ADIR - L'altro diritto

Lo straniero irregolare sul territorio
Aspetti di diritto penale-amministrativo

Fulvio Vassallo Paleologo, 2012

1. Il superamento delle sanzioni penali a carattere detentivo nei confronti degli immigrati irregolari

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 22 del 2007, pur dichiarando l'infondatezza delle censure sollevate con il ricorso avverso le sanzioni previste in caso di permanenza irregolare senza giustificato motivo in base all'art. 14 co. 5-ter T.U. n.286 del 1998 sull'immigrazione, come successivamente modificato, invitava il legislatore a rimuovere gli "squilibri, sproporzioni e disarmonie, tali da rendere problematica la verifica di compatibilità con i principi costituzionali di uguaglianza e di proporzionalità della pena e con la finalità rieducativa della stessa".

Nella successiva attività del precedente governo italiano in materia di immigrazione, quell'invito rimaneva inascoltato e si assisteva anzi ad un ulteriore inasprimento delle sanzioni detentive relative all'ingresso ed al soggiorno degli immigrati irregolari in Italia, percorso che raggiungeva il suo apice con il decreto legislativo n.94 del 2009, Con questo ennesimo provvedimento emergenziale, oltre ad aumentare da due a sei mesi la durata dell'internamento nei CIE, si aggravava la sanzione in caso di omessa esibizione dei documenti e si prolungava fino a quattro- cinque anni, nei casi più gravi, la durata della detenzione carceraria in caso di mera inottemperanza all'ordine di allontanamento emesso dal questore (1). Nel 2010 doveva intervenire la Corte Costituzionale (2) per ridimensionare il ruolo della normativa penalistica con la quale si riteneva di contrastare l'immigrazione clandestina, ad esempio, con la cd. aggravante di clandestinità, una previsione che non aveva per nulla aumentato il numero delle espulsioni effettivamente eseguite, ma che aveva prodotto un clima di forte tensione ed un generale sovraffollamento all'interno degli istituti di pena. La situazione intollerabile delle carceri, nelle quali finivano anche molti immigrati colpevoli esclusivamente del reato di inottemperanza all'ordine del questore di lasciare il territorio dello stato, e la scarsa consistenza del controllo giurisdizionale consentito all'interno dei centri di detenzione amministrativa, nel quadro più generale dell'ingolfamento della macchina della giusizia riservata agli immigrati irregolari, rendevano la normativa italiana sempre più vessatoria, al punto da risultare lesiva della dignità umana, e inefficace, dal punto di vista dei risultati effettivamente conseguiti nel contrasto della cd. immigrazione clandestina (3). Il progressivo inasprimento delle sanzioni penali a carattere detentivo, frutto del decreto legislativo n.94 del 2009, faceva diminuire il tasso delle espulsioni seguite da un effettivo allontanamento dal territorio nazionale, anche perchè nel periodo di detenzione carceraria le pratiche di identificazione venivano sospese, alimentando un circuito perverso nel quale gli immigrati irregolari passavano dai CIE alle carceri, ed una volta scontata la pena, o esaurite le esigenze cautelari, venivano rinchiusi di nuovo nei centri di detenzione.

Alla fine del 2010 l'Italia faceva scadere infatti il termine di attuazione della Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri, senza modificare tempestivamente la propria normativa interna, mantenendo la priorità delle sanzioni penali a carattere detentivo come principale arma di contrasto dell'immigrazione "clandestina". Giungeva quindi la condanna della Corte di Giustizia del 26 aprile 2011 sul caso El Dridi, con la quale la Corte ha statuito - in risposta a un quesito pregiudiziale di interpretazione sottopostole dalla Corte d'Appello di Trento - che "la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008, 2008/115/CE, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l'irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo".

La clausola del giustificato motivo - come ha affermato la Corte Costituzionale - funge da valvola di sicurezza del meccanismo repressivo, evitando che la sanzione scatti allorché - anche al di fuori della presenza di vere e proprie cause di giustificazione - l'osservanza del precetto appaia concretamente inesigibile, in ragione, a seconda dei casi, di cause ostative a carattere soggettivo od oggettivo [...]: estrema indigenza, indisponibilità di un vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo, difficoltà nell'ottenimento di titoli di viaggio (Corte cost., nn. 5 del 2004 e 349 del 2010). La sussistenza dell'eventuale giustificato motivo è, perciò, operazione di verifica rimessa al giudice di merito che, caso per caso, in relazione alla particolare situazione di fatto, oggettiva o eventualmente addotta dall'interessato.

Con la pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n.16453 del 24-27 febbraio 2011 è stato quindi delimitato il reato previsto dall'art. 6 comma 3 del Testo Unico sull'immigrazione n.286 del 1998, come modificato a seguito delle innovazioni introdotte dall'art. 1, comma 22, lett. h), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (4), che impone, a richiesta di ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, l'esibizione congiunta dei documenti d'identità e di quelli attestanti la regolarità del soggiorno. Secondo la corte tale norma è applicabile soltanto allo straniero regolarmente soggiornante, in quanto lo straniero "irregolarmente presente sul territorio non può per ciò stesso essere in possesso del - e quindi non potrebbe mai esibire il - permesso di soggiorno".che puniva gli stranieri che non esibissero i documenti identificativi o di soggiorno a richiesta delle autorità. La Corte conclude nel senso che "rispetto alla precedente formulazione, secondo cui il reato era integrato per il fatto di non esibire una delle due categorie di documenti (d'identificazione ovvero di regolare soggiorno), a seguito della ricordata modifica, la fattispecie contravvenzionale è integrata dallo straniero che, a richiesta degli ufficiali e degli agenti di pubblica sicurezza, omette di esibire entrambe le categorie di documenti. Così ricostruita la fattispecie, ne deriva che essa non può più applicarsi allo straniero in posizione irregolare, cioè a colui che è entrato illegalmente in Italia o qui è rimasto nonostante la scadenza del titolo di soggiorno. Come ha correttamente ritenuto il giudice di merito, la norma incriminatrice non può riguardare tale straniero perché egli, in quanto irregolarmente presente nel territorio dello Stato, non può, per ciò stesso, essere titolare di permesso di soggiorno. Il Collegio rimettente ha esattamente precisato che la condotta dello straniero irregolare non può essere ricompresa nella nuova fattispecie di cui all'art. 6, comma 3, d.lgs. cit. in forza del principio di tipicità, risultando chiaro dal contenuto della norma e dall'interesse da essa tutelato che il soggetto attivo del reato è stato circoscritto allo straniero regolarmente soggiornante".

Nel caso in esame, a differenza di quanto emerge dalla motivazione della sentenza impugnata e da quella della ricordata sentenza Calmus (pur antitetiche nelle conclusioni), non viene affatto in rilievo la presenza o l'assenza del giustificato motivo, che esclude la configurabilità del reato, né il principio di esigibilità della condotta. La clausola del giustificato motivo - come ha affermato la Corte costituzionale - funge «da valvola di sicurezza del meccanismo repressivo, evitando che la sanzione scatti allorché - anche al di fuori della presenza di vere e proprie cause di giustificazione - l'osservanza del precetto appaia concretamente inesigibile, in ragione, a seconda dei casi, di cause ostative a carattere soggettivo od oggettivo [...]: estrema indigenza, indisponibilità di un vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo, difficoltà nell'ottenimento di titoli di viaggio» (Corte cost., nn. 5 del 2004 e 349 del 2010).

La sussistenza dell'eventuale giustificato motivo è, perciò, operazione di verifica rimessa al giudice di merito che, caso per caso, in relazione alla particolare situazione di fatto, oggettiva o eventualmente addotta dall'interessato, ritenga in concreto inesigibile una condotta astrattamente doverosa, mentre nel caso in esame deve prendersi atto che è intervenuta una modificazione legislativa che ha escluso dall'ambito della fattispecie la condotta dello straniero irregolare, con conseguente abolitio criminis per gli stranieri in posizione irregolare. Un altro pezzo del pacchetto sicurezza del 2009 introdotto con la legge 94, veniva così cancellato da una sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite. Ma lo smantellamento dei punti più aspri, del tutto inefficaci peraltro per un effettivo contrasto dell'immigrazione irregolare, proseguiva ancora fino all'inizio del 2012. La normativa penalistica che sanzionava in Italia, oltre all'ingresso ed alla permanenza irregolare, una serie di altri reati legati esclusivamente alla condizione di irregolarità veniva finalmente all'esame della Corte di Giustizia dell'Unione Europea.

Come affermato da numerose decisioni dei giudici di merito (5), già prima della legge 129 del 2 agosto 2011, la Direttiva comunitaria sui rimpatri, nelle parti in cui poteva ritenersi di applicazione immediata, imponeva già agli organi competenti (Prefettura e Questura), nei confronti degli immigrati in situazione di ingresso o soggiorno irregolare, l'obbligo di adottare l'espulsione con invito a lasciare il territorio nazionale, il cd. rimpatrio volontario, prima degli eventuali provvedimenti di allontanamento forzato, che comunque potevano (e possono) essere assunti solo sulla base della considerazione individuale del singolo caso. Per la Procura di Firenze, secondo il decreto del 7 gennaio 2011, ad esempio, "la direttiva, a cui lo Stato italiano avrebbe dovuto dare recepimento entro il 24 dicembre 2010, è palesemente antitetica rispetto alla disciplina attualmente vigente, presente nel T.U dell'immigrazione 286/98, per i seguenti profili; - il T.U. prevede come modalità ordinaria di espulsione l'accompagnamento coattivo alla frontiera mentre la direttiva dispone che la regola sia il rimpatrio volontario con termine compreso tra sette e trenta giorni per lasciare il territorio nazionale;- in caso di impossibilità di eseguire l'accompagnamento coattivo il T.U prevede che sia disposto il trattenimento diversamente dalla direttiva che impone prima di adottare misure coercitive meno lesive della libertà personale; - mentre il trattenimento nel T.U è consentito sussistendo alcune difficoltà di esecuzione dell'accompagnamento coattivo, la direttiva annovera tali difficoltà solo come presupposto giustificativo della proroga del trattenimento" (6).

Sul capovolgimento del principio del rimpatrio volontario e sulla netta prevalenza dei casi di rimpatrio con accompagnamento forzato, incideva la previsione del reato di immigrazione clandestina, introdotto all'art. 1, comma 16, della legge n. 94 del 2009, e poi inserito nel Testo Unico sull'immigrazione come articolo 10 bis. La norma inquadrava una nuova figura di reato, l'ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, sanzionato con l'ammenda da 5.000 a 10.000 euro, per lo straniero che faccia ingresso o si trattenga nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del T.U. nonché di quelle di cui alla L. 68 del 2007 (che riguarda i soggiorni di breve durata per visite, affari, turismo e studio). Si apriva subito una rilevante questione sulla compatibilità costituzionale del reato di ingresso o soggiorno, mentre con il passare del tempo andava emergendo come, dell'impianto normativo vigente in Italia in materia di allontanamento forzato, questa norma penale costituisse lo strumento meno efficace. La introduzione del reato di immigrazione clandestina, mirato allo scopo evidente di eludere l'applicazione in Italia della direttiva 2008/115/CE (7), ha comportato una diffusa criminalizzazione degli immigrati irregolari, l'ingolfamento degli uffici giudiziari, soprattutto nelle sedi più esposte, con migliaia di procedimenti per il reato di immigrazione clandestina, aperti lo scorso anno, in pochi mesi, nel solo tribunale di Agrigento, anche a carico di minori non accompagnati e richiedenti asilo.

Malgrado l'applicazione delle pene pecuniarie, introdotte adesso anche per i casi di inottemperanza all'ordine di lasciare il territorio dello stato, al posto delle pene detentive stabilite in precedenza e dichiarate incostituzionali, l'intero sistema italiano dei rimpatri degli immigrati irregolari risulta ancora connotato da procedure e da un quadro sanzionatorio di carattere penale e amministrativo imperniato sulla detenzione (amministrativa) piuttosto che sull'esecuzione effettiva delle misure di allontanamento (8). Le conseguenze più drammatiche si verificano nel caso di immigrati che escono dal circuito penitenziario, e si ritrovano privi di un permesso di soggiorno, magari soltanto per la mancata possibilità di rinnovo nel periodo della detenzione. La maggior parte degli immigrati che escono dal carcere per fine pena o a seguito del venir meno delle esigenze cautelari, o dopo una assoluzione, finisce generalmente nei centri di identificazione ed espulsione, sempre che si siano posti disponibili. Altrimenti il questore adotta un procedimento che contiene l'invito a lasciare il territorio dello stato enttro sette giorni (prima erano cinque). In molti casi, quindi, dopo un determinato periodo di trattenimento in un CIE o in altra struttura informale adibita alla detenzione amministrativa, gli immigrati irregolari, anche a seconda della nazionalità, per la scarsa probabilità che i paesi di origine collaborino nelle identificazioni, o per la mancanza di posti disponibili, vengono rimessi in libertà con l'intimazione a lasciare il territorio dello stato entro sette giorni. Prassi amministrativa altamente discrezionale ed assai diffusa, che appare in forte contrasto con le previsioni della stessa direttiva sui rimpatri mirate ad un bilanciamento tra l'esigenza di dare effettivita esecuzione alle misure di allontanamento forzato e la tutela dei diritti fondamentali della persona (9). Inoltre, mentre per le ipotesi di carcerazione preventiva o per motivi penali è prevista la convalida giudiziaria della misura (10), lo stesso livello di garanzia non è contemplato per le ipotesi di allontanamento forzato degli immigrati irregolari. La detenzione di uno straniero al fine di evitare un suo ingresso illegale o in vista dell'espulsione può infatti essere adottata da un'autorità amministrativa ed eseguita ben prima che un giudice si possa pronunciare sull'eventuale ricorso. Almeno questo avviene in Italia mentre la Corte Europea dei diritti dell'Uomo afferma che in ogni caso dovrebbe essere assicurato l'accesso ad una sede giurisdizionale a garanzia di una piena ed imparziale tutela. Tale controllo giudiziario della detenzione amministrativa delle persone in attesa di essere allontanate dal territorio dello stato non prevede eccezioni neppure per ragioni di ordine pubblico o sicurezza nazionale, come dimostra la decisione della Corte di Strasburgo nell'affare Chahal c. Regno Unito (11).

Quando si accerta l'ingresso o il soggiorno irregolare in Italia di un immigrato rimangono dunque due possibilità: se la procedura ordinaria di allontanamento forzato si è conclusa con l'accompagnamento in frontiera dell'immigrato prima che il giudice si sia pronunciato, lo stesso giudice emette una sentenza di non luogo a procedere, e quindi la previsione del reato di immigrazione clandestina risulta del tutto superflua al fin di garantire l'effettività dell'espulsione; qualora invece non sia stato eseguito l'accompagnamento immediato, il giudice condanna al pagamento di una contravvenzione, per la quale non è prevista oblazione, ed è comunque prevista la possibilità dell'esecuzione immediata dell'accompagnamento in frontiera, in quanto la pena dell'ammenda può essere sostituita con quella dell'espulsione, questa volta stabilita dall'autorità giudiziaria, come previsto dall'art. 16 del T.U. sull'immigrazione n.286 del 1998 (12). Occorre inoltre ricordare che la pena pecuniaria è sostituibile con la permanenza domiciliare (fino a 45 giorni), ai sensi degli artt. 53 e 55, co. 5 d.lgs. n. 274/2000, in caso di insolvibilità del condannato.

Anche in questo caso la previsione del reato di immigrazione clandestina non accresce le possibilità di eseguire effettivamente l'accompagnamento forzato in frontiera, evento che dipende dalla identificazione della persona, a partire dall'attribuzione di una nazionalità, e dunque dalla portata degli accordi di riammissione e dalla disponibilità dei paesi di transito o di origine ad accettare la riconsegna degli immigrati allontanati dall'Italia. Questa stretta compenetrazione della sanzione penale, seppure a carattere pecuniario, con la misura amministrativa dell'espulsione, e l'uso indiscriminato della detenzione amministrativa, che permane ancora dopo l'entrata in vigore della legge 129 del 2009, sembra diventare un espediente per eludere l'applicazione concreta, il cosiddetto "effetto utile", di quelle parti della direttiva 2008/115/CE che impongono una valutazione individuale dei singoli casi e la priorità del tentativo di rimpatrio volontario, rispetto alle procedure di rimpatrio forzato. La realizzazione dell'effetto utile della Direttiva imporrebbe invece l'abrogazione dei reati legati alla immigrazione clandestina, che per la loro operatività automatica, seppure temperata dai recenti interventi della Corte costituzionale "in tema di giustificato motivo di permanenza" (13), risultano in contrasto frontale con il tentativo di rimpatrio volontario, e con le garanzie di una procedura individuale e di un pieno esercizio dei diritti di difesa, giungendo ad incidere negativamente persino sulle ipotesi più frequenti di accompagnamento forzato.

Si deve comunque costatare come l'attuazione di una direttiva comunitaria per mezzo di una circolare amministrativa, come si è tentato nel dicembre del 2010, non sia andata a buon fine. Come non è riuscito il tentativo di utilizzare il reato di immigrazione clandestina, già previsto- seppure come reato contravvenzionale- nell'ordinamento italiano, al fine dichiarato di eludere l'operatività del sistema delle garanzie approntato dalla Direttiva 2008/115/CE. La risposta della giurisprudenza all'intento del ministro dell'interno di "evitare i ricorsi" è stata tale che si è dovuto ricorrere ad un intervento legislativo, con la rituale tecnica della decretazione d'urgenza. Tuttavia, dopo il decreto legge 89 i contenuti della legge 129 del 2 agosto 2011, che si esamineranno più avanti, le prassi applicate rischiano di restare nel solco di quanto affermato nel mese di aprile del 2010 dall'allora ministro Maroni, che si impegnava a dare attuazione alla direttiva comunitaria entro il 24 dicembre 2010, dopo avere sostenuto in precedenza che "il Governo farà di tutto per rispettare questa scadenza, ma si orienterà verso un recepimento della direttiva che non incida su alcuni importanti aspetti della normativa sull'immigrazione recentemente introdotti. Dall'altra parte - ribadiva il ministro- la stessa direttiva europea n.115 del 2008 lascia liberi gli Stati membri di decidere modalità di recepimento che ne escludano l'applicazione agli stranieri il cui rimpatrio costituisce sanzione penale o deve avvenire come conseguenza di una sanzione penale" (14). Una libertà che l'ex ministro Maroni ha interpretato solo nel senso di ridurre l'area di operatività del sistema delle garanzie apprestato dalla Direttiva senza bilanciare l'aspetto sanzionatorio con la tutela dei diritti fondamentali delle persone. In base all'art. 1 della direttiva 2008/115/CE, invece, questa"stabilisce norme e procedure comuni da applicarsi negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, nel rispetto dei diritti fondamentali in quanto principi generali del diritto comunitario e del diritto internazionale, compresi gli obblighi in materia di protezione dei rifugiati e di diritti dell'uomo". La potestà legislativa in materia penale con riferimento ai reati legati all'immigrazione cd. clandestina, rimane ancora saldamente tra le competenze nazionali, e questa circostanza potrebbe inficiare l'adozione di procedure uniformi a livello comunitario in materia di rimpatri delle persone che hanno fatto ingresso o che si trovano in una condizione di irregolarità.

Come si è detto, l'introduzione del reato di immigrazione clandestina nel 2009 tendeva espressamente ad evitare che la direttiva rimpatri 2008/115/CE potesse trovare una effettiva applicazione in Italia. In questo senso, come si è visto prima, le esplicite dichiarazioni del ministro dell'interno Maroni. A livello comunitario dovrebbe essere ormai chiaro però, come ha affermato espressamente la Corte di Giustizia, con la sentenza del 28 aprile 2011 sul caso El Dridi, che i reati che escludono l'applicazione della direttiva sono soltanto quelli propri, come ad esempio la rapina, e non quelli connessi alla semplice presenza irregolare dello straniero nel territorio dello stato.

Se l'intento degli autori della Direttiva fosse stato quello di negarne l'applicazione per gli stranieri ritenuti "colpevoli" del reato di immigrazione clandestina, un reato variamente previsto nell'ordinamento di numerosi stati membri, si potrebbe ritenere che l'Unione Europea abbia adottato una normativa priva di alcun "effetto utile" e destinata a rimanere inattuata, perché rivolta a persone che nella quasi totalità potrebbero ritenersi "responsabili" di tale reato (15). La verità è invece un'altra, e bene ha fatto la Corte di Giustizia a chiarire questo aspetto nei confronti di un governo che riusciva persino a negare l'evidenza del dato letterale. Il reato che può escludere l'applicazione della direttiva deve essere un reato "proprio" come la rapina o la violenza, ma non quei reati derivanti esclusivamente dal soggiorno irregolare nel territorio dello stato (16).

La Direttiva comunitaria sui rimpatri, che "si applica ai cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno nel territorio di uno Stato membro è irregolare" (art. 1), all'art. 2.2, prevede solo che gli Stati membri possano decidere di non applicare la presente direttiva agli immigrati irregolari "sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale, in conformità della legislazione nazionale, o sottoposti a procedure di estradizione". Questa disposizione - si legge nella successiva sentenza della Corte di giustizia sul caso Achughbabian (17) - "non può manifestamente essere interpretata, salvo privare la direttiva della sua ratio e del suo effetto vincolante, nel senso che gli Stati membri non possono omettere di applicare le norme e le procedure comuni previste dalla direttiva in parola ai cittadini di paesi terzi che abbiano commesso solo l'infrazione del soggiorno irregolare".

2. La giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Verso una nuova disciplina dei casi di rimpatrio

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, con la sentenza del 28 aprile 2011, caso El Dridi, stabiliva dunque che gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all'insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all'allontanamento coattivo, una pena detentiva, come quella prevista dalla normativa italiana allora vigente, solo perché un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio nazionale e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare in detto territorio. Secondo i giudici di Lussemburgo, gli Stati membri devono continuare ad adoperarsi per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, che continua a produrre i suoi effetti. La Corte di giustizia svolge il suo ragionamento partendo dalla necessità di rendere effettivi i procedimenti di espulsione, senza alcuna considerazione buonista, ma superando la logica delle leggi manifesto (elettorale) tanto diffusa in Italia. La Corte osserva che una pena detentiva prolungata, segnatamente in ragione delle sue condizioni e delle modalità di applicazione, rischia di compromettere proprio la realizzazione dell'obiettivo perseguito dalla direttiva rimpatri, ossia l'instaurazione di una politica efficace di allontanamento dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare, garantendo al contempo il pieno rispetto dei loro diritti fondamentali (18).

L'indirizzo interpretativo vincolante fornito dalla Corte con la sentenza del 28 aprile 2011, non si limita solo alla (in)compatibilità comunitaria dell'art. 13 comma 5 ter del T.U. 286 del 1998, che prevedeva un reato sanzionato con la detenzione per i casi di inottemperanza all'ordine del Questore di lasciare entro cinque giorni il territorio dello stato (il cd. foglio di via), ma traccia con precisione i limiti che il legislatore penale nazionale deve rispettare in caso di allontanamento forzato degli immigrati irregolari. Non solo la direttiva 2008/115/CE sui rimpatri "osta ad una normativa nazionale che punisce con la reclusione il cittadino di un paese terzo in soggiorno irregolare che non si sia conformato ad un ordine di lasciare il territorio nazionale. Una sanzione penale quale quella prevista dalla legislazione italiana può compromettere la realizzazione dell'obiettivo di instaurare una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio nel rispetto dei diritti fondamentali". La Corte di giustizia afferma per la prima volta il principio che, oltre alla sanzione penale a carattere detentivo, qualunque limitazione della libertà personale che vada oltre i diciotto mesi, non può costituire lo strumento per governare fenomeni complessi come l'allontanamento forzato degli immigrati che richiedono un giusto equilibrio tra l'efficacia degli interventi ed il rispetto dei diritti fondamentali della persona umana, diritti inalienabili da riconoscere senza deroga alcuna anche agli immigrati irregolari. Per la Corte, quando si tratta di una persona che si trova in una condizione di soggiorno irregolare nel territorio dello stato il termine di diciotto mesi costituisce la durata massima sia della detenzione amministrativa che della detenzione in carcere, e per questa stessa ragione, una volta completato questo periodo, in presenza die rigorosi requisiti fissati dalla Direttiva 2008/115/CE per le procedure di convalida, l'immigrato irregolare non può essere arrestato, o perseguito penalmente, e dovrebbe anzi essere dotato di documenti identificativi.

Dopo la legge 129 del 2011 che ha finalmente attuato, con significative omissioni, la Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri, si impone la verifica delle prassi amministrative che vengono adottate dalle Prefetture e dalle Questure nel trattenimento e nell'allontanamento forzato degli immigrati irregolari alla luce della normativa penalistica tuttora vigente, che prevede ancora reati comunque connessi alla condizione di irregolarità e diversi casi di sostituzione della pena con la misura amministrativa o giudiziaria dell'espulsione. È infatti alla luce delle applicazioni concrete, come riteneva la Corte costituzionale nel 2010 con la sentenza n.250, che si può giudicare della costituzionalità della normativa interna in materia di allontanamento forzato e la sua compatibilità con la Direttiva rimpatri. A differenza dell'istituto del trattenimento amministrativo previsto dall'art. 14 del T.U. sull'immigrazione n. 286 del 1998, secondo la Direttiva comunitaria il trattenimento deve avere una durata «quanto più breve possibile» e non superare comunque i sei mesi (art. 15. 5), prorogabili, tuttavia, sino al massimo di altri dodici mesi (diciotto mesi complessivi) solo quando, nonostante sia stato compiuto ogni ragionevole sforzo, gli impedimenti all'esecuzione siano dovuti ad una mancata cooperazione dello straniero interessato o al ritardo nell'ottenimento della documentazione necessaria dai paesi terzi interessati (art. 15. 6). Secondo la direttiva 2008/115/CE, il ricorso al trattenimento deve essere limitato solo «per il tempo necessario all'espletamento diligente delle modalità di rimpatrio» ed è soggetto a riesame «ad intervalli ragionevoli», fino a dover cessare quando venga meno ogni «prospettiva ragionevole di allontanamento» (art. 15. 4). Quanto alle modalità del trattenimento, la Direttiva precisa che deve di norma avvenire presso appositi centri di permanenza temporanea (art. 16, il quale facoltizza il trattenimento in istituti penitenziari solo in caso di impossibilità di collocazione nei centri, subordinandolo però alla garanzia della separazione dello straniero dai detenuti ordinari), in cui devono essere assicurati un trattamento umano e dignitoso, nel pieno rispetto dei diritti fondamentali e in conformità del diritto nazionale e internazionale.

La detenzione alla quale fa riferimento la Corte di Giustizia comprende tanto la detenzione amministrativa che la detenzione in carcere che si colleghi alla mera condizione di soggiorno irregolare. La reiterabilità all'infinito delle misure di trattenimento amministrativo, come si è riscontrato in Italia, e l'assenza di un qualunque riconoscimento della condizione di inespellibilità, derivante dal fallimento dei tentativi di espulsione, quando questo non sia imputabile alla persona da espellere, mantiene un sistema in cui la privazione della libertà personale per un periodo persino superiore ai 18 mesi è ancora possibile, proprio a causa delle sanzioni penali ancora previste dall'ordinamento italiano e del richiamo al presupposto del "pericolo di fuga" introdotto dalla legge 129 del 2011 come ragione giustificativa della detenzione in un CIE in attesa dell'esecuzione del provvedimento di allontanamento forzato, respingimento differito o espulsione che sia (19). Il dato che si evidenzia, che l'espulsione o il respingimento differito con accompagnamento forzato possano diventare la prassi prevalente, per effetto di un "pericolo di fuga" presunto nella generalità dei casi, accertato magari solo sulla base della mancanza dei documenti di soggiorno, ipotesi non prevista dalla Direttiva 2008/115/CE, evidenzia il contrasto tra la legge n.129 del 2011 e la Direttiva comunitaria sui rimpatri, che vieta invece qualunque automatismo non solo nella sanzione penale, ma anche nelle misure amministrative limitative della libertà personale.

Occorre però considerare come, anche alla luce della successiva sentenza sul caso Achughbabian, che però si riferiva ad un diverso contesto normativo, la Direttiva rimpatri 2008/115/CE non permetta forse tutte quelle aperture che i suoi primi commentatori avevano evidenziato a margine del caso El Dridi. In molti passaggi procedurali, ma anche nella determinazione delle sanzioni penali, quando non sia più un ostacolo all'esecuzione dell'espulsione, il tenore letterale è caratterizzato da troppi verbi al condizionale consegna ambiti troppo vasti, anche oltre la materia penale, al legislatore nazionale, che potrà mantenere alle autorità amministrative quel potere di trattenimento ed allontanamento forzato che tanti abusi ha prodotto. E l'istituto del fermo di polizia in Francia non è meno inquietante della detenzione amministrativa senza provvedimento formale o con convalide "cartacee" che in Italia hanno allarmato persino i giudici della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione.

La Corte di Giustizia di Lussemburgo con una successiva sentenza (Grande Sezione, sent. 6 dicembre 2011, Achughbabian, causa C-329/1) ha stabilito che la possibilità di applicare una pena detentiva allo straniero nel corso della procedura di rimpatrio, piuttosto che le misure coercitive previste dalla direttiva, volte a superare gli ostacoli all'esecuzione della decisione di rimpatrio, costituisce una violazione del principio dell'effetto utile, comportando un ritardo nell'esecuzione del rimpatrio. In questa seconda sentenza però la corte sembra riconoscere la legittimità di misure detentive legate alla sanzione penale del soggiorno irregolare, una volta che siano stati esperiti tutti i tentativi di rimpatriare la persona nel paese di origine. Dopo questa sentenza, che si riferisce al sistema del fermo di polizia ed alla sanzione penale per l'inosservanza dell'ordine di allontanamento, vigente in Francia, diverso evidentemente da quello italiano, si è riacceso il dibattito sulla compatibilità tra le sanzioni penali, segnatamente a carattere detentivo, ed il rispetto del principio della effettività delle espulsioni dettato dalla Direttiva 2008/115/CE (20). Questioni sulle quali l'Italia al fine di dare una impronta rigoristica al regime dei controlli di frontiera si è allontanata da tempo dai principi costituzionali comuni a tutti gli stati dell'Unione Europea al punto che i suoi governanti non hanno esitato a vantarsi di una tale rottura delle regole. "Ci sono altri Paesi europei che prevedono il reato di clandestinità e non sono stati censurati" dichiarava dopo la sentenza sul caso El Dridi il ministro dell'interno Maroni, continuando a condividere la linea interpretativa secondo la quale la sentenza della Corte di Giustizia del 28 aprile 2011 avrebbe riguardato solo il reato di clandestinità e non anche il diverso reato, allora previsto, di inottemperanza all'ordine di lasciare il territorio dello stato. Sarebbe interessante verificare adesso se la attuale previsione in Italia del reato contravvenzionale di clandestinità non vada considerata in contrasto con gli obiettivi principali perseguiti dalla Direttiva 2008/115/CE, consistenti nel contemperamento tra l'effettività delle misure di allontanamento forzato ed il rispetto dei diritti fondamentali della persona migrante (21).

La Corte di Lussemburgo sul caso Achughbabian ha confermato che la direttiva rimpatri non ammette una normativa nazionale che, nel corso della procedura di rimpatrio, infligge al cittadino di un paese terzo che soggiorni irregolarmente la pena della reclusione". Gli Stati membri possono decidere di non applicare la Direttiva ai cittadini di Paesi terzi "sottoposti a rimpatrio come sanzione penale, in conformità della legislazione nazionale" ma al di fuori dei reati previsti per il soggiorno irregolare. Questa disposizione - si legge infatti nella sentenza Achughbabian - "non può manifestamente essere interpretata, salvo privare la direttiva della sua ratio e del suo effetto vincolante, nel senso che gli Stati membri possono omettere di applicare le norme e le procedure comuni previste dalla direttiva in parola ai cittadini di paesi terzi che abbiano commesso solo l'infrazione del soggiorno irregolare". In definitiva la condizione di 'clandestinità' prevista dal legislatore nazionale come reato non consente di eludere la Direttiva rimpatri 2008/115/CE.

La stessa sentenza ha anche ammesso che "questa direttiva consente l'irrogazione di sanzioni penali, secondo le norme nazionali e nel rispetto dei diritti fondamentali, a cittadini di paesi terzi ai quali detta procedura sia stata applicata e che soggiornano in modo irregolare senza un giustificato motivo che precluda il rimpatrio". Secondo la Corte, "dal complesso delle considerazioni esposte sopra risulta dunque che gli Stati membri, vincolati dalla direttiva 2008/115, non possono prevedere la pena della reclusione per i cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare nei casi in cui tali cittadini, in forza delle norme e delle procedure comuni stabilite da tale direttiva, devono essere allontanati e possono al massimo, nell'ottica della preparazione e della realizzazione di tale allontanamento, essere sottoposti a trattenimento amministrativo. Tuttavia, ciò non esclude la facoltà degli Stati membri di adottare o di mantenere in vigore disposizioni, eventualmente anche di natura penale, che disciplinino, nel rispetto dei principi di detta direttiva e del suo obiettivo, le situazioni in cui le misure coercitive non hanno consentito di realizzare l'allontanamento di un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare (sentenza El Dridi, citata)". Come precisato in un comunicato stampa della cancelleria della Corte, dunque la direttiva prevede l'adozione di une decisione di rimpatrio nei confronti dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, dalla quale, in linea di principio, inizia a decorrere un periodo per il rimpatrio volontario, seguito, se necessario, da misure d'allontanamento forzato. In assenza di partenza volontaria, la direttiva obbliga gli Stati membri a procedere all'allontanamento forzato applicando misure che siano il meno possibile coercitive. Solo quando l'allontanamento rischia di essere compromesso, lo Stato membro può ricorrere al trattenimento dell'interessato, per una durata che non può mai superare i 18 mesi (22).

Come emerge chiaramente dalla decisione dalla Corte di Giustizia sul caso Achughbabian le due sentenze non segnano una reale discontinuità, anche se riguardano casi diversi, l'inottemperanza all'ordine di lasciare il territorio dello stato, in Italia, che corrisponde ad un reato ormai abrogato, ed il reato di immigrazione clandestina (che è punito con una contravvenzione e che può essere sostituito dall'esecuzione della misura dell'espulsione, e l'istituto del fermo di polizia, la cd. garde a vue, e il reato di immigrazione clandestina, sanzionato con la pena detentiva di un anno in Francia. I giudici di Lussemburgo si interrogano sulla eventualità che tale misura detentiva possa contrastare la realizzazione del cd. effetto utile della direttiva. A tale proposito, la Corte ha anche esaminato la conformità della normativa francese alla direttiva per quanto riguarda la circostanza che la prima può condurre alla reclusione durante la procedura di rimpatrio. La Corte ricorda anzitutto la sua giurisprudenza sul caso El Dridi secondo cui gli Stati membri devono provvedere affinché la propria legislazione penale in materia di immigrazione clandestina e soggiorno irregolare rispetti il diritto dell'Unione. Tali Stati, quindi, non possono applicare una disciplina penale che metta a rischio la realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva rimpatri e privi tale direttiva del suo effetto utile. La Corte interpreta poi i termini «misure» e «misure coercitive» contenuti nella direttiva, considerando che essi si riferiscono a qualsiasi intervento che sfoci, in maniera efficace e proporzionata, nel rimpatrio dell'interessato. Orbene, secondo la Corte, irrogare ed eseguire una pena detentiva nel corso della procedura di rimpatrio non contribuisce alla realizzazione dell'allontanamento che detta procedura persegue. Una pena del genere, quindi, non rappresenta una «misura» o «una misura coercitiva» ai sensi della direttiva. La Corte conclude che il diritto dell'Unione non ammette una normativa nazionale che consente la reclusione di un cittadino di un paese terzo in soggiorno irregolare, che non sia stato sottoposto alle misure coercitive di cui alla direttiva e per il quale, nel caso in cui egli sia stato trattenuto ai fini dell'applicazione della procedura di allontanamento, la durata massima del trattenimento, non sia stata ancora superata. (La direttiva rimpatri stabilisce una durata massima del trattenimento di 18 mesi. Essa varia a seconda degli Stati membri. La normativa francese prevede una durata massima di 45 giorni). Infine, la Corte ricorda che gli Stati membri possono adottare o mantenere in vigore disposizioni penali che disciplinino, nel rispetto della direttiva rimpatri e del suo obiettivo, le situazioni in cui le misure coercitive non hanno consentito di realizzare l'allontanamento di un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare. Da ciò la Corte deduce che la direttiva non vieta che siano inflitte sanzioni penali, ai sensi delle norme nazionali e nel rispetto dei diritti fondamentali, a cittadini di paesi terzi cui sia stata applicata la procedura di rimpatrio prevista da tale direttiva e che soggiornino in modo irregolare nel territorio di uno Stato membro senza che esista un giustificato motivo che preclude il rimpatrio. Tuttavia, la Corte precisa che le autorità nazionali sono tenute ad agire diligentemente e a pronunciarsi con la massima celerità. Una volta accertata l'irregolarità del soggiorno, esse, in linea di principio, devono adottare una decisione di rimpatrio.

La sentenza sul caso Achughbabian in definitiva, se spazza il campo da alcune obiezioni formali frapposte dall'Italia nel 2011, nel corso del giudizio, segnatamente sull'applicabilità della direttiva anche nei casi in cui la permanenza irregolare sia sanzionata come reato, il cd. reato di clandestinità, nel solco della sentenza El Dridi del 28 aprile 2006, afferma tuttavia un principio che per la sua genericità si presta ad interpretazioni che potrebbero anche risultare in contrasto con la tutela dei diritti fondamentali della persona, ai quali la Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri fa espresso riferimento. Il 17º considerando della Direttiva, che indica come regola l'esecuzione del trattenimento negli appositi centri di permanenza temporanea, fa al contempo "salvo l'arresto iniziale da parte delle autorità incaricate dell'applicazione della legge, disciplinato dal diritto nazionale"; - dall'altro lato, sottolinea come quell'"arresto iniziale, evitando il pericolo di fuga, è funzionale al perseguimento dell'obiettivo di un efficace rimpatrio". Si verifica così, da parte della Corte di giustizia, una sorta di legittimazione di un periodo di durata indeterminata, subito dopo l'ingresso nel territorio nazionale, che potrebbe legittimare la proliferazione di strutture di prima accoglienza nelle quali si pratichi il regime della detenzione amministrativa, in assenza di procedure di convalida come quelle che sono previste dopo l'emissione di un provvedimento di respingimento differito o di espulsione.

La decisione della Corte di Giustizia di Lussemburgo su questo ultimo caso non lascia presagire un esito positivo in vista della prossima decisione nella causa C-430/11, Sagor Md, con la quale il Tribunale di Rovigo ha sollevato una questione pregiudiziale di interpretazione della direttiva rimpatri in relazione all'art. 10-bis, 13, 14 e 16 del Testo unico 286/1998 in combinato disposto con gli articoli 55 e 62-bis del Decreto legislativo n. 274/2000. Anche il Giudice di Pace di Lecce avv. Cosimo Rochira, ha sollevato una questione pregiudiziale di interpretazione, ai sensi dell'art. 267 del Trattato dell'Unione, chiedendo, "alla luce dei principi di leale collaborazione, dell'obbligo di standstill e del conseguimento dell'effetto utile del rimpatrio dei cittadini extracomunitari il cui ingresso o soggiorno non è avvenuto in maniera conforme alla legge nazionale, dica la Corte: 1 - se l'art. 2 par. 2 lett. B della direttiva 2008/115/CE osti alla possibilità di applicare la medesima direttiva anche in presenza della normativa interna (art. 10 bis T.U. 286/98) che sanziona la condizione di ingresso e soggiorno irregolare con la misura dell'espulsione sostitutiva della pena"; 2 - se la direttiva comunitaria sul rimpatrio dei cittadini dei paesi terzi osti alla possibilità di sanzionare penalmente la mera presenza dello straniero sul territorio nazionale in condizione di irregolarità, indipendentemente dalla completamento della procedura amministrativa di rimpatrio prevista dalla legge interna e dalla stessa direttiva".

Al di là di una generica affermazione del principio di proporzionalità, e della necessità di interpretare ed applicare la normativa comunitaria alla luce del cd. effetto utile della direttiva, la decisione di rigetto di questi ricorsi, e dunque la consacrazione a livello comunitario del reato di immigrazione clandestina, introdotto nel 2009 con l'art. 10 bis del T.U. sull'immigrazione, non sembra purtroppo da escludere (23). Occorre però ricordare la diversa portata del reato di immigrazione clandestina in Italia ed in Francia, le diverse conseguenze dell'inottemperanza all'ordine di lasciare il territorio dello stato, previsto come reato dall'ordinamento italiano fino alla pronuncia della Corte di Lussemburgo sul caso El Dridi, ed al peculiare istituto del fermo di polizia (24) con le sanzioni penali, conseguenza del successivo reato di clandestinità, nell'ordinamento francese che però, a differenza di quello italiano, prevede la detenzione amministrativa in attesa dell'espulsione con una durata assai più breve.

Se si volesse restare sul terreno del rapporto tra la legislazione penale italiana ed il diritto comunitario si dovrebbe pure verificare la compatibilità dell'art. 10 bis, che prevede il reato di immigrazione clandestina, con la Direttiva 2009/52/CE del 18 giugno 2009 che introduce norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (25). Come al solito il legislatore italiano non ha applicato questa direttiva nei termini imposti dall'Unione Europea, ed anche in questo caso si può ritenere che sono direttamente applicabili quelle parti della direttiva alle quali si può attribuire efficacia precettiva e che risultino sufficientemente precise e circostanziate. E non si vede davvero come il reato di clandestinità previsto in Italia, proprio per la sua portata indefinita e per la doppia alternatività con la misura dell'espulsione, possa risultare compatibile con l'art. 13 della Direttiva secondo il quale, al fine di agevolare le denunce, 1. Gli Stati membri provvedono affinché siano disponibili meccanismi efficaci per consentire ai cittadini di paesi terzi assunti illegalmente di presentare denuncia nei confronti dei loro datori di lavoro, sia direttamente sia attraverso terzi designati dagli Stati membri, quali sindacati o altre associazioni o un'autorità competente dello Stato membro, qualora previsto dalla legislazione nazionale. 2. Gli Stati membri provvedono affinché i terzi aventi, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, un interesse legittimo a garantire che la presente direttiva sia rispettata possano, per conto o a sostegno di un cittadino di un paese terzo assunto illegalmente, e con il suo consenso, avviare tutte le procedure amministrative o civili previste ai fini dell'applicazione della presente direttiva. 3. L'assistenza fornita ai cittadini dei paesi terzi per presentare denuncia non è considerata favoreggiamento di soggiorno illegale ai sensi della direttiva 2002/90/CE del Consiglio, del 28 novembre 2002, volta a definire il favoreggiamento dell'ingresso, del transito e del soggiorno illegali (1). 4. Per quanto riguarda il reato di cui all'articolo 9, paragrafo 1, lettere c) o e), gli Stati membri definiscono ai sensi della legislazione nazionale le condizioni alle quali possono essere concessi, caso per caso, permessi di soggiorno di durata limitata, commisurata a quella dei relativi procedimenti nazionali, ai cittadini di paesi terzi implicati, con modalità comparabili a quelle applicabili ai cittadini di paesi terzi rientranti nell'ambito di applicazione della direttiva 2004/81/CE.

3. Un ritorno alla Costituzione italiana?

Sarebbe comunque tempo che oltre ad attribuire alle direttive comunitarie effetti correttivi, in base all'art. 117 della Costituzione, di una normativa penale che sanziona l'immigrazione clandestina con modalità che hanno solo riprodotto il fenomeno senza contribuire alla sua riduzione, si torni a considerare la compatibilità dell'intero quadro penalistico in materia con l'intera Costituzione italiana, un tentativo che non può essere abbandonato dopo la sentenza 250 del 2010, alla quale non si può non riconoscere una portata interlocutoria. Anche se adesso temperata dalla previsione di un giustificato motivo che può elidere la rilevanza penale del fatto, la norma incriminatrice della mera presenza irregolare, proprio a causa della forte incidenza della discrezionalità amministrativa nella scelta tra la sanzione dell'ammenda, per la quale non è prevista oblazione, e la sua sostituzione con l'accompagnamento forzato, violerebbe i principi di eguaglianza (art. 3 Cost.), di diritto alla difesa (art. 24) e di colpevolezza (art. 27 Cost.), trattando la medesima condotta in modo differenziato a seconda che l'autorità amministrativa - anche in conseguenza di proprie scelte organizzative - riesca ad eseguire il respingimento o l'espulsione, in modo da giungere a limitare i diritti di difesa a seconda dei tempi e dei modi prescelti per l'esecuzione della misura di allontanamento forzato.

La legittimità costituzionale del reato di immigrazione clandestina andrebbe dunque riguardata alla stregua degli articoli 10 (riserva di legge) e 13 (riserva di giurisdizione) della Costituzione, in quanto le concrete modalità di esecuzione dell'accompagnamento forzato consentite all'autorità di polizia permettono di eseguire l'espulsione ed il respingimento senza neppure attendere la convalida giurisdizionale e dunque la previsione del reato che prevede come sbocco una scelta discrezionale dell'amministrazione, scelta che può persino impedire l'intervento di controllo del magistrato non può che risultare in contrasto con i suddetti principi costituzionali. Ulteriore contrasto si può riscontrare con l'art. 25, comma 2, Cost., in quanto l'art. 10 bis sanziona penalmente una particolare condizione personale e sociale - in specie, quella di chi versa nella situazione di «clandestino» per non essersi uniformato alle disposizioni del d.lgs. n. 286 del 1998 - anziché la commissione di un fatto offensivo di un bene costituzionalmente protetto. Si tratterebbe, in sostanza, di una «colpa d'autore» o «per il modo di essere dell'agente»: scelta legislativa da reputare inaccettabile, giacché l'irrogazione di sanzioni penali potrebbe giustificarsi solo quando appaia indispensabile «per assicurare la conservazione o promuovere il progresso della comunità sociale o quando sussista il pericolo che l'individuo commetta fatti delittuosi». E spiace rilevare che la Corte Costituzionale con la sentenza 250 del 2010 non si sia confrontata su questo punto con la precedente sentenza adottata dalla stessa Corte, n.78 del 2007, nella quale si rilevava inequivocabilmente come una previsione di carattere penale che pregiudichi gli immigrati irregolari non può essere "collegata in modo automatico ad una condizione soggettiva - il mancato possesso di un titolo abilitativo alla presenza nel territorio dello Stato, che, di per sé, non è univocamente sintomatica... di una particolare pericolosità sociale" (26).

Nel caso di specie è quasi pleonastico affermare che la stragrande maggioranza degli immigrati irregolari presenti in Italia, anche in base alle statistiche delle procedure di regolarizzazione che si sono realizzate in Italia nel corso degli anni, non commettono reati né minacciano la sicurezza collettiva. E nel caso di coloro che siano dediti ad attività criminali, non si coglie proprio quale effetto deterrente potrebbe avere l'applicazione di una pena pecuniaria, o la minaccia di un allontanamento forzato che comunque è già previsto anche a prescindere dalla previsione di un reato penale. Se il bene giuridico tutelato dal reato è "identificabile nell'interesse dello Stato al controllo e alla gestione dei flussi migratori, secondo un determinato assetto normativo, interesse la cui assunzione ad oggetto di tutela penale non può considerarsi irrazionale ed arbitraria -

trattandosi, del resto, del bene giuridico "di categoria", che accomuna buona parte delle norme incriminatrici presenti nel testo unico del 1998 - e che risulta, altresì, offendibile dalle condotte di ingresso e trattenimento illegale dello straniero" come sembra ritenere la Corte Costituzionale con la sentenza n.250 del 2010, non si vede come tale tutela possa realizzarsi con la previsione di una sanzione meramente pecuniaria e la sovrapposizione di un procedimento espulsivo, rispetto a quello già previsto in caso di semplice ingresso o soggiorno irregolare. Rimane ancora da dimostrare come la previsione del reato possa accelerare e rendere più efficaci (effettivi) i procedimenti di allontanamento forzato dal territorio dello stato, mentre appare sempre più certo invece il risultato opposto, anche per la immensa mole di procedimenti giudiziari e di adempimenti burocratici da parte delle autorità che devono comunque formare la cd. notizia di reato.

Potrebbe infine ritenersi violato anche l'art. 3 della Costituzione perché la norma incriminatrice dell'art. 10 bis pone sullo stesso piano fattispecie affatto diverse come l'ingresso ed il soggiorno irregolare nel territorio dello stato, e per gli elevati livelli di discrezionalità consentiti all'autorità amministrativa, permette alle forze di polizia la possibilità di richiedere all'autorità giudiziaria l'incriminazione per questo reato anche nei confronti di persone che, seppure costrette all'ingresso irregolare, hanno pieno titolo per essere ammessi sul territorio nazionale, come i richiedenti asilo, i minori stranieri non accompagnati, le vittime di tortura, le vittime di tratta e le donne in stato di gravidanza o nei sei mesi dopo il parto. Addirittura risulterebbe punibile anche l'immigrato che arrivi in frontiera senza documenti a seguito di un intervento di soccorso e dunque a bordo di una unità militare italiana. Se l'art. 10 bis esclude l'applicazione del reato nel caso del respingimento in frontiera, nulla si dice sull'ipotesi altrettanto frequente del cd. respingimento differito adottato dal questore in base all'art. 10 comma 2 del T.U. sull'immigrazione qualora lo straniero sia temporaneamente ammesso nel territorio nazionale per esigenze di soccorso. Il collegamento tra l'istituto del respingimento differito con la fattispecie penale del reato di immigrazione clandestina esaltano al massimo la sfera attribuita alle autorità amministrative nella "gestione" di questa fattispecie penale", soprattutto quando si ometta la segnalazione dei minori non accompagnati alle autorità competenti o non si verifichi la immediata formalizzazione delle richieste di protezione internazionale, circostanze che comunque comportano la sospensione del relativo procedimento penale.

Quanto successo nel corso del 2011 con gli sbarchi a Lampedusa e le migliaia di notizie di reato trasmesse dalla polizia di stato alla Procura della Repubblica di Agrigento, è frutto di un esercizio talmente ampio della discrezionalità amministrativa da costituire la prova più evidente della incostituzionalità del reato di immigrazione clandestina ancora previsto dall'art. 10 bis del T.U. sull'immigrazione. E la stessa sentenza n. 250 del 2010 della Corte Costituzionale invitava a valutare la costituzionalità dell'art. 10 bis anche alla luce delle prassi applicative. Non sembra a tale riguardo che i giudici abbiano avuto il coraggio di dichiarare improcedibile l'azione penale per la "particolare tenuità del fatto", come pure sarebbe stato possibile in base all'art. 34 del decreto legislativo n.274 del 2000, anche alla luce del dettato della Corte di Cassazione, per la quale (sentenza del 28 settembre 2007, n. 43383) "escludere l'applicazione del d.lgs. n.274 del 2000, art. 34, per alcune tipologie di reato comporterebbe dubbi di legittimità costituzionale". Se l'individuazione delle condotte punibili e la configurazione del relativo trattamento sanzionatorio rientrano nella discrezionalità del legislatore: discrezionalità il cui esercizio può formare oggetto di sindacato, sul piano della legittimità costituzionale, come ricorda la Corte Costituzionale con la sentenza n. 250 del 2010, quando la stessa discrezionalità si traduca in scelte manifestamente irragionevoli o arbitrarie (e qui si possono citare le stesse sentenze richiamate dalla Corte nella stessa sentenza, come le sentenze n. 47 del 2010, n. 161, n. 41 e n. 23 del 2009, n. 225 del 2008), alla luce delle modalità concrete di applicazione dell'art. 10 bis, e delle prassi sommarie applicate da parte delle autorità amministrative, non si vede proprio come si possa continuare a ritenere questa norma conforme al dettato costituzionale.

Note

1. Queste le norme, adesso abrogate o modificate dalla legge 129 del 2 agosto 2011, che risultavano incompatibili con la Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri.

Art. 14 comma 5-bis. Quando non sia stato possibile trattenere lo straniero presso un centro di identificazione ed espulsione, ovvero la permanenza in tale struttura non abbia consentito l'esecuzione con l'accompagnamento alla frontiera dell'espulsione o del respingimento, il questore ordina allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro il termine di cinque giorni. L'ordine è dato con provvedimento scritto, recante l'indicazione delle conseguenze sanzionatorie della permanenza illegale, anche reiterata, nel territorio dello Stato. L'ordine del questore può essere accompagnato dalla consegna all'interessato della documentazione necessaria per raggiungere gli uffici della rappresentanza diplomatica del suo Paese in Italia, anche se onoraria, nonchè per rientrare nello Stato di appartenenza ovvero, quando ciò non sia possibile, nello Stato di provenienza.
5-ter. Lo straniero che senza giustificato motivo permane illegalmente nel territorio dello Stato, in violazione dell'ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis, è punito con la reclusione da uno a quattro anni se l'espulsione o il respingimento sono stati disposti per ingresso illegale nel territorio nazionale ai sensi dell'articolo 13, comma 2, lettere a) e c), ovvero per non aver richiesto il permesso di soggiorno o non aver dichiarato la propria presenza nel territorio dello Stato nel termine prescritto in assenza di cause di forza maggiore, ovvero per essere stato il permesso revocato o annullato. Si applica la pena della reclusione da sei mesi ad un anno se l'espulsione è stata disposta perchè il permesso di soggiorno è scaduto da più di sessanta giorni e non ne è stato richiesto il rinnovo, ovvero se la richiesta del titolo di soggiorno è stata rifiutata, ovvero se lo straniero si è trattenuto nel territorio dello Stato in violazione dell'articolo 1, comma 3, della legge 28 maggio 2007, n. 68. In ogni caso, salvo che lo straniero si trovi in stato di detenzione in carcere, si procede all'adozione di un nuovo provvedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica per violazione all'ordine di allontanamento adottato dal questore ai sensi del comma 5-bis. Qualora non sia possibile procedere all'accompagnamento alla frontiera, si applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e 5-bis del presente articolo nonchè, ricorrendone i presupposti, quelle di cui all'articolo 13, comma 3.
5-quater. Lo straniero destinatario del provvedimento di espulsione di cui al comma 5-ter e di un nuovo ordine di allontanamento di cui al comma 5-bis, che continua a permanere illegalmente nel territorio dello Stato, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Si applicano, in ogni caso, le disposizioni di cui al comma 5-ter, terzo e ultimo periodo.
5-quinquies. Per i reati previsti ai commi 5-ter, primo periodo, e 5-quater si procede con rito direttissimo ed è obbligatorio l'arresto dell'autore del fatto»;

2. La Corte costituzionale con sentenza. n. 359/2010 del 17 dicembre 2010 dichiarava la incostituzionalità del reato di permanenza nel territorio dello Stato di straniero espulso già precedentemente inottemperante all'ordine del Questore di lasciare il territorio nazionale, "nella parte in cui non prevede che non sia punibile lo straniero inottemperante perchè privo dei mezzi necessari perché indigente". L'art. 14, comma 5-quater del testo unico delle leggi sull'immigrazione, come modificato dalla legge n. 94/2009, è incostituzionale nella parte in cui non dispone che l'inottemperanza all'ordine di allontanamento, secondo quanto già previsto per la condotta di cui al precedente comma 5-ter, sia punita nel solo caso che abbia luogo «senza giustificato motivo». La stessa Corte Costituzionale, in precedenza, con la sentenza n. 249 del 2010, dichiarava l'illegittimità dell'aggravante di clandestinità introdotta dal governo Berlusconi tra i primi atti dopo il suo insediamento, con il Decreto legge 23 maggio 2008, n.92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), c.d. pacchetto sicurezza, convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della Legge 24 luglio 2008, n. 125. Secondo la Corte sono stati ritenuti incostituzionali, in quanto in contrasto con gli articoli 3, primo comma, e 25, secondo comma, della Costituzione, l´articolo 61, numero 11-bis, del codice penale, e, in via consequenziale, l´articolo 1, comma 1, della legge 15 luglio 2009 n.94, contenente disposizioni in materia di sicurezza pubblica nonché l'articolo 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, limitatamente alle parole "e per i delitti in cui ricorre l´aggravante di cui all´art. 61, primo comma, numero 11-bis), del medesimo codice".

3. Le statistiche al riguardo appaiono facilmente manipolabili, se si pensa allo scarto tra gli anni 2007-2008, alla prima crisi umanitaria in Tunisia nel 2009, all'abbattimento degli arrivi per la politica dei respingimenti nel 2010, ed ai flussi più massicci di arrivi nel 2011 dopo lo scoppio della cd. emergenza nord-Africa. I dati forniti dal ministero dell'interno fanno spesso riferimento ad aumenti o a diminuzioni drastiche degli arrivi o dei respingimenti nel breve periodo, per ragioni squisitamente politiche, al fine di rassicurare l'opinione pubblica sull'efficacia delle politiche di contrasto dell'immigrazione clandestina adottate dal governo. La realtà è invece ben diversa, e sta nei rapporti di tutte le grandi agenzie umanitarie, che legano gli incrementi o le flessioni negli arrivi, non tanto e non solo al rigore delle politiche di contrasto, ma ai fattori di spinta delle migrazioni che si possono determinare nei paesi di transito o di provenienza.

4. L'art. 1,5 comma 22, lett. h), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (recante "Disposizioni in materia di sicurezza pubblica") ha sostituito il precedente testo normativo, disponendo che"Lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non ottempera, senza giustificato motivo, all'ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato è punito con l'arresto fino ad un anno e con l'ammenda fino ad euro 2.000". Inoltre, l'art. 1, comma 22, lett. f), l. n. 94 del 2009, ha modificato l'art. 5, comma 8-bis, d. lgs. 286 del 1998) che ha introdotto una nuova fattispecie penale, che estende la pena della reclusione da uno a sei anni anche all'utilizzazione di uno dei documenti, contraffatti o alterati, relativi all'ingresso e al soggiorno.

5. Cfr. A. LIGUORI, L'attuazione della direttiva rimpatri in Italia, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n.3, 2011, p.15 ss., in particolare sulle prime reazioni della giurisprudenza italiana, p.16.

6. In Diritto Penale Contemporaneo.

7. Osservava P. BONETTI, in "Le norme in materia di stranieri nel ddl sulla sicurezza pubblica", pubblicato il 2 maggio 2009 nel sito ASGI, come "la norma appare oggettivamente inutile perché l'elemento oggettivo del nuovo reato coincide con il presupposto per l'adozione del provvedimento di respingimento del Questore o del provvedimento amministrativo di espulsione del Prefetto per ingresso o soggiorno irregolare, tanto che l'esecuzione dell'espulsione appare il vero obiettivo della nuova norma, come confermano l'esenzione dal nulla osta, la sentenza di non luogo a procedere e l'espulsione come sanzione sostitutiva della pena pecuniaria (non oblazionabile) comminata per il nuovo reato. In realtà l'introduzione del reato di soggiorno illegale ha dichiaratamente l'intento di consentire all'ordinamento italiano di avvalersi dell'art. 2, comma 2 della Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri, che dà agli Stati la facoltà di non applicare la Direttiva stessa agli stranieri per i quali il rimpatrio sia sanzione penale o conseguenza di una sanzione penale. Poiché introducendo nell'ordinamento italiano il reato di soggiorno illegale l'espulsione si fa conseguire alla condanna per tale reato (espulsione disposta dal giudice quale sanzione sostitutiva della pena prevista per il reato) si potrà prescindere, per ogni straniero espulso, dall'applicazione delle disposizioni della Direttiva che invece privilegiano, di norma, il rimpatrio volontario e non quello coattivo e prevedono che ogni forma di trattenimento sia soltanto un rimedio eccezionale e residuale. Sempre secondo Bonetti "in ogni caso attraverso tale nuova norma l'ordinamento italiano si mette in condizione di eludere quasi totalmente l'obbligo di attuare la direttiva sui rimpatri. Una simile norma appare illegittima, perché non conforme rispetto agli obblighi comunitari. Infatti nella nuova norma nazionale il rimpatrio non è - come invece esige la direttiva - sanzione del reato commesso, né conseguenza del reato commesso, ma è misura collegata alla sanzione penale in via del tutto residuale ed eventuale, cioè soltanto se e quando il giudice giunga al giudizio e se e quando egli disponga l'espulsione quale sanzione sostitutiva della pena, mentre ciò a cui si mira davvero è l'immediata esecuzione del respingimento del Questore o del provvedimento amministrativo di espulsione, tanto che l'avvenuta esecuzione comporta l'archiviazione del procedimento penale". Sul punto si veda anche P. BONETTI, La proroga del trattenimento e i reati di ingresso e permanenza irregolare nel sistema del diritto degli stranieri: profili costituzionali e rapporti con la direttiva sui rimpatri, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n.4, 2009, pagg. 85 e segg.

8. La particolare tenuità della sanzione che il legislatore ha previsto per il reato di immigrazione clandestina, e la sua stessa natura di contravvenzione, se ne tradisce la natura di reato manifesto, non sembrano costituire tuttavia un argomento decisivo per affermare che tale reato possa risultare compatibile con la direttiva comunitaria. Occorre accertare se la sanzione penale del reato di ingresso o di soggiorno irregolare, trattandosi ormai di una pena pecuniaria, incida sulla effettività delle procedure di rimpatrio e risulti coerente con l'effetto utile che la direttiva comunitaria intende perseguire. Di certo, la commutabilità tra la pena pecuniaria e la misura espulsiva non attribuisce alcuna maggiore efficacia alla procedura di allontanamento forzato.

9. Cfr. G. SAVIO, La nuova disciplina delle espulsioni conseguente al recepimento della direttiva rimpatri, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n.3, 2011, p.30 ss.

10. Il par. 3 dell'art. 5 prevede che ogni persona privata della libertà in quanto sospettata di aver commesso un reato deve essere tradotta al più presto di fronte ad un giudice od altro magistrato che eserciti funzioni giudiziarie. Allo stesso paragrafo è riconosciuto il diritto della persona ad essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la procedura.

11. Sul punto si veda A. LIGUORI, Le garanzie, cit., p.33.

12. Articolo 16 Espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione.

1. Il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna per un reato non colposo o nell'applicare la pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale nei confronti dello straniero che si trovi in taluna delle situazioni indicate nell'articolo 13, comma 2, quando ritiene di dovere irrogare la pena detentiva entro il limite di due anni e non ricorrono le condizioni per ordinare la sospensione condizionale della pena ai sensi dell'articolo 163 del codice penale ovvero nel pronunciare sentenza di condanna per il reato di cui all'articolo 10-bis, qualora non ricorrano le cause ostative (2) indicate nell'articolo 14, comma 1, del presente testo unico, che impediscono l'esecuzione immediata dell'espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica, (3) può sostituire la medesima pena con la misura dell'espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni.

13. La sentenza della Corte Costituzionale n.359 del 17 dicembre 2010 dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 14, comma 5-quater, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dall'art. 1, comma 22, lettera m), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui non dispone che l'inottemperanza all'ordine di allontanamento, secondo quanto già previsto per la condotta di cui al precedente comma 5-ter, sia punita nel solo caso che abbia luogo «senza giustificato motivo». In tema, cfr. F. VANORIO, La pronuncia della Consulta n.359 del 17.12.2010: incostituzionale la mancata previsione del giustificato motivo nel co. 5 quater dell'art. 14 T.U., in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2011, n.1, p.104 ss. Il legislatore dovrebbe peraltro prendere atto di quanto dichiarato dalla Corte Costituzionale, per la quale "un estremo stato di indigenza, che abbia di fatto impedito l'osservanza dell'ordine del questore nello stretto termine di cinque giorni, non diventa superabile o irrilevante perché permanente nel tempo o perché insorto o riconosciuto in una occasione successiva. Il rimedio ordinario previsto dalla legge per la presenza illegale nel territorio dello Stato del destinatario di un provvedimento di espulsione - occorre ricordarlo - è l'esecuzione coattiva del provvedimento stesso. In assenza di tale misura amministrativa, l'affidamento dell'esecuzione allo stesso soggetto destinatario del provvedimento incontra i limiti e le difficoltà dovuti alle possibilità pratiche dei singoli soggetti, che il comma 5-ter dell'art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998 ha preso in considerazione, in un ragionevole bilanciamento tra l'interesse pubblico all'osservanza dei provvedimenti dell'autorità, in tema di controllo dell'immigrazione illegale, e l'insopprimibile tutela della persona umana. Tale tutela non può essere esclusa o attenuata in situazioni identiche, ancorché successive, senza incorrere nella violazione dell'art. 3, primo comma, Cost.".

14. Si vedano, riguardo le posizioni dell'ex ministro dell'interno Maroni, la sua audizione davanti al Comitato parlamentare sull'attuazione dell'accordo di Schengen del 15 ottobre 2008, e quindi i suoi successivi interventi in Parlamento e sui media, in particolare quelli del 14 aprile e 12 ottobre 2010, e poi del 31 maggio 2011, sempre presso il medesimo comitato Schengen.

15. Secondo il Tribunale di Torino, sentenza del 5 gennaio 2011, "la procedura di esecuzione dei provvedimenti di espulsione dello straniero extracomunitario irregolarmente soggiornante nel territorio di uno Stato membro delineata dalla direttiva 2008/115/CE (ove si prevede come modalità normale di esecuzione del provvedimento espulsivo l'intimazione a lasciare lo Stato entro un termine non inferiore a sette giorni, e si prevede la possibilità di disporre il trattenimento dello straniero in un CIE per un periodo massimo di diciotto mesi solo qualora non possano essere applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive) è radicalmente difforme dal sistema interno, ove invece è previsto come regola l'allontanamento coattivo dello straniero, non è prevista alcuna misura coercitiva diversa dal trattenimento in un CIE e in caso di inottemperanza all'ordine di allontanamento la configurabilità dei delitti di cui all'art. 14 co. 5ter e 5quater consente una privazione della libertà personale dello straniero ben superiore a diciotto mesi. Gli ordini di allontanamento che fungono da presupposto per la configurabilità di tali delitti, prevedendo un termine inferiore a sette giorni, sono dunque in contrasto con la direttiva, ed inoltre è la stessa introduzione della sanzione penale nell'ambito della procedura amministrativa di espulsione a porsi in contrasto con la disciplina comunitaria, configurando una risposta sanzionatoria per natura ed entità astratta più gravosa di quella consentita dalla direttiva: ne consegue che la norma incriminatrice deve essere disapplicata e l'imputato deve essere assolto perché il fatto non sussiste".

16. Cfr. A. NATALE, La direttiva rimpatri, il testo unico immigrazione ed il diritto penale dopo la sentenza El Dridi, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 2, 2011, p. 17.

17. Cfr. L. D'AMBROSIO, Se una notte d'inverno un sans papiers: la Corte di Giustizia dichiara il reato di ingresso e soggiorno irregolare 'conforme' e 'non conforme' alla direttiva rimpatri, nota a Corte di Giustizia dell'UE (Grande Sezione), sentenza del 6 dicembre 2011, Achughbabian contro Préfet du Val-de-Marne, causa C-329/11, in Diritto Penale Contemporaneo.

18. La Corte di Cassazione, prima sezione penale, con ordinanza depositata il 18 marzo 2011, aveva chiesto alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea di pronunciarsi con procedimento d'urgenza, in via pregiudiziale, sulle questioni di interpretazione di numerose parti della Direttiva 2008/115/CE, ed in particolare degli art. 2, par.2, lettera b); 7, par.1 e 4; 8, par.1 e 4; 15, par. 1,4,5 e 6. Anche alla stregua di queste complesse questioni dovrà valutarsi la portata della nuova legge e la sua compatibilità con il quadro normativo comunitario, oltre che con l'ordinamento costituzionale italiano.

19. Avverte questo rischio A. LIGUORI, L'attuazione della direttiva rimpatri in Italia, in Diritto, imigrazione e cittadinanza, n.3, 2011, p. 15 ss., in particolare p. 22.

20. Non sembra purtroppo che tutti abbiano colto la effettiva portata della decisione della Corte di Giustizia sul caso El Dridi, e l'uso mediatico che si è fatto di questa decisione ha ingenerato confusione e paura nell'opinione pubblica, determinando quasi una situazione di emergenza che ha ben altri responsabili e rispetto alla quale si è poi provveduto con decreto legge. Secondo il ministro dell'interno Maroni, allora in carica, sembrava centrale soltanto il problema della sanzione penale dell'inottemperanza all'ordine di lasciare il territorio nazionale, prospettiva che è stata accantonata e che ha fatto dichiarare allo stesso ministro come "l'eliminazione del reato, accoppiata alla direttiva europea sui rimpatri, rischia di fatto di rendere impossibili le espulsioni, trasformandole solo in intimazione ad abbandonare il territorio nazionale entro sette giorni. Questo rende assolutamente inefficaci le politiche di contrasto all'immigrazione clandestina".

21. Crr. L. MASERA, Costituzionale il reato di clandestinità, incostituzionale l'aggravante: le ragioni della Corte costituzionale, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2010, n. 3, p. 37 s.

22. Secondo quanto comunicato dalla Corte di Giustizia "nella fattispecie, il sig. Achughbabian, cittadino armeno, è entrato in Francia nel 2008. Nel 2009 una decisione del prefetto lo ha obbligato a lasciare il territorio francese, corredata di un termine di un mese per la partenza volontaria. In seguito al suo rifiuto di lasciare la Francia, nel giugno 2011 è stato colpito da una nuova decisione di rimpatrio, sotto forma di decreto di riaccompagnamento coattivo alla frontiera, senza un termine per la partenza volontaria. Le autorità francesi, inoltre, hanno disposto il fermo di polizia e, successivamente, il trattenimento per soggiorno irregolare; l'interessato ha contestato tali misure dinanzi alla giustizia francese. La cour d'appel de Paris (Francia), attualmente investita della controversia, chiede alla Corte di giustizia se la direttiva rimpatri osti alla disciplina francese (l'art. L 621-1 del Codice dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri e del diritto d'asilo (Ceseda)) che punisce con la pena della reclusione per un anno e l'ammenda di 3 750 euro il cittadino di un paese terzo che soggiorni irregolarmente in Francia, per più di tre mesi, senza essere in possesso dei documenti e dei visti richiesti, in particolare del permesso di soggiorno. Quando la Corte è stata adita, il sig. Achughbabian non si trovava più in stato di trattenimento. Tuttavia la Corte ha applicato la procedura accelerata, in quanto dinanzi ai giudici francesi sono pendenti altre cause analoghe. La Corte ha sottolineato la necessità di dirimere la causa con la massima celerità, onde impedire eventuali privazioni della libertà illegali o ridurne la durata".

23. Sul punto cfr. G.L. GATTA, Il "reato di clandestinità" (art. 10 bis T.U. Imm.) e la "Direttiva rimpatri", in Diritto Penale Contemporaneo.

24. Il fermo di polizia [garde à vue] è un provvedimento coercitivo deciso da un ufficiale di polizia giudiziaria, sotto il controllo dell'autorità giudiziaria, in forza del quale è mantenuta a disposizione degli inquirenti una persona a carico della quale sussistono una o più ragioni plausibili di sospettare che abbia commesso o tentato di commettere un reato punito con la reclusione.

25. Cfr. C. RENOLDI, I nuovi reati di ingresso e di permanenza illegale dello straniero nel territorio dello Stato, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2009, n. 4, p. 38.

26. Come richiamato da C. RENOLDI, op. cit., p. 56.