ADIR - L'altro diritto

Dall'indulto all'insulto

Emilio Santoro (*), 2003

Dopo una discussione che si è trascinata per mesi, il Parlamento ha approvato un provvedimento che i giornali hanno definito "indultino". Leggendo il provvedimento si ha subito la sensazione che il nostro legislatore non ha impiegato bene il suo tempo.

Il termine "indultino" fa pensare ad una misura di clemenza di impatto minore dell'indulto. Il provvedimento approvato dal Parlamento sarebbe una risposta alla richiesta di clemenza sostenuta da autorevoli voci (dal Papa al Presidente della Repubblica). Queste voci hanno fatto seguito alle forme di protesta pacifica attuate dai detenuti nell'autunno scorso, al prezzo di sacrifici spesso immensi date le loro condizioni, per sollevare il problema del sovraffollamento carcerario. In alcuni casi, la situazione è così grave da costringere i reclusi a dormire su delle brande che devono essere spostate durante il giorno per avere la possibilità di muoversi in cella (solo il ministro Castelli ha il coraggio di dire che la cosa non è preoccupante). Quello approvato non è però un provvedimento di clemenza, ma un provvedimento antirecidiva, impostato sulla linea della repressione penale senza dare alcun rilievo al piano della prevenzione sociale.

Tutta la discussione che si è sviluppata da settembre 2002 ad oggi intorno a questa legge si colloca a metà strada tra la commedia degli equivoci e il teatro dell'assurdo (tralasciando la malafede).

L'indulto in senso proprio è un provvedimento con il quale il Parlamento condona o commuta parte della pena per i reati commessi prima del momento in cui esso è approvato. La Costituzione richiede una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, per la sua approvazione. Dato che questa maggioranza non sembrava esistere in Parlamento, si è pensato di ripiegare su un provvedimento adottabile con legge ordinaria e quindi a maggioranza semplice: il risultato è quello che appunto viene chiamato "indultino".

I capisaldi del provvedimento sono i seguenti:

  1. può essere sospesa l'esecuzione della pena per tutti condannati che, non avendo commesso reati particolarmente gravi come strage, terrorismo, mafia, ecc. (tutti i reati previsti dall'art. 4 bis dell'ordinamento penitenziario), o reati contro la libertà sessuale, abbiano scontato almeno metà della pena e abbiano un residuo pena non superiore a due anni;
  2. la sospensione della pena viene revocata se, nel corso dei successivi 5 anni, il condannato commette un nuovo reato (punito con più di sei mesi di reclusione) oppure se viola le prescrizioni che gli vengono imposte al momento della sospensione. In caso di revoca il magistrato di sorveglianza determina la carcerazione che il soggetto deve scontare entro i limiti di quella residuale al momento in cui è stata sospesa la pena;
  3. per tutta la durata della pena sospesa coloro ai quali è stata concessa la sospensione devono periodicamente recarsi alla polizia, hanno l'obbligo di non allontanarsi dal territorio di uno specifico Comune, possono vedersi costretti a rientrare nel luogo in cui dimorano in orari prestabiliti e a comunicare alla polizia giudiziaria, alla cui vigilanza sono sottoposti per tutto la durata della pena sospesa, i luoghi in cui si trovano nei diversi momenti della giornata;
  4. passati 5 anni dalla concessione della sospensione, se tutte le prescrizioni sono state costantemente osservate e non sono stati commessi nuovi reati, si estingue la pena.

La sospensione condizionata della pena può essere richiesta per una pena già comminata al momento dell'entrata in vigore della legge (non importa invece che sia iniziata la sua esecuzione). Quindi può essere richiesta anche da chi è stato condannato di recente ad una pena molto lunga. Il detenuto che si trova in questa condizione quando arriverà a due anni dal fine pena potrà richiedere la liberazione anticipata. Per cui, pur essendo un provvedimento una tantum, l'indultino manifesterà i suoi effetti anche in un futuro abbastanza lontano.

Per capire se queste misure rappresentino un atto di clemenza si devono confrontare con la situazione attuale dei detenuti. Il confronto mostra in modo lampante che siamo di fronte non ad una misura tesa a favorire il reinserimento sociale ma ad un provvedimento antirecidiva ispirato ad una logica puramente repressiva.

Oggi il detenuto che ha una pena residua di tre anni (quattro se è tossicodipendente ed intende disintossicarsi) può chiedere di andare in affidamento. Quindi l'indultino non estende assolutamente il numero delle persone che possono uscire dal carcere (in più, per accedere alla misura alternativa dell'affidamento, non è necessario aver scontato la metà della pena). È vero che l'affidamento, seppure largamente utilizzato, lascia in carcere molte persone perché richiede come requisiti per la sua concessione un luogo dove soggiornare e un lavoro (anche se nella pratica talvolta la magistratura di sorveglianza lo concede anche in presenza di un programma di attività di volontariato sociale e di qualcuno che garantisca il sostentamento del detenuto). Il problema è che entrambi questi requisiti sembrano richiesti implicitamente anche dall'indultino: quando si prevede l'obbligo di fissare la dimora in un determinato Comune è evidente che la concessione della sospensione della pena presuppone l'esistenza di un luogo in cui si possa risiedere e sembra che il magistrato di sorveglianza al momento in cui sospende la pena debba assumere le informazioni sull'effettiva idoneità di tale dimora (accertamento questo che non renderà particolarmente celere la scarcerazione del detenuto). Ed è anche difficile ipotizzare che la sospensione della pena venga concessa a chi non dimostri di potersi mantenere in una qualche maniera. Per cui anche questa misura non permetterà di uscire dal carcere a quei soggetti, in primo luogo tossicodipendenti e sofferenti psichici, talmente deboli e privi di aiuto da non riuscire ad usufruire dell'affidamento, per non parlare dei migranti irregolari (che costituiscono oggi la percentuale più rilevante della popolazione carceraria) che il Parlamento sembra aver comunque escluso dall'indultino. Dico "sembra" perché, in dispregio alle più elementari regole di tassatività del diritto penale (ma è ormai una caratteristica costante della nostra legislazione quella di discostarsi dai principi dello Stato di diritto quando tratta di migranti), il legislatore ha stabilito che non possono usufruire dell'indultino i migranti che si trovano in "talune", non meglio specificate, situazioni di irregolarità previste dal testo unico sull'immigrazione.

La scarsa incidenza dell'indultino sulla popolazione carceraria sarà rafforzata dalla sua logica repressiva. Chi va in affidamento oggi deve obbedire a delle prescrizioni di solito meno afflittive di quelle previste per la sospensione condizionale della pena. Infatti il legislatore ha stabilito che il soggetto a cui è stata concessa la sospensione della pena deve sottostare non tanto alle prescrizioni previste per l'affidamento, cioè per una misura mirante al reinserimento sociale, quanto a quelle previste per l'obbligo di dimora, cioè per una misura che mira a limitare i contatti del soggetto con il contesto sociale. Particolarmente odiosa appare poi la spada di Damocle della carcerazione residua da scontare che penderà, per un periodo molto lungo rispetto alla pena residua, sulla testa di chi avrà usufruito della liberazione condizionata. Il fantomatico provvedimento di clemenza ha in pratica gravato il detenuto sia degli oneri previsti dalla sospensione condizionale della pena, cioè la sanzione di dover scontare la pena sospesa se commette un nuovo reato nel periodo di cinque anni dalla sospensione, sia di quelli previsti dalla libertà controllata, con la clausola che la mancata osservanza delle prescrizioni comporta la ripresa della pena detentiva sospesa. L'unico temperamento è che il magistrato di sorveglianza può ridurre la pena da scontare tenendo conto delle limitazioni della libertà subite durante il periodo di sospensione pena. Il detenuto non può però in alcun modo vedersi estinguere la pena ed ogni altro effetto penale al momento dello scadere della condanna, né vedersi riconosciuto il periodo in sospensione pena ai fini della liberazione anticipata come avviene quando ottiene l'affidamento, sebbene -- ripeto -- le limitazioni della libertà a cui viene assoggettato siano più dure di quelle dell'affidamento. Data questa situazione per un detenuto sembra di gran lunga preferibile non solo l'affidamento, ma anche la semilibertà o la possibilità, prevista dall'art. 21 dell'ordinamento penitenziario, di uscire dal carcere ogni giorno solo per il tempo necessario per lavorare: entrambe queste misure lo costringono a tornare a dormire in carcere tutte le sere, ma la sua soggezione alla pena finisce con la scadenza della condanna ricevuta e anzi ogni semestre di semilibertà o di lavoro all'esterno, se si comporta in modo corretto, gli dà diritto ad uno sconto di 45 giorni di detenzione.

Una parola sugli immigrati regolari, unici tra i migranti ad essere sicuri di poter usufruire dell'indultino (la prassi applicativa dell'istituto ci dirà quali sono quelle "talune" situazioni di irregolarità indicate dal legislatore come ostative). A loro non conviene assolutamente per il momento richiedere la sospensione pena. Esiste infatti il rischio concreto che una volta usciti da carcere vengano espulsi. La legge non dice niente sulla concorrenza tra sospensione pena ed espulsione amministrativa, lasciando libero spazio all'interpretazione delle Questure. Non è difficile immaginare che queste, dato la prassi corrente, revocheranno il permesso di soggiorno del migrante, in quanto autore di un reato e quindi soggetto pericoloso, ed emaneranno, un provvedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera. Il migrante condannato, a fine pena, potrebbe fronteggiare questa situazione avendo in mano un provvedimento della magistratura di sorveglianza che lo dichiara non pericoloso, mentre al momento in cui la pena gli viene sospesa sicuramente non ha questa arma. Infatti, la revisione della pericolosità è fatta a fine pena o con un giudizio ad hoc o, implicitamente, al momento della valutazione dell'esito dell'affidamento. La dichiarazione di non pericolosità non è un'arma sicura contro l'espulsione dato che il legislatore da un lato e la prassi delle Questure dall'altro fanno di tutto per sottrarre l'espulsione al controllo giurisdizionale, ma al momento è l'unica risorsa a cui può ricorrere un migrante condannato per aver commesso un reato.

Un'ultima considerazione, al di là delle cifre che sono state fatte dalla stampa, che ha parlato di cinque/seimila detenuti che potrebbero essere scarcerati grazie all'indultino, tanto l'onerosità delle prescrizioni che graverebbero sui detenuti una volta liberati, quanto la difficoltà di accedere a questa misura che comunque incontreranno i soggetti che non posso usufruire delle altre misure alternative, fanno pensare che non più di qualche centinaio di detenuti chiederà di usufruire dell'indultino. In effetti gli unici che potrebbero essere interessati a questo istituto sono quei detenuti che hanno circa due anni di pena da scontare e pur avendo le risorse per accedere alla misura alternative ordinarie se le sono viste negare perché in carcere hanno tenuto una condotta che li ha fatti considerare dalla magistratura di sorveglianza non affidabili o perché è stata revocata loro una misura alternativa precedentemente concessa. Per cui anche la speranza di alleviare il sovraffollamento carcerario è destinata ad andare delusa. Questo provvedimento è un vero insulto per le speranze e la sofferenza di quei detenuti che hanno confidato nel Parlamento, non dico per uscire dal carcere prima della scadenza della loro condanna, ma per scontare la loro pena in condizioni umane!!

*. Professore di filosofia del diritto nell'Università di Firenze, direttore de L'altro diritto.