ADIR - L'altro diritto

Esecuzione delle misure di sicurezza
Il punto di vista della Magistratura di Sorveglianza (*)

Massimo Niro (**), 2008

1. Nella trattazione dell'esecuzione delle misure di sicurezza personali occorre partire dalla fondamentale sentenza della Corte costituzionale 27 luglio 1982, n. 139, con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale degli artt. 222, primo comma, 204, cpv. e 205, cpv. n. 2, del codice penale, nella parte in cui non subordinano il provvedimento di ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario dell'imputato prosciolto per infermità psichica al previo accertamento da parte del giudice della cognizione o della esecuzione della persistente pericolosità sociale derivante dalla infermità medesima al tempo dell'applicazione della misura.

Con tale sentenza è stato posto il principio della necessaria "attualizzazione" della valutazione di pericolosità sociale (come si è espressa la stessa Corte nella successiva, altrettanto fondamentale sentenza 18 luglio 2003, n. 253): principio poi codificato dall'art. 31, 2º comma, l. 10 ottobre 1986, n. 663 (c.d. legge Gozzini), secondo il quale

"Tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa" (il suddetto art. 31 abrogava l'art. 204 c.p. in tema di pericolosità sociale presunta).

Con il nuovo codice di procedura penale è stato ribadito il ruolo del magistrato di sorveglianza in materia di esecuzione delle misure di sicurezza, già stabilito dalla legge n. 663 /1986 (v. art. 69, commi 3 e 4, ord. pen.), prevedendosi all'art. 679 c.p.p. che

"Quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca è stata, fuori dei casi previsti nell'art. 312, ordinata con sentenza, o deve essere ordinata successivamente, il magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta se l'interessato è persona socialmente pericolosa e adotta i provvedimenti conseguenti ...".

Si è persuasivamente osservato, al riguardo, che "la disposizione, nella sua indiscutibile chiarezza, stabilisce che l'esecuzione definitiva di una misura di sicurezza è sempre conseguenza di un provvedimento del Magistrato di Sorveglianza e che allo stesso compete procedere al giudizio di pericolosità sia quando viene richiesto dal P.M. in ordine ad una sentenza di proscioglimento o di condanna, sia quando dispone autonomamente la misura di sicurezza" (M. PAVONE, 2003).

2. Quanto al giudizio di pericolosità sociale, vero punto qualificante ed insieme punto dolente nella materia che ci occupa, non è superfluo rammentare che a tal fine hanno rilevanza anche la natura e gravità dei fatti-reato, in quanto il giudice non è tenuto a prendere in considerazione soltanto i dati di natura medico-psichiatrica, ma ben può attribuire rilievo a qualsiasi altro elemento ritenuto utile ai fini della prognosi di pericolosità (Cass. sez. I 4 maggio 1984, Belmonte); e che, quindi, la pericolosità sociale di cui all'art. 203 c.p. va desunta dalle circostanze indicate nell'art. 133 stesso codice e non può essere confusa con la pericolosità valutata esclusivamente sul piano psichiatrico, in correlazione con la natura e con l'evoluzione dello stato patologico del soggetto, per cui la sua valutazione è compito specifico ed esclusivo del giudice, il quale non può abdicarvi in favore di altri soggetti né rinunciarvi, pur dovendo tener conto dei dati relativi alle condizioni mentali dell'imputato e alle implicazioni comportamentali eventualmente indicate dal perito (Cass. sez. II 28 aprile 1988, Bizzarro).

Da una ricerca empirica, condotta sulle ordinanze emesse da un magistrato di sorveglianza in tema di riesame della pericolosità delle persone internate in un O.P.G. nel periodo 1992-2002, è emerso come "l'attività decisionale del giudice si basi su un'analisi plurifattoriale, essenzialmente fondata sulla considerazione di diversi elementi di natura clinica, individuale, socio-assistenziale, familiare ed ambientale" e come, in questo ambito, la magistratura di sorveglianza "diriga la sua indagine - ciò che d'altro canto appare del tutto naturale - verso alcune precise direzioni: la situazione clinica dell'internato, l'accertamento della situazione socio-familiare, la concreta possibilità di un proficuo e protetto reinserimento nella realtà extraistituzionale" (E. CALVANESE - R. BIANCHETTI, 2005).

L'ampiezza dei poteri del magistrato di sorveglianza in tema di esecuzione delle misure di sicurezza è stata recentemente riaffermata, in un caso interessante, dalla Corte di Cassazione: "Potendo procedere in ogni momento al riesame della pericolosità del condannato, è evidente che egli possa disporre l'esecuzione della misura più adeguata alla sua personalità, traendo elementi di convincimento per la sostituzione o la revoca delle misure di sicurezza sulla base delle disposizioni degli artt. 133 e 203 c.p. Nulla vieta al magistrato di sorveglianza di sostituire il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario con una misura di sicurezza non detentiva (la libertà vigilata) allorché sia stata accertata la diminuzione della sua pericolosità sociale. Così, cessata l'infermità psichica, il magistrato di sorveglianza ben può procedere a un nuovo esame della pericolosità e, se questa permane, applicherà la misura della colonia agricola o della casa di lavoro, se non ritiene di applicare solo la libertà vigilata" (Cass. sez. I 8 -15 marzo 2007, Abel).

3. Venendo ora ad esaminare specificatamente la portata della sentenza costituzionale n. 253 / 2003 ed il suo impatto sulle decisioni dei giudici di merito, la dichiarazione di incostituzionalità tocca "il vincolo rigido imposto al giudice di disporre comunque la misura detentiva ... anche quando una misura meno drastica, e in particolare una misura più elastica e non segregante come la libertà vigilata, che è accompagnata da prescrizioni imposte dal giudice, di contenuto non tipizzato (e quindi anche con valenza terapeutica), "idonee ad evitare le occasioni di nuovi reati "(art. 228, secondo comma, cod. pen.), appaia capace, in concreto, di soddisfare contemporaneamente le esigenze di cura e tutela della persona interessata e di controllo della sua pericolosità sociale "(par. 3 del "Considerato in diritto").

Quindi, in conseguenza di tale pronuncia al giudice di cognizione non spetta più soltanto stabilire "se" una misura di sicurezza debba applicarsi nei confronti dell'infermo di mente autore di reato, ma anche "quale" misura di sicurezza eventualmente applicare: al riguardo, però, rispetto all'alternativa chiaramente delineata dalla sentenza n. 253 / 2003 (misura detentiva come il ricovero in O.P.G., da un lato, e misura non detentiva come la libertà vigilata, dall'altro), nelle prassi applicative si devono registrare alcune timidezze ed incongruenze dei giudici di merito, in particolare l'applicazione della misura detentiva di cui all'art. 219 c.p. (ricovero in casa di cura e custodia) in luogo del ricovero in O.P.G. di cui all'art. 222 c.p.

Questa scelta viene talvolta giustificata come scelta di una misura "gradata", intermedia tra il ricovero in O.P.G. e la libertà vigilata: ma in effetti così non è, dal punto di vista pratico, in quanto le modalità esecutive delle due misure della casa di cura e custodia e dell'ospedale psichiatrico giudiziario sono sostanzialmente coincidenti, non esistendo di fatto autonomi istituti denominati case di cura e custodia, ma soltanto sezioni di casa di cura e custodia presso gli O.P.G. (v. art. 62 l. 354 / 1975).

Peraltro, queste incertezze applicative della giurisprudenza sono in parte naturali e comprensibili, alla luce della dirompente novità apportata in materia dalla sentenza n. 253 del 2003, del periodo piuttosto limitato trascorso dalla stessa sentenza e dell'obiettiva difficoltà di stabilire in concreto, sia pure con l'ausilio di una perizia o di accertamenti sulle condizioni psichiche dell'imputato, quale sia la misura di sicurezza più adeguata al caso.

4. Altra questione rilevante nell'esecuzione delle misure di sicurezza personali è quella della determinazione della loro durata, tra previsioni legislative, poteri del giudice di cognizione e poteri del magistrato di sorveglianza: in particolare, si pone l'annoso problema se il giudice di cognizione nell'applicare una misura di sicurezza sia vincolato alla durata minima prevista "ex lege" ovvero possa applicarla anche in misura superiore al minimo (nel primo senso v., per tutte, Cass. sez. V 20 marzo 1970; nel secondo senso v. Cass. sez. I 27 aprile 1973).

Appare preferibile, per ragioni sistematiche oltre che per il tenore letterale del primo comma dell'art. 208 c.p. in tema di riesame della pericolosità ("Decorso il periodo minimo di durata, stabilito dalla legge per ciascuna misura di sicurezza, il giudice riprende in esame le condizioni della persona che vi è sottoposta, per stabilire se essa è ancora socialmente pericolosa "), il primo orientamento giurisprudenziale: seguendo tale linea interpretativa, qualora il giudice di cognizione applichi "erroneamente" una misura di sicurezza per un periodo superiore a quello minimo previsto specificamente dalla legge, detto errore può essere "corretto" dal magistrato di sorveglianza in sede di esecuzione della misura, sostituendo alla durata stabilita dal giudice quella inferiore prevista dalla legge.

5. Si può dire che, per effetto della sentenza n. 253 / 2003 della Corte costituzionale, il nostro sistema si diriga verso il superamento degli O.P.G., ossia - per dirla con la stessa sentenza - delle "ultime strutture chiuse per la cura di infermi psichiatrici"?

In senso relativo e tendenziale direi di sì: nel senso che "superare l'O.P.G., almeno parzialmente, significa evitare il più possibile di farvi ricorso, e le sentenze n. 253 / 03 e n. 367 / 04 della Corte Costituzionale oggi lo rendono possibile "e "significa poi che il periodo di ricovero deve essere il più breve possibile: è ampiamente adoperato oggi il sistema di dimissione con licenza finale - esperimento, o altri strumenti che rendono flessibile il termine della misura stessa, che consentono di far uscire dall'O.P.G. il paziente con affidamento a un programma di cura nei servizi territoriali "(F. SCARPA, 2006).

Va in questa direzione l'esperienza delle "licenze finali di esperimento ", concesse dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 53, 1º comma, ord. pen., su richiesta dell'internato o proposta dell'O.P.G., sulla base di un preciso e individualizzato programma terapeutico-riabilitativo di reinserimento esterno, che preveda l'inserimento dell'internato in una comunità o struttura protetta, ovvero sul territorio con affidamento ai servizi psichiatrici competenti.

Questa esperienza è già in atto da diversi anni nei vari O.P.G. del paese e, con particolare riferimento all'Istituto di Montelupo Fiorentino, presenta ad oggi un bilancio sicuramente positivo, dal punto di vista quantitativo e qualitativo (alla data dell'1-10-2007 erano in corso presso tale istituto n. 77 licenze finali di esperimento; la percentuale di revoche è statisticamente piuttosto bassa).

Con la licenza finale di esperimento, frutto dell'azione congiunta e sinergica dell'equipe di osservazione dell'O.P.G. e del servizio psichiatrico competente per il singolo internato, avallata dal magistrato di sorveglianza cui compete la relativa concessione, si realizza una strada intermedia tra l'internamento a tempo indeterminato dei pazienti negli O.P.G., con i suoi effetti inevitabilmente segreganti, e la loro dimissione "tout court" (a seguito di revoca o non eseguibilità della misura di sicurezza) dagli stessi istituti, in mancanza di un progetto terapeutico personalizzato e adeguato ai loro problemi: questo perché - come è noto - la licenza finale comporta la sottoposizione del soggetto alla libertà vigilata (art. 53, 4º comma, ord. pen.) e, quindi, il suo controllo e la verifica del programma all'uopo predisposto.

Solo un cenno, per concludere, alle prospettive di riforma della disciplina delle misure di sicurezza per infermi e seminfermi di mente: dal Progetto Grosso di riforma del codice penale al Progetto Pisapia, passando per il Progetto Nordio, una considerazione sintetica porta a "costatare che, pur differenziandosi ampiamente, tutti i progetti di Riforma perpetuano la pericolosità sociale e le misure di sicurezza, anche se con nuove denominazioni "(F. MAISTO, 2007).

Nel Progetto Pisapia, l'ultimo in ordine di tempo, non si parla più di pericolosità sociale, ma si prevede che nei confronti dell'agente non imputabile autore di reato sia applicata una "misura di cura e di controllo", con riferimento alla necessità della cura e con durata non superiore a quella della pena che si applicherebbe all'agente imputabile; indicandosi poi una vasta gamma di misure di cura e di controllo, tra le quali il giudice dovrà scegliere quella più confacente al caso, che vanno dal ricovero in strutture terapeutiche protette o in strutture con finalità di disintossicazione al ricovero in comunità terapeutiche, dalla libertà vigilata associata a trattamento terapeutico all'obbligo di presentazione, eventualmente associata a trattamento terapeutico, dall'affidamento a servizi socio-sanitari allo svolgimento di una attività lavorativa o di una attività in favore della collettività (art. 22 dei principi di delega al Governo per l'emanazione del nuovo codice penale).

*. Abstract della relazione all'incontro di studio del 14 marzo 2008 "Malattia mentale, imputabilità e pericolosità sociale" (Referenti Formazione Decentrata Corte Appello Firenze).

**. Magistrato di sorveglianza, Firenze.