ADIR - L'altro diritto

Seminario dedicato ai detenuti stranieri tossicodipendenti

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti della Casa di Reclusione di Padova, 1999

Intervento della Dott.ssa Serrano

dirigente dell'Ufficio Stranieri della Questura di Padova

Sono qui in sostituzione della Dottoressa Marinelli, che non è potuta venire e che è il dirigente dell'Ufficio Stranieri. Sono qui per darvi qualche cenno sulla legge dell'immigrazione, ma anche per rispondere ai vostri quesiti su una materia che è nuova anche per noi, quindi immagino che di domande da fare ce ne siano parecchie.

Innanzi tutto vorrei far presente che l'attività dell'Ufficio Stranieri è un'attività abbastanza ampia, rivolta sia agli stranieri regolarmente presenti sul territorio nazionale, sia agli stranieri irregolari, e si estrinseca sia nella regolamentazione della posizione di soggiorno di quelli che sono entrati regolarmente e sono autorizzati a soggiornare in Italia, sia nei confronti di quelli che non hanno diritto a rimanervi perché sprovvisti di un'apposita autorizzazione che, poi vedremo, è il visto d'ingresso, che consente allo straniero di entrare in Italia e di ottenere il permesso di soggiorno.

L'attività dell'Ufficio Stranieri è quindi sia di rilascio delle autorizzazioni e di rinnovo di quelle già concesse, sia d'adozione di provvedimenti d'espulsione, che sono poi le attività successive alla verifica della sussistenza delle condizioni per il soggiorno dello straniero nel territorio nazionale.

Il Testo Unico delle leggi sull'Immigrazione, cioè il Decreto Legislativo nº 286/98 è il nuovo Testo, che va ad abrogare definitivamente la Legge 39/90, che disciplinava la materia dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale.

Questo Testo Unico risponde ad un progetto molto ambizioso del legislatore, quello di riorganizzare in maniera completa la materia raccogliendo al suo interno la Legge 40/98 e alcune disposizioni contenute nel Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza.

Il legislatore si è posto come obiettivi fondamentali quelli di individuare delle misure più efficaci e più puntuali di lotta all'immigrazione clandestina ma soprattutto a quei fenomeni criminali che ad essa sono connessi.

In particolare, introduce nuove ipotesi di reato, come il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina a scopo di sfruttamento della prostituzione e a scopo di sfruttamento dei minori, irrigidisce le pene per altri reati, come appunto quello del favoreggiamento dell'immigrazione clandestina in generale e dell'impiego di manodopera clandestina.

D'altro canto, però, il legislatore si è posto un altro obiettivo importante, quello di realizzare la più ampia integrazione dello straniero regolarmente presente sul territorio nazionale. In che modo?

Creando un Testo che sia più facilmente leggibile e non demandi a circolari ministeriali, o a disposizioni interne che solo gli operatori del settore possono conoscere, gli strumenti di integrazione di cui lo straniero regolarmente presente può avvalersi.

Innanzi tutto, la grossa novità è quella della carta di soggiorno, che permette un soggiorno a tempo indeterminato sottoposto alle disposizioni contenute nel Regolamento di Attuazione, che indica alle Questure le modalità del rilascio.

Questa autorizzazione a tempo indeterminato fa passare lo straniero da una condizione di temporaneità, quindi di precarietà, a una condizione di maggiore stabilità, perché non è più soggetto ai rinnovi, annuali o biennali, del suo permesso di soggiorno: ottiene un permesso di soggiorno che vale a tempo indeterminato e, con lui, lo ottengono i suoi familiari conviventi fino al quarto grado, purché, chiaramente, sia in possesso dei requisiti per ottenerlo.

Innanzi tutto deve avere un reddito sufficiente per provvedere al mantenimento proprio e del proprio nucleo familiare e un'idonea sistemazione abitativa, oltre all'assenza di precedenti sfavorevoli, cioè non deve essere né imputato né condannato per i reati gravi per cui è permesso l'arresto obbligatorio o facoltativo in caso di flagranza, cioè i reati contemplati negli articoli 380 e 381 del Codice di Procedura Penale.

La novità contenuta nel Regolamento di Attuazione, rispetto al Testo Unico, è che lo straniero sarà soggetto ad una sorta di vidimazione decennale, dovrà quindi chiedere alla Questura un aggiornamento, che ancora non si sa bene in cosa si concretizzerà, probabilmente nella sostituzione della fotografia, che potrebbe non corrispondere più all'aspetto del titolare.

Questo consentirà anche la verifica della sussistenza dei requisiti già verificati al momento del rilascio della carta di soggiorno.

Questa carta di soggiorno, nei cinque anni successivi al suo rilascio varrà anche come documento d'identità e questo sembrerebbe escludere la necessità, per lo straniero di esibire il passaporto, che come sapete è un documento essenziale per ottenere un permesso di soggiorno.

Facevo riferimento all'obiettivo di realizzare la massima integrazione dello straniero legalmente presente: la si ottiene, ad esempio, anche indicando espressamente, nell'Art. 34 del Testo Unico, la possibilità di accedere al Servizio Sanitario Nazionale.

Lo straniero ha diritto di iscriversi gratuitamente al S.S.N. quando il suo permesso di soggiorno è rilasciato per motivi di lavoro, di iscrizione alle liste di collocamento, per motivi di asilo politico o di attesa adozione e di richiesta della cittadinanza italiana.

In tutti gli altri casi, lo straniero regolarmente soggiornante ha la facoltà di ottenere l'iscrizione al S.S.N. a pagamento e, comunque, all'atto del rilascio del permesso di soggiorno, ha l'obbligo di esibire alla Questura la documentazione relativa all'iscrizione al S.S.N., oppure una polizza assicurativa per malattia e infortuni.

Sempre nell'ambito di questo tentativo di realizzare una reale integrazione, il legislatore ha voluto garantire allo straniero regolarmente presente l'unità del proprio nucleo familiare, sancendo, nell'Art. 28 del Testo Unico, il diritto di mantenere o riacquistare l'unità familiare quando è titolare di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro ed ha un reddito che gli consenta di mantenere la famiglia.

Lo straniero ha diritto di richiedere il ricongiungimento con il proprio nucleo familiare attraverso una procedura particolare, che prevede la verifica, da parte della Questura del luogo di domicilio, dei requisiti per l'ottenimento del visto; poiché, necessariamente, i familiari dovranno munirsi di un visto, per entrare in Italia per ricongiungimento familiare.

Questa verifica consiste nell'accertamento della disponibilità di un reddito e di un alloggio.

Il contrasto all'immigrazione clandestina e l'integrazione degli immigrati regolari sono i due obiettivi che il legislatore ha voluto realizzare attraverso la nuova Legge che però, per quanto riguarda i principi generali vigenti, in materia di ingresso e soggiorno, ricalca i contenuti della Legge 39/90, perché ribadisce che nessun straniero (per "straniero" s'intende il non appartenete all'Unione Europea e il non apolide) può entrare in Italia se sprovvisto di un passaporto o di un documento equipollente (che potrebbe essere il documento di viaggio, per i rifugiati politico) e se sprovvisto del visto, tranne nei casi espressamente indicati in accordi tra stati, accordi di reciprocità in base ai quali i cittadini di entrambi gli stati contraenti possono entrare nel territorio dell'altro stato senza passare necessariamente dalla rappresentanza diplomatica dell'altro stato.

La necessità di passare dalla rappresentanza diplomatica c'è in tutti gli altri casi, quindi il cittadino straniero che vuole entrare in Italia deve rivolgersi alla rappresentanza diplomatica o consolare italiana nel proprio paese d'origine, oppure nel luogo di stabile residenza, e chiedere un'autorizzazione, che consiste appunto in un visto che viene apposto sul suo passaporto e gli consente l'ingresso in Italia e l'ottenimento di un permesso di soggiorno in Italia, che diversamente non potrebbe avere.

La richiesta alla rappresentanza diplomatica viene inoltrata dimostrando i motivi dell'ingresso, quindi lo scopo del viaggio, inoltre lo straniero deve dimostrare di disporre di mezzi di sostentamento sufficienti per il periodo di permanenza nel territorio italiano, quindi lo scopo e le condizioni di soggiorno.

La rappresentanza diplomatica può anche negare il rilascio del visto d'ingresso, però lo deve fare con un provvedimento motivato.

L'ottenimento del visto non dà diritto all'ingresso nel territorio nazionale, perché lo straniero potrebbe anche essere respinto ai controlli di polizia di frontiera; la sussistenza delle condizioni per l'ottenimento del visto potrebbe non essere ritenuta sufficiente a giustificare un ingresso nel territorio nazionale.

Ad esempio, se il cittadino marocchino che entra in Italia munito di un visto per affari si presenta ai controlli di frontiera e non è in grado di dimostrare il luogo in cui andrà a soggiornare, oppure non risulta in possesso di mezzi di sostentamento sufficienti ad affrontare il periodo di soggiorno sul territorio nazionale, oppure non ha persone che garantiscono per lui, o non ha la documentazione relativa alla garanzia prestata, per ipotesi, dal titolare della ditta presso la quale è stato inviato per concludere un accordo commerciale.

In questo caso lo straniero può essere respinto alla frontiera e rinviato nel paese d'origine.

Lo straniero, che entra munito del visto d'ingresso, deve poi richiedere il permesso di soggiorno quindi, il possesso dell'autorizzazione all'ingresso, non ne determina la regolarità dal punto di vista delle norme di soggiorno.

L'art. 5 del Testo Unico prevede, per lo straniero che entra munito del visto d'ingresso, l'obbligo di inoltrare istanza di permesso di soggiorno entro otto giorno dalla data d'ingresso.

Otterrà un permesso di soggiorno contenente identica motivazione e durata del visto d'ingresso concesso dalla rappresentanza diplomatica.

I visti d'ingresso si dividono in due grosse categorie: quelli di categoria C, di breve durata, e quelli di categoria D, di lunga durata.

L'Italia, dal 26 Ottobre '97 è entrata nella fase applicativa dell'accordo di Schengen, assieme a tredici dei quindici stati appartenenti all'Unione Europea: un accordo in base al quale sono definitivamente aboliti i controlli alle frontiere interne, quindi si è venuta a costituire un'unica frontiera esterna e, all'interno del territorio costituito da tutti i paesi aderenti al trattato di Schengen, è garantita la libera circolazione delle persone.

Questa novità ha reso necessaria l'adozione di alcune misure compensative da parte di tutti gli stati che hanno aderito alla convenzione, nel senso di rendere adeguate le strutture della normativa in materia di circolazione degli stranieri.

In primo luogo è stato istituito un nuovo visto, il "visto Schengen", che consente allo straniero che entra nello "spazio Schengen" di circolare in questo territorio per un periodo non superiore ai tre mesi, nei sei mesi che decorrono dalla data di primo ingresso.

Se un cittadino marocchino entra in Italia munito di un visto, per motivi di turismo Schengen - uniforme per fare visita a un proprio familiare, otterrà un permesso di soggiorno per motivi di turismo che gli permetterà di circolare e di soggiornare per brevi periodi e, comunque, non superiori a tre mesi, negli altri stati che hanno aderito alla convenzione d'applicazione degli accordi di Schengen.

Anche il visto di lunga durata, ad esempio per ricongiungimento familiare, a seguito della procedura esperita dal familiare straniero regolarmente soggiornante in Italia per motivi di lavoro o di studio, per motivi religiosi o di asilo politico (questi ultimi possono anche non dover dimostrare il possesso dei requisiti di reddito e alloggio) dà la possibilità di circolare e soggiornare per brevi periodi nei paesi aderenti a Schengen.

I visti d'ingresso di tipo C danno la possibilità di ottenere permessi di soggiorno per periodi inferiori ai tre mesi, mentre quelli di tipo D consentono di ottenere permessi la cui durata è determinata di volta in volta, in relazione alla tipologia del visto: quello per ricongiungimento familiare ha la durata di due anni; quello per studio dà diritto ad un permesso di validità annuale perché è subordinato alla verifica del rinnovo dell'iscrizione all'istituto scolastico.

Tutti questi visti permettono di circolare liberamente nello "spazio Schengen" e di soggiornare negli altri stati per un periodo non superiore ai tre mesi.

Lo straniero non ha solo l'obbligo di chiedere il permesso di soggiorno entro otto giorni dalla data d'ingresso, ma anche l'obbligo di rinnovarlo, quindi di non lasciarlo scadere; il rinnovo deve essere richiesto almeno venti giorni prima della sua scadenza, questo termine tuttavia è indicativo, non tassativo, perché la Questura ha l'obbligo di ricevere la domanda di rinnovo anche successivamente, purché lo straniero sia in grado di dimostrare le ragioni che ne hanno impedito l'inoltro per tempo.

La permanenza in carcere, non è un vincolo sufficiente a giustificare il ritardo nella presentazione della richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno?

Coloro ai quali il permesso di soggiorno va in scadenza durante la detenzione possono chiederne il rinnovo attraverso il direttore dell'Istituto carcerario.

La carcerazione può essere un elemento ostativo al rinnovo del permesso di soggiorno?

La permanenza in carcere non può essere considerata una causa di forza maggiore che giustifichi la mancata richiesta del rinnovo. La Legge 39/90 prevedeva espressamente la possibilità di richiederne il rinnovo, quindi anche l'obbligo di richiederlo, tramite il direttore dell'Istituto penitenziario.

Il Testo Unico non lo prevede espressamente, questa possibilità è contemplata nel Regolamento di Attuazione.

Qual è la differenza tra la carta di soggiorno ed il permesso di soggiorno?

Il permesso di soggiorno è l'autorizzazione iniziale, che viene concessa agli stranieri muniti di visto d'ingresso; può avere una durata massima fino a tre mesi per chi entra con visto di categoria C e di due anno per chi entra con visto di categoria D: nel secondo caso è anche rinnovabile.

La carta di soggiorno viene rilasciata agli stranieri che hanno già soggiornato regolarmente per un periodo di almeno cinque anni e che devono essere titolari di un permesso di soggiorno che consenta un numero indeterminato di rinnovi, quindi sembrerebbe escluso, ad esempio, il cittadino straniero che ha soggiornato per motivi di studio in quanto, nel momento in cui non si reiscrive all'istituto scolastico che ha frequentato per cinque anni, non ha più titolo per chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno.

Quali conseguenze ha la carcerazione nel percorso dello straniero irregolare?

Appena esce dal carcere deve essere espulso, perché il mancato rinnovo del permesso di soggiorno lo pone in una condizione di clandestinità.

Paggi: mi permetto di intervenire, perché sembra quasi che il problema non debba venire fuori, invece deve venire fuori e proprio in questa sede. L'Ufficio Matricola, fino a ieri, ha sempre ritenuto che lo straniero non potesse presentare la domanda di rinnovo del permesso di soggiorno presso tale ufficio e, siccome dalla cella all'Ufficio Matricola ci sono molti cancelli, lo straniero che faceva la domandina per chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno non veniva ricevuto. Questo problema lo tiriamo fuori, oppure lo nascondiamo anche quando siamo qui per ragionare essenzialmente di questo?

Barone: nel caso della sanatoria, noi come Direzione abbiamo mandato delle richieste incomplete, ma per colpa nostra, perché non c'erano i tempi per chiedere i particolari: chi ne risponde di questo?

Serrano: intanto bisogna accertare se sono davvero incomplete, o meno.

Barone: ce le avete rimandate, perciò vuol dire che erano incomplete.

Serrano: Rimandate come non accette, o per altri motivi? Alcuni non avevano il passaporto né un certificato della rappresentanza diplomatica. Due domande sono state accolte, una delle quali corredata soltanto da una fotocopia del passaporto, peraltro scaduto, ma che rimane pur sempre un documento d'identità.

Barone: Invece, per altri due casi, non è stato allegato il visto dell'autorità consolare, che era depositato al casellario.

Serrano: In questi casi la responsabilità è di chi ha seguito la pratica e, comunque, si tratta di casi singoli che si possono rivedere, che vanno vagliati uno per uno. Alcune richieste sono arrivate anche dopo la scadenza della sanatoria.

Barone: La mancata conoscenza, da parte dei detenuti stranieri, delle norme disciplinanti la sanatoria...

Serrano: Questa mancanza deve essere colmata da chi gestisce l'Istituto penitenziario, non è pensabile che l'Ufficio Stranieri della Questura debba garantire direttamente l'informazione sulle norme riguardanti l'immigrazione.

Barone: Data la complessità della materia, mi prendo carico di non aver compreso una disciplina peraltro non molto chiara, sicuramente non agile.

Serrano: Comunque, il Regolamento di Attuazione prevede l'obbligo, per le amministrazioni degli Istituti di Pena, di mettere a disposizione degli stranieri le norme in materia di rinnovo del permesso di soggiorno, informazione tradotte in francese, inglese e spagnolo, le lingue più conosciute, e anche in lingua araba: questo risponde a una necessità, che voi registrate, di conoscere la materia e di poterla applicare per risolvere alcune questioni che si vengono a creare all'interno del carcere.

Intervento esterno: Non penso che rientri nei compiti dell'amministrazione penitenziaria quello di attivarsi per il rinnovo del permesso di soggiorno, ma piuttosto penso che l'interessato debba chiederlo direttamente, oppure tramite un avvocato.

Paggi: Il problema sulla competenza dell'amministrazione penitenziaria si è posto in termini equivoci già a monte, perché è vero che la legge Martelli prevedeva l'obbligo per le direzioni delle case di cura, istituzioni scolastiche, istituzioni penitenziarie, di svolgere in nome e per nome dello straniero tutti gli adempimenti relativi al rinnovo del permesso di soggiorno però, in tema di espulsione, c'è un equivoco. L'art. 7 della Legge Martelli era così formulato: "Sono espulsi dal territorio nazionale gli stranieri condannati per i delitti di cui all'art. 380 commi 1 e 2 del Codice di Procedura Penale". La formulazione di questa norma era tale da far pensare che il provvedimento di espulsione fosse dovuto, quindi senza alcun margine discrezionale; un adempimento conseguente alla semplice condanna definitiva e dovuto da parte dell'autorità amministrativa. In altre parole, che fosse una conseguenza amministrativa di una condanna in sede penale. Questa era l'interpretazione che "sembrava" la più accreditata, anche perché la norma, effettivamente, non menzionava competenze da parte dell'autorità giudiziaria. Ma, già nel '90, erano sorti dei dubbi in proposito, perché quando la legge riconduce ad una condanna in sede penale una determinata misura, questa si chiama "misura di sicurezza" e, in quanto tale, deve essere applicata dall'autorità giudiziaria. Per l'appunto, qualche anno dopo, la Corte Costituzionale, nel '95, ha dato conferma a questa tesi dicendo che la norma è formulata in maniera affrettata, però dove riconduce alla condanna in sede penale una conseguenza, lo fa qualificando questa misura come una misura di sicurezza. Trattandosi quindi di una misura che deve essere erogata dall'autorità giudiziaria e che può essere revocata dalla stessa autorità, non entra minimamente in campo la competenza dell'autorità amministrativa; cioè non è la polizia che può adottare un provvedimento di espulsione, in questi casi. Lo può adottare il giudice con una sentenza, lo può revocare il Magistrato di Sorveglianza con il provvedimento che riesamina la pericolosità sociale. Di conseguenza, nel caso di condanna per delitti, l'autorità di polizia nulla deve verificare in ordine alla possibilità di espulsione. Se volete, paradossalmente, un delinquente conclamato è più tutelato contro l'espulsione rispetto a uno che, magari, ha commesso una semplice violazione amministrativa quale, per esempio, la richiesta tardiva del rinnovo del permesso di soggiorno ma, chi si occupa di diritto, sa che non si sta occupando di giustizia, perché la legge e la giustizia sono due cose diverse.

Cosa è successo nel frattempo: ritenendo sempre che l'espulsione conseguente a condanna fosse una misura amministrativa automatica, per buon senso si era ritenuto che non fosse possibile chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno da parte di una persona che, appena scarcerata, avrebbe dovuto necessariamente essere espulsa. Quindi si considerava la sussistenza di una circostanza ostativa assoluta, che impediva di prendere in considerazione la domanda di rinnovo: se lo straniero è in carcere, c'è perché deve espiare la pena e il rinnovo del permesso di soggiorno non ha ragion d'essere perché, se non fosse in carcere, bisognerebbe averlo già spedito a casa. A causa di questa interpretazione, nelle istituzioni penitenziarie non è nata nemmeno la prassi del rinnovo del permesso di soggiorno, perché le rare domande che arrivavano alle questure avevano come risposta "non se ne parla nemmeno". Non è nata un'esperienza in questo senso ed è stata la sanatoria a provocare il problema da chiarire e lo ha provocato in pochissimi istituti penitenziari, tra i quali questo di Padova. Fino ai giorni nostri in problema non si poneva e questo spiega perché gli Uffici Matricola non hanno mai preso in considerazione le domande, considerandole addirittura bizzarre.

Le questure stesse, e qui faccio una considerazione obiettiva, insomma se io fossi la questura non sentirei il bisogno di facilitare la regolarizzazione degli immigrati condannati per delitti. A livello di politica dell'interesse pubblico non ci si può aspettare che la polizia faccia un'opera di divulgazione, là dove, dal punto di vista amministrativo, si potrebbe sempre dire che la legge non ammette ignoranza e quindi che ognuno si occupi degli affari suoi. Vero è, però, che l'istituzione carceraria avrebbe avuto il dovere di informare le persone, perché oltretutto un ristretto non ha nemmeno quegli strumenti di conoscenza di cui può disporre normalmente una persona libera: la Gazzetta Ufficiale, in parole povere, non è disponibile in carcere; già è difficile tenersi informati per gli addetti ai lavori, figurarsi per i detenuti.

Vorrei tentare di arrivare ad un chiarimento che possa essere utile oltre il caso singolo perché, francamente, io faccio volentieri il mio lavoro per un caso particolare ma, per un caso che si risolve, ce ne sono altri cento che si perdono per la loro strada. Mi è capitato di parlare al telefono con un'assistente sociale del carcere di Venezia, che mi ha detto di aver informato personalmente un detenuto straniero dell'impossibilità del rinnovo ed ora non sapeva cosa fare per rimediare all'errore. L'ho consigliato di mettere per scritto che, non avendo avuto conoscenza della norma, ha ritenuto erroneamente che il rinnovo non fosse possibile. Questa sarebbe una circostanza equiparabile alla forza maggiore e permetterebbe all'interessato di rimettersi nei termini per il rinnovo.

Lui mi ha risposto: "Ma io, adesso devo chiedere al direttore, non so se posso".

Ma come non può? Deve fare una dichiarazione di scienza, riconoscere un fatto che la espone, in linea puramente immaginaria, a una responsabilità amministrativa, perché vorrei vedere quale fosse quel direttore che sottopone a procedimento disciplinare un operatore, che come tutti gli operatori delle istituzioni carcerarie d'Italia non sapevano una cosa, per quanto basilare, non era una notizia divulgata all'interno delle carceri. Questa potrebbe essere una mossa di buona volontà, ma anche di correttezza amministrativa.

Nel caso di effettuazione della richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno, l'espulsione non è più automatica, ma diventa discrezionale?

Serrano: Se c'è la richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno è possibile che ci sia una sospensione di quei motivi che giustificavano precedentemente la permanenza in Italia e ce ne siano di nuovi, ad esempio per motivi di giustizia. Allora potrebbe ottenersi un permesso, ad esempio, di sei mesi in sei mesi, rinnovabile fino al termine della pena, e che potrebbe poi diventare un permesso per motivi di famiglia, o di studio, riprendendo la situazione originaria.

In tal caso, la carcerazione sarebbe da considerare un periodo di sospensione, di congelamento della situazione di soggiorno. Peraltro, può accadere che il giudice che ha emanato la sentenza di condanna abbia disposto l'espulsione, che ha a fondamento la pericolosità all'atto dell'emanazione della sentenza.

Pericolosità che può non essere confermata all'atto della scarcerazione ed in quel caso si potrebbe procedere al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi precedenti alla carcerazione, ma potrebbe anche avere seguito l'esecuzione del provvedimento di espulsione, come misura di sicurezza disposta dal giudice. Noi dobbiamo necessariamente congelare la situazione per poi rivederla all'atto della scarcerazione dello straniero.

Nel caso di uno straniero in possesso del permesso di soggiorno, che è detenuto perché imputato, quindi per il quale non è stata pronunciata alcuna condanna, è possibile il rinnovo del permesso di soggiorno?

Serrano: Se l'imputato ha un permesso di soggiorno per lavoro e continua a lavorare avrà il rinnovo. La detenzione sospende, però, il motivo di soggiorno quando c'è la restrizione all'interno di un istituto e l'imputato non può più svolgere il lavoro che gli dava diritto al titolo di soggiorno. Se invece ha un permesso di soggiorno per studio, potrà eventualmente continuare gli studi in carcere, ma comunque è in una condizione che congela la sua posizione di soggiorno, diventando prevalente sulla sua condizione di lavoratore o studente.

In caso di assunzione, al termine della pena potrà riavere il permesso?

Serrano: Il permesso di soggiorno precedentemente avuto, a meno che sia disposta l'espulsione come misura di sicurezza, può essere rinnovato all'atto della scarcerazione, per i motivi che lo straniero sarà chiamato a dimostrare. Se aveva il permesso per motivi di famiglia, all'atto della scarcerazione gli verrà rinnovato per gli stessi motivi, sempreché sussistano.

La maggior parte dei detenuti stranieri sono stati arrestati in frontiera, mentre cercavano di entrare in Italia: per loro è possibile ottenere un permesso di soggiorno?

Serrano: Se lo straniero non è entrato regolarmente, oppure se è entrato regolarmente e poi si è mantenuto irregolarmente perché non ha provveduto al rinnovo del permesso di soggiorno, deve essere espulso, ma si tratta di un'espulsione amministrativa, quindi adottata sulla verifica della situazione rispetto alle norme che disciplinano l'ingresso ed il soggiorno sul territorio nazionale degli stranieri. Se è entrato irregolarmente, non ha titolo a soggiornare in Italia e viene espulso, quindi è chiaro che non potrà avere un permesso di soggiorno, oppure è chiaro che il permesso di soggiorno ottenuto per motivi di giustizia non gli dà, poi, la possibilità di ottenerlo per motivi di lavoro. A meno che non ci sia una sanatoria; in quel caso lo straniero che è titolare di un permesso per motivi di giustizia, ad esempio per svolgere il lavoro esterno al carcere, quindi sulla scorta di una decisione giurisdizionale intervenuta in tal senso, all'atto della scarcerazione potrà eventualmente "transitare" in una posizione di soggiorno per motivi di lavoro, o di famiglia, se ha un familiare regolarmente soggiornante in Italia e poi ottenere un permesso di soggiorno ad altro titolo.

Se non c'è la sanatoria, non hanno nessuna possibilità di regolarizzarsi?

Serrano: Nessuna possibilità; devono tornare nel loro paese e, poi, eventualmente, tornare in Italia muniti di un visto, se hanno i requisiti per ottenerlo, così come previsto dal Testo Unico sull'Immigrazione.

Allora, è sempre conveniente chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di giustizia?

Serrano: In caso di sanatoria, anche chi non ha il permesso di soggiorno per motivi di giustizia potrà usufruirne: in sede di sanatoria, il requisito che bisogna avere è la prova della presenza in Italia, per prima cosa, poi la disponibilità di un contratto di lavoro, o la possibilità di svolgere un lavoro autonomo, quindi il possesso dei requisiti per svolgere questa attività.

Paggi: A prescidere dalla sanatoria, che è un provvedimento eccezionale ed oramai chiuso, c'è un'altra possibilità, a regime, che in linea teorica vale la pena di verificare e potrà verificarla anche il diretto interessato, sempre che sappia di averla. Il percorso virtuoso del detenuto straniero, come del detenuto italiano, che dà segni di buon comportamento, è quello per cui ottiene i permessi, poi la semilibertà, poi l'affidamento in prova; insomma riesce a uscire dal carcere e a trovare un'attività lavorativa, cosa più difficile per lo straniero, a causa della mancanza di contatti nel territorio. Per consentire l'espiazione della pena all'esterno dell'istituzione carceraria è necessario che gli venga rilasciato un permesso, che si chiama "permesso di soggiorno per motivi di giustizia", poiché ha l'obbligo di circolare con una autorizzazione altrimenti potrebbe essere considerato clandestino ad ogni controllo. Questo permesso, in base a circolari ministeriali del ministero dell'Interno e del Lavoro, consente allo straniero un regolare svolgimento dell'attività lavorativa. Lo straniero, ex detenuto, che sia in possesso del permesso per motivi di giustizia, può anche iscriversi al Collocamento, a differenza di chi non ha mai commesso un reato e, magari, ha lo stesso permesso per motivi di giustizia avendo fatto ricorso contro un rifiuto del rinnovo del permesso per lavoro. Se volete, c'è una disparità di trattamento tra l'ex detenuto ed il disgraziato che, magari, ha solo ritardato nel chiedere il rinnovo del permesso già posseduto.

Serrano: Per gli stranieri detenuti c'è uno speciale avviamento al lavoro, che prescinde dall'iscrizione al Collocamento, se è ancora in vigore una circolare ministeriale del '93, concertata tra i ministeri dell'Interno e del Lavoro: il datore di lavoro può chiederne l'avviamento al lavoro, ma il detenuto non può iscriversi al Collocamento.

Paggi: No, no, lo straniero può anche iscriversi al Collocamento, anche se l'avviamento al lavoro prescinde da questa iscrizione, perché normalmente il lavoro deve essere trovato prima della uscita dal carcere: il contratto deve essere esibito al Magistrato di Sorveglianza, perché conceda la semilibertà, o l'affidamento. Molti magistrati ancora non hanno capito se viene prima l'uovo o la gallina, cioè se deve esserci prima il permesso di soggiorno, o prima il contratto di lavoro. Bisognerebbe quindi spiegargli che, secondo la prassi amministrativa, lo straniero avrà il permesso di soggiorno "se" potrà uscire dal carcere e "se" perfezionerà il contratto di lavoro già sottinteso tra le parti.

Serrano: A me, invece, risulta che lo straniero possa uscire dal carcere per lavorare, a prescindere sia dall'iscrizione al Collocamento che dal possesso del permesso di soggiorno, per cui non c'è l'obbligatorietà di esibire il permesso di soggiorno al Magistrato di Sorveglianza o all'Ufficio del Collocamento. Il permesso di soggiorno dovrebbe essere solo lo strumento per agevolare lo straniero che esce dal carcere, come lei giustamente diceva, quindi per esibirlo ai controlli di polizia, non per l'ottenimento del lavoro e l'inizio dell'attività lavorativa, tant'è che il libretto di lavoro non viene rilasciato allo straniero, ma depositato presso il datore di lavoro, che ha l'obbligo di riconsegnarlo agli Uffici del Lavoro al termine dell'espiazione della pena del lavoratore.

Paggi: Questo riguarda tutti gli extracomunitari, anche i non detenuti: in base alla legge istitutiva del libretto di lavoro, del 1934, per tutti gli stranieri il datore di lavoro deve riconsegnare il libretto di lavoro a fine rapporto.

Serrano: Sì, però la necessità di esibire il permesso di soggiorno all'Ufficio del Lavoro, io non la vedo.

Paggi: Il permesso di soggiorno viene dopo, cioè quando il detenuto straniero è già messo in libertà su ordine dell'autorità giudiziaria; allora si verifica il presupposto che consente il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Lo straniero in possesso di questo permesso può lavorare in regola, anche secondo il giudizio dell'Ufficio del Lavoro. È chiaro, però, che lo straniero può presentarsi all'Ufficio del Lavoro solo quando è già libero; il contratto di lavoro si perfezionerà solo quando la persona ha già le condizioni per poter lavorare. Di conseguenza, dal punto di vista logico, cronologico e anche del buon senso, il procedimento dovrebbe essere questo: lo straniero dimostra di avere una disponibilità d'impiego; a fronte di questo, e di altro, il Magistrato di Sorveglianza valuta se la misura può essere concessa; a quel punto lo straniero esce e fisicamente va in questura, dove chiede il permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Se poi trova chi lo assiste, tanto meglio, anche perché di solito gli stranieri non sono molto informati sulle procedure da seguire; a quel punto ci sono tutti gli elementi per avere un perfezionamento regolare del contratto di lavoro. Contratto di lavoro che, riguardando un extracomunitario, è influenzato da questa prassi, che non sta scritta in nessuna legge ma sta scritta soltanto in circolari del Ministero dell'Interno e del Lavoro, e dalle norme generali che riguardano tutti gli stranieri, per cui verrà autorizzato a svolgere attività lavorativa e il suo libretto di lavoro può essere consegnato direttamente dall'Ispettorato del Lavoro al datore di lavoro e, al termine del rapporto di lavoro, a prescindere da quando scade il permesso di soggiorno, egli dovrà riconsegnarlo all'Ispettorato. La norma base in materia di lavoro prevede questa discriminazione, che non ha una gran logica, se vogliamo.

Serrano: Nella prassi, lo straniero molte volte è in grado di esibire il libretto di lavoro all'Ufficio di Collocamento: questo vuol dire che c'è una cattiva interpretazione della legge?

Paggi: Vuol dire semplicemente che questa norma non prevede una sanzione: non è prevista, nel caso in cui il datore di lavoro non riconsegna all'Ispettorato del Lavoro il libretto, nessuna sanzione amministrativa o penale. Di fatto, questa norma la conoscono in pochissimi; anche i consulenti del lavoro normalmente non la conoscono ed è la cosa più naturale che, alla fine del rapporto di lavoro, il libretto venga consegnato al lavoratore e, per errore, succede di frequente che anche il lavoratore extracomunitario se lo veda riconsegnare. C'è da dire che, molto spesso, l'extracomunitario ci tiene ad avere il libretto di lavoro perché, dal suo punto di vista, e non ha tutti i torti, il fatto di disporre di un documento ufficiale in più rappresenta l'essere in regola. Ma c'è anche da dire che, siccome l'ignoranza è diffusissima non solo tra gli extracomunitari, ma pure tra i datori di lavoro ed i loro consulenti, molti extracomunitari che cercano lavoro trovano il datore di lavoro che gli dice: "Ti dò lavoro solo se hai il libretto di lavoro". Ed ecco che, nei vari sportelli di consulenza, arrivano gli extracomunitari che dicono: "Io ho trovato un lavoro, ma mi assumono solo se ho il libretto, però sono andato all'Ispettorato e mi dicono che mi danno il libretto solo se ho un datore di lavoro". Realtà di tutti i giorni, di tutti gli Ispettorati del Lavoro d'Italia, che è assurdo, kafkiano, ma è così. La soluzione sarebbe semplice: il datore di lavoro dovrebbe andare all'Ispettorato a chiedere il libretto dello straniero che intende assumere, se sapesse che lo deve fare. Invece lui pensa che, se lo straniero non ha il libretto di lavoro, non è in regola e non può lavorare in regola: non capisce che, con il permesso di soggiorno per motivi di lavoro, ha già tutto quello che gli serve per lavorare in regola, salvo doversi recare, unitamente al datore di lavoro, presso l'Ispettorato, per ritirare il libretto.

Il libretto di lavoro è dunque l'ultima cosa da avere, per mettersi in regola?

Paggi: No, il permesso di soggiorno viene prima del libretto di lavoro e, comunque, prima del perfezionamento del rapporto di lavoro, quindi, riepilogando: lo straniero prospetta al Magistrato di Sorveglianza che avrebbe un lavoro, e lo documenta con una sorta di contratto preliminare, che diverrà effettivo solo al verificarsi della scarcerazione; il magistrato valuterà se autorizzare il provvedimento di beneficio richiesto dallo straniero, a quel punto lo straniero esce, va in questura e chiede un permesso di soggiorno per motivi di giustizia e poi, con il datore di lavoro, va all'Ispettorato del Lavoro e, finalmente, può essere avviato al lavoro. L'avviamento al lavoro, può avvenire con una preventiva iscrizione al Collocamento, ma anche in questo caso la norma è sfornita di sanzione. Ci sarebbe sempre l'obbligo di iscrizione prima di iniziare a lavorare, ma non c'è una sanzione per chi va a lavorare senza prima essere iscritto al Collocamento. Il datore di lavoro, volendo, può assumere la persona con il libretto di lavoro e comunicare entro cinque giorni l'avvenuto avviamento al lavoro al Collocamento: con questo, non incorre in alcuna sanzione.

Un extracomunitario in possesso del permesso di soggiorno delinque e viene condannato; quando è in misura alternativa, è pur sempre in esecuzione della pena, e allora perché deve chiedere il permesso di soggiorno per motivi di giustizia, quando potrebbe benissimo non averne bisogno fino al termine della pena?

Paggi: Non dobbiamo confondere quello che sarebbe più bello e più pratico, con quella che è la normativa vigente, perché altrimenti rischiamo di parlare di giustizia e non di diritto, mentre bisogna tenere distinte le due cose.

Serrano: Prima abbiamo discusso sulla possibilità di iscrizione al collocamento per lo straniero che esce in misura alternativa: per quanto è a mia conoscenza, questa possibilità non esiste. C'è la possibilità di un avviamento assolutamente speciale al lavoro, che viene richiesto dal datore di lavoro che chiede quel determinato lavoratore straniero ammesso al lavoro esterno; quindi in forza di una decisione giurisdizionale che consente un avviamento specialissimo, che muore con la fine dell'espiazione della pena, quindi con il termine della misura alternativa disposta dal Magistrato di Sorveglianza. Che non dà la possibilità di iscrizione al Collocamento e costituisce un ostacolo alla trasformazione di quel titolo di soggiorno in un titolo diverso, per esempio per motivi di lavoro.

Se fosse iscritto al Collocamento, si potrebbe creare un'aspettativa nello straniero, che quel permesso per motivi di giustizia possa diventare un permesso diverso: invece no, questo soggiorno per giustizia è strumentale all'esecuzione della misura e non gli permette di continuare la permanenza in Italia.

Quali sono i mezzi con cui lo straniero può proporre ricorso contro il provvedimento di espulsione?

Serrano: Può proporre ricorso al T.A.R. e può ottenere la sospensione dell'efficacia del provvedimento. Questo può determinare il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di giustizia amministrativa, che però ha il difetto di non consentire lo svolgimento di un'attività lavorativa e quindi il perfezionamento di un rapporto di lavoro; speriamo che il Regolamento di Esecuzione preveda qualcosa di diverso.

Un clandestino, come sono nel 90% dei casi gli stranieri che entrano in carcere, prende dei contatti, eventualmente trova qualcuno disponibile a dargli lavoro, inoltra la procedura per la misura alternativa, va in affidamento, ottiene il permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Quando finisce la pena sta lavorando, ha trovato una casa, si è reinserito: a questo punto, può fare richiesta di permesso di soggiorno per motivi di lavoro?

Serrano: No, non può, perché la norma non glielo consente.

Allora, che senso ha la pena?

Serrano: Ha comunque la sua funzione riabilitativa, che è una cosa diversa dal consentire allo straniero di soggiornare in Italia: tutto sommato, lo straniero riabilitato e recuperato può anche tornare al suo paese di origine. All'atto del fine pena, se non è entrato regolarmente in Italia, deve uscire dall'Italia, e la regolarità è data da un visto d'ingresso e da un permesso di soggiorno; se non ha l'uno o l'altro, non può rimanere in Italia.

Nel caso di uno straniero regolarmente soggiornante in Italia, che viene arrestato e resta in carcere per un breve periodo ed esce che il suo permesso di soggiorno non è ancora scaduto, quel permesso è ancora valido?

Serrano: Certo, se non è ancora scaduto, o se l'ha rinnovato, è ancora valido. Se il permesso era per motivi di lavoro, mentre è in carcere ovviamente rimane "congelato" e, al momento della scarcerazione, si ripristina la situazione originaria. Se invece era, ad esempio, per motivi di famiglia, lo stato di detenzione non ostacola le condizioni che giustificano il suo possesso e rimane valido senza interruzioni.

Intervento del Dott. Faramo

provveditore agli istituti di pena

Non sono potuto arrivare stamattina, ed ora sono qua soltanto per un saluto. Questo corso fa parte di una serie di iniziative, che intendono decentrare la formazione del personale, in attuazione del disegno del dipartimento. Questa è un'attività formativa in un settore molto importante, perché oggigiorno quello della tossicodipendenza e della presenza degli extracomunitari sono i problemi che più ci affliggono; qui a Padova di più il secondo, perché vedo la situazione degli arresti, la situazione quindi che si determina al Circondariale che ci costringe a ripetuti sfollamenti. Una situazione di precarietà, che ci ha costretto ad aprire una sezione giudiziaria qua alla Casa di Reclusione. Questo è il fatto solo alloggiativo, ma che ha dei riflessi molto importanti anche sulla gestione di questi detenuti, coi quali in effetti siamo spesso in difficoltà: noi non li capiamo e loro non capiscono noi. Ci sono quindi delle grosse difficoltà e spero che questo corso serva per portare dei chiarimenti che ci possono aiutare in questo percorso, che sicuramente non sarà esaurito con queste lezioni e non certamente per demerito dei docenti, ma perché la materia è così vasta e credo che la situazione richieda ancora tanti approfondimenti. Quindi, io vi saluto, vi lascio, vi affido ai nostri docenti.

Intervento dell'avvocato Paggi

membro dell'A.S.G.I.

La mia posizione è chiaramente una posizione di parte, al di là del fatto che spero di conservare un certo equilibrio, ma è ovvio che mi occupo di questi problemi "dalla parte dell'immigrato", senza voler dire che l'immigrato ha sempre ragione, ma è chiaro che il mio punto di vista è diverso rispetto a quello istituzionale, quale può essere quello della questura. Senza far torto a nessuno, perché giustamente la questura fa il suo dovere, da un punto di vista che è diverso dal mio.

Io ritengo di fare il mio dovere nella misura in cui individuo e comunico eventuali interpretazioni che sono diverse da quelle adottate dall'autorità amministrativa, ovviamente avendo l'onere di argomentare queste diverse interpretazioni, se nel caso anche rifacendomi a pronunce dell'autorità giudiziaria che, nel corso di questi anni, anche se poco note, più volte sono state emanate in contrasto con quello che era l'avviso dell'autorità amministrativa. Qui apro una parentesi. Personalmente sono convinto che sia poco democratico, che sia una sorta di retaggio d'altri tempi, supporre che l'istituzione operi sempre correttamente e bene e quindi che non abbia mai sbagliato. Penso che sia una logica di regime, quella in base alla quale l'istituzione non sbaglia mai: l'istituzione sbaglia "anche", come tutti, perché è fatta da esseri umani e questo senza che si arrivi a farle critiche tanto ardue. Personalmente ritengo che, come avviene in altri paesi che sono indubbiamente considerati democratici, la possibilità per soggetti terzi rispetto alle pubbliche amministrazioni di operare anche per ragioni di tutela e di confrontarsi, se occorre, anche in termini di contrapposizione civile, con le prassi della pubblica amministrazione, sia funzionale a un regime democratico e anche al buon funzionamento delle istituzioni.

In paesi come l'Olanda, ad esempio, esistono associazioni che sono finanziate dal governo e che si occupano di tutela degli stranieri e che si contrappongono sempre più raramente alle istituzioni, perché sono considerati fisiologici, normali, quotidiani; dei tavoli di confronto nell'ambito dei quali si può ragionare sulla corretta interpretazione delle norme, al punto che il contenzioso giudiziario diventa rarefatto, proprio perché si previene creando occasioni di confronto, che nella maggior parte dei casi consentono di arrivare ad una soluzione pacifica ed economica, anche in termini di tempi e dispendio di risorse, delle problematiche applicative.

L'iniziativa odierna è un'iniziativa senz'altro positiva, perché magari rappresenta soltanto un bicchiere d'acqua, ma è un bicchiere d'acqua in mezzo al deserto che c'era prima e, rispetto al nulla, anche il poco serve senz'altro.

Peraltro, come ha anticipato il Dott. Faramo, ci sarà poi un approfondimento sotto il profilo della formazione: in effetti, non è semplicemente con un incontro di mezza giornata o di una giornata, che si può pretendere di esaurire lo scibile delle problematiche connesse alla presenza degli stranieri all'interno del carcere.

Anche perché sarebbe meglio avere un approccio di tipo didattico, cioè non affrontare tanti problemi, così, a volo d'uccello, come si fa nelle conferenze; ma affrontarli permettendo a ciascuno dei soggetti partecipanti di acquisire gradualmente le basi degli istituti giuridici, per poi arrivare all'esame delle questioni controverse avendo ognuno gli strumenti per vagliarle in proprio. Questo non è ancora possibile e quindi io oggi mi limiterò a contrappuntare alcune osservazioni fatte dalla Dott. Serrano, non per spirito polemico verso di lei, con la quale sono in ottimi rapporti, ma per sottolineare il fatto che, tra l'istituzione ed il punto di vista non istituzionale ci possono essere differenze notevoli e nelle pieghe di queste differenze potrebbero anche esserci margini di operatività per gli addetti istituzionali o per gli operatori del volontariato. Uno dei problemi che oggi, fuori in corridoio, mi è stato posto è che, per questi pochi detenuti bravi che si vorrebbero reinserire, non ci sarebbe la possibilità di fargli avere un permesso di soggiorno, anche se prima erano clandestini?

Giustamente è stata messa in evidenza l'ingiustizia di questa impossibilità. Io torno a dire, come dico normalmente in queste occasioni, che non mi occupo di giustizia ma mi occupo di diritto, che sono due cose completamente diverse e che, occasionalmente, possono anche coincidere. Io, quindi, cerco di stare sul diritto, sia pure facendo considerazioni di ordine pratico e giuridico che tenderebbero ad allargare i margini di operatività in determinati frangenti. Una cosa che subito mi sento di osservare: la "sospensione", o "congelamento" del permesso di soggiorno. Visto che mi occupo di diritto, vi dico che, dal punto di vista giuridico, non esiste. Non c'è nessuna norma che dica "Il permesso di soggiorno è sospeso". La sospensione è un istituto che i pubblici impiegati conoscono, perché è, per esempio, una sanzione disciplinare, oppure una misura cautelare, come la sospensione dal servizio in pendenza di procedimenti penali per determinati delitti. Quindi, sapete bene che la sospensione c'è quando è prevista dalla legge e non c'è quando non è prevista.

Nel caso del permesso di soggiorno, non è prevista nessuna sospensione del permesso di soggiorno e invito chiunque a dimostrare il contrario: né il congelamento, né altri termini, più o meno eufemistici, che dicono la stessa cosa. Il permesso di soggiorno deve avere, giuridicamente, una sua continuità, oppure una frattura che sia parimenti prevista dalla legge e basata su provvedimenti amministrativi espressi.

Ci può essere il caso dello straniero che non rinnova il permesso di soggiorno, ma qui non si parla di sospensione, si parla semplicemente dello straniero che ha l'onere, perché è suo interesse chiedere il rinnovo, di farlo e non lo fa, per i motivi più disparati, che a quel punto sono irrilevanti.

Lo straniero che non dimostra di essersi attivato per il rinnovo del permesso di soggiorno, entro i sessanta giorni dalla scadenza, rientra tecnicamente nella definizione di clandestino adottata dall'art. 13 ai fini dell'espulsione. Quindi non c'è differenza giuridica tra il clandestino e l'ex regolare: colui che è entrato in Italia sottraendosi ai controlli di frontiera nei modi più disparati e che, comunque, in Italia non ha reso una dichiarazione di soggiorno nel termine prescritto di otto giorni, o che comunque è privo di un valido permesso di soggiorno, anche se magari è arrivato in Italia con un visto d'ingresso valido.

Cosa significa essersi attivato per il rinnovo del permesso di soggiorno? Significa essersi presentato normalmente in questura per chiedere il rinnovo entro 60 giorni dalla scadenza del permesso. La qual cosa presupporrebbe che, nel momento in cui presento la domanda, il modello di dichiarazione di soggiorno corredata di documenti, tre fotografie e marca da bollo, la questura mi rilascia la ricevuta, che altro non è che un tagliando che si stacca dalla dichiarazione di soggiorno, che si rilascia allo straniero con tanto di timbro proprio per dargli prova dell'avvenuto inoltro della domanda di soggiorno. Se trascorrono i 60 giorni e viene fermato per la strada dalla polizia è tecnicamente clandestino e viene accompagnato in questura per l'emanazione del provvedimento di espulsione. Teoricamente potrebbe toccargli la stessa sorte se ritorna allo sportello dell'Ufficio Stranieri dove aveva chiesto informazioni, perché si potrebbe sentir rispondere: "Caro signore, sono passati i 60 giorni, lei ce l'ha la ricevuta? No? Allora si fermi un attimo, perché dobbiamo notificarle il provvedimento di espulsione.

Questo può capitare, anzi capita sempre più spesso: se le riviste giuridiche pubblicano sempre più spesso sentenze che affermano la legittimità di provvedimenti di diniego del rinnovo del permesso di soggiorno e, conseguentemente, di espulsione nei confronti di stranieri che non hanno il rinnovo entro i termini previsti, vuol dire che presso le questure succede sempre più spesso che, quando uno si presenta in ritardo, non gli rinnovano il permesso di soggiorno ma gli danno l'espulsione. Che poi, siccome siamo in Italia, talvolta, sulla parola lo straniero sia messo in condizione di presentare tardivamente la domanda, che aveva tentato di presentare nei termini senza disporre di tutti i documenti necessari, succede pure.

Però, se lo chiediamo alla Dott.ssa Marinelli, lei risponderà che normalmente si riconosce la buona fede dello straniero che si è attivato comunque e, se anche si presenta dopo il termine dei 60 giorni, perché gli serviva più tempo per acquisire i documenti, la domanda viene comunque "valutata": quindi, certe volte viene accettata, certe volte respinta.

Ripeto, se troviamo sentenze che dicono queste cose, vuol dire che questi fatti succedono, salvo poi che talune questure operino in un modo e talune in un altro e salvo poi che, rispetto a quello che sa il dirigente dell'Ufficio Stranieri, l'operatore dello sportello operi in piena conformità. Anche perché l'operatore è un poliziotto, che ha una preparazione molto più superficiale rispetto a quella che ha il funzionario dirigente, ovviamente, perché magari, fino all'altro giorno, ha fatto un servizio di ordine pubblico negli stadi e quindi riceve, comprensibilmente, un'informazione schematica delle pratiche che vanno presentate in questura e, quando si presenta un problema che non rientra pedissequamente in uno dei formulari tende a dire: "Non lo so, torna quando avrai tutto quello che c'è scritto nel formulario".

Ecco, allora, che abbiamo stranieri che non commettono nulla di illecito, cioè semplicemente gente che non è in grado di dimostrare documentalmente che ha un alloggio dove paga l'affitto, perché, se abita in una casa dove il proprietario l'affitto glielo fa pagare in nero, perché non vuole pagare le tasse e fare la denuncia dei redditi e si rifiuta di fargli un contratto, lui come fa?

In teoria, dovrebbe dichiarare sotto la sua responsabilità che vive in quella casa, che ha le chiavi, che si può chiedere ai vicini di casa che abita lì da anni; potrebbe anche dimostrare che paga l'affitto, però se non ha il contratto registrato l'operatore allo sportello gli dice di tornare quando ce l'avrà.

Non lo può portare, il contratto registrato; al massimo può fare una causa per dimostrare che paga l'affitto e, dopo tre anni, portare la sentenza, ma nel frattempo è diventato clandestino. Problemi di questo genere sono all'ordine del giorno nelle questure e permettono a voi di non stupirvi quando, dall'istituzione carceraria, si chiede se un permesso di soggiorno può essere rinnovato, o meno, e molte volte non si ottiene una risposta.

Ho fatto questo prologo per spiegare che problemi di applicazione delle norme ci sono anche fuori della realtà che stiamo considerando adesso; a "maggior ragione" si pongono anche nel nostro caso, perché non ci si può aspettare che l'autorità di polizia favorisca l'integrazione degli ex detenuti: compito dell'autorità di polizia è semmai quello di "sfoltire" il più possibile. Anche se poi c'è un malinteso: creare dei clandestini non vuol dire liberare la nostra società dai soggetti devianti, semmai vuol dire il contrario, cioè spingere o incentivare il mantenimento nella devianza di particolari soggetti. Anche se poi la maggiore efficienza delle norme sull'immigrazione potrà consentire un alleggerimento rispetto alle figure considerate più pericolose. La legge Martelli prevedeva espressamente che, anche l'autorità carceraria, potesse provvedere in nome e per conto del diretto interessato per quanto riguarda le pratiche di soggiorno, però a causa dell'equivoco normativo e interpretativo di cui ho parlato prima, fintanto che non è intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale si riteneva che gli stranieri non potessero neanche presentare domanda di rinnovo in carcere, perché sussisteva una circostanza ostativa alla richiesta di rinnovo.

Oggi invece, anche se il Testo Unico non ci dice nulla, possiamo affermare che lo straniero sicuramente può chiedere il rinnovo del permesso di soggiorno fino a che sta in carcere; beninteso, il rinnovo del permesso che aveva già.

Perché il "famoso" clandestino, arrestato alla frontiera, o comunque arrestato all'interno del territorio ma privo del permesso di soggiorno potrà, a certe condizioni, ottenere un permesso per motivi di giustizia finalizzato all'espiazione della pena e alla rieducazione, ma non potrà certo stabilizzare, per il solo fatto di essere detenuto, la propria posizione in Italia. D'altra parte, se bastasse farsi mettere in galera per regolarizzarsi, lo farebbero proprio tutti: ci sono reggimenti di stranieri che verrebbero in Italia a prendere a calci negli stinchi i poliziotti, per farsi mettere in carcere e per potersi poi regolarizzare.

Non possiamo certo immaginare che questo sia un percorso a regime per regolarizzare la posizione di soggiorno: quindi, teniamo distinta la condizione di chi era già regolarmente soggiornante in Italia, con un soggiorno di tipo stabile, perché se viene arrestato uno che ha il permesso di soggiorno per turismo, per analoghe ragioni non si può pensare che poi possa stabilizzare la propria posizione in Italia. Il permesso per turismo è destinato a cominciare e a finire, senza possibilità né di proroga, né di trasformazione in permesso di soggiorno di altro tipo; ha carattere transitorio, come quelli per affari, per visita a parenti, per attività sportive, motivi di culto, etc. Il permesso di soggiorno di tipo transitorio non può mai trasformarsi in un permesso di soggiorno di tipo stabile.

L'unica eccezione è quella del matrimonio con cittadina o cittadino italiani: in questo caso non ci sono problemi perché, comunque, ci sarebbe un diritto soggettivo a entrare in Italia, quindi a maggior ragione c'è a rimanerci. In tutti gli altri casi dobbiamo tenere distinta la posizione di chi aveva un permesso di soggiorno prima di essere detenuto da quella di chi non ce l'aveva.

Mi fermo un attimo sul problema della competenza dell'Ufficio Matricola: l'art. 5, comma 2, del Testo Unico prevede che il permesso di soggiorno deve essere richiesto, secondo le modalità previste nel Regolamento di Attuazione, al Questore della provincia in cui lo straniero si trova entro otto giorni lavorativi dal momento dell'ingresso nel territorio dello stato. È rilasciato per le attività previste dal visto d'ingresso o dalle disposizioni vigenti: come vedete, il permesso di soggiorno è sempre corrispondente al visto d'ingresso, non può mai essere diversa. Il Regolamento di attuazione può prevedere speciali modalità di rilascio, relativamente ai soggiorni brevi per motivi di turismo e questo perché i tempi delle questure per il rilascio dei permessi sono lunghi e spesso superano quelli della durata stessa del soggiorno prevista nel visto d'ingresso.

Il visto Schengen prevede tre mesi, non prorogabili, ma chi arriva in Italia e, entro otto giorni, si presenta in questura e chiede il permesso di soggiorno, riesce ad ottenere la ricevuta della dichiarazione di soggiorno, ma il permesso normalmente non è pronto in tre mesi, per cui in questura gli dicono: "Gira pure con questo, non farti neanche vivo per cercare il permesso di soggiorno, perché non lo faremo neppure".

Questo dal punto di vista pratico, poi il Regolamento di attuazione probabilmente disciplinerà la possibilità, per questi soggiorni brevi, di provvedere in via alternativa con la semplice dichiarazione di soggiorno.

Il Regolamento di Attuazione può prevedere speciali modalità di rilascio anche per soggiorni per motivi di giustizia, di attesa di emigrazione in altro stato e per l'esercizio della funzione di ministro del culto, nonché per soggiorni in ospedali, case di cura, istituti civili e religiosi e altre convivenze.

Tra le "altre convivenze" potremmo certo annoverare l'istituzione penitenziaria, che nella legge martelli era espressamente considerata. D'altra parte, non credo fosse necessaria una norma espressa, perché se uno è in galera e non può venire fuori, si deve presupporre che tutti gli adempimenti amministrativi che è suo diritto, o dovere, svolgere, li debba svolgere attraverso l'Ufficio Matricola, perché questo ufficio è il terminale amministrativo della vita di ogni detenuto.

Se un italiano può fare, attraverso l'Ufficio Matricola, tutte le sue pratiche amministrative; ad esempio, se vuole sposarsi, è attraverso questo ufficio che chiede le pubblicazioni; se vuole un certificato, lo chiede attraverso l'Ufficio Matricola.

Lo stesso è per lo straniero, non c'è ragione di pensarla diversamente: questo, nella misura in cui determinati adempimenti per lo straniero sono un diritto, o addirittura un dovere, che non ha alcun modo di esercitare se non attraverso l'Ufficio Matricola. Poi, purtroppo, la cattiva informazione, non dovuta peraltro a malafede o a cattiva volontà, ha fatti sì che fino ai giorni nostri sia stato trascurato il problema delle competenze specifiche relative agli stranieri. Come ho detto prima, tra l'Ufficio Matricola e le celle ci sono svariati cancelli e poi non è neanche detto che l'ufficio venga a sapere dell'esistenza di certi problemi, perché se lo straniero chiede alla guardia che sta in corridoio, il cui compito non è certamente quello di fare da ufficio informazioni, può darsi che si senta rispondere "non so, ma provo a chiedere all'Ufficio Matricola", come pure "non mi risulta che lei debba fare queste cose".

Parimenti, senza fare torto agli agenti, è successo con operatori come assistenti sociali, educatori, volontari, che addirittura entravano in carcere per occuparsi soltanto di stranieri. Quindi con persone che, pur avendo tutta la buona volontà di questo mondo, non avevano la possibilità di dare informazioni corrette da questo punto di vista.

Questo perché neanche le questure non avevano un'idea precisa e si sono chiarite le idee solo con la sanatoria, quando solo arrivate, poche, le domande di regolarizzazione e le questure si sono regolate navigando "a vista" ed hanno risposto come hanno ritenuto di rispondere. Non dobbiamo vergognarci di niente, perché la realtà non è una cosa vergognosa e non è neanche colpa degli operatori se è andata così. Non sto facendo polemica, sto solo spiegando perché, finora, la casistica è stata così rarefatta e, d'altra parte, l'incontro odierno ha anche lo scopo che la casistica non sia più rarefatta, ma sia tutta quella sia deve essere considerata e in modo appropriato. Finora, appunto, è successo che queste pratiche arrivavano per caso all'Ufficio Matricola, con il risultato che le questure hanno potuto dire: "Caro signore, la sua domanda di rinnovo del permesso di soggiorno, solo oggi presentata, dopo che lei è detenuto da cinque anni, e dopo che il suo iniziale permesso di soggiorno per lavoro è scaduto da quattro anni, la sua domanda è tardiva e, quindi, si nega il rinnovo del permesso di soggiorno.

Il termine esatto è di sessanta giorni dopo la scadenza del permesso, o di trenta giorni prima della sua scadenza?

C'è un termine, di trenta giorni prima della scadenza, che è un termine ordinatorio, cioè si consiglia allo straniero di chiederlo prima di avere la speranza di ricevere un nuovo permesso entro la scadenza di quello vecchio. Il fatto di non avere un permesso pronto, ma solo la ricevuta, può essere un problema per tanti aspetti della vita dello straniero, perché se io vado a chiedere la residenza anagrafica, l'iscrizione all'U.S.S.L., l'iscrizione al Collocamento, ho una serie di problemi perché non ho il permesso di soggiorno pronto come documento.

Quindi, in pratica, si consiglia allo straniero di chiedere il rinnovo del permesso trenta giorni prima della sua scadenza, ma il termine veramente perentorio, quello che comporta come sanzione possibile l'espulsione, è quello dei sessanta giorni dopo la scadenza. Con questo non sto dicendo che lo straniero può chiederlo al 59º giorno, anzi che devono normalmente chiederlo al 59º giorno dopo la scadenza: quando faccio consulenza, dico: "Trenta giorni prima che il vostro permesso scada presentatevi in questura con tutti i documenti e, dopo aver attentamente valutato che ci siano tutti i requisiti per chiedere il rinnovo, perché quelli che non ci sono vanno trovati. Quindi abbiamo un termine ordinatorio, a trenta giorni prima della scadenza, ed uno perentorio, a sessanta giorni dopo la scadenza del permesso di soggiorno.

Quindi, se ci accorgiamo che è appena scaduto, lo possiamo ancora rinnovare?

Lo prendiamo per i capelli fino al 59º giorno, solo che non è simpatico dover correre per raccogliere i documenti necessari all'ultimo momento.

Senza lavoro, si può rinnovare il permesso di soggiorno?

Il caso specifico dei documenti non è stato preso in considerazione dalla normativa, perché dal punto di vista elettorale si è ritenuto di non dover individuare una sezione specifica alle norme sugli stranieri detenuti.

Questo, purtroppo, spiega perché non abbiamo una normativa capillare e perché certi problemi dobbiamo tentare di risolverli in via interpretativa, la qual cosa è scandalosa perché quasi tutti i problemi giuridici che abbiamo in Italia per i cittadini vengono normalmente e spesso risolti in via interpretativa. Il Testo Unico ci dice che lo straniero che, al momento del rinnovo del permesso di soggiorno, si presenta sprovvisto del lavoro, può rinnovare l'iscrizione al Collocamento per almeno un anno, dopodiché non ci dice che cosa succede. Verosimilmente, però, c'è da capire che, a regime, potrà essere rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno. Questa, però, è una norma di carattere generale che non tiene conto della casistica, che non è poi solo la casistica dei detenuti.

Proviamo ad immaginare un caso molto semplice: una straniera che si presenta per il rinnovo del permesso di soggiorno e non sta lavorando, ma spiega: "Non lavoro, perché mi sono coniugata con un cittadino italiano; lui lavora ed io accudisco i figli". In questo caso si dovrà applicare pedissequamente la norma e rifiutare il rinnovo del permesso di soggiorno? Credo proprio di no.

Altro principio generale del nostro ordinamento è la forza maggiore, perché le cose impossibili non le può fare nessuno: se uno che è detenuto e, con tutta la buona volontà, non trova lavoro, non può essere sanzionato per questo soltanto. D'altra parte è anche vero che l'espulsione, come conseguenza di condanna definitiva per delitti, non è più competenza dell'autorità di polizia, in base a quella giurisprudenza della Corte Costituzionale ed oggi alla formulazione del Testo Unico. Di conseguenza, o lo dice l'autorità giudiziaria, che questo signore se ne deve andare fuori, oppure questo signore in astratto ha diritto di rinnovare il suo permesso di soggiorno. Se non ha potuto lavorare per circostanze di forza maggiore è chiaro che, quantomeno fino al termine della pena, dovrà essere prorogata la posizione di soggiorno.

Questa è un'interpretazione: se poi, un domani, interviene una circolare del Ministero dell'Interno, perché io qui voglio spiegare che le norme non sono mai assolutamente pacifiche ed anche le opinioni, che siano mie, della dottoressa Serrano, o anche del ministro, non sono mai neanche loro assolutamente pacifiche: questa è la realtà con la quale dobbiamo fare i conti, anche se non è comodo.

Se un domani viene fuori una circolare del Ministero degli Interni che dice: "Gli stranieri detenuti non possono rinnovare il permesso di soggiorno se non dimostrano di lavorare all'atto della domanda di rinnovo o se, concesso il termine di iscrizione al Collocamento per un anno, non iniziano un rapporto di lavoro nemmeno entro questo termine", intanto questa è una disposizione ministeriale che vincola gli uffici gerarchicamente sottoposti e, quindi, le questure, di fronte a una circolare del genere, di sicuro non rinnovano il permesso di soggiorno.

Poi bisognerà vedere se quella posizione ministeriale è una posizione legittima, cioè conforme ad una corretta interpretazione delle norme e, questo, non lo stabilisce più il ministero, ma lo stabilisce la magistratura e non sarebbe la prima né l'ultima volta che, rispetto a posizioni assunte in maniera convintissima da parte dei vari ministeri, la magistratura dica: "Ci dispiace tanto, ma il ministero ha sbagliato".

In questa situazione, nella quale non ci sono disposizioni che impediscono espressamente il rinnovo, di fronte invece a disposizioni che lo consentono come uno strumento a regime, io non posso che propendere per l'obbligo, per gli uffici, di recepire materialmente la domanda di rinnovo e di trasmetterla alla questura, fermo restando che comunque non è l'Ufficio Matricola che decide sul rinnovo del permesso o sul rifiuto di rinnovarlo, né può decidere sulla sussistenza dei presupposti per la domanda di rinnovo. In altre parole, se lo straniero si presenta e decide di inoltrare una richiesta di rinnovo, l'Ufficio Matricola, a mio avviso, non ha alternative, la prende e la manda all'ufficio competente.

Ma se questo straniero non lavora, come gli viene rinnovato il permesso di soggiorno?

Il fatto che non abbia lavoro, in carcere, quindi per causa di forza maggiore, non impedisce il rinnovo e, a maggior ragione, non è impedito nel momento in cui c'è una misura alternativa che prevede il lavoro, perché appena possibile lo straniero si è attivato per lavorare, quindi sulla rinnovabilità non avrei dubbi. Qualche problema in più ci può essere, e lo riconosco, sul titolo in base al quale può essere rinnovato il permesso: se aveva un permesso per lavoro e poi è stato detenuto, lo può rinnovare per motivi di lavoro, oppure per motivi di giustizia, ma comunque valido per svolgere attività di lavoro subordinato.

La prassi, finora invalsa da parte delle questure, è stata quella di rinnovare, o di rilasciare, questi permessi di soggiorno in funzione dell'espiazione della pena, per motivi di giustizia. Questo permesso di soggiorno per motivi di giustizia, in realtà, non è previsto dalla legge: la legge prevede un permesso di soggiorno per motivi di giustizia finalizzato all'esercizio di tutela giurisdizionale, in senso attivo e passivo, quindi come imputato, come parte in causa o come parte civile. Non è previsto, invece, per questa casistica. Se poi, comunque, quel permesso di soggiorno gli consente di lavorare finché è sottoposto a misura e poi gli consente di riprendere il vecchio permesso di soggiorno quando cessa la misura, se anche la questura è contenta, che non lo chiami permesso per motivi di giustizia, ma lo chiami pure permesso per motivi di divertimento, che fa lo stesso.

Il problema potrebbe essere quello di un eventuale rifiuto, alla scadenza del permesso di soggiorno per motivi di giustizia, del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, perché si dice: "No, tu adesso ce l'hai per giustizia, non posso più dartelo per lavoro". Il problema potrebbe essere quello del titolo, quindi, perché alcune questure potrebbero dire: "Lei, adesso, ha un permesso per motivi di giustizia, quindi glielo rinnoviamo per motivi di giustizia, se ha le condizioni, altrimenti non possiamo più cambiarlo. Per questo, dicevo che non esiste un permesso di soggiorno per motivi di giustizia: perché, alla fin fine, la dichiarazione di soggiorno è un atto proprio della persona, in fondo c'è la sua firma, e quella persona può scriverci quello che vuole. Talvolta si assiste anche alla correzione "d'ufficio", della dichiarazione di soggiorno, da parte della questura, che modifica il motivo originariamente indicato dall'interessato e, questo, francamente, non mi sembra lecito.

Perché io chiedo un permesso di soggiorno per questo titolo, sulla base di questi documenti, ed ho diritto ad avere dalla questura una ricevuta che testimoni che ho fatto la domanda e la questura ha il dovere di darmi una risposta, scritta e motivata, in ordine alle ragioni per le quali s'intenderebbe rifiutare quel titolo richiesto.

Quindi io chiedo, se prima avevo un permesso per motivi di lavoro, la proroga per motivi di lavoro, perché lo stesso permesso si chiede e si proroga anche allo straniero disoccupato. Nella prassi delle questure, invece di scrivere "permesso di soggiorno per motivi di lavoro", in certe questure, si scrive "in attesa di occupazione".

La questura non me lo vuole dare per lavoro: si prenderà la briga di fare un provvedimento scritto e motivato, in lingua conosciuta, avvertendomi sulle modalità e i termini di impugnazione, io poi deciderò quello che sarà da decidere. Perché? Perché se io chiedo un permesso di soggiorno per motivi di giustizia, si potrebbe perfino pensare che ho rinunciato al soggiorno per lavoro: è un ragionamento perverso, questo, ma per pensarle tutte, si deve pensare anche a questo. Quindi, io credo che, a questo mondo, ognuno fa la sua parte: lo straniero chiede il rinnovo del suo permesso di soggiorno, quello che aveva già, poi la questura decide se rinnovarglielo, o meno.

Certo, se la questura decide di rinnovarlo per motivi di lavoro, ciò non toglie che, quando saranno scadute le condizioni di soggiorno per motivi di giustizia, io abbia più argomenti per chiedere di ripristinare il permesso per motivi di lavoro. Quindi io consiglierei di chiederlo sempre per il motivo per il quale era stato rilasciato in precedenza.

Quanto può durare "l'attesa di lavoro"?

L'attesa di lavoro, per un soggetto libero e che quindi può andare a cercarsi un lavoro, può durare al massimo un anno. Se lo straniero al momento del rinnovo del soggiorno, è occupato, nessun problema, il rinnovo avviene senza questioni; se invece è disoccupato, gli si rinnova comunque il permesso di soggiorno per un periodo non superiore ad un anno, perché per un anno può rimanere iscritto al Collocamento, se poi non trova lavoro si capisce, anche se non c'è scritto nel Testo Unico e, forse, sarà scritto nel Regolamento di Attuazione, che potrà essere rifiutato il rinnovo del soggiorno, salvo che non sussistano poi altre condizioni.

Il problema interpretativo che rimane aperto è per le convivenza tra marito e moglie, per chi ha figli, per chi vive di rendita, perché ci può essere anche quello che ha avuto un infortunio sul lavoro, quindi non lavora più perché non può più lavorare e prende la pensione dall'I.N.A.I.L.

Il permesso di soggiorno viene dato per motivi di giustizia quando lo straniero, normalmente, ha già ottenuto una misura alternativa alla detenzione, cioè su provvedimento del Magistrato di Sorveglianza. Io, finora, non ho visto permessi di soggiorno per motivi di giustizia rinnovati durante la detenzione, perché non si riteneva, sbagliando, fosse necessario garantire una continuità del permesso di soggiorno anche durante la detenzione. Si riteneva avvenisse questo "congelamento", che nessuna norma di legge prevede, né per i detenuti in attesa di giudizio, né per i detenuti definitivi.

A meno che ci sia la misura di sicurezza dell'espulsione già irrogata in sentenza, perché allora, se con sentenza lo straniero è sottoposto ad espulsione, salvo riesame da parte delle autorità competenti, in quel caso sì: l'unico titolo che potrebbe avere è il soggiorno per motivi di giustizia.

Se c'è un caso in cui il soggiorno per motivi potrebbe essere azzeccato è quello del detenuto condannato con sentenza definitiva che ha disposto la misura dell'espulsione e quindi che, fino a un provvedimento di segno opposto del Magistrato di Sorveglianza, non potrebbe rinnovarlo per il titolo precedente. Tenete comunque conto che, nella maggior parte dei casi, la misura dell'espulsione non viene inserita in sentenza, per due motivi: il Magistrato non si cura tanto di questo aspetto afflittivo ed i magistrati, come del resto le questure, come tutti quanti, hanno ritenuto fino a poco tempo fa che l'espulsione dello straniero fosse competenza dell'autorità amministrativa e non dell'autorità giudiziaria e questo spiega perché, nelle sentenze vecchie soprattutto, anche di fronte a reati gravi, oggettivamente: io non so, di fronte a un pluriomicidio io ci schiafferei senz'altro l'espulsione a fine pena, salvo possibilità di riesame.

Poi è chiaro che la misura di sicurezza dell'espulsione non c'è mai quando si tratta di sentenze patteggiate, perché il patteggiamento non ammette mai l'applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza, quindi il patteggiamento di sicuro non presenta questo problema, come non presenterà il problema del riesame da parte del magistrato di sorveglianza.

Possiamo immaginare il percorso "virtuoso" di quei pochi immigrati che prima avevano un permesso di soggiorno, vengono incarcerati, dimostrano un buon comportamento, ottengono la misura alternativa, quindi ottengono il permesso di soggiorno per motivi di giustizia per svolgere un lavoro subordinato e, normalmente, il rapporto di lavoro subordinato ha validità fino al termine del permesso di soggiorno. Perché occupare lavoratori immigrati sprovvisti di valido permesso di soggiorno, o comunque di valida autorizzazione al lavoro, è un illecito, non gravissimo, ma comunque un illecito, da parte del datore di lavoro.

D'altronde, il contratto di lavoro non potrebbe avere una validità temporale superiore al fine pena, in quanto si sorregge, come contratto a tempo determinato, proprio sulla funzione rieducativa della pena. Quindi, il datore di lavoro sarebbe, non solo legittimato, ma tenuto, in linea teorica, a risolvere il rapporto di lavoro alla scadenza, perché non ci sono possibilità lecite di mantenerlo in atto. Che poi il datore di lavoro se la senta di rischiare, perché non soggetto a sanzioni gravissime, è un altro paio di maniche.

Questo percorso virtuoso, però, non riusciamo ad immaginarlo nel caso dei clandestini, cioè di chi è stato incarcerato senza aver prima un regolare permesso di soggiorno. In questo caso, cosa si può fare perché la domanda che molti operatori mi pongono è questa: abbiamo un detenuto che è un modello d'uomo, un ragazzo bravissimo, magari incarcerato per reati banalissimi, che ha tanta voglia di fare, ma lo stesso magistrato di sorveglianza dice: "Cosa gli dò a fare una misura alternativa, se poi gli dò soltanto delle illusioni, perché quando è finita la pena lui se ne deve andare, perché è clandestino e quindi soggetto ad espulsione.

Io non ho la possibilità di tirare fuori conigli dal cilindro e fare un miracolo, però mi viene in mente una possibilità, che per il momento suggerisco sottolineando che si tratta solamente di una possibilità, soggetta a verifica, quindi di un percorso eventualmente sperimentale.

Ci sono due ipotesi, nelle quali è prevista la possibilità di convertire il permesso di soggiorno ad altro titolo, in permesso di soggiorno stabile per lavoro.

Voi sapete che, annualmente, il Governo dovrà adottare un provvedimento di programmazione dei flussi migratori, che dovrà stabilire sostanzialmente, ripartendo per aree territoriali, quanta gente potrà, e a quali condizioni, venire in Italia per motivi di lavoro, oppure per ricerca di lavoro, altro istituto che comincerà ad operare per il 2000.

L'autorizzazione per motivi di lavoro viene data sul presupposto che qui in Italia ci sia un datore di lavoro che abbia già deciso di assumere quello straniero, e che quindi chiede di essere autorizzato ad avviarlo al lavoro.

Questo è un modello, è quello che abbiamo conosciuto fino ai nostri giorni, che è stato migliorato dal testo unico perché la procedura per l'autorizzazione alla chiamata dall'estero è stata semplificata. L'istituto alternativo è quello, totalmente nuovo e ancora non collaudato, dell'autorizzazione all'ingresso in Italia per ricerca di lavoro, cioè lo straniero non arriva in Italia già munito di un contratto di lavoro, viene in Italia per cercare lavoro, a condizione però che vi sia un garante qui in Italia, che può essere un privato cittadino italiano, ma anche uno straniero regolarmente soggiornante, oppure può essere un ente pubblico, o un'associazione che sia riconosciuta.

Il Regolamento di Attuazione ci dirà quali requisiti siano previsti a carico di questi soggetti perché siano considerati garanti affidabili. Anche perché un singolo cittadino potrà garantire per una persona e dovrà spiegare i validi motivi per cui vuol fare venire quella persona: magari è il fratello, magari è un connazionale di un suo dipendente, che potrebbe dare garanzie di una buona e corrispondente prestazione lavorativa.

Mentre, invece, un'associazione deve dimostrare che ha i soldi per farsi garante di un certo numero di persone e deve anche spiegare i motivi per cui intende inserire nel mondo del lavoro queste persone. Potremmo immaginare, ad esempio, che a Chiampo, o ad Arzignano, nella zona delle concerie, non si trovano lavoratori italiani da anni: è una realtà nella quale nelle fabbriche lavorano tutti immigrati. Anche i capireparto cominciano ad essere immigrati; solo gli amministrativi e gli imprenditori sono italiani.

Allora si può creare un'emergenza ed il Comune di Chiampo può sentire il bisogno, nell'interesse degli imprenditori locali, di promuovere una garanzia all'ingresso per inserire queste persone nel mercato del lavoro locale.

Questo istituto della chiamata con garanzia dev'essere ancora collaudato, nella programmazione dei flussi per l'anno 1999 non è stato contemplato perché mancava ancora il Regolamento di Attuazione; ora che il regolamento sta per uscire possiamo immaginare, per il 2000, oltre alla quota d'ingresso per lavoro subordinato, quindi i contratti già autorizzati dall'estero, anche una quota d'ingresso per ricerca d'occupazione in Italia, con un garante in Italia.

Bisognerà considerare poi la possibilità di trasformare i permessi di soggiorno a termine, ad esempio per svolgere lavoro stagionale. Stando in Italia, lo straniero potrebbe convertire il permesso di soggiorno temporaneo in uno per lavoro subordinato a tempo indeterminato, se trova un'opportunità di lavoro compatibile con i criteri di programmazione dei flussi.

In altre parole, se io, quando trovo questo posto di lavoro stabile, ci sono ancora posti disponibili nel tetto massimo assegnato alla mia provincia per le assunzione dall'estero, posso ottenere questa autorizzazione e trasformare, direttamente qui in Italia, il soggiorno da tempo determinato a tempo indeterminato.

Analoga previsione è stabilita per convertire il permesso per motivi di studio in permesso per motivi di lavoro subordinato a tempo determinato. Cioè, se io sono qui in Italia per motivi di studio e trovo un posto di lavoro, se questo posto è compatibile con il tetto massimo delle autorizzazioni che possono essere rilasciate per ingressi dall'estero, non ho bisogno di tornare nel mio paese per prendermi il visto d'ingresso: posso andare direttamente in questura con l'autorizzazione dell'Ufficio del Lavoro e fare la conversione.

C'è da chiedersi se questa possibilità potrebbe essere prevista per la conversione del permesso di soggiorno da motivi di giustizia a motivi di lavoro subordinato, nella misura in cui il datore di lavoro proposto ottenesse l'autorizzazione preventiva, compatibilmente con il decreto di determinazione dei flussi.

Qui io la risposta non ce l'ho: magari potrebbe anche piacere che questo percorso virtuoso potesse concretizzarsi anche in una sorta di premio a chi si è dato da fare per inserirsi, con la possibilità di soggiornare stabilmente in Italia per lavoro, anche perché si spiega che difficilmente uno che è stato anni qui in Italia e che ha perso ogni contatto con il suo paese abbia qualche motivo per tornare a casa sua. Però, al di là dei miei gusti, non c'è una risposta nella normativa; testualmente non troviamo una soluzione normativa. Ci saranno da attendere le famose circolari ministeriali per capire se questa possibilità c'è e magari la stessa amministrazione penitenziaria potrebbe porre il problema interpretativo alla istituzione di competenza, vale a dire al Ministero dell'Interno.

Al momento, per prudenza, dovrei dire: "Cari signori, del clandestino arrestato, al termine del percorso virtuoso, non rimarrà nulla; tornerà clandestino come prima".

Salvo che, per motivi di varia natura, non si ritenga di applicare, con perfetta analogia a dire il vero, una disposizione che è prevista per situazioni esattamente simili, cioè situazioni in cui si può convertire il soggiorno da un titolo all'altro: questo lo staremo a vedere; si può ipotizzare questa interpretazione ma, finché non sarà avvalorata quantomeno da circolari ministeriali, non sarà spendibile. Si potrà tentare qualche caso pilota ed, eventualmente sulla base di questo, ci sarà magari la circolare che determinerà la disciplina generale.

Adesso dovrei tentare di fare alcune altre considerazioni rapide su quelli che sono altri problemi del detenuto straniero.

Il problema che più spesso si pone, dopo quello del rinnovo del permesso di soggiorno, è la mancanza dei documenti: non abbiamo un sacco di "alias", o sedicenti, e questo è un problema serio perché, anche a questo riguardo, l'ordinamento giuridico non ci fornisce una risposta puntuale, quindi si naviga un po' a vista.

La cosa che mi consola è che, perfino i ministeri, inventano delle soluzioni che dal punto di vista giuridico potrebbero essere discutibili ma, quando le fa il ministero, vanno sempre bene. Per esempio, c'è una circolare del Ministero delle Finanze, del 15 gennaio 1999, sulla possibilità di attribuire il numero di codice fiscale ai detenuti extracomunitari sprovvisti di un documento di riconoscimento: è un passo in avanti, perché il ministero dice: "Di questa gente non abbiamo documenti internazionalmente riconosciuti, però è stata identificata sommariamente nel corso del procedimento penale: anche se non sarà il suo nome vero, un nome ce l'ha, quindi ci regoleremo su questo e daremo un codice fiscale basato su esso e sulla dichiarata data di nascita.

Come conclusione pratica ha un valore, perché senza codice fiscale è impossibile esperire altri adempimenti; diceva la dottoressa Serrano che non è prevista l'iscrizione al Collocamento degli stranieri detenuti; invece il motivo dell'interessamento del Ministero delle Finanze è stato proprio che le amministrazioni penitenziarie hanno fatto presente che, senza il codice fiscale, non potevano procedere all'iscrizione al Collocamento.

Quindi lo straniero detenuto può iscriversi al Collocamento, intendendosi come sede competente la direzione dell'Impiego della provincia in cui è situato l'Istituto di pena; può stipulare validamente contratti di lavoro subordinato lavorando direttamente per l'istituzione carceraria, anche se le opportunità sono molto limitate; come pure può stipulare regolarmente contratti di lavoro all'esterno. Questo sia per i regolari sia per i clandestini perché il problema si poneva espressamente per questi ultimi.

Ci può essere invece un problema per quanto riguarda i titoli di studio: molti stranieri detenuti partecipano a corsi di alfabetizzazione, o di scolarizzazione, o di formazione professionale.

Il problema mi è stato posto da un direttore didattico, che al termine dell'esame per il rilascio della licenza di scuola media, aveva uno studente di cui non conosceva le generalità precise e non sapeva come rilasciargli l'attestato. Un problema al quale non ho una soluzione, perché la mia interpretazione può essere anche legalmente valida, ma se la facesse il ministero sarebbe una cosa, se la faccio io ha una portata diversa.

Se il ministero delle Finanze ha detto che si può rilasciare un titolo di studio ai sedicenti, la questione per ora non è ancora stata affrontata. Il problema non si era mai nemmeno posto, finché un insegnante della Commissione l'ha sollevato: fino ad allora, i titoli di studio erano stati rilasciati tranquillamente anche ai sedicenti.

Dal punto di vista strettamente legale, non dovrebbero esserci problemi a rilasciare un diploma ad un sedicente, perché il diploma non è un certificato d'identità, quindi non fa fede in ordine all'identità del soggetto. Se poi la persona usa quel diploma per dimostrare che si chiama con il nome sopra riportato, lo fa impropriamente, e chi trova valore identificativo in quel diploma lo farà impropriamente.

Il diploma serve invece a provare il fatto storico che quella persona ha compiuto un percorso di studi e, se un domani volesse far rettificare il nome sul diploma, risponderebbe del reato di dichiarazione di false generalità, come succederebbe per qualsiasi cittadino italiano.

Allo straniero, il diploma potrebbe servire per i motivi più disparati, ad esempio con quest'ultima sanatoria c'era la necessità di avere la prova della presenza in Italia prima del 27 marzo '98 e alcune persone si sono regolarizzate portando come prova dei documenti falsi.

Perché tizio, che si è preso un permesso di soggiorno falso e ha lavorato in regola per anni, con quel permesso di soggiorno poi ha potuto dimostrare la propria presenza ed accedere alla sanatoria presentando il passaporto falso e, ovviamente, rispondendo davanti alla legge della ricettazione e del falso, con tutte le attenuanti del caso, perché si è autodenunciato spontaneamente, quindi ottenendo il patteggiamento.

Altro problema è la cosiddetta autocertificazione, su cui c'è poco da inventare, perché può essere autocertificato solo ciò che è già a conoscenza degli enti pubblici nazionali. Quindi io posso autocertificare la mia residenza a Padova, se risiedo a Padova, a prescindere dalla mia cittadinanza; posso autocertificare la mia nascita, se questa è registrata all'anagrafe di Padova, posso autocertificare la mia laurea ottenuta in una Università italiana.

Non posso autocertificare di essere residente in un certo comune dell'Egitto o dell'Iran; non posso autocertificare uno stato uno stato di famiglia che non risulta in Italia, quindi non posso autocertificare di avere moglie e figli in Iraq; non posso autocertificare di avere o non avere redditi di un certo tipo nel mio paese di provenienza, perché queste sono risultanze che non sono riscontrabili presso gli uffici obbligati alla loro tenuta in Italia.

C'è una forma di autocertificazione che era prevista da una circolare del Ministero di grazia e giustizia, che parrebbe contraddetta dal Regolamento di Attuazione del Testo Unico, ma che si effettua nella prassi: una sorta di autocertificazione che si richiede allo straniero che chiede di essere ammesso al gratuito patrocinio per i non abbienti.

Il gratuito patrocinio riguarda la tutela in sede penale e, per estensione espressa dalla norma prevista dall'art. 13 del Testo Unico, la tutela avverso il provvedimento di espulsione. Il problema riguarda la dimostrazione dei presupposti per il gratuito patrocinio, perché se uno è sedicente, non può certificare che è privo di redditi, di beni patrimoniali, o di rendite, nel proprio paese di origine. Normalmente lo straniero dovrebbe dimostrare, con una dichiarazione fatta all'autorità del suo paese e autenticata da questa autorità, di avere i presupposti per essere ammesso al gratuito patrocinio. In altre parole si traspone l'autocertificazione presso l'autorità del paese che detiene i dati autocertificati.

Il problema è, da un lato, che le ambasciate dei paesi di maggiore immigrazione collaborano poco, hanno tempi e un grado di efficienza che è sconsolante. Peggio ancora quando si tratta di detenuti, perché le autorità consolari dovrebbero interessarsi dei propri connazionali, in teoria dovrebbero prestare ogni collaborazione utile alla identificazione, dovrebbero rapportarsi allo straniero come terminale amministrativo per tutti gli adempimenti, ma tutto questo non lo fanno e non mandano neanche i propri delegati presso le carceri per incontrare i detenuti. Magari, lo fanno alcuni stati tra quelli con un avanzato grado di civiltà, come ad esempio la Gran Bretagna, ma altri non lo fanno. Questo, comunque, è un problema che non può essere risolto dalle autorità italiane perché dipende dalla autorità di paesi diversi, che godono di tutte le garanzie di indipendenza e sovranità.

D'altra parte, questa indisponibilità ed inefficienza si sposa spesso con l'indisponibilità dello straniero a chiedere la collaborazione delle autorità, perché meno è noto e meno è identificato e meglio è per lui.

In effetti, ci sarebbe l'obbligo della comunicazione, da parte dell'autorità di pubblica sicurezza, alla autorità consolare del paese di provenienza, di ogni sentenza passata in giudicato, la qual cosa di certo non allieta lo straniero, perché molto spesso comporta delle conseguenze, di ordine amministrativo e pratico, al momento del rientro nel paese d'origine.

Per questo, se possibile, la maggior parte degli stranieri evita di avere contatti con l'autorità consolare, a meno che sia proprio indispensabile.

Da un lato questo, dall'altro il fatto che le autorità consolari comunque non vengono in carcere e rendono oltremodo difficoltosa la certificazione di determinate circostanze che potrebbero essere utili ai fini del gratuito patrocinio, o anche della identificazione.

Il problema della identificazione non è più attualissimo, perché la nuova disciplina dell'espulsione prevede l'istituzione, che già è operativa, dei centri di permanenza temporanea per espellendi. Prima dell'entrata in vigore del Testo Unico, l'espulsione avrebbe dovuto, teoricamente, essere eseguita al momento dell'uscita fisica dello straniero dal carcere, mentre ora può essere rimandata e lo straniero nel frattempo tenuto nei centri di permanenza, finché tramite l'autorità di polizia del suo paese non ne sia accertata l'effettiva identità.

A questo punto le autorità consolari hanno l'obbligo di rilasciare un visto d'identità che consente di far transitare lo straniero dalle frontiere, facendone accettare la presa in carico da parte delle autorità del paese in cui è espulso, oppure in cui deve transitare per raggiungere la destinazione prevista.

Un'altra cosa che lo straniero detenuto può fare è quella di chiedere l'iscrizione all'anagrafe e lo può fare sempre che disponga di un valido titolo di soggiorno. D'altra parte, ci può essere un interesse ad ottenere l'iscrizione anagrafica; per esempio, per quanto attiene all'iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale: gli stranieri regolarmente soggiornanti hanno diritto d'iscriversi al Servizio Sanitario Nazionale e, quando sono iscritti, hanno diritto alle stesse tutele e alle stesse prestazioni che sono erogate ai cittadini italiani.

Il Testo Unico, inoltre, stabilisce che gli stranieri regolarmente soggiornanti hanno diritto a tutte le provvidenze in materia di sicurezza e assistenza sociale, quindi è possibile che uno straniero regolarmente soggiornante un giorno diventi invalido civile e possa richiedere la pensione di invalidità civile.

Questo problema esiste anche perché, tra i detenuti, ci sono persone che diventano matte, o lo erano già da prima: la equiparazione tra gli italiani e gli stranieri regolarmente soggiornanti permette di affrontare questo problema a regime.

In base all'art. 35 del Testo Unico, anche gli stranieri non iscritti al Servizio Sanitario Nazionale è prevista l'assistenza sanitaria, anche se limitata ad alcuni tipi di prestazioni: la prevenzione e la cura delle malattie infettive diffusive, come la tubercolosi e l'A.I.D.S., per esempio; l'assistenza al parto e alla gravidanza, compresa l'interruzione volontaria della gravidanza; gli interventi ospedalieri urgenti o, comunque, essenziali.

In queste ultime parole c'è una forte ambiguità, perché è veramente difficilissimo capire quali siano le cure "comunque essenziali". Io non sono un medico, ma credo che nemmeno un medico saprebbe definire, in astratto, non nei casi concreti, quali tipologie di cure possano essere definite essenziali e quali no.

Uno straniero clandestino che si presenti al pronto soccorso e dica: "Oggi come oggi sto bene, però ho un tumore e tra due mesi potrei essere morto. Le cure di cui ho bisogno sono essenziali, oppure no?" Io non lo so, ma mi piacerebbe che qualcuno lo decidesse, altrimenti tutto è lasciato alle scelte del momento, da parte dei sanitari, decisioni che possono cambiare a seconda delle condizioni in cui si presenta lo straniero, indipendentemente dai suoi problemi di salute. Magari, uno arriva accompagnato dalle suore, che dicono di ricoverarlo perché è un bravo ragazzo; un altro arriva dal carcere, e riceve una diversa accoglienza.

Lo straniero clandestino detenuto, formalmente, non è iscritto al Servizio Sanitario Nazionale perché oggi è a Padova, domani può essere a Verona, dopodomani a Bolzano, quindi dal punto di vista contabile non grava su alcuna A.S.L., però ha ugualmente diritto alle prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale, perché questo è previsto dalla legge.

Il problema si pone, semmai, per quella fascia indeterminata di casi, neanche tanto ristretta, che sta tra i casi clinici di lievissima entità, per i quali le strutture pubbliche non sono tenute a curare i clandestini, ed i casi di maggiore gravità, nei quali sono sempre tenute a farlo.

Se tra gli immigrati, detenuti o meno, si diffonde la convinzione che in ospedale non gli danno l'assistenza che gli serve, potremo avere delle persone, che magari avrebbero pure diritto alla assistenza sanitaria, che non si rivolgono più all'istituzione sanitaria, per cattiva informazione e, magari, potremo avere più A.I.D.S. in giro.

Un altro problema che si pone fuori, ma più difficilmente si pone in carcere, è quello dell'individuazione dell'età dei soggetti: molto spesso, quando arrivano in carcere, la verifica è già stata fatta, ma l'accertamento antropometrico non gode di affidabilità scientifica assoluta: l'unico accertamento che la garantirebbe sarebbe quello del D.N.A., ma nessuno può costringere nessuno a sottoporsi a questo esame.

Intervento di Fabrizio Schifano

responsabile del Ser.T. 1 di Padova

Lo scenario degli stupefacenti negli ultimi anni si è grandemente modificato e, al riguardo, sono molte le teorie che si sono fatte; certo è che, in questo periodo, il problema delle droghe sintetiche è sotto gli occhi e all'attenzione di tutti.

Ma è vero che l'eroina non interessa più a nessuno, e qual è il ruolo della cocaina, e quale quello dei cannabinoidi?

Quello che noi sappiamo di per certo è che l'ecstasy, la più nota delle cosiddette nuove droghe, in realtà è stata sintetizzata ben ottantacinque anni fa. La conoscenza dell'A.I.D.S., sindrome descritta per la prima volta nel novembre 1981 in una autorevolissima rivista di medicina americana, riguardava questa stranissima sindrome, che portava le persone ad un progressivo dimagrimento fino alla morte.

All'inizio non si pensava che fosse il virus dell'H.I.V. la causa di questa sindrome, ma lo fosse una sostanza chiamata popper, in uso soprattutto tra gli omosessuali negli Stati Uniti.

Tra il 1985 e il 1986 in America si cominciò considerare il problema della trasmissione del virus H.I.V. attraverso i rapporti eterosessuali ed omosessuali, mentre in Europa e nel nostro paese il fenomeno era ancora avvertito come lontanissimo.

Nei Ser.T. e nei servizi trasfusionali noi abbiamo cominciato a testare i pazienti per la sieropositività all'H.I.V. intorno al 1986 - 87 e, in certe zone, come Padova, abbiamo scoperto che già il 42 % dei nostri pazienti era sieropositivo. In alcune aree metropolitane, ad esempio nelle periferie di Milano e Torino, questa percentuale arrivava anche al 70 %.

In Europa e nei paesi del bacino mediterraneo si era finalmente capito e questo è stato molto importante, che l'H.I.V. derivava principalmente dall'uso di sostanze per via endovenosa.

L'entrata nel mondo degli stupefacenti significa prendere a modello determinati elementi che derivano dalla cultura: dall'86 - 87 in poi, entrare nel mondo delle sostanze usate per via endovenosa ha significato: A.I.D.S.

Questo risultato è entrato a far parte della nostra cultura e della nostra mentalità, anche dal punto di vista del marketing della droga, perché di marketing si tratta, parlando di economia, anche di economia criminale.

Si può quindi dire che l'A.I.D.S. ha sporcato il mercato dell'eroina: all'epoca in Italia non c'erano altre droghe usate per via endovenosa; adesso, abbiamo anche la cocaina, che viene usata per via endovenosa, e tra l'altro questa pratica è riservata quasi esclusivamente a coloro che usano anche l'eroina per via endovenosa, cioè coloro che hanno dimestichezza con le siringhe.

Nel 1987, quando cominciai a lavorare in un Ser.T., l'età media dei consumatori di eroina e, comunque, dei frequentatori del Ser.T., era intorno ai 23 anni; se andate oggi nei Ser.T. di Padova, trovate frequentatori con un'età media di 32 anni: sono passati dieci anni circa e anche l'età media si è alzata di circa dieci anni.

Che cosa significa questo? Significa che la popolazione tossicodipendente è invecchiata, perché i vecchi consumatori non sono deceduti, per fortuna, ma anche non ne sono arrivati di nuovi.

Nel mondo dell'eroina assistiamo semplicemente ad un invecchiamento della nostra utenza, il che significa, tra le altre cose, un maggiore lavoro anche per voi, perché è chiaro che, man mano che la "carriera" con gli oppiacei continua, il consumatore si mette maggiormente nei guai con la legge.

Dal 1986 - 87, si sono dovute introdurre sul mercato delle sostanze psicoattive che non dovessero necessariamente essere usate per via endovenosa, e questo perché c'era una richiesta in tal senso dal mercato. Queste nuove sostanze, più attraenti, sono arrivate al momento giusto e sono state l'ecstasy e tutte le droghe sintetiche.

Sono sostanze che possono essere prese per bocca, inalate o fumate, e non danno facilmente dipendenza, a detta dei consumatori ed anche di chi le propone.

Il loro utilizzo può quindi essere anche saltuario, una volta alla settimana, o anche di meno; in altro modo si verificherebbe la dipendenza e i nuovi consumatori non vogliono essere dipendenti: questa è la spiegazione economica dell'avvento delle nuove droghe.

A detta dei miei utenti, sembra che il mercato si sia modificato anche dopo l'arresto della cosiddetta mala del Brenta, che in Veneto aveva un controllo sommario sul mercato degli stupefacenti. La perdita di potere da parte di questa realtà criminale ha consentito l'avvento della criminalità extracomunitaria.

Sembra però che, già nella seconda metà degli anni 80, il gruppo di Felice Maniero facesse i primi esperimenti di diffusione dell'ecstasy nelle discoteche venete e, a distanza di dieci anni, possiamo dire che l'operazione ha funzionato molto bene.

Oggi, nei 543 Ser.T. italiani, in un anno, entrano circa 120.000 tossicodipendenti da eroina; in un solo Sabato sera, nelle 500 discoteche italiane, ci sono tra i 50 e gli 85.000 consumatori di ecstasy.

Quindi, in un solo week-end, troviamo nelle discoteche un numero di consumatori di sostanze stupefacenti quasi comparabile all'intero mondo degli eroinomani che si rivolgono ai Ser.T. italiani.

L'operazione di marketing ha funzionato in maniera meravigliosa e molti ragazzi continuano a pensare che, in fondo, queste sostanze non sono droghe, perché non si iniettano: il drogato è quello che si buca, non chi prende pillole, o fuma, o sniffa.

In realtà, queste sostanze, dal punto di vista squisitamente psicologico, sono anche peggio degli altri stupefacenti.

Certamente, oggi, in Italia, sono pochi quelli che iniziano ad usare eroina per via endovenosa, però ci sono tanti consumatori che la fumano, convinti che così faccia meno male e, soprattutto, che in questo modo evitino di contagiarsi con l'A.I.D.S.

A proposito della criminalità, extracomunitaria e non solo, c'è un importantissimo altro elemento, quello dei cannabinoidi. Questi prodotti sono presenti sul mercato della droga da moltissimi anni e sono, per così dire, trasversali: li si trova nei centri sociali occupati, come in certe discoteche, come nei rave o in certe feste private, come in alcune Facoltà dell'Università di Padova.

Attualmente il prodotto T.H.C., principio attivo derivato dalla pianta naturale dell'hascisc, è distribuito principalmente dalla criminalità albanese, però esistono alcuni prodotti, diciamo di élite, che non sono nelle mani degli extracomunitari: si tratta dello "skunk", del "superskunk", e del "sensibija".

Questi esistono da sempre, però solo negli ultimi anni stanno avendo successo sul mercato, perché contengono una maggiore concentrazione di T.H.C. e danno quindi effetti di piacere maggiori rispetto alla classica marijuana ed all'hascisc coltivati sugli altipiani albanesi.

Probabilmente, dietro alla criminalità extracomunitaria dedita allo spaccio di droghe, ci sono organizzazioni italiane: gli stranieri occupano solo l'ultimo ed il penultimo livello nella gerarchia, ma sopra di loro ci sono intelligenze capaci di pianificare il marketing a livello nazionale ed internazionale.

A questo punto, sarebbe utile spendere alcune parole sulla distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, distinzione nata negli anni 70: nel '72 - '73, anche a Padova è arrivata l'eroina e, sui muri si leggevano scritte del tipo "Sì alle droghe leggere; no alle droghe pesanti".

Per droghe leggere si intendeva soprattutto la marijuana e, secondo qualcuno, anche L.S.D. Le droghe pesanti, essenzialmente l'eroina, erano considerate le droghe con le quali il padronato teneva calmo il proletariato.

L'utilizzo delle droghe leggere, invece, aveva un significato politico ed ideologico di contrapposizione al sistema. Oggi la situazione è molto diversa: se parlate con i ragazzi che usano l'ecstasy, vi dicono che loro lavorano o studiano tutta la settimana ed il Sabato sera hanno il diritto di sballare. La domenica, poi, sono rintronati, ma il Lunedì mattina sono puntuali a scuola o al lavoro.

Tra loro non c'è più contrapposizione ideologica nei confronti del sistema, quindi queste sostanze non rappresentano più la protesta, ma l'accettazione, l'integrazione con il sistema.

La distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti si basava sulla opinione che le prime creassero soltanto dipendenza psicologica, mentre le seconde anche quella fisica. Ma gli studi effettuati durante tutti gli anni 90 hanno dimostrato che tutte le sostanze di abuso, dall'alcool, alla nicotina, all'eroina, creano una dipendenza che ha concrete basi biologiche.

Quindi non esiste la distinzione tra le droghe leggere e quelle pesanti, solo quella tra sostanze da abuso e sostanze che non lo sono.

Esiste, è vero, una sintomatologia fisica che alcune sostanze provocano ed altre non provocano, ma questo non vuole dire nulla: ad esempio la cocaina non dà sintomi fisici da dipendenza, eppure è la sostanza da abuso più potente che si conosca e, negli anni 70, era considerata una droga leggera.

Quando la criminalità extracomunitaria prese il controllo del mercato degli stupefacenti nella nostra regione, alla fine degli anni 80, si verificò anche un sensibile aumento delle morti da overdose e questo avvenne principalmente per due motivi: le nuove organizzazioni, per conquistarsi i clienti, immisero sul mercato un prodotto migliore, contenente una maggiore percentuale di principio attivo; le stesse organizzazioni non avevano ancora l'esperienza necessaria per preparare la sostanza, per gestire la miscelazione con i prodotti di "taglio", quindi commettevano degli errori.

Il mondo delle nuove droghe, per ora, interessa poco alla criminalità extracomunitaria, che si occupa essenzialmente dello spaccio di eroina, cocaina e cannabinoidi. I consumatori extracomunitari, da parte loro, raramente avevano usato delle sostanze prima dell'arrivo in Italia, è solo qui che hanno conosciuto la droga, di solito quella con la quale sono a contatto per il loro impegno di criminalità: o la cocaina, o l'eroina.

Molti stranieri, in effetti, vengono in Italia con altre intenzioni che non dedicarsi allo spaccio, poi ci si ritrovano coinvolti per una serie di motivi, per la difficoltà di integrarsi nella nostra società, spesse volte.

Ad esempio, per un extracomunitario, è difficilissimo trovare una fidanzata in Italia, a meno che lei sia una tossicodipendente: molte delle utenti che si rivolgono al Ser.T. hanno fidanzati extracomunitari, a loro volta tossicodipendenti e spesso spacciatori, certo in questi comportamenti c'è una notevole strumentalità, ma forse non potrebbe essere altrimenti.

A questa situazione fanno eccezione solo alcuni immigrati provenienti dal Marocco, paese nel quale esistono delle piantagioni di marijuana ed anche un suo mercato, ma questi non si rivolgono al Ser.T.: da noi arrivano solo persone che, all'80 %, hanno problemi con l'eroina e, al 20 %, con la cocaina.

L'ingresso nel mondo delle droghe, per gli italiani, avviene invece in modo più graduale e, spesso, le sostanze di avvio sono quelle legali, l'alcool ed il tabacco. Si tratta di una serie di condizionamenti culturali, che vengono recepiti dalle famiglie stesse e, poi, dal gruppo di coetanei con i quali si lega.

Uno studio fatto nella nostra regione, iniziato nel 1990 e non ancora concluso, ha dato risultati chiarissimi: i ragazzi tra i 12 ed i 15 anni che bevono alcoolici o fumano tabacco, hanno una probabilità bel 52 volte maggiore di iniziare, in seguito, ad usare sostanze da abuso illegali, rispetto ai ragazzi della stessa età che non bevono né fumano.

Intervento del dott. Antonio Stivanello

Ser.T. 2 di Padova

Quando diciamo che l'ambiente influenza le persone diciamo una cosa ovvia. Nel Magreb i giovani non si drogano prima di tutto perché la droga non c'è, ma anche perché non hanno l'occasione di pensarci, hanno ben altre preoccupazioni che non il ricercare lo sballo. È poi chiaro che, tutte le volte che una società vive una grande crisi, l'uso delle sostanze stupefacenti crolla. Nella nostra società il rischio di cominciare ad usare sostanze stupefacenti c'è, come pure quello di ammalarsi di A.I.D.S., ma noi operatori non possiamo certo vietare a qualcuno di drogarsi, possiamo tutt'al più dirgli che la droga gli fa male.

La prevenzione, oggi, funziona abbastanza bene e abbiamo pochissimi nuovi casi di trasmissione del virus H.I.V., purtroppo ne avvengono ancora diversi in carcere, anche se dà fastidio che questo si sappia.

Il carcere è l'unico posto dove non si possono distribuire siringhe, perché è risaputo che in carcere nessuno si droga: avete mai sentito che ci sia droga nel carcere? Assolutamente no!? Si possono, allora, dare le siringhe? Assolutamente no!?, perché, altrimenti, bisognerebbe ammettere che in realtà la droga c'è.

Voi sapete che in carcere non circola il denaro; l'eroina viene comprata scambiandola con l'oro, oppure facendo caricare il denaro sul conto corrente di chi la vende: questo problema, delle "transazioni", lo affrontiamo, o no!?

Altro problema è costituito dagli extracomunitari, nei cui confronti non abbiamo alcun tipo di preparazione, così li lasciamo completamente allo sbando, con delle mistificazioni totali riguardo all'assistenza nei loro confronti.

Quando Schifano dice che questi vanno con le tossiche... ma cosa dovrebbero fare?! Vengono qua, l'unica cosa che riescono a fare, se gli va bene, è di spacciare hascisc; non hanno un posto dove possono dormire, tranne nelle case di via Anelli, dove trovano gli alloggi più costosi della città: ovviamente, dietro questa situazione, ci sono interessi di marketing che coinvolgono più gli italiani che gli stranieri. Chiarito ciò, dobbiamo cominciare a verificare alcune cose: queste persone ci sono, quindi dobbiamo occuparcene seriamente, da subito.

Il problema principale è costituito da quelli che sono il Italia illegalmente, perché per lo straniero regolarmente residente a Padova, l'unica cosa da stabilire è se deve occuparsene Schifano al Ser.T. 1, oppure io al Ser.T. 2.

Per chi invece non è in regola, l'unico modo di essere seguito è quello di finire in carcere, perché qui ha lo stesso trattamento di ogni altro detenuto. Per quanto riguarda il carcere, il Ser.T. sta facendo un lavoro di coordinamento tra i vari servizi territoriali, con il progetto Teseo, al fine di migliorare la qualità degli interventi.

Finora non abbiamo una casistica importante riguardante gli stranieri regolari, per quanto riguarda le situazioni di tossicodipendenza: a drogarsi sono quasi sempre i clandestini, anche se ci sono dei figli di stranieri, anche nati in Italia, che hanno quasi vent'anni e che rientrano nei normali parametri di rischio degli altri giovani italiani.

Gli immigrati irregolari si possono distinguere in due grosse categorie, lasciando da parte il fenomeno della prostituzione, sul quale andrebbe fatto un discorso particolare: quelli che arrivano in Italia per cercare un lavoro e non lo trovano e quindi finiscono per occuparsi di attività illegali, e quelli che, già nel loro paese di origine, erano delinquenti abituali.

Questi ultimi, anche loro, trovano in Italia una migliore condizione di vita, perché la detenzione in un carcere italiano è senza dubbio meno dura che non quella in un carcere nordafricano.

Molti, però, vengono qui per trovare lavoro e, non trovandone, finiscono per diventare la manovalanza dello spaccio della droga, ruolo che in precedenza era occupato dai tossicodipendenti italiani. Questo lavoro di vendita sulla strada è rischioso, spesso vengono presi, quindi meno una persona ha da perdere, più facilmente lo accetterà.

In poco tempo, gli immigrati hanno scalato anche il secondo livello della gerarchia dello spaccio, quello nel quale non si vendono solo le bustine per conto di altri, ma si preparano anche, quindi si compra la droga in quantità maggiori, la si suddivide, la si confeziona in dosi singole.

Che il primo e il secondo livello non siano più nelle mani degli italiani lo si verifica anche attraverso le entrate in carcere, che per gli italiani sono sensibilmente diminuite. I clandestini, fuori dal carcere, non possono essere assistiti dal S.S.N., come avviene per tutti i residenti. Nella nostra regione c'è una disposizione, data dall'Assessore Braghetto, che prevede di intervenire sulle persone senza fissa dimora, o comunque non residenti, solo per specifiche patologie, come le malattie trasmissibili, tra cui l'A.I.D.S. e la tubercolosi, per la tutela della maternità, compresa l'interruzione volontaria della maternità, ed il pronto soccorso.

Per il resto non è possibile intervenire e, quindi, non possiamo dare assistenza sanitaria, sociale e farmacologica a queste persone.

All'interno del carcere, l'assistenza può essere data ma, nel momento della ammissione alle misure alternative, per i clandestini, per i clandestini non c'è nessuno che paga le rette per il mantenimento in comunità, quindi non possono essere accolti.

Uno dei problemi che si sono verificati è stato quello di persone che erano in trattamento farmacologico in carcere e, una volta usciti, hanno continuato ad avere questo supporto farmacologico, perché avevamo provato a fare un'iniziativa sperimentale in questo senso. Iniziativa che abbiamo dovuto interrompere perché arrivavano extracomunitari da tutta l'Italia a chiedere l'assistenza, visto che eravamo i soli a dargliela.

Abbiamo provato anche a contattare gli altri Ser.T. e abbiamo verificato che il solo tipo di intervento che loro fanno è la somministrazione di farmaci non sostitutivi, quindi una terapia disintossicante breve della durata di tre giorni, poi chiudono la cura.

La sola possibilità, che i clandestini hanno, di farsi curare è che qualcuno paghi per loro perché, senza residenza, nella nostra regione non viene rilasciato il libretto sanitario e, senza questo, le A.S.L. non sono tenute a dare prestazione, tranne gli interventi di pronto soccorso e di prevenzione che dicevo prima.

Per quanto riguarda la cura dell'A.I.D.S. non è prevista la somministrazione degli antiretrovirali, che costano milioni ed il cui uso creava qualche problema alle A.S.L. Detto questo, all'interno di ogni Ser.T. ci sono situazioni particolari, ad esempio casi nei quali l'extracomunitario esce dal carcere sotto terapia metadonica e questa non può essergli tolta di colpo: la continua all'esterno a scalare, fino ad esaurimento. Non è possibile, invece, che un clandestino arrivato dalla strada riceva il metadone rivolgendosi al Ser.T. e questa regola è valida per tutta l'Italia.

Un altro problema è costituito dagli extracomunitari che rimangono in carcere per un lungo periodo e prendono la residenza presso l'Istituto: quando sono scarcerati, questa residenza rimane, oppure scompare?

Perché, se rimane, allora hanno diritto a tutte le prestazioni, dal ricovero nelle comunità terapeutiche agli interventi a bassa soglia. A Padova succede che la residenza decada automaticamente, perché il Comune ha fatto questa scelta, non vuole avere centinaia di pazienti che escono dal carcere e vanno a gravare sui servizi pubblici: gli basta avere i residenti, come assistiti.

È solo un discorso economico, quindi, ed a livello puramente economico va affrontato, senza falsi pietismi. Se in Italia questi extracomunitari ci sono, con loro abbiamo tre possibilità: la prima è quella di eliminarli, cioè di espellerli tutti; la seconda è quella di fare in modo che in Italia non vengano affatto, facendo in modo che nei loro paesi d'origine il livello di vita si innalzi e loro non abbiano più convenienza ad emigrare; la terza è quella di inserirli nella società italiana, con gli stessi diritti e le stesse regole di qualsiasi altri cittadino.

L'immigrato, che arriva in Italia per lavorare ma questo lavoro non lo trova, finisce inevitabilmente nel mondo della criminalità e poi nel carcere. All'uscita dal carcere. Per lui sarà ancora più difficile trovare lavoro e più facile che riprenda a spacciare, perché se non ce l'ha fatta prima ad inserirsi, come volete che ci riesca adesso, da pregiudicato!?

Però, tra la scelta di ritornare nel paese di origine, portando con sé il fallimento del proprio progetto di emigrante, e quella di rimanere il Italia, è più facile la seconda. C'è poi la questione della loro nazionalità, perché spesso gli stranieri danno falsi nomi e anche falsa nazionalità, perché non vogliono far sapere alle autorità del loro paese di provenienza che sono finiti nei guai con la giustizia italiana.

Abbiamo dei dati significativi sulla presenza degli stranieri nella Casa Circondariale di Padova, dove risulta che sono molto di più degli italiani e, tra loro, la maggio parte sono tossicodipendenti, quindi il commettere reati e l'uso degli stupefacenti è per loro strettamente commesso.

Riguardo alla loro età, risulta che gli stranieri sono molto più giovani rispetto agli italiani. Questo, probabilmente, dipende dal fatto che nel loro paese non erano tossicodipendenti, ma lo sono diventati in fretta, quando iniziano a spacciare, perché le bustine gli passano costantemente in mano. Non corre lo stesso rischio chi la droga la commercia all'ingrosso, lui non la tocca nemmeno; invece che sta al livello più basso deve confezionarla, convincere l'acquirente della sua "bontà" e finisce, quasi per forza, per provarla.

Se guardiamo alla suddivisione degli stranieri detenuti in base alla regione geografica di provenienza, vediamo che al primo posto c'è l'Africa settentrionale, poi c'è l'Europa dell'est, poi l'Africa occidentale. Tra gli africani, la maggior parte sono tossicodipendenti, mentre tra gli europei la situazione è capovolta: la maggior parte è costituita da non tossicodipendenti.

Questo accade perché si sono suddivisi il mercato: ai nordafricani la droga, agli europei dell'est la prostituzione. Allora è più facile che si dichiari tossicodipendente chi viene preso con una bustina in tasca, anche se non è in realtà tossicodipendente, perché così facendo evita una pena maggiore, rispetto a chi viene fermato per reati legati alla prostituzione, che magari usa pure la cocaina, ma non si sogna certo di dichiarare la sua condizione di tossicodipendente quando viene arrestato.

Per gli italiani che entrano in carcere, abbiamo dati differenti: la maggior parte dei tossicodipendenti italiani fa uso di eroina, ce n'è una parte che usa hascisc e cocaina, mentre le anfetamine sembra che non le usi nessuno. Tra i tossicodipendenti c'è un aumento delle politossicità: eroina ed hascisc insieme; eroina e cocaina; cocaina ed hascisc; eroina, metadone e cocaina.

Per quanto riguarda gli stranieri, la differenza più sostanziale è che molto pochi di loro usano il metadone all'esterno del carcere, perché non gli viene dato, a meno che non trovino il modo di comprarlo.

Il Ser.T. si sta attivando, sul territorio, per fare interventi specifici rivolti agli stranieri clandestini?

Il problema del Ser.T., nel rapporto con gli stranieri irregolari, è che non è autorizzato ad occuparsi di loro; quindi loro verrebbero al Ser.T., ma siamo noi operatori a dirgli di non venire, perché per loro non possiamo fare nulla. Per quanto riguarda gli interventi di riduzione del danno, a Padova c'è il camper, cogestito da noi assieme alla Croce Rossa, che distribuisce siringhe e, quando richieste, dà informazioni. Si tratta però di un intervento davvero a bassissima soglia, per quanto riguarda gli stranieri clandestini: gli italiani, se lo chiedono, possono essere aiutati ad uscire dalla tossicodipendenza; perlomeno è possibile indicare loro le vie da intraprendere per essere aiutati in questo, mentre con i clandestini ciò non è possibile, quindi non posso dire che il Ser.T. si sia fatto carico del loro problema.

Come viene fatto il trattamento metadonico a chi entra in carcere da tossicodipendente?

Quando si tratta di un tossicodipendente italiano, oppure di uno straniero regolarmente residente, non esiste alcun problema a fargli iniziare una terapia metadonica, sia che fosse già in trattamento all'esterno del carcere, sia che debba iniziarla in carcere.

Invece, quando si tratta di uno straniero clandestino, cerchiamo di evitare di dargli il metadone, perché se fosse scarcerato dopo pochi giorni non potremmo proseguire la terapia all'esterno. Naturalmente si fanno le eccezioni del caso, ma la regola è questa e si tratta sempre di una questione esclusivamente economica. Sarebbe difficile pensare a un diverso modello, perché le amministrazioni non dispongono di risorse infinite e devono decidere a chi destinarle.

Ufficialmente ogni persona detenuta ha diritto a ricevere le stesse cure, nella realtà questo non avviene e, questa situazione, non è destinata a cambiare con il primo gennaio 2000, quando la cura dei tossicodipendenti detenuti passerà sotto le competenze delle A.S.L.: non credo che cambierà, perché ci sarà sempre il problema che, se i clandestini vengono scarcerati, nessuna A.S.L. li prende in carico e paga i costi relativi alle loro cure.

Secondo lei, le terapie metadoniche di mantenimento hanno un senso, cioè sono efficaci come strumento di cura?

Io ritengo che il metadone sia un farmaco e che vada usato in alcune situazioni specifiche: ha pochissime controindicazioni, da un punto di vista strettamente farmacologico. L'uso del metadone s'inquadra in un discorso di riduzione del danno, e qui bisognerebbe capire se intendiamo ridurre il danno rispetto alla persona, oppure rispetto alla società.

Se è rispetto alla persona, significa che ci deve soprattutto importare che in paziente smetta di usare l'eroina, così evita di prendere l'A.I.D.S.

se questo paziente, poi, commette una rapina e finisce in carcere, non significherà affatto che in nostro obiettivo di riduzione del danno sia fallito. Se invece come riduzione del danno intendiamo un maggiore controllo sociale, quindi ci poniamo un obiettivo di riduzione della microcriminalità, allora il metadone diventa uno strumento premiale e dovremmo darlo solo ai pazienti che promettono di non commettere più reati. In questo ultimo caso dovremmo parlare di politica sociale e non di politica strettamente sanitaria, legata alla somministrazione del metadone.

Poi succede anche che i nostri pazienti, insieme al metadone, usino cocaina ed hascisc, perché il metadone li fa andare in depressione e devono in qualche modo sostenersi. Ma, se il problema fosse solo questo, significherebbe che l'operatore ha sbagliato il dosaggio, che avrebbe dovuto darne di più al paziente: il metadone non è nato come farmaco disintossicante e richiede una lunga terapia con alti dosaggi e un lento scalaggio, per arrivare alla disintossicazione. Il punto è che, se non vogliamo usare il metadone in maniera premiale, allora dobbiamo usarlo come farmaco e prescriverlo come tale.

Ci sono anche persone che, aldilà della temporanea depressione, non hanno alcuna identità e quindi preferiscono avere un'identità da tossici che non averne alcuna. È probabile che abbiano iniziato ad usare l'eroina per avere questa identità ed a loro il metadone serve come connotazione del fatto che sono tossici, se glielo tolgo si scompensano, perché appunto si ritrovano senza un'identità.

Ci sono pazienti che dichiarano di usare l'eroina e la cocaina come autoterapia per combattere la depressione, altri che usano l'eroina anche durante la terapia metadonica, ma senz'altro sono molti di meno, da quando abbiamo fissato a sessanta milligrammi la dose di partenza della terapia a scalare; quando questo limite era fissato a trenta milligrammi, quasi tutti continuavano ad usare l'eroina.

Intervento del Dott. Ferrari

docente di Sociologia del Lavoro dell'Università di Padova

Lo sviluppo di oggi in questa regione e di quest'area è frutto di enormi sacrifici; la pellagra ce la siamo portata per anni addosso.

Non si può pensare che lo sviluppo arrivi perché arriva lo Zio Tom dall'America con i miliardi e impianta le fabbriche. Le fabbriche bisogna sapersele costruire e sudarsele. Quello che innesca la dinamica dello sviluppo è l'imprenditorialità, la capacità di sacrificio, la professionalità.

Secondo me ci sono aree che si aspettano l'assistenzialismo, lo ritengono un atto dovuto, non è così! Qui l'assistenzialismo non c'è stato.

Lo sviluppo nel Veneto non ha avuto assistenzialismo, a parte qualche provvedimento sul sotto sviluppo di incentivazione delle aree depresse; ma non c'è stata nessun massiccio intervento eppure negli anni 30 c'era la fame.

Cosa e accaduto, perché adesso non c'è più, ci sono motivi di origine storica che inducono alla riflessione e soprattutto le giovani generazioni devono riflettere su questo. L'esempio che mi ha shockato risale ad alcuni anni fa, io sono stato amico di un grosso personaggio del Ministero della Difesa il quale mi ha detto: io sono stato nel Friuli quando ci fu il terremoto, e sono stato pure in Irpinia, ma sono scattati meccanismi diversi: Quando sono arrivati gli Alpini, il 27 maggio mattina, (il terremoto era avvenuto la sera prima), la mattina gli hanno trovati con i badili in mano e scavavano tra le macerie. In Irpinia stavano là, e basta, e questo fa la differenza. Il Duomo di Denzone hanno numerato pietra su pietra e lo hanno ritirato su.

Io mi domando se non è una questione cultura.

È esatto. È questo il problema. La spirale dello sviluppo per innescarsi ha bisogno per partire del sacrificio delle persone. La gente ha accettato delle condizioni di vita e di sviluppo che erano inumane ma le ha accettate, perché è di li che è partita. La bravura non è partire, ma è costruire dopo la partenza. Bisogna avere il coraggio di affrontare certe situazioni, non piangere.

Ho visto con grande soddisfazione dati statistici sullo sviluppo del Mezzogiorno; adesso i miei amici che si trovano in Calabria e nelle altre regioni meridionale, mi dicono: sapessi che effetto ha avuto la parola federalismo. Ha avuto un effetto struggente, la gente ha capito che non c'è più la cassa del mezzogiorno. È finita.

Ha avuto un effetto dirompente ed io sono convinto che le condizioni per lo sviluppo ci siano, le professionalità ci sono, c'è tutto, basta che si inneschino dei processi.

Il discorso che facevo prima della Pubblica Amministrazione, deve essere funzionale per lo sviluppo. Il Sindaco e la Giunta non possono perdere dei mesi a discutere su chi fa l'assessore e su chi fa il Sindaco; capite!, non si può più.

Abbiamo cominciato con i patti di area di Manfredonia, con un gruppo di imprenditori, e adesso bisogna innescare dei processi e dei fenomeni di avvio di sviluppo, che hanno poi situazioni di irraggiamento, perché quando nasce un polo di produzione, ci sono dei fenomeni di irraggiamento, quindi lo sviluppo cresce, questo è fondamentale.

Se noi incappiamo nella logica di critica e contestazione e iniziamo col dire, ma quello sfrutta, paga poco ecc., non si va più fuori, il problema è che bisogna innescare la spirale dello sviluppo. Per fare questo ci sono dei costi; vengono pagati qua come in Africa, in Bosnia ed ovunque.

Io trovo il suo discorso valido, ma può essere inserito in un momento storico diverso, finche la manodopera del sud andava bene a noi per far sviluppare il polo industriale, non è che loro non si tirassero su le maniche!

Adesso non vengono più qua.

Adesso non vengono su, però voglio dire, questa richiesta di sviluppo del sud viene adesso, perché possiamo indirizzare l'economia su un altro tipo di attività; appunto quella dei servizi. Perciò il sud deve arrivare a capire che non è più solo manodopera, ma può essere di più, quindi creare un'imprenditoria, quindi non ne farei, come sentivo prima, un discorso di negatività, come accennavo prima all'Irpinia.

La valle dell'Etna, viene considerata la Silicon-vallei Italiana, cioè in Sicilia si sta sviluppando in questo momento fortemente l'industria elettrica collegata ai computers.

Questo è un dato positivo, però dico che le risorse umane, intellettuali, devono nascere la, non devono essere importate.

Teniamo conto che nel non sviluppo del meridione in parte ha inciso la criminalità.

L'evoluzione dei fenomeni, che sono poi fenomeni complessi, non sono cosi facilmente riconducibili ad equazioni come vorremmo. Un conto per esempio ha rappresentato in Sicilia nell'ottocento la mafia agricola, che era un sistema di gestione e conservazione del potere delle Istituzioni. Addirittura ci sono stati elogi alla mafia fatti da un Cardinale, e questa è una pagina a storica. Questo fatto o fenomeno si è evoluto ed è una cosa estremamente complessa. I motivi del ritardo dello sviluppo sono complessi, non si può dare una spiegazione del fenomeno del sottosviluppo meridionale così!.

Sono convinto che l'ideologia dell'esportazione dello sviluppo sia un'ideologia perlomeno fasulla, come d'altro canto lo è stata quella dell'esportazione della rivoluzione. Non si esporta niente!

Il problema è che ciascuno deve trovare le ragioni della propria crescita e del proprio sviluppo, e questo secondo me è un dato positivo dell'economia meridionale e della forte crescita del numero delle imprese.

Questo vuol dire che il meccanismo di riforma Istituzionale, di federalismo, di logica non più assistenzialista, spinge le realtà economiche meridionali a riflettere e dire: signori miei qua dobbiamo smettere di bisticciare, non arriva più babbo natale, e ci dobbiamo dare da fare.

Questo sta avvenendo, mi dicono i miei amici che vivono nelle aeree depresse meridionali.

In Calabria, in Puglia, si sta avviando un processo di sviluppo solo ora. Perché nel nord c'è stato questo sviluppo e non c'è stato al sud?, sono scelte politiche fatte a suo tempo. Perché ad esempio la Fiat ha investito a nord e non a sud?

Questo è un problema interessante, vi do la letteratura dove potete sviscerare la questione. La trovate in Rosario Romeo, il titolo "l'accumulazione capitalista in Italia", edizione Laterza. Rosario Romeo spiega come nel nostro paese si è passati dal capitalismo agricolo allo sviluppo industriale. Ci siamo passati in una maniera difficile, superando difficoltà e scandali. L'accumulazione capitalistica non c'è stata. C'è invece una conversione dal capitalismo agricolo al capitalismo industriale. Così nasce l'industria in Italia. Vorrei liberare il campo da un dubbio: non sono ne leghista ne simpatizzante della lega.

Conosco la realtà Siciliana essendo Siciliano, secondo me non basta lo sviluppo, perché in Sicilia c'è uno sfruttamento che fa paura. Mio cugino lavoro sedici ore al giorno un milione al mese.

Io quando parlo di sacrifici non parlo in termini soggettivi, ma collettivi.

Guardi che la situazione di mio cugino è diffusissima, cioè se lui dice no a quel datore di lavoro, c'è già una fila di disoccupati pronta a sostituirlo anche per meno. Questo purtroppo è la logica del mercato del lavoro al sud.

Io vorrei che lei mi spiegasse tutta questa massa enorme di lavoro nero che c'è nell'area meridionale, che è maggiore del lavoro bianco, come nell'area Napoletana per esempio. Quello che mi chiedo è se a tutto questo lavoro nero, che poi corrisponde ad evasione fiscale e contributiva, è un mercato esterno alla legalità. Tutta questa massa accumulata di risorse, dove va? È un circolo perverso, perché dal momento che non si guadagna non si consuma.

Lei pone la problematica Keinesiana del consumo uguale più soldi più sviluppo. Ma il datore di lavoro dove li mette quei soldi? Quando faccio un discorso di sacrificio non faccio un discorso individuale. La meccanica collettiva di produzione, di ricchezza, consente risparmi, accumulazioni, reinvestimenti, e sperimentazione.

Questo fenomeno non lo si vede. Probabilmente i soldi finiranno a Montreal. Capito!?

C'è un meccanismo di produzione di ricchezza che non ritorna, quindi non innesca sviluppo.

Dicevo quello, perché a qualcuno può venire in mente che al sud non c'è sviluppo perché non c'è nessuno che abbia voglia di lavorare.

No, io non dico questo; dico che ci sono dei meccanismi dello sviluppo che non quadrano, quindi abbiamo lo sviluppo legato al tessuto sociale, alla nascita delle imprese, lavoro autonomo, lavoro dipendente, noi rileviamo questi dati dai rivelatori di mercati tassi di occupazione, quelli di disoccupazione. La fonte di rivelazione di questi dati è l'ISTAT.

Voi sapete che noi abbiamo in Italia questo istituto di statistica con sede a Roma, che produce una serie di dati, di informazioni con periodicità ciclica. Poi abbiamo i dati Europei, e il corrispettivo Europeo dell'ISTAT si chiama Eurostat, molto attendibile.

Siamo noi Italiani che abbiamo insegnato ed aiutato a fondare istituti di statistica altrove. Per esempio l'Istituto di statistica dell'Albania è stato messo su in collaborazione con gli Italiani. Siamo andati la a insegnare. È l'ultimo paese a cui abbiamo esportato conoscenze.

Voi sapete che abbiamo nell'ambito del lavoro un istituto di rilevanza internazionale, che è il CNEL, con sede in Roma, che è un altro organo che si occupa delle problematiche del lavoro. Poi abbiamo le agenzie regionali per l'impiego che in pratica fanno le rivelazioni sul mercato regionale del lavoro.

Questo libro che vi ho portato è il rapporto 1997 dell'agenzia dell'impiego del Veneto, e ci sono tutti i dati che possono interessare sul tema del lavoro.

Debbo dire che il mercato più si evolve più si tende alla piena occupazione, praticamente ad una disoccupazione di tipo fisiologico; e più il mercato diventa meno rigido.

Perché la rigidità è uno strumento di autoconservazione del posto del lavoro.

Se un lavoratore e le sue organizzazioni sindacali che lo tutelano ritengono che la mobilità di un posto di lavoro all'altro sia facile, e sia oltretutto uno strumento vantaggioso per l'espansione della remunerazione del reddito del lavoratore ovviamente questa rigidità diminuisce perché favorisce ed è un interesse per il mondo del lavoro e per il mercato del lavoro.

Perciò diciamo che nel Veneto il mercato del lavoro è meno rigido che per esempio in Umbria; quindi noi abbiamo un contesto del mercato del lavoro che è meno rigido di quello di altre regioni.

Dentro il mercato del lavoro potremmo fare della analisi di dinamica e delle verifiche delle dinamiche dei vari scomparti. Abbiamo anche dei mercati di lavoro che possiamo compartimentalizzare e settorializzare, per cui abbiamo il mercato del lavoro agricolo, il mercato del lavoro industriale, il mercato del lavoro dei servizi.

Dividere e capire come vanno le cose nell'evoluzione del sistema di mercato come il nostro, comporta l'espulsione soprattutto per le dinamiche di evoluzione del sistema produttivo.

Se un sistema produttivo ha una sua dinamica molto elevata, cioè se cambia molto velocemente, questa assorbe ed espelle il lavoratore. Questi espulsi devono rientrare nel sistema, e come fanno?, occorre la riqualificazione e la formazione. Questo è un problema che si pone nei mercati del lavoro e nei sistemi di produzione ad altra dinamica.

In pratica più siamo industrializzati più assorbiamo e ricicliamo. Il problema grosso è reinserire quelli che sono alle estremità della fascia della popolazione attiva dai cinquanta ai sessant'anni.

Si tenta di solito a usare uno strumento: il prepensionamento, ma cosa facciamo in pratica, andiamo ad intaccare quel tasto doloroso che è la previdenzialità.

Di solito per i reinserimenti si utilizza la forma di formazione professionale o di riqualificazione finanziati da fondi Europei. Voi sapete che la Comunità Europea è fortemente impegnata per la riqualificazione, il fondo sociale Europeo è uno strumento molto importante. Essendo il nostro mercato (parlo del mercato di questa area) di disoccupazione fisiologica, praticamente di piena occupazione. Quando un mercato che ha una dinamica parecchio veloce e che espelle parecchia gente, vi è la necessità di coprire degli spazi occupazionali che si creano abbondantemente, l'agricoltura ad esempio. L'attività del settore primario è una attività scarsamente appetita, vi do un dato che vi farà sorridere: nella zona di Cremona-Piacenza l'unione agricoltori di quella area ha istituito una scuola per bovari e attinge a personale soprattutto Indiano e Pakistano, perché per cultura amano le mucche, quindi le trattano bene. Cosa curiosa ma è così!

Dove si acquisiscono i dati sull'andamento del mercato del lavoro e dell'occupazionejhdfjilvdiodrtpoudfjoccupazionefgfgf. I dati si acquisiscono attraverso gli uffici provinciali del Ministero del Lavoro, attraverso l'agenzia del lavoro, vi ho parlato dei network dei lavoro in affitto, attraverso questi canali si possono avere i dati dell'andamento del mercato del lavoro, e vi ho anche chiarito le tendenze del mercato del lavoro, molto verticalizzato, molto specializzato, le cui soglie basse sono scarsamente appetibili, e quindi facilmente utilizzabili da persone con problemi di tipo sociali.

Ad esempio mi diceva il Direttore che le cose vanno bene per quanto riguarda il giardinaggio, e ci sono delle positivissime esperienze nel comune di Padova.

Lo stesso avviene con la categoria dei disabili. Abbiamo delle cooperative miste che stanno dando risultati eccezionali. A Vicenza c'è la cooperativa "nuovi orizzonti" di Santarso, che 35 addetti e non so quanti miliardi di fatturato annuo, e sono metà disabili e metà normodotati. In questi spazi, giardinaggio, floricoltura, pulizie, c'è una cooperativa a Venezia che si chiama "Libertà" che fattura 12 miliardi annui.

Vi sono altri spazi in cui sono utilizzati i disabili. Sapete che su tutte le ricette farmaceutiche che vengono evase in farmacia, viene applicato un adesivo identificativo leggibile con un lettore ottico, ed è un lavoro molto vasto, questo tipo di lavoro potrebbero svolgerlo i carcerati.

Consulenze tra strutture pubbliche.

Nella nostra società vi è uno scarso convincimento che le strutture pubbliche possano essere consulenti di altre strutture pubbliche. Quando una struttura pubblica ad esempio un comune, una provincia, ha bisogno di risolvere un problema, la prima struttura a qui si deve rivolgere, e a quell'ente che assolve quei compiti. Io credo che l'Amministrazione penitenziaria ha determinati bisogni e deve trovare nuovi sentieri per l'occupazione e studiare altre cose. Si rivolga agli enti pubblici. Noi come università facciamo consulenza di enti, organizzazioni di enti pubblici e privati.

Se si tratta di fare lavori lunghi e di grande impegno, c'è una convenzione tra università e soggetti. Ma se si tratta di avere comunicazioni, chiarimenti, e informazioni, basta avere un referente all'interno dell'università e noi siamo lì.

Per quanto concerne l'attuazione di un insieme di valutazioni e cognizioni teoriche da questo punto di vista io posso dire: la risposta pratica è questa. Dopo di che, chi opera nella realtà di produzione, Bellunese ad esempio, o Padovana, avrà quella di Padova come realtà di mercato e così via. I problemi sono legati a condizioni ed elementi di carattere specificamente territoriali.

Io volevo chiederle se magari ci poteva dare delle indicazioni sul mercato del lavoro. Per esempio, all'interno degli istituti di pena si organizzano varie attività, tra cui anche quelle formativi con i fondi sociali Europei. Secondo lei il tipo di attività formativa che si fa negli istituti di pena, è valida alla luce delle richieste di mercato?, volevo chiederle chiarimenti su questo, ed inoltre dopo aver fatto un'indagine di mercato sul tipo di attività che vai a preparare, per quanto tempo, in base al mercato, può essere spendibile?

Dal mio punto di vista noi avremo in futuro una forte richiesta di forza lavoro nel settore primario dell'agricoltura, vivaismo, zootecnia, tutto il settore primario e un settore che per un lungo periodo avrà problemi, ed è alimentato con forza lavoro di extracomunitari; ci sono Bosniaci, Croati ecc. Il settore edile è un altro settore in cui si registrano le stesse presenze di extracomunitari Balcanici. Tutti i settori più bassi e a bassa remunerazione sono quelli scarsamente appetiti dove vi è una maggiore possibilità di accesso per le fasce deboli.

Uno che ha problemi di reinserimento e che ha fatto 10 anni di carcere, quindi con problemi di rientro nel mondo del lavoro, può trovare un l'accesso iniziale attraverso questi percorsi. L'accesso c'è in questi comparti, e di lì poi muove verso altre esperienze più remunerative e più positive, però intanto imbocca un sentiero.

In una casa di reclusione come questa, dove un detenuto resta alcuni anni, ci sono molte attività culturali, come la rassegna stampa, si fa un giornale, ci sono un sacco di stimoli per elevarsi culturalmente per avere una preparazione. Quindi io dico, non tutti i detenuti sono solo mano d'opera. Quello che vorrei capire è se un tipo di lavoro più qualificato è opinabile oppure è una utopia, perché qua dentro più di uno si qualifica, oppure devono essere per forza destinati a pulire strade?

Ci possono essere dei sentieri di accesso anche più qualificati, negarlo sarebbe sbagliato. Il mio convincimento è che noi, facendo un ragionamento generale e diffuso, dobbiamo dare le risposte che valgono per tutti o quasi:

Questi sentieri del settore primario sono sentieri facili e possibili, arrivare a dei sentieri più elevati e più sofisticati, può accadere ma è più difficile.

Per cui trovare un contabile o un ragioniere che esca da qui e affidargli la contabilità della azienda, diventa problematica, una questione di rapporti di fiducia.

Ci sono anche lavori nuovi, come la rassegna stampa, e specializzandosi potrebbe funzionare, infatti ci sono delle agenzie che svolgono quei lavori ad alti costi, e quindi quello che vorrei capire, è se ci sono dei lavori più specializzati.

Vi è il tele lavoro, ma non ho parlato del tele lavoro e mi ci soffermerò adesso:

il telelavoro è una grande chance che ci sarà negli anni a venire, e offrirà una serie di opportunità a delle persone che hanno dei problemi, e che comunque potranno lavorare in condizioni particolari. Saranno collegati con un centro, un operatore, con un soggetto. Faccio un esempio molto concreto, perché dobbiamo imparare a capire, io non voglio fare discorsi astratti. Avete mai fatto il cambio di indirizzo sulla patente?, bene, quella è una variazione che viene fatta sulla vostra patente, ma verrà fatta anche al Ministero dei Trasporti se si trattasse del libretto dell'auto, oppure in prefettura, ecc. Ecc. Queste variazioni vengono fatte con il telelavoro, cioè io prendo un pacco di variazioni, le do all'operatore, che lavorando al computer di casa e avendo la chiave di accesso al computer della Motorizzazione Civile presso il Ministero dei Trasporti, può svolgere un lavoro. L'operatore ha un codice, e con questo codice, il suo P.C. il modem e una linea telefonica, alla mattina quando si alza è come se fosse in ufficio, ed inizia la sua attività lavorativa. Il suo segnale accende il computer che sta al Ministero dei Trasporti, e prende le pratiche che gli hanno portato introducendo i dati, e lavora direttamente sulle schede personali di ogni singolo. Poi a fine lavoro, dalla sua stampante, uscirà un foglio particolare, una sorta di strisciolina che indicherà il lavoro svolto. Al Ministero arriveranno gli stessi dati. Quindi questo servizio gli sarà retribuito per una certa quantità di lire.

In questo esempio si è lavorato a casa per il Ministero dei Trasporti.

Questo tipo di lavoro può essere fatto perfettamente qui al due palazzi, che anziché al Ministero dei Trasporti possono entrare in qualsiasi altro Ente pubblico o privato dove sono necessari lavori di variazioni, codificazioni, o una serie di altri lavori.

Adesso ci sono, ad esempio, lavori di trasferimento su cd rom di documentazione, perché c'è il problema di conservare attraverso il supporto informatico una serie di dati di informazioni. Ad esempio: con lo scanner si trasferiscono su disco i dati relativi a dieci anni di fatture di una azienda, o di lettere commerciali, e questo lavoro si potrebbe fare benissimo qui dentro. La possibilità di utilizzare il telelavoro e l'elettronica qui in carcere c'è ne molta, ed è facilissimo organizzarlo e svolgerlo. Questo è un lavoro che ha delle chance di prospettiva con un'ottima retribuzione, basta insegnarlo attraverso corsi di qualificazione.

Secondo me ci deve essere una continuità tra la formazione fatta in carcere e il mondo del lavoro esterno, l'obiettivo è quello di fare abituare le persone a lavorare. Tra l'altro il carcere rimane fuori dal tessuto di comunicazione.

Lei dice delle cose corrette. Cos'è la carcerazione?, significa essere messo fuori dalla società civile. Questo è l'aspetto punitivo. Ma deve avere anche un'altra funzione, cioè la riabilitazione. Vi è quindi un elemento strutturale di contraddizione tra il segregare e il rieducare.

La rieducazione presuppone l'integrazione che è l'esatta contrario delle segregazione e dell'emarginazione. Indubbiamente è un gioco molto, molto difficile, perché uno è l'esatto contrario dell'altro.

Alcune innovazioni, che sarebbero compatibili con l'idea del carcere, in molti non riescono a comprenderle e condividere, e continuano a resistere. Anche la lentezza Istituzionale contribuisce a rallentare questo processo. Dunque se qui non possono usare Internet, le linee telefoniche, che senso ha quanto ha detto?

Io non sono un esperto di carcere. Il problema vero è che ci sono diverse forme di reclusione, e quindi chi non lavorerà col modem sarà colui che si troverà alla massima sicurezza, mentre sarà accessibile a chi si troverà in detenzione attenuata.

Ma anche qui che il livello di sicurezza è medio-basso non sarà possibile!

Dipende dalla attuale cultura rispetto al carcere. Io forse la vedo come sociologo e persona esterna che affronta questi problemi saltuariamente. Dall'esterno si vede da una parte un atteggiamento di chiusura, e ogni tanto addirittura interviste che vorrebbero reintrodurre la pena di morte, e si scatenano di fronte agli eventi di cronaca. Mezza classe politica si scatena ed è allarme sociale. Dall'altra invece c'è la politica della rieducazione, ed è tutta una problematica che è una esaltazione del concetto del Beccaria. Questo pendolarismo continuo delle opinioni rispetto a questo problema, è estremamente negativo, perché non provoca una cultura e un movimento costante rispetto a degli obiettivi; qui si va avanti e indietro.

Non ci si rende conto che non può essere un pendolo. Il carcere è una realtà. Per cui seppur l'allarme sociale è comprensibile, non si può generalizzare. Ma va valutato sempre caso per caso. Il Magistrato concede un beneficio valutando i casi singolarmente.

Certo ma ci sono state anche molte critiche ai magistrati perché concedono troppi benefici etc...

Sono comunque casi rari. A Padova, su 1014 permessi concessi solo 3 detenuti non sono rientrati, ma questo dato è ovviamente fisiologico.

Secondo me manca informazione su questo. Il vero problema non è il carcere, ma fuori. Bisogna vedere la nostra classe politica, i nostri dirigenti cosa veramente intendono fare. Quale indirizzo dobbiamo seguire, questo è il vero problema. C'è la Costituzione che ci indica la strada da seguire.

Intervento del dott. Carmelo Cantone

Direttore della Casa di Reclusione di Padova

In effetti c'è un mercato del lavoro frammentario. Viene da pensare all'esperienza dell'officina Rizzato, che portava un certo lavoro. La considerazione che posso fare è che il committente deve essere grosso, o comunque un committente che sia referente di più interlocutori. Faccio un concreto riferimento....

Se una volta il committente era soddisfatto della qualifica professionale media, oggi non lo è più, perché richiede un tipo di preparazione più elevata rispetto ad alcuni anni fa.

Comunque quando non chiede una preparazione professionale è comunque un interlocutore piccolo. Al circondariale avevano avviato un'esperienza di lavorazione. L'interlocutore era una piccola ditta che aveva bisogno di lavoratori che gli preparassero le etichette per il gelato. Pochi assunti: 3-4-5-detenuti, che per un circondariale andavano anche bene parametrati rispetto allo zero! Poi l'interlocutore si perde per strada....., probabilmente perché non aveva fatto bene i conti. Per lui committente poteva andare anche bene, infatti io trovo gente che mi dice che potrebbe far fare un tipo di lavoro per 30 giorni. E dopo? Quindi è necessario il grosso committente.

Ma il grosso committente, o colui che garantisce una fornitura di lavoro costante?

Può anche essere un coordinatore di più commesse. Noi abbiamo una convenzione con una cooperativa che sarebbe pronta per lavorare nei nostri capannoni. Questa cooperativa cerca di recuperare delle commesse per poi portare del lavoro all'interno. Loro dicono che trovano tante piccole commesse, per cui sono costretti a lavorare con troppi interlocutori, ed essere gli unici referenti sul carcere. In termini organizzativi la cooperativa non ce la fa.

Ha bisogno del grosso committente, uno due referenti al massimo, con cui poi la cooperativa fa da filtro; è questo il nodo del problema; il difficile è trovare un grosso interlocutore che venga qui a portare commesse di lavoro. Una commessa di lavoro leggera, non complessa. Se invece si parla di lavoro specializzato, alloro quelle professionalità bisogna cercarle di crearle.

Il settore informatico è uno dei campi di maggiore interesse. Sondando il mercato del lavoro all'interno della nostra esperienza, ci siamo resi conto che non siamo noi che dobbiamo dire al mercato del lavoro di essere "questi", e che loro, devono venire da noi, dobbiamo invece dire "cosa volete?", e quindi formare professionalmente persone che rispondano al reale fabbisogno del mercato del lavoro.

Anche usando questo che è certamente il metodo più corretto è difficile lo stesso, la mia impressione è che il mercato del lavoro padovano fa delle resistenze e non appare molto propenso ad investire sul carcere.

Ho trovato molte disponibilità verbali... Però quando si dice, andiamo a fare un progetto concreto... all'ora non si è visto più nessuno.

Una soluzione potrebbe essere la possibilità offerte dalle grossissime realtà industriali, che però ho constatato non rispondere a pieno alle aspettative riposte.

Ad esempio ho visto in concreto con la "Diesel" (una grossa industria dell'abbigliamento che come fatturato supera la "Levis"), e dopo aver contattato i responsabili, mi hanno detto:

guardi il prodotto di punta del nostro gruppo è il pantalone con le tasche laterali, è un prodotto specialistico, e questo prodotto lo producono a Molvena (Vi) con le loro sarte ed artigiani, tutto il resto è una produzione a livello industriale Non fu possibile nessun tipo di collaborazione.

Allora dobbiamo domandarci quali sono i settori la cui produzione può avvenire qui dentro? La risposta è: quei settori che non necessitano di manodopera eccessivamente specializzata. Dovrebbero essere produzioni con materiali facilmente ricuperabili, e comunque prodotti che siano facilmente trasportabili. Ad esempio in piazza Castello (al vecchio penale, qui a Padova) c'era una falegnameria in cui una ditta esterna produceva arredamenti per bar, che poi venivano venduti qui in Veneto. La falegnameria è un tipo di produzione relativamente facile, quindi funzionava. In riferimento all'uso dell'elettronica, l'inserimento mi sembra più facile in quanto un'attività accessibile attraverso la commissione di lavoro dalle USSL le quali indicono delle gare di appalto o per assegnare trance di lavoro che in pratica si riduce a l'utilizzo di lettori ottici e trascrizioni di dati dalle ricette, il tutto informatizzato. Se ci fosse una cooperativa che parteciperebbe a queste gare di appalto questo sarebbe un tipo di lavoro possibile. E per quanto riguarda la "sicurezza" ovviamente tali attività sarebbero con esse compatibili.

Quest'anno sul capitolo di spese previste per le lavorazione penitenziarie, cioè soldi con cui l'amministrazione penitenziaria paga il lavoro, i fondi c'erano, cioè ci sono stati, e c'erano delle grosse opportunità che si potevano sfruttare, e quindi andavano bene, sia per un carcere come il nostro che può puntare a 100-150 lavoranti, ma anche per un giudiziario.

Quel meccanismo, si che può essere invitante per le ditte perché se assumiamo noi e l'imprenditore esterno ci rimborsa il costo del lavoro applicandoci un utile, allora quei problemi che avrebbe la ditta nell'assumere detenuti, verrebbero a mancare, proprio perché saremmo noi ad assumere.

Spiego il meccanismo: assume la cooperativa A, per la lavorazione in carcere. Allora i percorsi sono due: o la coop. paga i detenuti e da il costo del lavoro pari a un lavoratore libero, perché in questo momento sgravi fiscali non ce ne sono, potendo contare su voci esterne tipo finanziamenti comunali, regionali o europei, ma questo avviene difficilmente. Se non c'è la spinta che butta nel circuito non si riesce a portare avanti l'attività.

L'alternativa, che però viene poco utilizzata probabilmente perché negli anni passati soldi su questo capitolo 20/91 non ce ne sono stati; ora ci sono, e quindi i detenuti che assume l'amministrazione sono suoi dipendenti, allora l'interlocutore, da la commessa al carcere, paga l'amministrazione, rimborsa il costo del lavoro, e poi ci sarà l'applicazione dell'utile.

Vi chiedo, quanto costa a voi della cooperativa un operaio ad ora?

(risponde una responsabile della cooperativa) 23 mila lire all'ora, compreso il guadagno della struttura per mansione di pulizia.

Con l'amministrazione penitenziaria, per le pulizie il costo è di 9 mila e 500 lire all'ora, e sono compresi i contributi e la previdenza, più un 2% di utile per l'amministrazione, e quindi siamo vicino alle 10 mila lire all'ora. In questo tipo di lavoro, non c'è utile, e l'amministrazione non ha profitto o fine di lucro.

Quello che non capisco è perché non sia possibile agire in questo modo. Una cooperativa con soci in carcere e fuori dal carcere, i soci detenuti lavorano, e i liberi cercano commesse e organizzano il lavoro: Il lavoro nelle cooperative costa meno, e questo tipo di operazione è più snella se confrontata con quella suggerita dal direttore Cantone, perché non c'è di mezzo l'A.P. Potrebbe essere invece vantaggioso perché visto che l'ADP. non ha scopo di lucro tutte quelle spese di utilizzo dei locali, corrente elettrica, riscaldamento e servizi vari, potrebbero essere comprese in un'unica voce forfetaria, comprese la mancanza di spese per la mensa ad esempio, che invece fuori è un capitolo di spesa rilevante. Quindi non possiamo dire che il costo del lavoro in ambiente carcerario sia uguale a quello esterno, anche se il detenuto fosse socio della cooperativa. Quindi è tutto qui il vantaggio.

Mi scusi direttore, le 9500 lire più il 2% di cui parlava prima, era inteso solo per le cooperative sociali o per qualsiasi impresa?

Con qualsiasi impresa.

Al giudiziario, alcuni anni fa, ci contattò la Nike e la Diadora, e non potemmo prendere le commesse perché i capannoni non erano a norma di legge. Credo che anche qui avrete avuto problemi simili.

Qui al penale ci sono voluti 8 anni per mettere a norma i capannoni, ora sono in regola, ma sono rimasti per lunghissimo tempo inutilizzati. Comunque loro sapranno che c'è in previsione il progetto di legge Smuraglia, che inserirà i detenuti tra i soggetti svantaggiati. Altra opportunità: è prevista che nelle convenzioni che le coop. faranno con il carcere deve essere previsto un compenso retributivo per il detenuto assunto alle dipendenze della ditta non inferiore a quello praticato dall'amministrazione penitenziaria. Pagheranno il detenuto in pratica come lo paghiamo noi oggi.

Devo dire che negli istituti di, pena sono state fatte delle esperienze storicamente interessanti nel mondo del lavoro. Per anni in Umbria, nelle case di reclusione, una grossa ditta ha prodotto capi di abbigliamento. Sono state fatte altre esperienze, ad esempio ultimamente la direzione generale degli istituti di pena, ha commissionato degli impianti di acqua cultura, da utilizzare nelle case di reclusione dell'arcipelago toscano per la produzione ittica. Credo sia possibile tecnicamente, trovare delle soluzioni, affinché il carcere diventi economicamente appetibile.

Bisogna far capire che è un valore aggiunto, non sostitutivo. In pratica non si toglie lavoro all'esterno ma è un opportunità in più; oggi l'imprenditore produce 100 domani potrà produrne 120.

Io vedo il lavoro fatto in carcere, come un lavoro parallelo ad un altro lavoro, si può fare un reparto fuori che produce ad esempio questo libro, e un reparto simile fuori che fa lo stesso prodotto, quindi giocare con il meccanismo di compensazione e integrazione. Questa può essere una logica vincente per molti aspetti, anche perché qui non ci sono vie conflittuali.