ADIR - L'altro diritto

Dalla forma-campo ai 'campi di forza'
I giardinetti del X arrondissement di Parigi

Alessandra Sciurba, 2007

Quando si parla di migrazioni, non solo da oggi ma oggi più che mai, è inevitabile parlare al contempo di spazi di detenzione e concentramento di migranti, siano essi chiamati "campi", prigioni, centri di accoglienza, centri di permanenza temporanea, di transito, di identificazione. L'immigrazione, Il fenomeno della mobilità per eccellenza, è quindi costantemente connesso con i tentativi più estremi di restrizione della libertà di movimento che si materializzano in luoghi più o meno ufficiali e visibili che hanno, tra le funzioni principali, il controllo delle persone attraverso la loro sosta forzata, lo smistamento, la produzione e la stigmatizzazione della clandestinità, la creazione di percorsi obbligati. Dall'Italia a Malta, dalla Francia alla Slovenia, l'Unione europea appare infatti costellata tanto di centri istituzionali di detenzione amministrativa per migranti cosiddetti "irregolari" quanto di zone più informali di concentramento forzato di migranti in transito verso altri paesi o momentaneamente residenti perché impiegati (ovviamente a nero) in lavori stagionali.

Partendo da tali presupposti, questo contributo prende in esame quel che accade in una zona ristretta nel cuore della città di Parigi, dove, come si verifica in moltissimi altri luoghi d' Europa, di fianco all'istituzionalizzazione di vere e proprie galere etniche, quali sono di fatto i centres de retentions per migranti in via di espulsione dal territorio francese, esistono delle zone non ufficiali, dei luoghi che silenziosamente assolvono a delle funzioni occultate e parallele rispetto alla vita formalmente regolata della città e a ciò che normalmente ci si aspetterebbe che vi accadesse. A partire dalla descrizione di una situazione particolare, vorrei quindi cercare di avanzare delle ipotesi interpretative di una realtà più generale, quella degli odierni dispositivi di controllo della mobilità dei migranti tra cui rientrano anche spazi come quelli che stiamo per descrivere, non delimitati da alcuna barriera materiale, non indicati in nessuna carta topografica.

Raccontarli - questi luoghi - è complesso quanto cercare di interpretarli ma, prima ancora, realmente difficile è rendersi conto della loro esistenza e imparare a guardare ciò che è stato posto sotto i nostri occhi proprio nel tentativo di rendercelo invisibile. Provate quindi ad arrivare a Parigi, in una qualunque delle sue stazioni ferroviarie, prendete un taxi e chiedete di farvi condurre a Guardless Park. Avete un'alta percentuale di possibilità che l'autista vi porti fino a un piccolo giardinetto pubblico, situato nel X arrondissement, tra la Gare de l'Est e il Canal Saint-Martin.

Eppure, per quanto attentamente possiate osservare una cartina della città, vi accorgerete che nel X arrondissement non esiste nessun giardinetto pubblico che porti il nome che avete detto al tassista, e che il piccolo parco dove siete stati condotti si chiama in realtà, per la topografia ufficiale, Jardin Villemin. Per capire perché questo luogo abbia due nomi, dovrete allora entrare dentro il giardino e scoprire chi siano i suoi particolari abitanti. Guardless Park, "il parco senza guardie", è il nome che i migranti afghani che incontrerete lì hanno scelto per il posto in cui trascorrono interamente le loro giornate, fino al tramonto, e che, insieme a un altro piccolo parco pubblico, in Square Albine-Satragne, dall'altra parte della Gare de l'Est, è il luogo di concentramento dei cosiddetti exilés du 10ème. Al Jardin Villemin, dunque, si trovano gli afghani. A Square Albine-Satragne, invece, sostano soprattutto i curdi. Due gruppi divisi territorialmente da un'ostilità nata sul suolo francese.

Non ci sono mura o poliziotti che costringano queste persone a restare lì, eppure pochissimi di loro si spostano e quasi nessuno ha mai visto nulla della Parigi che ogni turista conosce, nonostante tutti vi abitino da un periodo di tempo in media superiore a trenta giorni.

Se glielo chiederete gentilmente, quasi tutti i migranti di entrambi i giardini accetteranno volentieri di lasciarsi intervistare, ma tutti, al contempo, rifiuteranno categoricamente di allontanarsi dalle loro rispettive postazioni spiegandovi laconicamente che al di fuori di un certo percorso "stabilito" potrebbero avere dei "problemi".

Se rimaneste ad osservare ciò che accade quotidianamente dentro e attorno i due piccoli parchi pubblici, scoprireste presto che questo "percorso stabilito", che si potrebbe definire come il "percorso umanitario del controllo", scandisce, con qualche differenza non sostanziale, la vita quotidiana dei migranti dei due giardini. Se durante il giorno i curdi di Square Albine-Satragne sostano sulla piazza intorno all'area recintata, o nelle strade immediatamente limitrofe e gli afghani del Jardin Villemin, rimangono a giocare a pallone all'interno del giardino (allontanandosene solo per arrivare fino al vicino internet point a cinquanta metri circa dall'entrata), quando viene la sera e i due giardinetti vengono chiusi al pubblico, tutti i migranti, tanto afghani che curdi, camminano per poche decine di metri fino alla piazza dove si trove l'église Saint-Pierre e dove I "funzionari umanitari" con la scritta "securitè" sulla divisa azzurra, gestiscono la divisione dei pasti dalla camionetta comunale de l'Armée du Salut. Da lì passano anche gli autobus previsti dal Piano Atlas, nel quadro del "Piano di Urgenza Invernale della Prefettura" che porteranno i migranti più fortunati fino a dei capannoni adibiti a centri di accoglienza emergenziali da cui dovranno uscire l'indomani mattina alle sei per tornare dritti filati ai loro giardinetti. Alcuni, pertanto, pur di riuscire a trovar posto sugli autobus rinunciano alla loro razione di cibo perché chi non fa in tempo a salire dovrà dormire al freddo nelle cabine telefoniche di fronte al Jardin Villemin, nelle tre tende perennemente impiantate davanti all'entrata, oppure sotto i ponti del Canal Saint Martin, alle spalle del giardino.

Questo è dunque il percorso previsto per i migranti del X arrondissement, all'interno del quale, in linea di massima, non si rischia di venire fermati dalla polizia e condotti alla garde à vue (da dove comincerebbe invece il percorso di detenzione amministrativa o penale).

Per capire quale sia il motivo che spinge questi migranti a sostare a queste condizioni nel X arrondissement di Parigi, bisogna innanzitutto dire che vicinissimo alla Gare de l'Est si trova la Gare du Nord e che la Gare du Nord è la stazione da cui partono i treni che raggiungono Calais. Occorre poi aggiungere che Calais è il luogo della Francia da cui partono le navi e i traghetti che attraversano la Manica per raggiungere l'Inghilterra. Bisogna inoltre aver presente che l'Inghilterra è ad oggi uno dei pochi paesi europei ricchi che non ha aderito al Trattato di Schengen e dove quindi esiste una possibilità per i migranti irregolari di non essere riconosciuti come già clandestini della "fortezza Europa" e rinviati in patria o in qualche paese considerato "terzo sicuro". Ed è infine necessario ricordare la storia del centro di Sangatte, a Calais, che aprì i battenti nel 1999 e li chiuse nel 2002 e dove vennero "ospitati" circa 65.000 migranti irregolari in transito dalla Francia verso l'Inghilterra, tentando di nascondere la realtà di questo traffico di donne e uomini agli occhi dei cittadini francesi.

Quando Sangatte, per tanti e contraddittori motivi, venne chiuso e ai migranti non fu più permesso di raggrupparsi in massa nel centro o nei dintorni di Calais, fu necessario, per loro e per i passeurs che vivevano dell'organizzazione dei passaggi clandestini della Manica, trovare un altro luogo dove sostare per tutto il periodo necessario alla preparazione del viaggio.

Si può allora ipotizzare che dal momento in cui Sangatte venne chiuso, e proprio per questo motivo, Square Albine-Satragne e il Jardin Villemin si riempirono di migranti. Alcune delle persone che avevano deciso di partire dalla Francia verso l'Inghilterra e che non avevano documenti per farlo legalmente, trovarono per primi questa nuova soluzione. Rimasero lì, vicino alla stazione da cui avrebbero dovuto prendere il treno per Calais, aspettando che tutto fosse pronto per il viaggio.

La polizia, il X municipio, lo stesso comune di Parigi conoscono perfettamente la situazione. Tutto porta a pensare che si tratti di una sorta di tacito accordo, venuto fuori a seguito di circostanze create dall'incrocio di necessità ed energie di segno totalmente opposto: le energie e le necessità del sistema economico e politico francese, e più in generale europeo, di governare il più possibile i percorsi di questi viaggiatori, e le energie e le necessità dei migranti che attraversano la Francia e in generale gli Stati europei cercando di non venire fermati e rimandati indietro ad una precedente tappa del crudele gioco dell'oca che è diventato il loro viaggio.

Osservando una realtà come quella appena descritta possono facilmente entrare in crisi le consuete categorie attraverso le quali molti studiosi hanno fino ad ora cercato di interpretare il fenomeno dei nuovi centri di detenzione per stranieri o delle zone del loro concentramento forzato. Davanti a luoghi come i due piccoli parchi pubblici del X arrondissement di Parigi sembra invero problematico limitarsi ad affermare quanto scriveva Giorgio Agamben - nel suo fondamentale saggio sul potere sovrano e la nuda vita attraverso la storia della politica occidentale - riguardo agli attuali dispositivi di restrizione della libertà di movimento dei cittadini migranti. In Homo Sacer, infatti, dopo aver dato per presupposto che "Il campo è lo spazio che si apre quando lo stato di eccezione comincia a diventare la regola", sotto la definizione di "campo" (in quanto paradigma biopolitico dell'occidente contemporaneo) Agamben poneva infatti luoghi anche molto distanti tra loro per epoche, contesti e zone geografiche: dai campi profughi attuali ai campi di concentramento per ebrei durante il periodo nazista, dalle zones d'attente degli aeroporti internazionali francesi ai posti di provvisorio e informale ammassamento di migranti in attesa di deportazione quale fu lo stadio di Bari nel 1991. È ovviamente innegabile che in tutti questi luoghi si vengano a trovare persone prive di uno statuto giuridico che possa attribuire loro dei diritti, primo tra i quali l'arendtiano "diritto ad avere diritti", e rispetto alle quali lo stato di diritto si rende latitante. Ma, se a partire dall'affermazione di questa comune caratteristica la si considerasse sufficiente per definire l'essenza di tutti i luoghi sopra elencati esaurendo il discorso su di essi, si correrebbe forse il rischio di lasciarsi sfuggire la specificità di ciascuno. I centri di detenzione e le zone di concentramento sorti negli ultimi decenni all'interno degli Stati membri dell'Unione europea e dei paesi immediatamente limitrofi ad essa (come ad esempio la Croazia o l'Ucraina ad Est e la Libia e il Marocco a sud), difatti, nascono da dinamiche e bisogni peculiari del sistema economico-politico contemporaneo, e presentano degli elementi distintivi che vanno assolutamente presi in considerazione per poterli interpretare pienamente. Non appare pertanto possibile liquidarli come riproposizione in contesti nuovi di luoghi di "esclusione di una umanità in eccesso", dove una nuda vita uccidibile ma insacrificabile perché priva di valore viene ammassata indistintamente in quanto, come scrive l'antropologo italiano Federico Rahola, si tratterebbe di "Eccedenza strutturale" data dalla creazione di un "surplus umano che non rientra più nel ciclo produttivo e riproduttivo del capitale". I Centri di Permanenza Temporanea italiani, come i giardinetti del X arrondissement, o le enclaves spagnole di Ceuta e Melilla, non hanno infatti, o non hanno soltanto, le caratteristiche dei depositi di carne viva dove durante il XIX e il XX secolo le persone venivano lasciate morire o deliberatamente annientate in quanto appartenenti ad una particolare categoria. Stiamo infatti parlando, prima di tutto, di luoghi "produttivi", ovvero funzionali a un particolare sistema di produzione. Innanzitutto sono luoghi di produzione di un particolare tipo di soggetti che non vengono immobilizzati e definitivamente esclusi, ma il cui possibile sfruttamento e la cui "messa a valore" dipende dal fatto che i loro percorsi vengano di continuo condizionati, spesso stravolti, momentaneamente imbrigliati e, in ogni caso, sempre controllati. Non è improbabile che uno stesso migrante nord africano, ad esempio, sia passato tanto attraverso le enclaves spagnole che i centri di detenzione amministrativa italiani e che si ritrovi oggi nel X arrondissement di Parigi in attesa di trovare un passaggio per l'Inghilterra e che da lì, infine, dopo aver lavorato a nero alimentando le economie sommerse di tutti i paesi che ha attraversato, verrà rispedito indietro fino al luogo di partenza dal quale forse ripartirà di nuovo. Se ancora si vuol parlare di "campi", quindi, bisogna farlo rendendosi conto che nella loro essenza contemporanea si mescolano insieme elementi molto antichi ed elementi assolutamente innovativi, primo tra tutti quello che potremmo definire come la dimensione della "mobilità". Come dimostra l'esempio dei giardinetti del X arrondissement di Parigi, le odierne strategie di controllo e i contemporanei sistemi di repressione della libertà di gran parte della persone del mondo (i migranti), si servono di dispositivi capaci di servirsi della mobilità, di creare dei "giochi di mobilità". I "campi" - per come ce li ha tramandati la tradizione filosofica che ha tenuto fermo un orizzonte di riferimento interpretativo legato soprattutto ai luoghi della II guerra mondiale - sono invece dei dispositivi statici per eccellenza, manifestazioni di un potere volto all'annientamento e forse, proprio per questo motivo, non sono mai stati specificamente analizzati da chi, come Michel Foucault, ha sempre cercato di svelare i dispositivi di un potere destinato invece a produrre delle forze, a farle crescere e a ordinarle piuttosto che a bloccarle, a piegarle o a distruggerle. Se i campi "umanitari" africani per profughi e displaced people possono ancora corrispondere all'idea di fissità ed esclusione/annientamento di donne e uomini "in eccesso" riconoscibile nei campi del secolo scorso e quello stesso "spazio topografico", gli attuali occidentali centri di detenzione e le zone di concentramento informale per stranieri migranti sono invece dei dispositivi di controllo di una mobilità che non si vuole annientare ma utilizzare, attraverso la cui strumentalizzazione e tramite il cui imbrigliamento è possibile creare una classe di soggetti utili sia dal punto di vista economico attraverso il loro sfruttamento come categoria più flessibile e vulnerabile all'interno di una precarizzazione generale del lavoro contemporaneo, che da quello politico-sociale attraverso l'apporto fondamentale che le pratiche di restrizione della libertà dei migranti danno nella costante ricerca di identità in cui è impegnata la nuova Europa tanto verso l'interno, rispetto ai propri cittadini, quanto verso l'esterno, rispetto ai paesi limitrofi.

Approfondire l'analisi di ciò che accade in luoghi come il X arrondissement di Parigi, porta inoltre a prendere in esame anche il ruolo che le energie attive dei migranti hanno all'interno di questo sistema generale di controllo e produzione, senza per questo sminuire l'intollerabile condizione di sfruttamento e le incredibili violenze che questi viaggiatori sono ovunque obbligati a sopportare per il semplice motivo di essere stati costretti o di avere deciso di cambiare la loro vita attraversando una o più frontiere. I parchi pubblici di Square Albine-Satragne e del Jardin Villemin appaiono infatti la risultante di una sorta di paradossale co-gestione degli spazi da parte dei migranti da un lato e delle forze dell'ordine e del sistema che esse rappresentano dall'altro. I migranti possono attraversare Parigi e tentare la loro fortuna verso l'Inghilterra purché sostino all'interno del circuito prestabilito, creato, come già era stato a Sangatte, anche attraverso le pratiche "umanitarie" del distribuire cibo sempre in uno stesso posto e ad una stessa ora, e del fornire un luogo dove è possibile dormire senza rischiare di morire di freddo o quantomeno senza temere di venire svegliati e arrestati nel cuore della notte. Ma queste pratiche di controllo, così come, più in generale, le funzioni particolari di prigioni senza lucchetti che dei giardinetti pubblici in apparenza come tanti altri prendono a svolgere, sono la risposta data alla resistenza degli stessi migranti che, laddove si chiude una via, come era successo a Calais, ne aprono un'altra e un'altra ancora essendo le loro energie sempre in grado di creare dei percorsi soggettivi che costringono il Sistema, a sua volta, a mutare continuamente per adattarvisi.

Si potrebbe allora ipotizzare che il "campo" non sia il singolo centro di permanenza temporanea, di identificazione, di trattenimento o di concentramento informale di migranti che si può trovare dappertutto in giro per l'Europa, ma che, non essendo nessuno di questi un luogo definitivo di annientamento o di arresto ultimo della mobilità, il "campo" si sviluppi piuttosto lungo tutto l'intero percorso - costellato da questi dispositivi di controllo e per questo continuamente mutevole e deviante - che ogni singolo migrante compie nel suo lunghissimo viaggio alla ricerca di un posto dove ci si possa finalmente fermare. Più che un "campo" quindi, potrebbe trattarsi di una sorta di "campo di forza" invisibile creato direttamente attorno al corpo dei singoli migranti, continuamente spostabile insieme a loro e riproducibile e risultante dal corto circuito tra le scelte, la volontà e le energie di questi ultimi, e i tentativi del sistema di condizionarle e metterle a valore attraverso strumenti giuridici, politici e sociali, capaci solo in parte di indirizzare e dirigere un cammino intrapreso a seguito di scelte che rimangono spesso fortemente soggettive. La vera forza del Sistema di controllo sembra pertanto essere quella di aver trovato il modo di reinventare di continuo le condizioni per trarre frutto dal controllo stesso di una mobilità che contribuisce a riprodurre e, paradossalmente, la vera conquista oggi da parte di chi lotta per la propria libertà di movimento, sembra più che mai essere diventato il diritto non di attraversare una frontiera ma di fermarsi dove si è scelto, per rompere il campo di forza, il diritto di restare.