ADIR - L'altro diritto

Accordi di riammissione e direttiva sui rimpatri

Fulvio Vassallo Paleologo, 2007

Malgrado gli accordi di cooperazione e di riammissione conclusi o praticati a livello informale, a livello di intese di polizia, con i paesi del Nord-Africa, e con la Libia in particolare, nonostante il dispiegamento delle missioni FRONTEX, che dal prossimo anno dovrebbero avere carattere permanente, è continuato in questi mesi lo stillicidio di sbarchi a Lampedusa e nel resto della Sicilia. Si tratta di migranti economici costretti all'ingresso clandestino dalla totale mancanza di possibilità di ingresso legale, ed in parte altrettanto consistente, di potenziali richiedenti asilo, in fuga da guerre e persecuzioni etniche alimentate o consentite dai paesi più ricchi che poi chiudono le proprie frontiere di fronte a quella che si definisce come una vera e propria invasione, a rischio anche di produrre infiltrazioni di stampo terroristico.

Preoccupa, in questo quadro, la violazione sempre più evidente dei diritti dei richiedenti asilo, ormai assimilati di fatto, nei paesi di transito ed alle frontiere esterne dell'Unione Europea, ai cd. clandestini. Per loro infatti non rimangono possibilità effettive di ingresso legale, e troppo spesso le autorità di polizia li trattano come comuni migranti irregolari. Salvo poi a rimettere in libertà altri “clandestini” migranti economici, solo perché i centri di detenzione sono ormai stracolmi, magari consegnando loro un ordine di lasciare il territorio nazionale entro pochi giorni, obbligo che di fatto non potrà mai essere adempiuto, in assenza di documenti e di mezzi economici.

Dopo il fallimento delle politiche di blocco e di respingimento delle carrette del mare verso i porti del Nord Africa, la soluzione di tutti i problemi dell'immigrazione sembrerebbe dunque, ancora una volta, tanto a livello nazionale, quanto a livello comunitario, un ulteriore inasprimento della normativa sulle espulsioni, sui respingimenti e sui centri di detenzione amministrativa. E per tentare di rendere “effettivi” i provvedimenti di allontanamento forzato dal territorio nazionale non rimane che inasprire gli accordi di riammissione con i principali paesi di transito e di provenienza, anche su base bilaterale, come l'Italia ha fatto con l'Egitto, all'inizio del 2007.

Si tratta di accordi che sono previsti già nel T.U. sull'immigrazione agli articoli 2, 3 e 21, modificati dalla legge Bossi-Fini, con disposizioni che suscitano ancora gravi sospetti di incostituzionalità perché gli accordi di riammissione, soprattutto nella più recente prassi del governo italiano, sono sottratti alla ratifica parlamentare prevista dall'art. 80 della nostra Costituzione.

Gli stessi accordi, a seconda del loro contenuto, possono violare norme consolidate di diritto internazionale che riconoscono ad ogni persona il diritto di lasciare qualsiasi paese incluso il proprio (Art. 12, comma 2 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, firmato a New York nel 1966 e l'art. 2, comma 2 del Protocollo n.4 aggiunto alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell'uomo). La riammissione di migranti verso stati che non garantiscano il rispetto dei diritti umani fondamentali, ovvero nei quali gli interessati possano essere vittime di trattamenti disumani o degradanti, è tassativamente proibita dall'art. 3 della stessa Convenzione Europea. Analogamente è proibito il rinvio verso stati nei quali non vi è l'effettiva possibilità di accedere alla protezione prevista dalla Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato.

A partire dalle convenzioni di Schengen e di Dublino gli accordi di riammissione, conclusi tra i diversi stati europei ed i paesi di provenienza o di transito dei migranti, sono stati, almeno sulla carta, lo strumento privilegiato che avrebbe dovuto garantire la effettività delle espulsioni e dei respingimenti in frontiera. Nei fatti la loro efficacia è dipesa soprattutto dai rapporti economici e politici tra gli stati, ed è finora mancata una politica comune dell'Unione Europea, prospettiva che appare ancora più lontana dopo l'allargamento a paesi tradizionalmente di transito, come Malta, Cipro, ed alcuni paesi dell'Europa orientale che hanno interessi assai diversi nei rapporti tra l'Unione e gli stati confinanti. Si sta adesso profilando una “cooperazione rafforzata” a 5, tra Spagna, Francia, Gran Bretagna, Germania ed Italia, per risolvere con misure comuni, anche su questo terreno, il problema del cd. “contrasto dell'immigrazione clandestina”. Malgrado si succedano vertici europei tra i Ministri degli interni di questi paesi, si ha però l'impressione che la materia rimanga ancora nell'ambito delle relazioni bilaterali tra stati che intrattengono tra loro relazioni economiche privilegiate (come la Spagna ed il Marocco, o la Libia e l'Italia).

Per capire cosa potrà accadere in futuro, dopo l'allargamento a 27 paesi, occorre ricordare l'incerto percorso dell'Unione Europea in materia di immigrazione ed asilo, dopo le promesse del vertice di Tampere nel 1999. La svolta si è verificata dopo l'11 settembre del 2001, in particolare dopo un documento comune nel quale i rappresentanti dei paesi dell'Unione tracciavano le linee per contemperare la “sicurezza interna” con “i doveri internazionali di protezione”. Da allora, attraverso i vertici di Laeken, nel 2001, di Siviglia, nel 2002, e di Salonicco nel 2003, anche l'ingresso dei potenziali richiedenti asilo, normalmente costretti a seguire percorsi irregolari in quanto privi di documenti, è stato considerato alla stessa stregua dell'ingresso irregolare dei migranti economici, soprattutto per quanto concerne la limitazione della libertà personale, che in passato costituiva un fatto eccezionale. La stessa confusione tra migranti economici e richiedenti asilo, nella totale assenza di servizi indipendenti alle frontiere e di veri centri di accoglienza, è stata utilizzata per criminalizzare qualunque ingresso che avvenisse nella clandestinità, anche quando si trattava di persone evidentemente in fuga da guerre e persecuzioni. Addirittura si è proposto di contingentare il numero delle richieste di asilo, fortunatamente senza arrivare a questa mostruosità con una normativa comunitaria, ma si è giunti allo stesso risultato per via amministrativa, con una percentuale enorme di dinieghi. Anche l'istituto del ricongiungimento familiare è stato duramente intaccato e numerosi minori sono stati costretti all'ingresso clandestino per raggiungere i loro familiari.

Nei cinque anni di applicazione del Trattato di Amsterdam (1999-2004) l'Europa non è stata neppure capace di adottare direttive vincolanti che consentissero effettive possibilità di ingresso per i migranti in cerca di occupazione e per i richiedenti asilo o protezione umanitaria, riuscendo a trovare una intesa solo su misure sempre più restrittive, come per il riconoscimento reciproco dei provvedimenti di espulsione o i rimpatri congiunti, direttive che però sono spesso rimaste sulla carta anche per la diversità di interpretazioni nelle diverse applicazioni a livello nazionale.

In base all'art. 63 del Trattato CE il Consiglio avrebbe dovuto concludere entro maggio del 2004 accordi di riammissione o includere clausole standard di riammissione negli accordi di cooperazione economica e di associazione. Queste intese sono sostanzialmente fallite per le diverse posizioni dei partners europei nei rapporti con i paesi di origine e di provenienza (e sulla distribuzioni delle enormi spese delle politiche di sbarramento delle frontiere e di rimpatrio forzato).

Si è pensato di potere convincere con aiuti economici i paesi di transito, in modo che questi provvedessero direttamente al blocco ed all'internamento dei migranti irregolari, compresi quelli che, una volta giunti in Europa, avrebbero potuto presentare con buone probabilità di successo una domanda di asilo. Il principio della cd. condizionalità migratoria, che avrebbe subordinato le politiche degli aiuti economici alla “collaborazione” nella riammissione dei migranti irregolari, proposto inizialmente dal ministro degli interni inglese Blunkett nel Consiglio di Salonicco del 2003, non è stato mai approvato con una direttiva esplicita, malgrado il sostegno prontamente offerto dal governo Berlusconi e dal governo Aznar.

Negli ultimi anni, tuttavia, si può ritenere che il principio della condizionalità migratoria abbia fortemente condizionato le relazioni tra i paesi europei e gli stati africani maggiormente interessati per la loro posizione geografica al transito dei migranti irregolari diretti verso l'Europa. Dopo il fallimento della proposta Blunkett, gli accordi di riammissione a carattere bilaterale sono rimasti lo strumento centrale delle politiche migratorie dei principali paesi europei. Solo negli ultimi anni si è assistito alla stipula di accordi di riammissione multilaterali, tra l'Unione Europea, da una parte, e singoli stati di transito o di provenienza, dall'altra. Sono così stati stipulati gli accordi tra l'Unione Europea e la Moldavia, l'Ucraina, l'Albania, mentre ancora manca una conclusione agli sforzi che diverse agenzie dell'Unione Europea hanno rivolto ai paesi nordafricani per riuscire a concludere accordi multilaterali aventi ad oggetto l'immigrazione. Si sono invece moltiplicati gli accordi bilaterali.

Il contrasto all'immigrazione clandestina, proprio grazie agli accordi bilaterali di riammissione, stipulati dai principali paesi europei, si è tradotto così nello sbarramento dei percorsi, sempre più rischiosi, dell'immigrazione irregolare, l'unica via consentita di fatto per raggiungere l'Europa e nella negazione sostanziale del diritto di asilo e di protezione umanitaria. Gli accordi bilaterali di riammissione sono stati negoziati o sottoscritti con paesi, come la Libia e la Turchia, che non riconoscevano il diritto di asilo, né rispettavano i diritti fondamentali della persona, giungendo a praticare sistematicamente la detenzione in isolamento, senza la possibilità di contatti con familiari o avvocati, la tortura ed altri trattamenti inumani o degradanti, prevedendo ancora nella legislazione interna la pena di morte. Ma la situazione dei diritti umani non è migliore in altri paesi come la Tunisia, lo Sri Lanka, la Nigeria ed il Pakistan, con i quali l'Italia, al pari degli altri paesi europei, ha concluso accordi bilaterali di riammissione tanto efficaci da comportare “in premio” modeste quote annuali di ingresso “riservato”.

In molti casi, gli accordi di riammissione hanno consentito la esecuzione di vere e proprie espulsioni collettive, vietate dalle convenzioni internazionali, in quanto le forme di riconoscimento da parte dell'autorità diplomatica del paese ricevente sono state tanto sommarie da non consentire neppure una attribuzione certa della nazionalità (si pensi al cittadino della Sierra Leone, richiedente asilo, salvato nel 2004 dalla nave tedesca Cap Anamur e accompagnato dalle nostre autorità in Ghana, con documenti di viaggio rilasciati dall'ambasciata di questo paese).

In questi anni si è avuta anche notizia di numerosi casi di respingimento di potenziali richiedenti asilo, e di detenzione in condizioni disumane e degradanti, come si è verificato nel caso degli eritrei detenuti nel carcere di Misurata ed in altri luoghi di detenzione, anche fosse scavate nel deserto, persone che una volta giunti in un paese di transito come la Libia, sono stati consegnati dalle autorità di polizia di quello stato ai paesi dai quali fuggivano, come il Sudan, e dove avrebbero trovato imprigionamenti arbitrari, torture, e nei casi più gravi, la morte.

Anche l'Italia che nel 2002 deportava in Siria una famiglia di richiedenti asilo, inaugurando nel modo peggiore la legge Bossi Fini che consente respingimenti in frontiera immediati anche nei confronti dei richiedenti asilo, ai quali si è finora impedito persino la possibilità di verbalizzare la propria istanza, nei casi in cui la polizia ritenesse la domanda “manifestamente strumentale”. I respingimenti collettivi “con affido”, anche ai danni di minori non accompagnati, provenienti nei porti di Bari, Ancona e Venezia dalla Grecia e dalla Turchia, confermano ancora nel corso del 2007 come le prassi di polizia alle frontiere marittime continuino ad ignorare gli standard minimi di rispetto della persona umana e dei soggetti più vulnerabili come i minori.

Non stupisce quindi che l'impegno di collaborazione che da anni l'Italia assicura alla Libia, nella formazione delle forze di polizia, nell'assistenza e dunque nella presenza nei cd. centri di accoglienza, e nelle operazioni di allontanamento forzato, trascuri sistematicamente le gravi violazioni ai danni dei migranti irregolari in quel paese, tacendo su vicende sulle quali soltanto di recente fonti giornalistiche indipendenti stanno facendo luce. Per la stampa ufficiale invece, ogni missione di nostri rappresentanti di governo in Libia segna un punto di progresso nelle relazioni tra i due stati ed un avanzamento della collaborazione nel contrasto dell'immigrazione clandestina.

Sarebbe importante ricordare quali sono le forze di polizia straniere con le quali i nostri agenti hanno collaborato stabilendo nei paesi di transito una fitta rete di “ufficiali di collegamento”. Come testimoniato da decine di profughi giunti nel nostro paese, e come risulta anche da diverse inchieste giornalistiche, le autorità di polizia straniere incaricate di dare esecuzione agli accordi di riammissione, soprattutto nei paesi di transito del Nordafrica, risultano generalmente corrotte, al punto che gli stessi profughi vivono spesso il rimpatrio ed passaggio da una frontiera ad un'altra come il pagamento di un “pedaggio” che può aprire anche la strada verso un successivo ritorno nel paese dal quale si era stati appena espulsi.

I successi che venivano intanto vantati dai governanti europei, artefici di questi accordi di riammissione hanno avuto un sicuro effetto propagandistico ed elettorale, ma si sono tradotti in un aumento esponenziale delle vittime dei viaggi della speranza. Se una riduzione degli ingressi irregolari si produceva su un fronte, immediatamente si apriva un altro canale di ingresso, quando non venivano meno i fattori di spinta che in alcuni anni avevano accresciuto la pressione migratorio (come il Kosovo nel 1999 e nel 2000, o l'Irak, prima che la guerra sbarrasse le frontiere alla maggior parte dei profughi che provenivano da quel paese). Altre volte la pressione migratoria diminuiva per nuovi processi di colonizzazione economica, come nel caso dell'Albania, oppure per strategie militari internazionali, come nel caso del popolo Curdo, diviso tra la speranza di indipendenza in Turchia, ed il miraggio di una vera autonomia nel nord dell'Irak. Sulla porta, appena socchiusa, dell'ingresso per ricerca di asilo si sono scaricate poi tutte le tensioni derivanti dal fallimento delle politiche dei flussi di ingresso, e dai reiterati allarmi contro il terrorismo internazionale.

E' sicuramente fallita, in questo quadro, la politica che offriva quote più consistenti di flussi di ingresso per lavoro come ricompensa per quei paesi che praticavano regole più severe di blocco dei migranti clandestini. Come è con fermato dalla tragica lotteria dei decreti flussi, fonte peraltro di speculazioni di ogni tipo, le poche centinaia di posti disponibili per gli ingressi legali “agevolati” per i cittadini degli stati che collaborano nella esecuzione delle espulsioni, e le difficoltà accresciute dalla legge Bossi-Fini di un incontro a distanza tra domanda ed offerta di lavoro, hanno praticamente svuotato di effetti pratici la clausola, tipica di molti accordi di riammissione, che garantisce ai paesi che collaborano nella riammissione di immigrati irregolari un trattamento preferenziale nella determinazione annuale delle quote di ingresso legale.

Gli accordi di riammissione e la esternalizzazione dei controlli di frontiera hanno comunque impedito che i potenziali richiedenti asilo raggiungessero i paesi europei e hanno costituito la base per legittimare la detenzione amministrativa di profughi e migranti economici, con la delocalizzazione ai confini meridionali ed orientali dei centri di trattenimento. Gli stessi accordi, sono così diventati il perno di quel sistema che consentiva le espulsioni con accompagnamento immediato in frontiera, senza alcun controllo sostanziale da parte del magistrato, sistema che, anche secondo quanto rilevato nel 2004 (sentenze n. 222 e 224) dalla Corte Costituzionale italiana, negava qualsiasi diritto di difesa. Le successive riforme legislative hanno aggirato i rilievi della Corte costituzionale, prevedendo una sede di controllo giurisdizionale affidato ai giudici di pace con tempi e modalità operative che non hanno impedito l'accompagnamento immediato in frontiera prima ancora che l'autorità giurisdizionale potesse pronunciarsi in sede di ricorso sulla legittimità del provvedimento di espulsione o di respingimento.

In materia di accordi di riammissione si deve segnalare una sostanziale continuità tra le linee seguite dal governo Berlusconi e le posizioni dei governi di centro sinistra che hanno preceduto e seguito quell'esperienza. Tra i sedici accordi di riammissione conclusi prima del 2001, va segnalata l'esperienza pilota dello “Scambio di note tra l'Italia e la Tunisia concernente l'ingresso e la riammissione delle persone in posizione irregolare” concluso il 6 agosto 1998 con il quale si prevedevano supporti tecnici ed operativi e contributi economici (15 miliardi di lire per tre anni), ed in particolare un contributo di 500 milioni di vecchie lire per “la realizzazione in Tunisia di centri di permanenza”. Oggi la Tunisia si è dotata di numerose strutture di trattenimento coatto, ben oltre il modesto contributo annunciato allora dal Governo italiano e la maggior parte dei centri di detenzione amministrativa per immigrati irregolari è ubicata in località segrete. Eppure dalla Tunisia continuano a giungere migliaia di migranti “clandestini”, mentre si ha pure notizia di respingimenti in mare effettuati di concerto tra le autorità di quel paese e le autorità italiane. Su quali basi saranno rinegoziati i nuovi accordi di riammissione tra l'Italia e la Tunisia e poi su scala europea?

Dalla Tunisia alla Libia lo scenario non muta ed i trafficanti scelgono le rotte più convenienti a seconda dell'altalena dei rapporti politici. Di fatto molte “carrette” del mare, stracariche di cd. “clandestini” sfuggono ai controlli, anche per la compiacenza della polizia libica, e giungono fino a poche miglia dalle coste siciliane. Cosa potranno fare adesso gli agenti di collegamento italiani presenti in Libia, in Tunisia ed in Egitto? Forse potranno soltanto certificare che anche migranti di paesi terzi sono giunti in Italia attraversando la Libia o l'Egitto, consentendo così ai governi europei la espulsione di cittadini di paesi di nazionalità diversi per i quali sia però comprovata la provenienza da un paese di transito come l'Egitto o la Libia. Tutti gli accordi di riammissione prevedono infatti la previsione che il paese contraente sia tenuto ad accettare la riammissione di cittadini di stati terzi, purché lo stato che effettua l'allontanamento forzato fornisca la prova che le persone sono arrivate sul territorio nazionale attraverso il paese di transito.

E' evidente il calcolo politico del governo libico che intende mostrarsi partner affidabile degli stati europei, utilizzando strumentalmente i destini di migliaia di migranti, nessuno dei quali è libico- va ricordato- per ottenere vantaggi economici o qualche fornitura militare, adesso anche di tecnologie nucleari, alla ricerca di un nuovo equilibrio tra lo sfruttamento estremo attuato sulla manodopera straniera (fino a forme di riduzione in schiavitù) che si trova a transitare o a rimanere in Libia anche per anni, e le richieste di controllo sulle partenze avanzate dai paesi europei. Quali garanzie per i diritti fondamentali della persona umana? Dobbiamo rassegnarci a considerare il migrante irregolare una non-persona?

Il Libro Verde sul rimpatrio delle persone che soggiornano illegalmente in Europa ribadiva nel 2002 che le politiche di rimpatrio dei paesi dell'Unione devono rispettare non solo la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati ed il Protocollo di New York del 1967, ma anche le disposizioni della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e la Carta dei diritti fondamentali approvata a Nizza nel 2000, che sancisce il diritto di asilo e vieta le espulsioni collettive. Adesso, con l'approvazione del mini trattato di Lisbona, la Carta di Nizza assumerà valore vincolante, incluso il divieto di espulsioni collettive, e la Corte di giustizia dell'Unione Europea potrebbe- se solo lo volesse- intervenire per sanzionare gli abusi ed i trattamenti disumani e degradanti che gli stati europei pongono in essere o consentono, ai danni dei migranti irregolari. Eppure la Libia non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra e gli altri paesi nordafricana riconoscono in pochissimi casi i documenti che accordano la protezione internazionale rilasciati dagli uffici dell'ACNUR.

In attesa che l'Europa trovi un accordo su posizioni più rispettose dei diritti della persona, dovrebbe essere completamente rivista dal Parlamento la normativa nazionale in materia di immigrazione, asilo, protezione umanitaria e accordi di riammissione, sia per il suo possibile contrasto con le normative internazionali ed interne in materia di diritti fondamentali, sia perché le azioni di polizia attuate sulla base di tali accordi sono sottratte ad ogni effettivo controllo giurisdizionale. La materia degli accordi di riammissione è un tassello importante della nostra politica estera e non può essere rimessa ad accordi informali tra le forze di polizia, o ai decreti dei Ministri degli interni e degli esteri. Gli accordi già stipulati vanno revocati o comunque rinegoziati, ed eventuali accordi futuri, comunque discussi ed approvati dal Parlamento, dovranno essere strettamente conformi alle norme internazionali e costituzionali sulla tutela dei diritti fondamentali della persona.

A livello nazionale tuttavia, il percorso della nuova legge sull'immigrazione appare assai lento, se non sarà bloccato del tutto, dai veti dei “centristi” della maggioranza che vedono su questa questione un terreno ideale per scardinare l'intesa di governo, già gravemente compromessa dalle reiterate inadempienze del programma elettorale, in tema di immigrazione e asilo. Inadempienze comprovata dalla mancata chiusura dei centri di identificazione, così come sollecitato persino dalla Commissione De Mistura, nominata dal governo nel 2006.

Ma anche a livello europeo non è facile nutrire troppe speranze, e le prospettive più favorevoli appaiono quelle di un compromesso che almeno eviti un contrasto tra le nuove direttive comunitarie e il quadro consolidato della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'Uomo, alla quale gli stati europei non possono sottrarsi, sia per i richiamo espressi alla CEDU contenuti in diverse fonti comunitarie, sia perché comunque fanno parte del Consiglio d'Europa e sono dunque soggetti alla giurisdizione della Corte di Strasburgo.

Preoccupa particolarmente l'involuzione sicuritaria delle normative comunitarie. Il quadro attuale della direttiva rimpatri rimane assai controverso dopo anni di discussioni e di revisioni sostanziali dei testi. Dopo un voto peggiorativo da parte della Commissione LIBE del Parlamento Europeo, le contraddizioni sono riemerse alla fine di novembre, e la direttiva che avrebbe dovuto essere approvata entro il 2007 con la procedura della codecisione, e dunque con un sostanziale intervento del Parlamento Europeo, è (fortunatamente) slittata al primo semestre 2007, a presidenza slovena.

Come affermato dalle principali associazioni antirazziste europee “La Commissione LIBE enuncia, inoltre, i principi provenienti da norme internazionali alle quali sono tenuti gli Stati membri: non espulsione dei richiedenti asilo (Convenzione di Ginevra del 1951), interesse superiore dell'infanzia (Convenzione Internazionale sui Diritti dell'infanzia 1990), protezione della vita privata e familiare (articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo)”. Nessuna disposizione specifica però garantisce in modo sistematico la loro messa in opera. Questi riferimenti, specialmente alla Convenzione Europea dei diritti umani e agli obblighi in materia di diritto d'asilo, appaiono, al contrario, contraddittori con il contenuto della direttiva e quindi usato soprattutto in senso giustificativo e propagandistico. Nel procedere all'espulsione si dovranno applicare con rigore i principi contenuti nella Convenzione Europea dei Diritti umani e nelle altre Convenzioni Internazionali (tra tutte ricordiamo il principio di non refoulement contenuto nella Convenzione di Ginevra). Non solo, ma di questi principi bisogna tener conto sia quando ad agire sono i governi dell'UE, sia quando sono altri governi per conto di questi ultimi. È il caso della Libia che, attraverso un accordo mai reso pubblico con il Ministero dell'Interno italiano, ha effettuato espulsioni verso aree in cui sono in corso guerre e persecuzioni, contravvenendo al principio di non refoulement “per conto dell'Italia”.

L'aspetto più grave della direttiva riguarda la detenzione amministrativa il cui termine massimo viene portato a sei mesi, e qualche stato europeo vorrebbe fino a diciotto mesi addirittura, con previsioni che affidano ai legislatori nazionali la più ampia discrezionalità per stabilire quando ricorrano “rischi di fuga” o una “minaccia per l'ordine pubblico”. Questa ampia discrezionalità e la maggiore durata della detenzione amministrativa consentiranno la utilizzazione dei centri di permanenza temporanea come strutture destinate a sanzionare la presenza irregolare, piuttosto che come luoghi nei quali si rimane il tempo strettamente necessario per la esecuzione della misura dell'espulsione, anche perché il quadro assai frastagliato degli accordi di riammissione e la loro scarsa operatività lasciano prevedere situazioni assai differenziate tra loro, con migranti che avranno elevate possibilità di accompagnamento forzato in frontiera (come gli egiziani) ed altri (come i marocchini) che potranno contare su una minima possibilità che i loro consolati forniscano i documenti di viaggio necessari per l'esecuzione dell'espulsione o del respingimento.

Il regime dei centri di detenzione amministrativa delineato dalla nuova direttiva comunitaria rimane sostanzialmente immutato rispetto alla situazione attuale, malgrado gli innumerevoli abusi che sono stati verificati in questi anni. Desta un particolare allarme la limitazione all'ingresso da parte delle associazioni che non hanno stipulato un accordo con le autorità di polizia per cogestire i centri di detenzione amministrativa. Si ripropongono ancora una volta i rischi che manchi una effettiva assistenza legale e che gli interpreti lavorino più per portare avanti le indagini di polizia che per fare comprendere ai migranti cosa sta succedendo loro e quali possibilità abbiano dopo il loro arrivo in Europa.

Sembra particolarmente grave che la cancellazione dei richiami alle precedenti direttive sull'accoglienza, sullo status e sulle procedure, in quanto la mancanza di riferimenti a tali documenti, già trasposti negli ordinamenti interni di molti paesi comunitari, attribuisce alla direttiva sui rimpatri una sorta di superiorità gerarchica che potrà condizionare negativamente anche le poche disposizioni già emanate dall'Unione Europea a favore dei migranti, come il principio, già contraddetto nella direttiva rimpatri e nella prassi di molti paesi membri, che vieta l'internamento nei centri di detenzione di quanti fanno richiesta di asilo o di protezione umanitaria.

Anche il sistema di garanzie giurisdizionali previsto dalla direttiva comunitaria appare ancora rimesso alla discrezionalità del legislatore nazionale, e sembra ancora in discussione, tra le altre cose, anche l'obbligo della polizia di comunicare entro 48 ore all'autorità giudiziaria l'adozione di provvedimenti limitativi della libertà personale di migranti irregolari.

Non sembra che sia stato raccolto l'auspicio di chi proponeva l'obbligo di adeguata motivazione per tutti i provvedimenti e la necessità di tener conto dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità, ogni provvedimento dovendo aver riguardo ad una situazione individuale, non già collettiva (Nascimbene). Rimane altresì elusa la garanzia del principio sospensivo del ricorso contro la decisione di allontanamento forzato. Per quanto riguarda l'accompagnamento, la previsione di un divieto assoluto di (refoulement) respingimento verso determinati Paesi, come ad esempio la Libia, sarebbe senz'altro auspicabile. Ma l'andamento delle relazioni politiche ed economiche tra i principali paesi europei e i paesi di transito, come appunto la Libia, che sono ben lontani dal rispetto dei diritti fondamentali della persona, e che neppure hanno ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, non lasciano presagire nulla di buono.

Si dovrebbe almeno proporre una listadi Paesi, da aggiornare periodicamente, verso i quali non si può espellere; una sorta di clausola generale, del tipo di quella prevista dalla legge italiana. Tale clausola dovrebbe avere il seguente contenuto: “è vietata l'espulsione della straniero verso uno Stato in cui può essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, sesso, lingua, cittadinanza, religione, opinioni politiche, condizioni personali o sociali, oppure verso uno Stato dove possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato in cui non sia protetto dalla persecuzione” (in questi termini l'art. 19, sui divieti di espulsione e respingimento, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 contenente il testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).

Qualunque sia il punto di compromesso che si raggiungerà, la futura direttiva sui rimpatri non potrà risultare in contrasto con le disposizioni che trattano di espulsione di stranieri nell'impianto normativo costituito dalle Costituzioni nazionali (e dunque per l'Italia gli articoli 10, 13 e 24 della Costituzione) e dai Protocolli addizionali della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell'uomo in particolare l'art. 4 Prot. n. 4 e art. 1 Prot. n.7, concernente il divieto di espulsioni collettive, adesso richiamato esplicitamente nella Carta di Nizza.