessanta puntarono il dito sull'istituzione manicomiale. Essa - sostenevano - a causa delle condizioni disumane che la caratterizzano, non fa altro che aggravare la sofferenza mentale. Non solo, il fatto che in manicomio siano internate prevalentemente persone appartenenti ai ceti meno abbienti, conferma la funzione di controllo sociale svolta dallo stesso, il suo essere strumento di contenimento non solo della pazzia ma anche della povertà. Riguardo alle origini del disturbo mentale inoltre, questi psichiatri - determinando una feroce reazione da parte della psichiatria tradizionale che accusò loro di scarsa scientificità e sociologismo - rifiutavano nettamente una visione organicistica, sostenendo al contrario l'importanza dell'influenza sociale sulla genesi e sul decorso della malattia.

Sulla base di queste convinzioni essi iniziarono così un'opera di rinnovamento all'interno delle realtà manicomiali. Essa doveva tuttavia configurarsi soltanto come una fase di passaggio verso la totale distruzione istituzionale, ovvero il graduale smantellamento, realizzato a più livelli, del modo di essere e di pensare della società intera intorno alla malattia mentale. L'obiettivo finale non era infatti una politica di semplice deospedalizzazione (ossia una graduale riduzione e poi definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici), quanto piuttosto l'elaborazione di un nuovo modello teorico-pratico d'intervento, implicante l'abbandono del modo di porsi tradizionale della psichiatria e della società di fronte alla malattia, intesa fino a quel momento come un oggetto separato dall'esistenza del paziente e dalla società intera. Questi psichiatri innovatori, in altre parole, sostenevano che su questa separazione artificiale si fosse costruito un insieme di apparati scientifici, legislativi ed amministrativi e di rapporti di potere ("l'istituzione" appunto), strutturati attorno all'oggetto malattia. Tutto ciò, partendo ovviamente dal manicomio, doveva esser smontato; "l'oggetto" non doveva esser più la malattia, per la quale fra l'altro lo psichiatra fino a quel momento aveva perseguito la guarigione ma ottenuto soltanto la cronicizzazione, quanto invece l'esistenza e la sofferenza dei pazienti, nonché il loro rapporto con il corpo sociale.

Inizia così un processo di rinnovamento e di sperimentazione in alcuni ospedali psichiatrici. Gli esempi più importanti in tal senso furono Perugia, Gorizia, (il cui direttore dal '62 era proprio Basaglia) Arezzo, Parma e Trieste. Il primo passo fu quello di non intendere più il manicomio come luogo di contenimento stabile, ma piuttosto di utilizzarlo il più possibile (e in attesa della creazione di strutture territoriali che già venivano richieste) in senso terapeutico, sviluppando un clima di solidarietà e chiarezza fra medici, infermieri e pazienti, restituendo ad essi i diritti elementari, e creando condizioni di vita finalmente umane.

Alla fine di questo decennio si segnalano due fatti significativi.

In primo luogo l'emanazione della legge n. 431 del 1968, ai cui tratti salienti e innovativi ho già accennato (6), ricordiamo, in particolare, la possibilità di ricoveri volontari e la trasformazione di ricoveri coatti in volontari evitando così il procedimento di internamento definitivo. Tuttavia il regime di ammissione volontaria viene concepito dal legislatore del 1968 non come misura sostitutiva, bensì aggiuntiva rispetto a quella che rimane la principale forma di ammissione in istituto, ovvero l'internamento obbligatorio (art. 4) (7). La stessa legge sancisce inoltre l'ingresso della psichiatria sul territorio attraverso l'istituzione ufficiale dei C.I.M. (Centri di Igiene Mentale), servizi per terapie ambulatoriali psichiatriche e psicoterapeutiche (art. 3). Il carattere innovativo di una simile disciplina, nella quale il momento custodialistico assume un valore accessorio o comunque strumentale, ed alla quale si deve la prima collocazione della malattia mentale sul piano generale della tutela della salute, ha indotto taluno a definire la legge 431 una sorta di "miniriforma" psichiatrica (8). In effetti ad essa dobbiamo la creazione delle condizioni per l'attuazione della futura riforma dell'assistenza psichiatrica, nella quale finalmente il trattamento in condizioni di degenza ospedaliera dell'infermo di mente costituisce una forma di intervento residuale e comunque transitoria. Il mutamento d'impostazione risulta già dal diverso linguaggio utilizzato per trattare il problema psichiatrico: dalle "norme sui manicomi e gli alienati" si passa alle "provvidenze per l'assistenza psichiatrica"; scompare il termine manicomio sostituito da quello di ospedale psichiatrico (art. 1 ss); non si parla più di alienazione, ma di disturbi psichici (art. 4) e di malattie mentali (art. 11); non di "mezzi di coercizione" (art. 60, R. D. 615/1909), ma di "attrezzature tecnico sanitarie" (art. 8); non di "custodia in manicomio" (art. 420 cod. civ.), quanto di "assistenza sanitaria specializzata e sociale" (art. 2).

In secondo luogo, attraverso il D.P.R. n. 128 del 1969, intitolato "Ordinamento interno dei servizi ospedalieri", ha inizio il rinnovamento delle strutture ospedaliere. Da questo momento, proprio per l'importanza sempre più terapeutica e sempre meno custodialistica che gli ospedali psichiatrici stavano faticosamente acquisendo, si assiste a una loro ristrutturazione, analoga a quella degli ospedali civili, in divisioni, sezioni e servizi speciali, ed a una riorganizzazione del personale in primari, aiuti, assistenti e infermieri.

4. Il contesto socio-culturale e politico in cui nasce la legge 180

Negli anni settanta il movimento di psichiatria antistituzionale entra in una nuova fase che potremmo definire di impegno politico e non solo pratico-teorico. Ovvero, si tratta di criticare il manicomio, non solo da un punto di vista umanitario e scientifico, ma anche e soprattutto come luogo di segregazione e di ghettizzazione della devianza (in specie delle classi subalterne), indispensabile per questo al mantenimento dell'ordine e dell'organizzazione "capitalistica" della società italiana. Spostandosi su di un piano sociale e politico, appare subito chiaro che il superamento della realtà istituzionale non può avvenire senza l'appoggio e l'intervento delle forze politiche e sociali interessate a realizzarlo.

In proposito è utile ricordare che, come accennato, le critiche provenienti da ambienti professionali al sistema manicomiale non erano patrimonio esclusivo del nostro paese. In gran parte dei paesi industrializzati, ma soprattutto negli Stati Uniti a partire dagli anni cinquanta, si criticavano i grandi ospedali psichiatrici statali, e si dava sempre più valore all'aspetto psicologico e psicosociale del disturbo mentale, al condizionamento sociale sullo stesso. Ma in nessun luogo come in Italia queste discussioni e proteste hanno comportato un così radicale e rivoluzionario cambiamento nei fatti, una cesura così profonda con il passato come quella rappresentata dalla legge n. 180, che detta una normativa antiautoritaria e ispirata al principio della cura in libertà del malato di mente.

Tutto ciò è spiegabile proprio tenendo presente la saldatura avvenuta, alla fine degli anni sessanta, tra i piccoli gruppi psichiatrici antistituzionali e, il movimento studentesco del 1968 prima, ed il movimento contestativo più vasto degli anni settanta dopo, nonché con il mondo politico, in particolare con i partiti della sinistra. È essenzialmente questo legame, e questo particolare clima politico-sociale, terreno ideale per realizzare grandi cambiamenti anche a livello normativo (9), a determinare la peculiarità della situazione italiana. Il nostro movimento riformatore psichiatrico ha avuto un'impronta altamente politicizzata, superando la dimensione tecnico-professionale e inserendosi in una più vasta contestazione alle istituzioni totali e ad ogni forma di autoritarismo. L'aver stretto questo rapporto diretto con la politica gli ha permesso di avere un ruolo nel movimento di protesta di quegli anni, essendo quest'ultimo volto a eliminare gli aspetti maggiormente oppressivi del sistema sociale, dunque anche l'esclusione manicomiale. È proprio all'interno del dibattito sulla malattia mentale e sull'ospedale psichiatrico che in Italia trova una collocazione la tematica della devianza in generale. Nell'ambito di quest'ultima si svilupperà un discorso complesso sulle origini e le funzioni delle istituzioni alle quali lo stato moderno affida compiti di ordine pubblico, disciplina, controllo ed integrazione (ossia l'ospedale generale, l'ospedale psichiatrico, gli istituti per i poveri ed il carcere, ognuno dei quali deputato a gestire e assorbire quattro diversi problemi sociali: la malattia, la follia, la miseria, la delinquenza). Discorso portato avanti inizialmente proprio dal movimento di antipsichiatria, ma successivamente anche da sociologi, politologi, filosofi, giuristi, nonché magistrati e operatori sociali (10).

Negli Stati Uniti la critica alle istituzioni totali si è sviluppata piuttosto in connessione a posizioni neo-liberiste e la chiusura di alcuni ospedali psichiatrici non ha comportato la creazione di una rete alternativa di servizi, quanto l'abbandono del malato o, per i più ricchi, il rafforzamento delle strutture ospedaliere private.

Riferendosi all'esperienza statunitense non a caso - e per sottolinearne la diversità rispetto a quella italiana -, si parla di deospedalizzazione piuttosto che di deistituzionalizzazione. Ovvero il dibattito e le proteste intorno all'istituzione manicomiale hanno prodotto come risultato l'attuazione di una politica di dimissioni, di riduzione graduale di posti letto negli ospedali psichiatrici, politica che successivamente è risultata coerente con gli orientamenti neoliberisti di ridimensionamento del Welfare State espressi soprattutto dalla presidenza Reagan. Nel programma reaganiano infatti l'idea di liberare i malati di mente dagli OP si associava, non alla necessità di fornire loro un'adeguata e più umana assistenza, quanto piuttosto ad un'esigenza di risparmio della spesa pubblica (11).

4.1. Il progetto di riforma sanitaria, il referendum e l'approvazione della legge 180

In Italia sul finire degli anni settanta dunque le pressioni che da più parti si registrano per la chiusura dei manicomi si fanno sempre più insistenti. Contemporaneamente prende campo l'idea che allo smantellamento degli ospedali psichiatrici debba seguire un'assistenza psichiatrica territoriale estremamente diversificata a seconda dei bisogni dei pazienti.

In sede legislativa e amministrativa si cominciò quindi a preparare il Servizio Sanitario Nazionale, di cui l'assistenza psichiatrica doveva essere parte integrante.

Questi gli avvenimenti che precedettero e portarono alla frenetica emanazione della legge n. 180, esaminata, discussa ed approvata (a larga maggioranza) in soli ventiquattro giorni, e, pochi mesi dopo, alla emanazione della legge n. 833.

Il 9 dicembre 1977 venne presentato all'approvazione del Parlamento, dalla XIV Commissione della Camera, il testo di legge, relativo alla istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, risultante dalla unificazione dei principi contenuti nel disegno di legge governativo e nei vari progetti elaborati dai diversi partiti politici. Gli articoli 30 e 54, dedicati all'assistenza psichiatrica, contenevano già alcune di quelle statuizioni di segno profondamente innovativo, successivamente riprese, precisate ed ampliate dalla legge 180. Essi in particolare stabilivano: l'unitarietà della tutela della salute fisica e psichica, il rispetto della dignità e libertà della persona; la preferenza accordata alla prevenzione; il divieto di istituire nuovi ospedali psichiatrici o strutture comunque emarginanti e con fini custodialistici (12).

Sennonché nello stesso periodo fu richiesto un referendum popolare per abrogare la ormai anacronistica legge del 1904, essendo nel contempo fallito un tentativo di farne dichiarare l'incostituzionalità. Tale referendum, dopo aver ottenuto oltre 700.000 firme ed esser stato dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale con pronuncia n. 16, del 7 febbraio 1978, fu indetto con il D.P.R. n. 109 del 14 aprile 1978. Per evitare che esso avesse luogo nel maggio del 1978 fu emanata in sede parlamentare, e piuttosto frettolosamente, una legge stralciando dal progetto di riforma sanitaria la parte relativa all'assistenza psichiatrica, ossia gli artt. 30 e 54.

Pur essendo incontestabile che la più immediata spinta propulsiva all'emanazione della legge fu rappresentata dalla esigenza di evitare il referendum, è altrettanto vero che una simile circostanza influì soprattutto sui tempi di approvazione, piuttosto che sui contenuti. O meglio. La legge 180 rappresentò comunque il prodotto finale, fedele ed inevitabile di indirizzi e tendenze ormai consolidati e concretizzatisi a più livelli, non ultimo, come abbiamo visto, quello normativo. Piuttosto essa ha comunque fornito l'occasione per una maggiore riflessione intorno agli articoli oggetto dello stralcio, sicuramente ha condotto ad una loro migliore strutturazione, li ha resi più incisivi e penetranti, ed ha finalmente creato le condizioni concrete per una loro immediata attuazione. Ha un senso infatti domandarsi se e quando, in assenza dell'iniziativa referendaria, si sarebbe giunti, in tempi così rapidi, ad una legge radicalmente innovativa, incisiva e rivoluzionaria quale si è rivelata la 180.

Ad ogni modo, essendo ormai imminente la riforma organica dell'intero settore sanitario, il legislatore attribuì - ad esclusione di alcune norme - alla 180 carattere meramente transitorio, in attesa appunto dell'approvazione della riforma sanitaria, nel cui ambito la stessa disciplina psichiatrica avrebbe dovuto trovare una definitiva collocazione, e rispetto alla quale si configurava come una semplice anticipazione. (13)

Il 23 dicembre dello stesso anno vedeva la luce la legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, n. 833, la quale riassorbì in sé la n. 180, ad eccezione degli artt. 10 e 11 (a tutt'oggi in vigore), diretti, rispettivamente, ad apportare alcune modifiche al codice penale ed a disporre l'abrogazione espressa di specifiche disposizioni, e di ogni altra "incompatibile con la presente legge" (14). Le differenze fra i due testi riguardo all'assistenza psichiatrica sono dunque minime.

La nuova normativa sancisce la fine del manicomio, realizzando al contempo un'importante inversione di rotta nell'area dei trattamenti riservati ai soggetti affetti da disturbi mentali. Al manicomio ed ai centri di igiene mentali si sostituiscono i servizi psichiatrici territoriali ed, in particolare, il Dipartimento di salute mentale, una struttura di coordinamento volta a fornire non soltanto una risposta terapeutica, ma anche a garantire l'adozione di misure di tipo preventivo (15). Ovvero, l'intervento socio-sanitario non risulta più relegato al momento di "esplosione" della malattia, ma al contrario esteso a tutte i livelli, curativo, riabilitativo e soprattutto preventivo.

La legge 180, così innovativa ed antiautoriatria, mantiene tuttavia in vita la possibilità di effettuare ricoveri coatti per malati di mente. Essa introduce infatti il Trattamento sanitario obbligatorio, un provvedimento di tipo coercitivo, realizzabile anche in condizioni di degenza ospedaliera.

5. Il confronto con le legislazioni psichiatriche straniere

La normativa psichiatrica italiana è oggetto di un grande interesse internazionale per l'aspetto progressista, libertario, e garantista che la caratterizza e che è alla base di una psichiatria non repressiva ed antistituzionale. Paradossalmente essa, la più arretrata fino a pochi decenni fa, si configura oggi come la più nuova e avanzata per aver proposto un modello di assistenza psichiatrica che prescinde dal manicomio.

Il suo carattere fortemente innovativo si rivela esplicitamente attraverso il confronto con le normative degli altri paesi, che evidenziano come centro dell'assistenza psichiatrica di paesi "civili" resti ancora il manicomio.

I paesi europei più avanzati in realtà, diversamente dall'Italia, avevano iniziato a modificare le loro legislazioni già intorno agli anni cinquanta (la Francia nel 1956, la Gran Bretagna nel 1959, la Svezia nel 1966, il Belgio nel 1960). Tuttavia, tenendo anche in considerazione le successive modifiche ed integrazioni intervenute nel corso degli anni settanta ed ottanta (esempio: Francia 1981, Gran Bretagna 1983, Svezia 1982, Spagna 1982, Olanda 1972, Irlanda 1981, Baviera 1982 (16), Norvegia 1981, etc.), tali leggi non riescono ancora a realizzare quel cambiamento culturale così incisivo e repentino nei confronti degli ospedali psichiatrici e, più in generale, nell'approccio ai problemi della tutela della salute mentale, deciso invece dal legislatore italiano nell'ormai lontano 1978.

In quasi tutti i paesi si ha un'assistenza psichiatrica basata sì su servizi territoriali, associati però sempre a manicomi. Tutte le suddette leggi prevedono il ricovero d'autorità in caso di necessità. Lo stato di necessità è individuato sulla base del criterio della pericolosità per sé stessi o per gli altri, anche se talvolta non viene pronunciato il termine "pericolosità" e in sostituzione si usano formule più prudenti ed elaborate, come ad esempio "tutela della vita o della salute del paziente" (Baviera), "Per incapacità di badare a sé stessi o essere di pericolo o grave disturbo per sé ed altri" (Svezia), o ancora "per preservare l'incolumità del paziente o altrui e prevenire un grave deterioramento della salute" (Gran Bretagna).

Inoltre quasi tutti gli stati permettono, accanto al ricovero di autorità, quello di urgenza, ed in questo frangente il più delle volte la decisione è lasciata alle autorità di pubblica sicurezza. Per di più, quando un termine alla durata del ricovero coatto è fissato, e ciò non sempre accade - ad esempio in Francia e in Norvegia tale periodo è indeterminato -, è comunque notevolmente più lungo rispetto al nostro (minimo 28 giorni, come in Irlanda, dove è consentita però anche una proroga). Infine, anche nei paesi in cui il ricovero volontario è contemplato, esso non può in realtà dirsi tale, come ad esempio in Francia, dove questa definizione è data alla richiesta di ricovero da parte di un familiare.

In conclusione siamo ancora lontani, a parte sporadici tentativi di reale rinnovamento, dal traguardo del superamento totale del sistema manicomiale e custodialistico, e dall'abbandono di nozioni, funzionali a motivi di difesa e controllo sociale, quale quella di pericolosità.

6. Problemi sollevati dalla nuova legislazione

Nell'affrontare tale tema dobbiamo premettere che ancora oggi, a diciotto anni dall'entrata in vigore della legge 180, essa va incontro ad una applicazione disomogenea e diversa da Regione a Regione, da Provincia a Provincia, da Comune a Comune, non essendo addirittura in alcuni luoghi ancora del tutto attuata. È necessario tener presente inoltre che essa ha permesso interessanti risultati soltanto laddove si è incontrata con la reale volontà di affrontare i problemi, ed il sostegno concreto necessario per attuarla. Infine il discorso relativo alle cause della sua mancata attuazione, passa necessariamente attraverso il collegamento con un'analisi della generale crisi del Welfare State che ha caratterizzato negli anni ottanta il nostro paese. La legge ha infatti dovuto fare i conti con una crisi globale della sanità e una congiuntura economica sfavorevole, elementi di non poco conto se si riflette sul fatto che una valida assistenza esterna viene a costare più di quella intramuraria.

Queste difficoltà hanno spesso contrassegnato in modo ambiguo le campagne volte a "liberare il malato di mente". Ovvero da una parte vi era chi affermava l'esigenza di porre fine alle violenze perpetuate nei manicomi, sostenendo allo stesso tempo la necessità di sostituire ad essi interventi terapeutici e risocializzativi da effettuarsi all'esterno, nella massima libertà. Dall'altra vi è stato anche chi, nell'ottica di un graduale superamento dello stato sociale, ha appoggiato le campagne di chiusura degli ospedali psichiatrici, in vista però di un alleggerimento della spesa pubblica, senza impegnarsi dunque per la parallela realizzazione di strutture esterne alternative.

È necessario sottolineare che le insufficienze che la legge 180 e, per la parte psichiatrica, la legge 833 presentano, sono dovute essenzialmente alla loro natura di leggi quadro, le quali, non fornendo precise indicazioni operative, necessitano per poter funzionare dell'emanazione di disposizioni di attuazione provenienti dalle Regioni, vista la loro competenza in materia sanitaria. Il punto è però che il legislatore non si è preoccupato di fissare i modi e i tempi di tale attività applicativa, e soprattutto non ha previsto sanzioni in caso di inadempimento. In un simile contesto il rischio al quale si va incontro non è soltanto quello di una disapplicazione della legge, ma anche, e soprattutto, quello di un'applicazione difforme del dettato normativo, di una distorsione dei suoi principi ed obiettivi. Il problema dell'applicazione infatti si è posto, e si pone tuttora, non solo da un punto di vista quantitativo, ma anche in una dimensione qualitativa. Il legislatore dispone ad esempio il graduale superamento degli ospedali psichiatrici, senza tuttavia specificare come e quando ciò debba avvenire. In questo modo si consente di fatto la sopravvivenza ancora per anni - ciò che puntualmente si è verificato - dei vecchi manicomi, vietando solamente nuovi ricoveri e rimettendosi per il definitivo superamento degli stessi una volta di più alla volontà politica di cambiamento degli amministratori locali.

Anche i servizi territoriali di cui parla la legge restano in realtà delle entità indefinite. Così le interpretazioni che possono aversi sui loro obiettivi, la loro impostazione ed organizzazione, le loro "strategie", possono arrivare a falsare l'originale intento del legislatore di coinvolgere e responsabilizzare, proprio attraverso queste strutture, la collettività intorno alle tematiche della sofferenza psichica. In particolare è stato sottolineato che il rischio possa esser quello di creare semplici ambulatori, dispensatori di farmaci, che, trovandosi di fronte ai pazienti acuti e gravi, ricorrano rapidamente e superficialmente - cioè senza aver prima tentato soluzioni intermedie - alla proposta di ricovero o addirittura al trattamento sanitario obbligatorio. In questo modo, al loro interno, possono propagarsi, limitandosi a trasferirsi all'esterno, le logiche e le funzioni dei manicomi.

Ora, un equivoco in cui si cade spesso è quello di pensare che le Regioni, almeno per molto tempo, non abbiano legiferato. Niente di più sbagliato e fuorviante: le Regioni hanno emanato una miriade di provvedimenti (leggi, delibere e regolamenti), ma, molte di esse, non li hanno tradotti in realtà. In particolare, è necessario fare un distinguo, la legge è stata sostanzialmente applicata dalle Regioni centro-settentrionali e non da quelle centro-meridionali, all'atto pratico ciò significa che le prime sono provviste di servizi (ospedalieri ed extraospedalieri), le seconde no. (17) La condotta inadempiente di tante Regioni rispetto al problema chiarisce il perché delle molte difficoltà e dubbi incontrati nell'interpretazione e nell'applicazione della legge.

7. L'entrata in vigore della legge

Proprio per evitare un referendum popolare abrogativo della precedente normativa, la legge 180/78 entrava in vigore il giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Grandi incertezze e discussioni si sono avute intorno all'organizzazione dei servizi psichiatrici ospedalieri ed extraospedalieri.

La legge 180/1978 - e successivamente anche la 833/1978 - si limitava a trasferire alle Regioni, in attuazione dell'art. 118 Cost. e per le materie elencate nell'art. 117 Cost., le funzioni amministrative concernenti l'assistenza psichiatrica, precedentemente e fin dalle origini del manicomio esercitate dalle Province: "Le Regioni programmano e coordinano l'organizzazione dei servizi psichiatrici e di igiene mentale con le altre strutture sanitarie operanti nel territorio..." (art. 7 comma 5).

Sempre le Regioni, secondo l'art. 6, individuano gli ospedali generali nei quali devono essere istituiti specifici servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC), servizi in cui si effettuano i Trattamenti sanitari obbligatori (TSO) che necessitano di degenza ospedaliera. Sennonché, prevedendo la stessa legge 180, all'art. 8, 5º comma, che "...negli attuali ospedali psichiatrici possono essere ricoverati, sempre che ne facciano richiesta, esclusivamente coloro che vi sono stati ricoverati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge e che necessitano di trattamento psichiatrico in condizioni di degenza ospedaliera.", si veniva a creare un grave vuoto assistenziale per quei soggetti che non erano mai stati ricoverati in ospedale psichiatrico al momento dell'entrata in vigore della legge e che necessitavano di Trattamento sanitario obbligatorio ospedaliero, almeno fino a quando le Regioni non avessero provveduto alla istituzione dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura.

Ora, alcune Regioni, procedettero tempestivamente alla creazione dei servizi psichiatrici ospedalieri. Altre, in deroga alla legge dello Stato, emisero disposizioni transitorie che permettevano questi ricoveri durante i sessanta giorni necessari all'istituzione del servizio psichiatrico di diagnosi e cura ospedaliero. Ma quelle che, in ritardo nella istituzione dei servizi ospedalieri, non seguirono tale strada (ad esempio la Regione Lazio) andarono incontro a situazioni di reale emergenza negli ospedali generali, rifiutando l'ospedale psichiatrico ogni ricovero d'urgenza. Più in generale possiamo affermare che le Regioni hanno assunto comportamenti difformi nell'applicazione della nuova normativa - in gran parte demandata alla loro responsabilità -, comportamenti legati in genere alle posizioni politiche delle diverse maggioranze di Governo regionali, come dimostra la quasi integrale applicazione della legge in Regioni quali la Toscana e l'Emilia Romagna.

Inoltre la legge entrava in vigore in una situazione di totale vuoto per quel che concerne le strutture territoriali psichiatriche, e di totale impreparazione del personale infermieristico e medico di fronte a un tipo di assistenza completamente diverso rispetto alla precedente, diversificata e per buona parte non medica ed infermieristica.

Di fatto, per periodi di tempo più o meno lunghi, a seconda dei luoghi, e, aggiungerei, a seconda dell'impegno profuso nell'attuazione della legge, si crearono situazioni caotiche e di tensione, e la conseguenza più immediata fu quella di buttare sulle spalle del personale impreparato dei reparti internistici degli ospedali generali il peso della patologia mentale.

Non bisogna dimenticare che all'indomani dell'emanazione della legge 180, si verificò un mutamento di quelle condizioni politiche e sociali che, come abbiamo visto, avevano portato alla riforma. Da un punto di vista strettamente politico infatti si registrò un avanzamento delle destre ed una crisi della sinistra, più precisamente del P.C.I., mentre nella società civile scemò quella spinta al cambiamento che aveva connotato il decennio precedente. Tutto ciò contribuì a determinare un "congelamento" di molte disposizioni della legge. In particolare, per tutta la prima metà degli anni ottanta, si è registrata da più parti un'azione volta a frenarne l'applicazione in attesa di una sua modificazione o addirittura totale sostituzione con norme di segno contrario. Il disagio che tale "sabotaggio" ha provocato, la mancata risposta alla domanda di cura dei pazienti, ha determinato il più delle volte nei familiari dei malati rabbia, reazioni di rigetto ed incessanti richieste di riapertura dei manicomi al punto da poter considerare essi addirittura i più accesi oppositori della legge, almeno in un primo momento. Alcuni psichiatri, medici, proprietari delle strutture private convenzionate, nonché esponenti politici del centro-destra, facendosi interpreti del disagio dei familiari - impreparati il più delle volte ad accogliere e reinserire nel nucleo familiare un componente dato ormai per "perso", e di fatto spesso disadattato in conseguenza del lungo ricovero - hanno tentato l'affossamento della legge 180 ancor prima della sua applicazione. Vari sono stati i disegni di legge presentati in parlamento (mai approvati), la maggior parte dei quali tendenti a snaturare radicalmente la legge (18). D'altra parte i Governi succedutisi nel corso delle varie legislature, non si sono mai attivati concretamente per la sua attuazione, non sono intervenuti per molto tempo sulle Regioni inadempienti pur avendone il potere, e spesso hanno operato nel senso di sostenere le convenzioni con le strutture psichiatriche private neomanicomiali (19).

Essenzialmente a queste resistenze, al disimpegno sociale diffuso, nonché ai pregiudizi culturali ed alla preoccupazione che, ancora oggi, la chiusura di luoghi cosi "rassicuranti" per la società come i manicomi suscita tra la gente, si devono dunque i ritardi ed i problemi di natura pratica ed applicativa che innegabilmente si registrarono nell'immediata vigenza della legge 180.

A partire dagli anni novanta comincia però a registrarsi un'inversione di rotta. Molti familiari, essendosi convinti che l'unico modo per garantire ai propri congiunti un'assistenza più umana e valida, sia quello di far funzionare la riforma, si sono trasformati in decisi sostenitori della stessa. Gli psichiatri che all'inizio appoggiavano i tentativi di revisione della legge 180, hanno mutato posizione sottoscrivendo con Psichiatria Democratica un documento in suo sostegno (20). Anche i politici e gli amministratori contrari alla legge 180 hanno dovuto cedere il passo ad una posizione più morbida, o comunque abbandonare l'idea di una riapertura dei manicomi.

8. Strutture necessarie per il funzionamento della attuale legislazione. Il "Progetto Obiettivo per la tutela della salute mentale"

È necessario ricordare che l'intervento terapeutico in condizioni di degenza ospedaliera è soltanto una parte, e neanche la più importante, dell'assistenza psichiatrica delineata nella nuova legislazione; i quindici posti letto dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura devono considerarsi come "un appoggio" ai servizi psichiatrici extraospedalieri. Lo scopo principale, come già osservato, è proprio quello di creare una rete di strutture sparse sul territorio capaci di dare risposte assistenziali pluriarticolate ai bisogni molteplici e differenziati del malato di mente, in definitiva servizi in grado di prevenire proprio il ricovero ospedaliero. Anche queste tuttavia non sono state individuate dal legislatore del 1978; è ricaduta quindi ancora una volta sulle Regioni l'incombenza di delinearle e organizzarle, e ciò ha creato, tralasciando i lunghi periodi di inerzia, situazioni alquanto differenziate e mancanza di omogeneità.

A questo problema dovrebbe aver posto fine il "Progetto Obiettivo per la tutela della Saluta Mentale 1994-96" emanato, dopo esser stato approvato dal Parlamento, con Decreto del Presidente della Repubblica il 7 aprile del 1994. Tale Progetto, un provvedimento sostanzialmente di indirizzo, segna, per varie ragioni, una tappa fondamentale nelle vicende relative all'assistenza psichiatrica del nostro paese. In primo luogo è il primo ed unico atto normativo che, in ben sedici anni, conferma e sviluppa i contenuti della legge 180 - una legge, come più volte sottolineato, quadro -, chiudendo così un periodo storico di battaglie e di contrapposizione intorno ad essa. Secondariamente conferma, con un accenno critico, alcuni dati di fatto: ovvero le carenze, la mancata attribuzione di risorse, l'assenza di una costante e corretta azione di promozione, indirizzo e coordinamento relativamente al sistema di assistenza psichiatrico delineato dalla riforma. Infine individua, per la prima volta nei dettagli, la rete dei servizi psichiatrici sul territorio, stabilendone l'organizzazione dipartimentale.

Tutte le attività, territoriali e ospedaliere, nelle quali si sostanzia l'intervento psichiatrico pubblico, dovranno secondo il Progetto fare capo al Dipartimento di salute mentale (D.S.M.). Per Dipartimento di salute mentale si intende l'insieme delle strutture psichiatriche di una USL. Il bacino di utenza di ogni Dipartimento di salute mentale è di 150.000 abitanti ed il rapporto organico-utenza è di almeno un operatore ogni 1.500 abitanti. Le figure professionali del dipartimento sono: psichiatri; psicologi; assistenti sociali; infermieri; educatori; ausiliari e personale amministrativo, nell'ottica della diversificazione delle competenze professionali.

Lo scopo di questa struttura è quello di garantire l'unitarietà della programmazione e della gestione di tutti i servizi. I suoi compiti fondamentali sono: la programmazione, sia da un punto di vista terapeutico che di risocializzazione; la prevenzione; l'integrazione con l'ospedale (nel quale si situa il servizio psichiatrico di diagnosi e cura, considerato parte integrante del dipartimento di salute mentale, anche se collocato in un'azienda diversa); il collegamento con altri servizi (quali il servizio per le tossicodipendenze, di assistenza agli anziani), con l'associazione dei familiari, con le cooperative sociali ed il volontariato; la limitazione della cronicità e dei ricoveri.

Le attività di prevenzione, cura, riabilitazione e risocializzazione sono svolte attraverso una pluralità di strutture, ovvero il Centro di salute mentale (C.S.M.), il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura, le strutture semiresidenziali (day hospital psichiatrico e centro diurno), e le strutture residenziali.

Il Centro di salute mentale è una struttura territoriale che, oltre ad essere sede organizzativa dell'équipe, svolge attività psichiatrica ambulatoriale e domiciliare. Inoltre funge da filtro ai ricoveri - dovendo portare avanti in questo senso anche un'attività di prevenzione -, e cura l'attività di sensibilizzazione della popolazione sui temi della salute mentale. Di questi centri devono esservene almeno uno ogni 150.000 abitanti, ognuno dei quali deve restare aperto almeno 12 ore al giorno.

La cura dei pazienti che necessitano di ricovero ospedaliero, volontario o coatto, è prestata dai e nei servizi pschiatrici di diagnosi e cura (SPDC). Il servizio di diagnosi e cura è ubicato presso gli ospedali pubblici ed è collegato al pronto soccorso. Il progetto-obiettivo, confermando la precedente normativa, demanda alle Regioni la determinazione del numero dei posti letto nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura, fissando però un parametro di riferimento; un letto ogni 10.000 abitanti (21).

Le strutture semiresidenziali sono individuate nel Day hospital (DH), nel quale hanno luogo programmi prevalentemente terapeutici indirizzati a patologie sub acute, e nel Centro diurno (CD), che effettua invece programmi prevalentemente riabilitativi in presenza di patologie stabilizzate. Entrambe devono restare aperte almeno 8 ore al giorno.

Ai bisogni di lungo-assistenza e di residenzialità dovrebbero invece fornire una risposta le strutture residenziali. In realtà il Progetto ricomprende in esse, sia le strutture destinate ai pazienti del "residuo manicomiale" e ai cosiddetti "nuovi cronici" (22) (in verità una categoria piuttosto eterogenea e imprecisata, riferendosi ancora il progetto a casi di "rilevanti problemi di salute mentale", "assenza o dannosità della rete familiare", o "disabilità che non consentano autonomia nell'abitare e nelle attività della vita quotidiana"), sia i gruppi-appartamento con pazienti giunti in una fase avanzata del reinserimento sociale. In entrambe i casi tali residenze devono tendere a ricreare il più possibile una "dimensione familiare" ed essere in grado di accogliere non più di 20 posti letto, in modo da fornire "una risposta che non sia neo-manicomiale".

Il Progetto Obiettivo del 1994 presenta tuttavia anche dei limiti. Essendo infatti un provvedimento di indirizzo, avrebbe dovuto, per risultare realmente utile, essere emanato poco dopo l'entrata in vigore della legge 180, e non quando ogni Regione aveva già legiferato sull'argomento. D'altra parte, come abbiamo già constatato, è anche vero che non tutte le Regioni hanno tradotto in realtà le proprie leggi. Ciò nonostante e, ancora una volta, nel progetto non sono inseriti vincoli e sanzioni volte a far pressione su ogni singola Regione affinché predisponga un progetto obiettivo a livello regionale, che consenta di rafforzare il "nuovo già emerso" e completi un disegno organizzativo "che non può essere affidato soltanto a spinte spontanee". Infine, oltre ad esser giunto in ritardo, non è stato accompagnato da quei finanziamenti necessari a garantirne l'incisività.

Detto questo, sicuramente la crescita organizzativa e quantitativa dei servizi psichiatrici avvenuta negli ultimi tempi, ha operato come filtro alla proposte di trattamento sanitario obbligatorio, consentendo, anche in situazioni di urgenza, interventi contenitivi extraospedalieri.

9. Le critiche e rischi collegati alla legge

9.1. L'ospedale psichiatrico giudiziario, un'occasione mancata

Partiamo dalle critiche. Nella legge 180 manca il minimo accenno alla questione del Manicomio Criminale, secondo la dizione esistente prima della riforma carceraria del 1975. Si tratta sì di un'istituzione diversa e a sé stante rispetto all'ospedale psichiatrico, ma pur sempre collegata a quello che era l'obiettivo principale del legislatore del 1978, ovvero superare una concezione segregante ed esclusivamente punitiva della malattia mentale.

Ma non solo. Una delle conseguenze più temute della deistituzionalizzazione è rappresentata dal rischio che essi assumano, in aggiunta a quelle di custodia e contenimento che già hanno, le funzioni di controllo e di difesa prima attribuita agli ospedali psichiatrici, viste e considerate anche le difficoltà incontrate nell'attuazione della riforma psichiatrica ed i conseguenti vuoti assistenziali che inizialmente e, soprattutto nel centro-sud, si sono creati e che possono aver trasformato nel frattempo alcuni malati in condizioni di abbandono in autori di reato. L'aumento dei suicidi e del ricorso agli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) registrato a partire dalla seconda metà degli anni settanta, è stato spesso (e a volte, almeno è parso, strumentalmente) collegato allo smantellamento del sistema manicomiale, sebbene non sia mai stata dimostrata alcuna correlazione tra questi due fatti e la disponibilità delle strutture psichiatriche.

Tuttavia, anche senza associarsi a queste illazioni, il fatto che la 180 non abbia in alcun modo considerato il problema degli ospedali psichiatrici giudiziari ha sicuramente prodotto in tale ambito nuove e preoccupanti tendenze e situazioni.

In primo luogo, con la chiusura degli ospedali psichiatrici, si evidenzia maggiormente la contraddizione di una struttura come l'ospedale psichiatrico giudiziario, da sempre chiamata a coniugare restrizione e cura, terapia e controllo, ed oggi, ormai impossibilitata a divenire una realtà terapeutica, sempre più attratta nella galassia carceraria. Rinunciando a qualsiasi fine terapeutico, anche a causa del sovrapporsi al suo interno di figure professionali diverse non centrate sull'aspetto psichiatrico del trattamento, nonché per la scarsità di collegamenti con i servizi psichiatrici esterni, e per la mancanza di un chiaro mandato istituzionale (solo custodia o anche trattamento sanitario?), l'ospedale psichiatrico giudiziario risulta ormai condannato ad assumere la veste di una struttura penitenziaria. Tale connotazione, con tutte le regolamentazioni e limitazioni in termini di spazi e di strutture che ad essa conseguono, rende arduo qualsiasi intervento di tipo sanitario, e sempre più anacronistica un'istituzione del genere.

Inoltre, fino al maggio del 1978, la maggior parte delle revoche delle misure di sicurezza avveniva (ed era quindi resa possibile) con il contestuale ricovero in ospedale psichiatrico. Attraverso una serie di convenzioni con i manicomi civili, si realizzava un passaggio di competenza nella gestione degli ammalati. Con la chiusura degli ospedali psichiatrici questa "dimissione anticipata" dall'ospedale psichiatrico giudiziario non è stata più possibile. Anzi, sempre più, anche a causa delle difficoltà di attuazione a cui va incontro ancora oggi la riforma psichiatrica, il manicomio criminale finisce per funzionare da contenitore di problemi eterogenei e sovente incompatibili con un mandato curativo, rimanendo l'espressione più crudele ed agghiacciante del mancato superamento del binomio pericolosità sociale-malattia mentale.

9.2. Il diritto privato e la legge 180

Un'ulteriore critica, sempre di carattere generale, mossa alla legge è quella di non aver abrogato tutte le norme del nostro ordinamento giuridico in contrasto con i principi qualificanti la legge stessa (23). In particolare, e per quel che riguarda il diritto civile, l'art. 414 del cod. civ che prevede l'interdizione, cioè la totale perdita dei diritti civili e politici, per il maggiore di età in condizioni di abituale infermità di mente, tendente a riproporre la vecchia concezione della cronicità ed ineluttabilità del disturbo psichico, ossia la convinzione dell'impossibilità di modificazioni che consentano a questi soggetti di esplicare in qualche modo la propria personalità nella vita di relazione.

Su di un piano più generale la presenza del malato di mente nel contesto della vita sociale, consentita dalla legge 180, pone problemi nuovi. Per la prima volta anche coloro che soffrono di disturbi psichici si trovano ad operare quotidianamente in un tessuto di rapporti familiari e patrimoniali, di iniziative economiche da assumere, di problemi di lavoro da fronteggiare, in altre parole presentano nuovi bisogni giuridico-esistenziali. Sennonché oggi ci troviamo nella condizione di dover soddisfare queste esigenze con strumenti normativi inadeguati perché introdotti in una fase storica in cui, esistendo ancora il manicomio, non si guardava al malato di mente come ad un individuo che deve poter vivere nella società sviluppando al massimo le sue potenzialità e capacità. Prima del 1978 l'infermo di mente era e viveva separato all'interno dell'istituzione totale, o comunque costretto nell'ambito di soluzioni normative, come l'interdizione, che impedivano qualsiasi partecipazione ai rapporti sociali

Il rischio, se non si procede ad una modifica dei modelli previsti dal codice civile in tema di infermità mentale, è di vanificare l'intento del legislatore del 1978 di permettere al malato di mente di operare nel proprio ambiente sociale essendo dotato degli stessi diritti da sempre riconosciuti agli altri cittadini, nonché di restituire dignità ed autonomia a colui che soffre psichicamente.

Tutte le norme del nostro sistema privatistico che, direttamente o indirettamente, disciplinano l'argomento si basano su un assunto fondamentale: il collegamento automatico fra infermità di mente e incapacità di intendere e di volere (24), e fra questa e l'incapacità di agire (25). Dimenticando che anche i soggetti con i problemi psichiatrici più gravi risultano autosufficienti per periodi lunghi, avendo bisogno di qualcuno che compia in loro vece gli atti giuridici più urgenti, soltanto in certe fasi di crisi acuta.

Sulla base del suddetto presupposto dunque operano i tre strumenti previsti dal codice, ossia l'interdizione, l'inabilitazione e la cosiddetta incapacità naturale, con tutte le cospicue perdite, limitazioni e soggezioni che, in campo familiare, negoziale e successorio, ne derivano.

L'infermo, interdetto sulla base di un accertamento formale del suo stato contenuto in una sentenza che lo priva della capacità di agire, è assistito da un tutore (l'inabilitato da un curatore, essendo la sua condizione equiparata a quella del minore emancipato). Gli artt. 427 e 428 del cod. civ. attribuiscono all'interdetto, all'inabilitato, ai loro eredi o aventi causa, il potere di presentare istanza di annullamento degli atti compiuti dall'incapace legale (soltanto atti eccedenti l'ordinaria amministrazione per quanto riguarda l'inabilitato), dopo la sentenza d'interdizione o d'inabilitazione. La stessa facoltà, ed ai medesimi soggetti, risulta conferita in assenza di una sentenza, se dal compimento dell'atto può derivare un grave pregiudizio all'autore.

La disciplina del matrimonio sancisce, all'art. 85, l'impossibilità per l'interdetto di contrarre matrimonio, preoccupandosi inoltre di prevedere la possibilità (per il tutore, il pubblico ministero e tutti coloro che vi abbiano un interesse legittimo) di impugnare il matrimonio contratto dall'infermo interdetto successivamente alla celebrazione.

Forti limitazioni vengono sancite anche in materia successoria. L'art. 591 stabilisce infatti l'incapacità di disporre per testamento dell'interdetto per infermità di mente. Dello stesso tenore inoltre l'art. 774 in materia di donazioni "Non possono fare donazione coloro che non hanno la capacità di disporre dei propri beni"; l'art. 776 "La donazione fatta dall'inabilitato, anche se anteriore alla sentenza d'inabilitazione o alla nomina del curatore provvisorio, può essere annullata se fatta dopo che è stato promosso il giudizio d'inabilitazione."; l'art. 1425 in materia di contratti "Il contratto è annullabile se una delle parti era legalmente incapace di contrattare", o se, "ricorrendo le condizioni dell'art. 428" (malafede dell'altro contraente), il contratto è stipulato dal cosiddetto incapace naturale.

Infine è stato paventato il rischio di una lettura delle norme disciplinanti il recesso in alcuni contratti tipici (26) tendente a scorgere in esse "l'espressione di un principio più vasto, operante per l'intero settore dei rapporti di durata... in forza del quale la sopravvenienza di malesseri psichici presso uno dei contraenti... autorizzerebbe poi sempre l'altra parte a sciogliere il legame con l'infermo" (27).

Il nostro codice, così come quasi tutte le codificazioni dei paesi dell'Europa continentale a partire dal code civil del 1804, è pensato essenzialmente come strumento destinato a disciplinare la vita in una società di proprietari. Proprio per questo è possibile intravedere nelle norme in materia di incapacità la volontà di proteggere e promuovere due interessi diversi ma fra loro collegati: l'interesse alla conservazione del patrimonio dell'infermo (o meglio dei beni nella famiglia, evitandone dispersioni) da una parte, la sicurezza della circolazione dei beni e la tutela dell'affidamento dei terzi dall'altra. Per garantire una piena protezione di tali interessi, il legislatore, come abbiamo visto, non esita a prospettare in vari campi soluzioni discriminanti, giustificando tale disparità di trattamento (fra capaci ed incapaci di intendere e di volere) con l'idea che essa opererebbe soltanto a favore dell'infermo, protetto e difeso contro le conseguenze patrimoniali dei suoi atti, in definitiva contro la sua stessa malattia. Tuttavia il rischio è rappresentato dalla possibilità che tale diversità di regime, pur ammettendo che sia concepita in partenza unicamente a scopo di protezione dell'infermo, finisca per ritorcersi contro gli interessi di colui che si vorrebbe difendere, escludendo una sua partecipazione attiva al sistema privatistico. Tale esclusione risulta facilitata anche per il fatto che qualsiasi cittadino può venire a conoscenza dello stato di interdizione o inabilitazione attraverso una consultazione dei registri dello stato civile che, pubblicizzando tale condizione, "marchiano" ufficialmente e sul terreno dei rapporti privati il malato di mente (28), contribuendo così ulteriormente alla diffusione di quei sentimenti di chiusura e diffidenza da sempre manifestati nei confronti di coloro che soffrono di disturbi psichici.

Soltanto partendo da una ridefinizione dell'incapacità di intendere e di volere che spezzi questo umiliante automatismo infermità mentale-incapacità, potrà finalmente dirsi abbandonata l'ispirazione custodialistica che guida ancora oggi il nostro codice civile in contrasto con la riforma psichiatrica del 1978.

Le contraddizioni sussistono inoltre non soltanto fra due diversi approcci normativi al problema della malattia mentale (quello seguito dal codice civile e dalla legge 180), ma anche fra le due diverse impostazioni psichiatriche, quella medico-organicistica e quella multifattoriale (ossia biologica, psicodinamica e sociale), sottostanti, rispettivamente, alla normativa privatista del 1942 e alla legge 180. Una delle principali caratteristiche del sapere psichiatrico è quella di non possedere certezze assolute, di non essere in grado di proporre un unico paradigma interpretativo della malattia mentale al quale far corrispondere automaticamente istituti giuridici come l'incapacità legale o il vizio di mente del codice penale.

In passato questa corrispondenza era resa possibile dal modello medico-organicista che, partendo dall'idea dell'alienazione del folle, arrivava a sancirne in maniera costante ed irreversibile l'incapacità.

D'altra parte, attraverso un esame attento dell'attuale normativa in tema di assistenza psichiatrica, non può neanche affermarsi l'esistenza di una opposta presunzione di capacità. Infatti oggi il legislatore, partendo dall'idea che la regola è rappresentata da una condizione di capacità di agire del malato di mente, arriva tuttavia ad ammettere e regolare, seppur indirettamente, le circostanze nelle quali il soggetto non è in grado, a causa del disturbo psichico, di rapportarsi adeguatamente alla realtà. Il fondamento concreto del Trattamento sanitario obbligatorio, come intervento sanitario impositivo, risiede infatti anche nell'esigenza di fronteggiare tali casi, situazioni in cui la malattia impedisce di autogestirsi nella vita di relazione. Anche se oggi queste manifestazioni del disturbo mentale vengono considerate transitorie e non più irreversibili.

Note

1. V. Volterra, G. Donnini, Legislazione psichiatrica, a cura di V. Volterra, in P. Pancheri, G.B. Cassano, (coordinatori), Trattato italiano di psichiatria, vol. III, Masson, Milano, 1993, p. 2808.

2. P. Cendon, Il prezzo della follia, il Mulino, Bologna, 1984.

3. Contemporaneamente la durata media dei ricoveri, disposti successivamente al suddetto periodo di osservazione, tende a diminuire grazie agli effetti terapeutici positivi, anche se non risolutivi, conseguiti mediante la somministrazione di farmaci. Cfr. R. Piccione, Manuale di psichiatria, Bulzoni Editore, Roma, 1995, p. 132.

4. Una ricerca condotta su alcuni dei maggiori quotidiani italiani da tre docenti dell'università di Pavia (D. De Martis, M. Rampazi, S. Vender) a metà degli anni ottanta, ha così riassunto l'atteggiamento che la stampa italiana ha tenuto nei confronti della malattia mentale, a partire dagli anni cinquanta. Fino agli anni settanta i giornali mostrano un sostanziale disinteresse intorno al problema; il malato di mente raramente appare nelle pagine dei quotidiani e solo in occasione di fatti di cronaca nera che lo vedono protagonista, sulla base dell'allora consolidata equazione "violenza ingiustificata=follia". Bisognerà attendere i primi anni settanta per registrare qualche sostanziale cambiamento. Il tema della follia comincia a non esser affrontato più soltanto in occasione di fatti di cronaca nera che lo riguardano, inizia a farsi strada l'immagine del malato vittima di un processo di emarginazione, e si levano, anche sulla carta stampata, le prime voci di protesta nei confronti del sistema manicomiale. Intorno alla metà degli anni settanta si sviluppa, soprattutto attraverso la stampa, un vero e proprio dibattito politico-culturale sul tema. Si profilano degli schieramenti ed anche le posizioni dei giornali si fanno più differenziate che in passato. Successivamente all'emanazione della legge 180 si assiste ad una inversione di rotta: l'interesse dei giornali si affievolisce, per riaccendersi soltanto in occasione di iniziative dalla classe politica, dovute essenzialmente ai problemi applicativi ai quali va incontro fin da subito la riforma. In particolare, mentre nel periodo immediatamente precedente la 180, la stampa denuncia le condizioni di vita disumane dei manicomi, dopo la riforma l'accento viene posto più sui problemi e i disagi che la sua introduzione procura alla comunità, piuttosto che sugli aspetti vantaggiosi e di progresso che essa presenta. (Vedi gli interventi alla tavola rotonda su Malattia di mente e mass media di G. Botteri e D. De Martis, M. Rampazi, S. Vender, in P. Cendon (a cura di), Un altro diritto per il malato di mente, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1988, pp. 525-529 e pp. 531-536).

5. L'antipsichiatria ha assunto una posizione di radicale critica rispetto a quasi tutti gli aspetti della psichiatria tradizionale, arrivando addirittura, nelle sue formulazioni più estremiste, a negare l'esistenza della malattia mentale, e a dimostrare la perfetta comprensibilità del pensiero e del comportamento psicotico (vedi R. Piccione, Manuale di psichiatria, cit., pp. 113-114). Tale posizione deve esser tenuta distinta dall'atteggiamento di dura critica verso il concetto tradizionale di follia come malattia organica assunto a partire dagli anni sessanta da alcuni psichiatri italiani (in particolare Basaglia), e da sociologi americani come Lemert e Scheff. Questi ultimi infatti non sono mai arrivati né a negare l'esistenza della malattia intesa come condizione di sofferenza, né ad eludere il problema della sua terapia (vedi G. Jervis nella prefazione a T.J. Scheff, Per infermità mentale, cit., p. 13).

6. Cfr. § 2.

7. Invero già il regolamento del 1909, all'art 53, aveva introdotto una forma di ammissione volontaria in manicomio, basandola però su presupposti integralmente diversi rispetto a quelli poi richiesti nell'art. 4/legge 431 (ammissione su richiesta del malato, per accertamento diagnostico e cura, su autorizzazione del medico di guardia), e sicuramente senza porsi nell'ottica del diritto alla cura. Infatti l'ammissione, richiesta da individui maggiorenni coscienti del proprio stato di alienazione mentale, veniva effettuata dal direttore sotto la propria responsabilità ed in casi di assoluta urgenza. Il ricovero era mantenuto soltanto nell'ipotesi in cui il tribunale avesse successivamente accertato la sussistenza dei presupposti normalmente richiesti per l'internamento in manicomio.

8. B. Poletti Di Teodoro, M. Zania, La tutela della salute nella legislazione speciale italiana, in F. D. Busnelli, U. Breccia (a cura di), Tutela della salute e diritto privato, Giuffrè, Milano, 1978, p. 25.

9. È questa la stagione delle grandi riforme, realizzate non solo in materia di assistenza psichiatrica. Sono figlie della stessa epoca infatti lo statuto dei lavoratori (legge 300/1970), la legge sul divorzio (legge 898/1970), la legge di riforma del diritto di famiglia (legge 151/1975), la legge sull'aborto (legge 194/1978).

10. T. Pitch, La devianza, cit., pp. 1-4.

11. Le conseguenze sociali di questa politica sono risultate disastrose. Negli anni settanta gli ospedali psichiatrici degli Stati Uniti ospitavano circa 650.000 malati di mente, già a metà degli anni ottanta ne restano circa 150.000. Contemporaneamente un terzo dei senza casa risulta costituito proprio da malati di mente, dimessi e lasciati privi di assistenza. V. Accattatis, L'impatto della legge 180 nell'ordinamento italiano, P. Cendon (a cura di), Un altro diritto per il malato di mente, cit., pp. 84-85.

12. Di seguito viene riportato il testo integrale dei suddetti articoli.

Art. 30. "Norme per i trattamenti sanitari obbligatori. Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari. Si intendono volontari anche gli accertamenti ed i trattamenti sanitari richiesti dai familiari conviventi dell'infermo, ove questi non si opponga e risulti evidente la finalità terapeutica della richiesta.
Accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori possono essere disposti dalla autorità sanitaria, secondo l'articolo 32 della Costituzione, nel rispetto della dignità e della libertà della persona e nel rispetto dei diritti civili e politici previsti dalla Costituzione. L'unità sanitaria locale opera per ridurre il ricorso ai suddetti trattamenti sanitari obbligatori, sviluppando le iniziative di prevenzione e di educazione sanitaria ed i rapporti organici tra servizi e comunità.
Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento dell'autorità sanitaria sulla base della proposta motivata di un medico dell'unità sanitaria locale. Tali misure possono essere adottate solo ove esistano alterazioni gravi dello stato di salute individuale o gravi ragioni di sanità pubblica e condizioni e circostanze, verificate dal medico, che giustifichino il provvedimento per la impossibilità di adottare idonee misure sanitarie di altra natura.
I trattamenti sanitari obbligatori sono attuati presso le strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate. Ove non necessiti la degenza, sono attuati negli altri presidi delle unità sanitarie locali o a domicilio.
I trattamenti sanitari obbligatori devono essere accompagnati da ogni iniziativa volta a promuovere, il più rapidamente possibile, le condizioni per il consenso e la partecipazione dell'infermo al trattamento.
Nel corso del trattamento sanitario obbligatorio, l'infermo ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno.
L'autorità sanitaria notifica tramite messo comunale entro 48 ore al giudice tutelare il provvedimento che dispone il trattamento sanitario obbligatorio.
L'infermo sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio deve essere informato del diritto di presentare contro di esso il ricorso in opposizione all'autorità sanitaria o ricorso al giudice tutelare, direttamente o tramite un rappresentante legale.
Il giudice tutelare, assunte le informazioni e disposti gli eventuali accertamenti ritenuti opportuni, può disporre con provvedimento motivato la sospensione del trattamento sanitario obbligatorio.
Nei casi in cui il trattamento sanitario obbligatorio debba protrarsi oltre il settimo giorno l'autorità sanitaria, sulla base di una ulteriore proposta motivata di un medico dell'unità sanitaria locale, ne darà comunicazione al giudice tutelare, indicando la ulteriore durata presumibile del trattamento stesso.
Analogamente l'autorità sanitaria darà comunicazione al giudice tutelare dei successivi prolungamenti oltre il previsto o della cessazione del trattamento sanitario obbligatorio o dei motivi di eventuali sopravvenute impossibilità a proseguire il trattamento stesso.
La omissione di tali comunicazioni da parte dell'autorità sanitaria configura il reato di cui all'articolo 328 del codice penale.
Al giudice tutelare potranno essere rivolte in qualunque momento da parte dell'infermo, dei familiari o di altri, opposizioni in ordine al trattamento, alla sua durata e alle modalità.
Qualora il trattamento sanitario obbligatorio consista nel ricovero per necessità di cure in condizioni di degenza ospedaliera per una malattia mentale, esso deve essere attuato presso gli ospedali generali in servizi all'interno di strutture dipartimentali che garantiscano la continuità terapeutica, avvalendosi dello stesso personale che opera nei servizi territoriali di cui al secondo comma, punto 4, dell'articolo 15 e in modo da tenere conto della specificità degli interventi e delle terapie che devono essere praticate.
È fatto divieto di costruire nuovi ospedali psichiatrici, di utilizzare quelli attualmente esistenti come divisioni specialistiche psichiatriche degli ospedali generali e di istituire negli ospedali divisioni o sezioni psichiatriche.
All'atto dell'entrata in vigore della presente legge sono abrogate le leggi 14 febbraio 1904, n. 36, e relativo regolamento di esecuzione, e la legge 18 marzo 1968, n. 431, nonché gli articoli 420 codice civile, 714, 715, 716, 717 codice penale, 604, n. 2, codice procedura penale, per quanto attiene all'obbligo dell'annotazione dei provvedimenti di ricovero degli infermi di malattie mentali e della revoca di essi nel casellario giudiziario, e gli articoli 2, primo comma, n. 1, e 3 del decreto del presidente della Repubblica 20 marzo 1967, n. 223".

Art. 54. "Norme transitorie per l'assistenza psichiatrica. Dalla entrata in vigore della presente legge sino al 31 dicembre 1978, i trattamenti sanitari obbligatori in regime di ricovero sono disposti dall'autorità sanitaria su certificazione medica motivata. Tali trattamenti sono attuati presso l'ospedale generale, individuato ai sensi del successivo comma, e preferibilmente in quello territorialmente più vicino alla abituale residenza dell'infermo.
Fino all'istituzione delle strutture dipartimentali di cui al quattordicesimo comma dell'articolo 30 e ai fini dei trattamenti sanitari obbligatori ivi previsti, la regione entro 90 giorni dall'entrata in vigore della presente legge, dispone l'utilizzo, presso i servizi di pronto soccorso-accettazione degli ospedali generali da essa individuati e all'uopo idonei, degli operatori medici e non medici dei presìdi psichiatrici pubblici localmente esistenti.
Le norme di cui alla presente legge si applicano, anche nell'ambito delle attuali strutture psichiatriche, agli infermi attualmente ricoverati in base a provvedimenti coattivi.
Relativamente ai ricoverati in istituzioni psichiatriche in base alla legge 14 febbraio 1904, n. 36, il primario responsabile della divisione, entro sei mesi dalla entrata in vigore della presente legge comunica, con adeguata relazione medica, alla autorità sanitaria l'elenco nominativo dei degenti per i quali si ritiene necessario il proseguimento del trattamento sanitario obbligatorio e di quelli per i quali tale misura non si riveli ulteriormente necessaria.
La predetta relazione medica sostituisce il provvedimento motivato di cui al terzo comma dell'articolo 30. L'autorità sanitaria, accertate le condizioni per il trattamento sanitario obbligatorio, provvede agli adempimenti la cui omissione ai sensi del dodicesimo comma dell'articolo 30, configura il reato previsto dall'articolo 328 del codice penale.
Tra gli operatori sanitari di cui alla lettera i) dell'articolo 27 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, sono compresi gli infermieri di cui alla legge 14 febbraio 1904, n. 36 e relativo regolamento di esecuzione. Fermo restando quanto previsto dalla lettera p) dell'articolo 6 la regione provvede all'aggiornamento e alla riqualificazione del personale infermieristico, nella previsione del superamento degli ospedali psichiatrici ed in vista delle nuove funzioni di tale personale nel complesso dei servizi per la tutela della salute mentale delle unità sanitarie locali.
La regione, nell'ambito del piano sanitario regionale, disciplina il graduale superamento degli attuali ospedali psichiatrici e neuropsichiatrici e la diversa utilizzazione, correlativamente al loro rendersi disponibili, delle strutture esistenti e di quelle in via di completamento. La regione disciplina, secondo le norme di cui agli articoli 56 e 58, la destinazione alle unità sanitarie locali dei beni e del personale delle IPAB e degli altri enti pubblici che all'atto dell'entrata in vigore della presente legge provvedono, per conto o in convenzione con le amministrazioni provinciali al ricovero ed alla cura dell'infermo di mente, nonché la destinazione dei beni e del personale delle amministrazioni provinciali addetto ai presìdi e servizi di assistenza psichiatrica e di igiene mentale.
Sino all'adozione del piano sanitario regionale, di cui al precedente comma, i divieti di cui all'articolo 6 del decreto legge 8 luglio 1974, n. 264, convertito con le modificazioni nella legge 17 agosto 1974, n. 386, sono estesi agli ospedali psichiatrici e neuropsichiatrici dipendenti dalle IPAB o da altri enti pubblici o dalle amministrazioni provinciali. Gli eventuali concorsi continuano ad essere espletati secondo le procedure applicate da ciascun ente prima dell'entrata in vigore della presente legge.

13. Nella relazione al disegno di legge dell'allora Presidente del Consiglio Andreotti si parla di "...disciplina-ponte, preparatoria della riforma sanitaria ed entro questa destinata ad essere riassorbita, come espressamente previsto nell'articolo 10...". (Relazione Andreotti, Presidente Consiglio Ministri, in La legislazione italiana: 1978, IV, Giuffrè, Milano, 1978, p. 53).

14. Cfr. § 1, cap. III.

15. Cfr. § 8.

16. Gli stati della Repubblica Federale Tedesca hanno legislazioni proprie sull'argomento, così come i vari stati statunitensi, canadesi, australiani, nonché i cantoni svizzeri.

17. Più precisamente: i centri di salute mentale e i servizi psichiatrici di diagnosi e cura, ovvero le strutture ospedaliere, sono più o meno sufficienti in tutta la penisola, mentre risultano ancora carenti le strutture intermedie.

18. Le proposte di riforma della 180 proliferarono nella prima metà degli anni ottanta. Quello che colpisce, già ad un primo esame, è che in ognuna di esse troviamo la medesima previsione di articolare i servizi psichiatrici su tre livelli: nel primo si collocano i servizi ambulatoriali e domiciliari per la prevenzione e le terapie non intensive; nel secondo i servizi psichiatrici di diagnosi e cura per la cura dei malati acuti; nel terzo, ribaltando in questo modo l'intento del legislatore del 1978 di porre fine a qualsiasi tipo di struttura che richiami a qualsiasi titolo e per qualsiasi motivo il manicomio, un tipo di servizi per trattamenti protratti. Così le tre proposte della D.C., numero 527 del 22/9/83, numero 1296 del 14/2/84 e numero 1905 del 12/7/84, e la proposta del P.S.I. numero 1707 del 18/5/84. Più complessa era la proposta del P.S.D.I. (numero 503 del 21/9/83), la quale articolava il terzo livello in strutture di vario genere: istituti di psicoriabilitazione; comunità terapeutiche; comunità terapeutico-riabilitative; servizi sociali. il progetto del P.L.I. addirittura, prospettava due strutture di tipo ospedaliero, l'una destinata ai lungodegenti, l'altra ai cronici, entrambe con un elevato numero di posti letto (massimo 120 per ciascuna). Assai differenziata era la collocazione di tali servizi residenziali per trattamenti protratti: nella proposta del P.L.I. e del P.S.I. si prevedeva il riadattamento di vecchi ospedali psichiatrici; sempre in quella del P.L.I. si parlava di convenzioni con cliniche ed istituti universitari, o anche con cliniche private (possibilità questa ultima contemplata anche nella proposta della D.C.).

19. Nel 1990 il Ministro della Sanità De Lorenzo (Governo Amato), presenta in Parlamento un Progetto Obiettivo per la Tutela della Salute Mentale accompagnato da un Disegno di Legge volto a snaturare radicalmente la 180. Tale Disegno prevedeva, tra le altre cose, l'opportunità di svolgere il trattamento sanitario obbligatorio anche in strutture private, nonché la possibilità di dare in convenzione a privati tutte le strutture psichiatriche, eccetto i centri di salute mentale.

20. Psichiatria democratica nasce nel 1973 come associazione composta non soltanto da psichiatri ma anche da infermieri, assistenti sociali, pazienti, amministratori, semplici cittadini. Questa sua eterogenea composizione, nonché il suo carattere di movimento anche, ed in un certo senso, politico costituito per portare avanti la lotta al sistema manicomiale, la distinguono fortemente e la pongono come alternativa alla più antica e tradizionalista Società Italiana di Psichiatria. Vedi R. Piccione, Manuale di psichiatria, cit., p. 183.

21. Cfr. nota n. 12, cap. III.

22. Tale definizione è stata accusata di riproporre l'ideologia psichiatrica ottocentesca nella quale il termine cronicità veniva utilizzato per sottolineare i connotati di incomprensibilità e incurabilità propri della malattia mentale e, in ultima analisi, per giustificare l'internamento definitivo. Mantenere questo termine può dunque, ancora oggi, fornire un alibi per non portare avanti una seria terapia ma soltanto un rassegnato accudimento o contenimento, magari in strutture segreganti. Cfr. R. Piccione, Manuale di psichiatria, cit., p. 154.

23. Cfr. § 1, cap. III.

24. Tale identificazione opera sistematicamente anche nell'ambito della legislazione penale. L'art. 85 del cod. pen. recita "Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere.". Non è imputabile, secondo l'art. 88, "...chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere.". Nozioni come il vizio, totale o parziale, di mente, sollevano ormai, alla luce delle nuove indicazioni che ci provengono dalla legislazione psichiatrica e dalla psichiatria stessa, numerose perplessità. In particolare "è questo concetto di vizio di mente come causa di una condotta criminale, e insieme come scusante, e quindi come concetto abile a riassumere una disciplina che appare speciale", che mantiene la propensione, così frequente in passato, a considerare il malato di mente come un soggetto totalmente incapace e quasi sempre pericoloso. (G. Visintini, La nozione di incapacità serve ancora?, in P. Cendon (a cura di), Un altro diritto per il malato di mente, cit., p. 99).

25. Il collegamento tra malattia mentale ed incapacità di intendere e di volere, posto soltanto implicitamente in materia di interdizione e di inabilitazione (artt. 414 e 415), risulta chiaro e sicuro nella disciplina del matrimonio: art. 120 "Il matrimonio può essere impugnato da quello dei coniugi che, quantunque non interdetto, provi di essere stato incapace di intendere e di volere, per qualunque causa, anche transitoria, al momento della celebrazione del matrimonio. L'azione non può essere proposta se vi è stata coabitazione per un anno dopo che il coniuge incapace ha recuperato la pienezza delle facoltà mentali". Tale nesso sottostà anche agli artt. 428, 591 e 774-775, rispettivamente in tema di annullamento di atti compiuti da persona incapace di intendere e di volere, successione testamentaria e donazioni.

26. A titolo esemplificativo: l'art. 1626 cod. civ. in materia di affitto "L'affitto si scioglie per l'interdizione, l'inabilitazione o l'insolvenza dell'affittuario, salvo che al locatore sia prestata idonea garanzia per l'esatto adempimento degli obblighi dell'affittuario", e l'art. 1722 in materia di mandato "Il mandato si estingue:... per la morte, l'interdizione o l'inabilitazione del mandante o del mandatario...".

27. P. Cendon, Profili dell'infermità di mente nel diritto privato, in P. Cendon (a cura di), Un altro diritto per il malato di mente, cit., p. 59.

28. Così l'art. 423 del codice civile "Il decreto di nomina del tutore o del curatore provvisorio e la sentenza di interdizione o d'inabilitazione devono essere immediatamente annotati a cura del cancelliere nell'apposito registro e comunicati entro dieci giorni all'ufficio dello stato civile per le annotazioni in margine all'atto di nascita".