ADIR - L'altro diritto

Il governo italiano nega il diritto alla vita

Fulvio Vassallo Paleologo, 2009

Le violazioni del diritto comunitario ed internazionale da parte dell'Italia derivanti dalle direttive impartite dal Ministro dell'interno Maroni in ordine agli accordi di cooperazione di polizia ed al Trattato di amicizia del 2008, incluso il Protocollo operativo del 27 dicembre 2007, stipulati con la Libia.

1. Respingimento e detenzione amministrativa in Libia, diritto di asilo e diritti fondamentali della persona

Venerdì 7 maggio sono stati riportati in Libia i 227 emigranti e rifugiati (cittadini di Nigeria, Ghana, Gambia, Costa d'Avorio, Somalia e Mali) - tra cui 40 donne, tre delle quali incinte - soccorsi ieri a circa 35 miglia a sud est di Lampedusa dalle autorità italiane. Dopo una giornata di infruttuose trattative con il governo maltese sulla responsabilità dei soccorsi, l'Italia è riuscita a strappare a Tripoli il consenso per la riammissione in Libia dei naufraghi. Nessuno dei passeggeri è stato identificato, nessuno degli eventuali minori non accompagnati è stato tutelato, nessun rifugiato è stato messo nelle condizioni di chiedere asilo politico, e nessun medico ha verificato le condizioni di salute dei naufraghi. Prassi che sulla terra ferma sono obblighi previsti dalla legge. Ma non in mare aperto, nelle acque internazionali, fuori dalle frontiere e dallo stato di diritto.

Maroni ha rivendicato quanto accaduto come "un risultato storico" e annunciato che sarà la prassi della prossima stagione di sbarchi. Anche il capo del governo Berlusconi ha sostenuto e rinforzato la decisione del ministro dell'interno, annunciando che in futuro l'Italia proseguirà con i respingimenti di immigrati irregolari nelle acque internazionali allo scopo di impedire loro di raggiungere il limite delle acque territoriali.

In totale, alla sera del 10 maggio cinquecento immigrati risultavano respinti in cinque giorni, condotti in Libia da unità della Marina militare e della Guardia di finanza, e in un caso da un rimorchiatore italiano di servizio presso una piattaforma petrolifera. Anche domenica 10 è stata applicata la politica dei "respingimenti" in acque internazionali: Oltre 200 migranti, tra i quali c'erano almeno 42 donne e due neonati, sono stati riportati a Tripoli a bordo del pattugliatore Spica della Marina Militare. Il bollettino «di guerra» lo aggiorna il ministro dell'Interno Roberto Maroni che, al suo arrivo agli Stati Generali della Lega a Vicenza, ha annunciato trionfante: "Questa mattina mi ha chiamato il capo della polizia Antonio Manganelli. Mi ha detto: alle 8.15 abbiamo riportato a Tripoli altri 240 clandestini. In totale sono circa 500 negli ultimi cinque giorni". Gli extracomunitari saranno trasferiti in un centro di detenzione libico così come gli altri 227 accompagnati a Twescha, a 35 chilometri da Tripoli, tre giorni fa.

Come riportato da diversi mezzi di informazione italiani e stranieri, e secondo il parere di molte associazioni umanitarie, dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, e di diversi giuristi, come si dirà più avanti, "le espulsioni collettive di migranti dall'Italia alla Libia costituiscono una violazione del principio di non refoulement (art. 33) sancito dalla Convenzione di Ginevra in materia di asilo. Gli stessi respingimenti appaiono ledere l'art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell'uomo, e configurano veri e propri respingimenti collettivi vietati dall'art. 4 del protocollo 4 annesso alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell'uomo, oltre che dall'art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. Le autorità italiane non hanno rispettato gli obblighi internazionali che impongono di condurre le persone salvate in acque internazionali in un posto sicuro (place of safety)" e la Libia non può certo definirsi come "posto sicuro" alla luce di numerosi rapporti internazionali e per la mancata adesione di questo paese alla Convenzione di Ginevra. Sono già decine le testimonianze di migranti ricondotti in Libia dall'Italia che sono stati sottoposti ancora una volta a carcerazione arbitraria ed a ogni tipo di abusi (vedi allegati)

La violazione del diritto internazionale e del diritto comunitario assume rilievo e va sanzionata anche se è stata commessa con una serie di atti illegali di respingimento ordinati dal governo italiano, eseguiti dalle forze di polizia o sotto la sorveglianza delle forze di polizia italiana, con la collaborazione attiva delle forze di polizia libiche, con comportamenti eseguiti iniziati nelle acque internazionali e conclusi in territorio libico, con la consegna fisica delle persone salvate in mare alle autorità del ministero dell'interno libico.

Non è la prima volta che l'Italia viola i principi del diritto internazionale nelle operazioni di respingimento di immigrati irregolari. In passato queste violazioni avvenivano sul territorio nazionale e non solo in acque internazionali, dove si era verificato nel 2004 il caso Cap Anamur. L'Italia à stata già sanzionata per la violazione del divieto di espulsioni collettive. Era il 14 aprile del 2005 e il Parlamento Europeo adottava una risoluzione di condanna contro le deportazioni collettive con cui il Governo italiano aveva espulso in Libia 1.500 persone intercettate al largo di Lampedusa tra l'ottobre 2004 e il marzo 2005. "Il parlamento europeo - continuava la risoluzione su Lampedusa P6_TA(2005)0138 - è profondamente preoccupato sul destino di centinaia di richiedenti asilo respinti in Libia, dal momento che questo paese non ha firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, non ha un sistema d'asilo, non offre garanzie effettive per i diritti di rifugiati, e pratica arresti arbitrari detenzioni e espulsioni". Un mese dopo, il 10 maggio del 2005, la Corte europea dei diritti umani sospendeva l'espulsione da Lampedusa di 11 cittadini stranieri sbarcati a marzo e che avevano presentato ricorso. Quattro anni dopo, ciò che ieri era illegale è divenuto regola d'ingaggio dei pattugliamenti di Frontex partiti la settimana scorsa nel Canale di Sicilia.

Già nell'agosto del 2006 L'Asgi, associazione studi giuridici sull'immigrazione, esprimeva la propria ferma contrarietà e preoccupazione all'annuncio dato dal nuovo Governo italiano sull'avvio di pattugliamenti europei nel Mediterraneo, non essendoci garanzia alcuna che essi sarebbero stati di aiuto e non di respingimento dei migranti e dei richiedenti asilo. Come si legge in un comunicato di questa associazione

tali pattugliamenti, da attuarsi con unità navali congiunte tra più paesi europei, appaiono finalizzati a contrastare l'arrivo di cittadini stranieri in fuga sulle cosiddette "carrette del mare" verso le coste italiane.
A causa della perdurante scelta politica di sostanziale chiusura di effettivi canali di ingresso regolare nell'Unione Europea, si assiste ogni anno ad un progressivo incremento degli ingressi irregolari realizzati con natanti sempre più piccoli ed insicuri, per sfuggire ai crescenti controlli. Le grandi organizzazioni criminali che gestiscono il traffico trovano così modo di arricchirsi sempre di più, rimanendo al riparo e limitandosi a "vendere" il viaggio, comprensivo di imbarcazione e rifornimenti, a migranti che non dispongono di altro modo di fare ingresso nell'Unione Europea. L'inasprimento dei controlli, ben lungi dallo scoraggiare il fenomeno dell'immigrazione irregolare lo alimenta e le conseguenze di tale circuito vizioso ricadono solo sulle vittime di tale traffico con esiti sempre più tragici.
Inasprire i controlli in mare allo scopo di scoraggiare gli arrivi rappresenta quindi un grave errore, foriero di nuove tragedie. Particolarmente grave appare l'annuncio, dato dal Governo italiano, di volere procedere ad pattugliamento al limite dei confini territoriali marittimi con la Libia allo scopo di contrastare l'uscita delle imbarcazioni dai porti e restituire i migranti stessi alle autorità libiche.

La Libia è un paese che non dà alcuna garanzia di tutela dei diritti fondamentali dell'Uomo ed in particolare dei potenziali richiedenti asilo, non avendo, come è noto, ad oggi, neppure ratificato la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati.

Queste posizioni sono state riprese da diverse organizzazioni umanitarie dopo il blocco dei migranti irregolari in mare, in acque internazionali e la loro riconsegna alle autorità libiche. Medici Senza Frontiere Italia ha criticato duramente gli ultimi respingimenti verso la Libia compiuti dal governo italiano: «E' un atto illegale - sostiene l'organizzazione - fuori da ogni legislazione italiana ed internazionale». Secondo MSF «Allontanare persone dall'Italia senza averle identificate e senza permettere l'accesso, per chi ne ha diritto, alle procedure sul diritto d'asilo - ha precisato De Filippi - è un comportamento illegale al di fuori di ogni legislazione nazionale ed internazionale». E poi - si chiede l'operatore di Msf - «cosa accade a queste persone una volta rimpatriate? Ad esempio si sa che la Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra. Questi rimpatri sono un fatto gravissimo». Critiche da Msf vengono mosse anche all'allontanamento in mare di migranti, un'azione «contro persone in difficoltà e - ha precisato De Filippi - lo testimoniamo anche noi che da anni siamo presenti a Lampedusa e Malta. Ogni trasporto arbitrario rappresenta una violazione gravissima che in alcuni casi mette a rischio anche la vita delle persone, spesso invece hanno diritto all'asilo».

L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) l'8 maggio 2009 ha espresso "grave preoccupazione per la sorte di circa 230 migranti soccorsi ieri da motovedette della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza nella zona marittima SAR (Search and Rescue) di competenza maltese e ricondotti in Libia senza un'adeguata valutazione delle loro possibili necessità di protezione internazionale. I salvataggi sono avvenuti a circa 35 miglia a sud-est di Lampedusa ma in acque SAR maltesi".

Si ricorda come "la decisione di ricondurre i migranti in Libia è giunta al margine di una giornata di accese discussioni fra il governo maltese e le autorità italiane su chi fosse responsabile del soccorso e dello sbarco dei passeggeri delle tre barche in difficoltà. Sebbene non siano disponibili informazioni sulle nazionalità di origine dei migranti, si ritiene probabile che fra le persone respinte ci siano individui bisognosi di protezione internazionale. Nel 2008 circa il 75% di coloro giunti in Italia via mare ha fatto richiesta di asilo e al 50% di questi è stata concessa una forma di protezione internazionale. "Rivolgo un appello alle autorità italiane e maltesi affinché continuino ad assicurare alle persone salvate in mare e bisognose di protezione internazionale pieno accesso al territorio e alla procedura di asilo nell'Unione Europea" - ha dichiarato l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati António Guterres.

Sempre secondo l'UNHCR, questo incidente mostra un radicale mutamento nelle politiche migratorie del governo italiano e rappresenta fonte di grave preoccupazione. L'UNHCR esprime profondo rammarico per la mancanza di trasparenza che ha caratterizzato lo svolgersi di questo episodio. "Finora abbiamo lavorato in stretta collaborazione con le autorità italiane a Lampedusa e in tutto il paese per garantire che le persone in fuga da guerre e persecuzioni ricevano protezione in linea con la Convenzione di Ginevra del 1951. E' di fondamentale importanza che il principio internazionale di non- respingimento continui ad essere integralmente rispettato" ha sottolineato Laurens Jolles, Rappresentante dell'UNHCR in Italia. Va inoltre ricordato che la Libia non ha aderito alla Convenzione sui rifugiati del 1951 e non dispone di un sistema nazionale d'asilo efficiente. L'UNHCR esorta le autorità italiane a riconsiderare la loro decisione e a far sì che questa prassi non si ripeta.

Secondo il Tavolo Asilo, che riunisce diverse associazioni italiane che si occupano dei rifugiati e dei richiedenti asilo, le modalità alla base dell'operazione, svolta in aperta violazione delle norme che tutelano i richiedenti asilo dal refoulement (art. 33 della Convenzione di Ginevra e art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani) non sono note. Anche dopo la firma e la frettolosa ratifica dell'accordo quadro tra Italia e Libia da parte del Parlamento, lo scorso febbraio, la gran parte dei contenuti concreti delle intese tra i due paesi in materia di immigrazione resta inaccessibile alla società civile, nonostante le ripetute richieste di trasparenza da parte degli organismi internazionali.

Per lungo tempo, senza ricevere mai alcuna risposta, le organizzazioni umanitarie hanno chiesto alle autorità italiane cosa sarebbe accaduto ai diritti e alle stesse vite delle persone fermate in mare e rinviate in Libia sulla base dell'accordo tra Roma e Tripoli. La Libia non ha una procedura di asilo e non ha sinora offerto alcuna garanzia di protezione. L'operazione svolta questa notte da unità navali Italiane, senza consentire l'accesso al territorio Italiano e alla procedura d'asilo alle 227 persone coinvolte, pone dunque interrogativi drammatici.

Le organizzazioni del Tavolo Asilo ritengono le autorità Italiane responsabili delle operazioni di respingimento verso la Libia e delle loro conseguenze per i diritti umani delle 227 persone respinte il 7 maggio che, secondo le ultime scarne notizie disponibili si troverebbero a Tripoli.

2. I principi di diritto comunitario sulle frontiere esterne e le norme violate dall'Italia

Il trasbordo di centinaia di migranti su navi militari italiane e la loro riconsegna alle autorità libiche l'Italia ha violato il Regolamento CE n. 562/2006 (che istituisce un codice comune relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone) in quanto:

al punto n. 7 del Preambolo si stabilisce che "Le verifiche di frontiera dovrebbero essere effettuate nel pieno rispetto della dignità umana. Il controllo di frontiera dovrebbe essere eseguito in modo professionale rispettoso ed essere proporzionato agli obiettivi perseguiti";

Non è stata affatto rispettata la dignità dei migranti, consegnati alle autorità libiche nonostante non siano cittadini di quel Paese e nel quale sono certamente sottoposti a trattamenti inumani e degradanti per la sola condizione di migranti irregolari, come è oramai pacificamente accertato in numerosi Reports internazionali.

Al punto 20 del medesimo Preambolo si afferma che "Il presente regolamento rispetta i diritti fondamentali ed osserva i principi riconosciuti, in particolare, dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Dovrebbe essere attuato nel rispetto degli obblighi degli Stati membri in materia di protezione internazionale e di non respingimento".

Nel caso dei respingimenti verso la Libia non vi è stato rispetto di nessuno dei diritti fondamentali della persona riconosciuti dal diritto comunitario così come dalla Carta europea, in quanto a nessuno dei migranti intercettati e rinviati in Libia è stato consentito l'accesso alla procedura per la protezione internazionale, così come non è stato accertato che in Libia fossero rispettati il diritto alla dignità umana (art. 1), alla integrità della persona (art 2), a non essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani e degradanti (art. 4), alla libertà e alla sicurezza (art. 6), al rispetto delle vita privata e familiare (art. 7), all'asilo politico (art. 18).

l'art. 7 del Regol. 562/2006 prevede che "chiunque attraversi la frontiera è sottoposto a una verifica minima che consenta di stabilirne l'identità dietro esibizione dei documenti di viaggio".

Non risulta che le autorità italiane abbiano verificato se e di quali documenti erano in possesso i migranti portati in Libia o se siano stati in altro modo identificati. In questo modo l'Italia ha omesso di compiere le verifiche minime necessarie per conoscere i Paesi di origine dei migranti e dunque per avere elementi di certezza che il rinvio dalla Libia a quei Paesi non avrebbe comportato la violazione dei diritti umani.

L'art. 13 del Regol. 562/2006 consente agli Stati di respingere gli stranieri che non soddisfino i requisiti per l'ingresso ma si cura di prevedere che "Ciò non pregiudica l'applicazione dei disposizioni particolari relative al diritto d'asilo e alla protezione internazionale" e comunque stabilisce che "Il respingimento può essere disposto solo con un provvedimento motivato che ne indichi le ragioni precise. Il provvedimento è adottato da un'autorità competente secondo la legislazione nazionale ed è di applicazione immediata". Un successivo capoverso precisa, inoltre, che "le persone respinte hanno il diritto di presentare ricorso. I ricorsi sono disciplinati conformemente alla legsialzuone nazionale".

Secondo l'art. 13 del Regolamento Comunitario 562 del 2006 (Codice frontiere Schengen), entrato in vigore il successivo 13 ottobre in base al quale sono dettate regole precise per il respingimento in frontiera, regole che non possono essere applicate in alto mare. "Sono respinti dal territorio degli Stati membri i cittadini di paesi terzi che non soddisfino tutte le condizioni d'ingresso previste dall'articolo 5, paragrafo 1, e non rientrino nelle categorie di persone di cui all'articolo 5, paragrafo 4. Ciò non pregiudica l'applicazione di disposizioni particolari relative al diritto d'asilo e alla protezione internazionale o al rilascio di visti per soggiorno di lunga durata".

Secondo lo stesso regolamento "Le persone respinte hanno il diritto di presentare ricorso. I ricorsi sono disciplinati conformemente alla legislazione nazionale. Al cittadino di paese terzo sono altresì consegnate indicazioni scritte riguardanti punti di contatto in grado di fornire informazioni su rappresentanti competenti ad agire per conto del cittadino di paese terzo a norma della legislazione nazionale. L'avvio del procedimento di impugnazione non ha effetto sospensivo sul provvedimento di respingimento. Fatto salvo qualsiasi indennizzo concesso a norma della legislazione nazionale, il cittadino di paese terzo interessato ha diritto a che lo Stato membro che ha proceduto al respingimento rettifichi il timbro di ingresso annullato e tutti gli altri annullamenti o aggiunte effettuati, se in esito al ricorso il provvedimento di respingimento risulta infondato Le guardie di frontiera vigilano affinché un cittadino di paese terzo oggetto di un provvedimento di respingimento non entri nel territorio dello Stato membro interessato. Gli Stati membri raccolgono statistiche sul numero di persone respinte, i motivi del respingimento, la cittadinanza delle persone respinte e il tipo di frontiera (terrestre, aerea, marittima) alla quale sono state respinte. Gli Stati membri trasmettono annualmente tali statistiche alla Commissione. La Commissione pubblica ogni due anni una compilazione delle statistiche fornite dagli Stati membri. Le modalità del respingimento figurano nell'allegato V, parte A".

In ogni caso, il diritto derivante dalle Convenzioni internazionali sottoscritte e ratificate dall'Italia pone precisi limiti alle decisioni politiche ed obblighi di protezione alle autorità che operano nelle acque del Mediterraneo o nei paesi di transito. In base alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3 (consultabile nella Gazzetta Ufficiale n.132 del 10 giugno del 2003) gli obblighi di fonte internazionale costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato. In base all'art. 11 della nostra Costituzione il diritto internazionale generalmente riconosciuto e le Convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro paese, come le norme comunitarie vincolanti, costituiscono parte integrante dell ordinamento giuridico italiano e non possono essere derogate da scelte discrezionali dell'autorità politica o amministrativa. Questa previsione rafforza il dettato dell'art. 10 della nostra Costituzione, che peraltro impone il principio di legalità nel trattamento degli stranieri e riconosce il diritto di asilo in termini assai più ampi della Convenzione di Ginevra.

Tutte queste regole di diritto internazionale sono richiamate dal diritto interno all'art. 2 ed all'art. 19 del Testo Unico sull'immigrazione, n.286 del 1998, che prevede anche cause specifiche di inespellibilità, tra le quali la minore età o il rischio di subire trattamenti inumani o degradanti nel paese nel quale si venga espulsi o respinti.

3. In particolare il divieto di espulsioni o di respingimenti collettivi

L'art. 4 del Protocollo Addizionale n. 4 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali vieta le espulsioni collettive di stranieri, che, in base alla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, si verificano tutte le volte in cui non venga presa in considerazione la "posizione individuale" della persona sottoposta alla misura di allontanamento forzato, a maggior ragione in tutti i casi nei quali non si provveda ad una identificazione certa.

L'art. 19 della Carta Europea dei diritti dell'uomo vieta espressamente le espulsioni collettive, ed una giurisprudenza costante della Corte Europea dei diritti dell'uomo si esprime nel medesimo senso. La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha considerato come espulsioni collettive una serie di provvedimenti individuali contro persone della stessa nazionalità che si trovavano nella stessa situazione di soggiorno irregolare, a partire dal nel caso Conka/Belgio con una sentenza emessa il 5 maggio 2002.

Nella giurisprudenza della Corte Europea il divieto dei casi di espulsioni collettive comprende anche i casi di respingimento alla frontiera La Corte si è espressa su questa materia con grande nettezza: "The Court reiterates its case-law whereby collective expulsion, within the meaning of Article 4 of Protocol No. 4, is to be understood as any measure compelling aliens, as a group, to leave a country, except where such a measure is taken on the basis of a reasonable and objective examination of the particular case of each individual alien of the group. That does not mean, however, that where the latter condition is satisfied the background to the execution of the expulsion orders plays no further role in determining whether there has been compliance with Article 4 of Protocol No. 4".

La Corte aggiunge anche che: "in those circumstances and in view of the large number of persons of the same origin who suffered the same fate as the applicants, the Court considers that the procedure followed does not enable it to eliminate all doubt that the expulsion might have been collective".

Spetta allo Stato, in definitiva, addurre prove che dimostrino che non si sia trattato di un'espulsione collettiva.

A proposito delle espulsioni collettive, la stessa Corte di Cassazione richiamava una propria precedente decisione (Cass. 23134/04), nella quale si citava proprio l'indirizzo della Corte Europea in merito alla latitudine del divieto di espulsione collettiva di cui all'art. 4 del IV protocollo addizionale alla CEDU, che ricomprende "quelle espulsioni adottate nei riguardi di un gruppo di stranieri senza che per ciascuno di essi venga svolto esame ragionevole ed obiettivo delle ragioni e delle difese di ciascuno innanzi all'Autorità competente".

Nel caso della Libia, nel 2004 e nel 2005, l'Italia non ha mai risposto alla richiesta della Corte Europea dei diritti dell'uomo, che voleva acquisire copia dei provvedimenti di allontanamento forzato da Lampedusa succedutisi a partire dall'ottobre del 2004. Eppure l'art. 10 comma 2 lettera b, del Testo unico sull'immigrazione n.286 del 1998, prevedeva (e prevede) che quando lo straniero si presenta ai valichi di frontiera e viene "temporaneamente ammesso nel territorio per necessità di pubblico soccorso", ai fini dell'allontanamento forzato sia espressamente richiesto un provvedimento del Questore, mentre le autorità di polizia devono tenere un "registro" dei respingimenti in frontiera. Le persone migranti, anche se prive di documenti regolari, non sono fantasmi da fare scomparire nel nulla.

4. La normativa internazionale e comunitaria in materia di asilo e di protezione temporanea

L'art. 33 della Convenzione di Ginevra vieta espressamente il respingimento verso paesi nei quali la persona potrebbe subire trattamenti inumani o degradanti, senza distinguere, quanto alla portata operativa del divieto, a seconda del luogo nel quale avviene il respingimento, e senza fare riferimento alla condizione giuridica della persona. La violazione di questo divieto si configura anche quando il respingimento è effettuato prima che la persona abbia potuto fare ingresso nel territorio nazionale, quando la stessa persona sia sottoposto al potere d'imperio e dunque alla giurisdizione dello stato. (Sul punto si rinvia a De Sena P. La nozione di giurisdizione statale nei trattati sui diritti dell'uomo, Torino, 2002).

Analoghi divieti sono previsti dall'art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell'Uomo che vieta il rinvio verso paesi nei quali si potrà essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti e dalle Direttive comunitarie in materia di asilo e di protezione sussidiaria.

L'art. 5 comma 1 lettera f della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell'uomo afferma che "nessuno può essere privato della libertà, salvo che nei casi seguenti e nei modi prescritti dalla legge", tra i casi elencati ricorre appunto l'ipotesi "dell'arresto o della detenzione "regolari" di una persona per impedirle di entrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento d'espulsione o di estradizione.

Si può ritenere che le persone trattenute su una nave militare per essere condotte in un paese terzo, diverso da quello di origine, dal quale sono partite, si trovi in una situazione di arresto, nel senso che la persona viene completamente privata della propria libertà personale. Nessuna privazione della libertà personale da parte di autorità militari, al di fuori dei codici di guerra, può avvenire senza le garanzie previste a tale riguardo dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell'Uomo e dalle Costituzioni nazionali.

Ogni persona arrestata o detenuta per essere espulsa o estradata verso un altro paese "deve essere tradotta al più presto dinanzi ad un giudice o ad un altro magistrato autorizzato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la procedura". Secondo l'art. 5 comma 4, della stessa Convenzione, "ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha il diritto di presentare un ricorso davanti ad un tribunale, affinché decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione e ne ordini l scarcerazione se la detenzione è illegittima". Tutto il resto, tutto quello che succede sulle unità italiane impegnate nelle operazioni di pattugliamento nelle acque internazionali del canale di Sicilia è stato di polizia, è cancellazione sostanziale dell"'habeas corpus"principio cardine di tutte le costituzioni democratiche. Con i respingimenti collettivi in Libia l'Italia si è posta fuori dal novero degli stati democratici.

Il Decreto legislativo 25/2008, come modificato dal d.lgs.159 del 2008, che attua la Direttiva comunitarie sulle procedure stabilisce che «la decisione su ogni singola domanda deve essere assunta in modo individuale, obiettivo ed imparziale e sulla base di un congruo esame della domanda effettuato ai sensi del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251. Ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall'ACNUR, dal Ministero degli affari esteri, o comunque acquisite dalla Commissione stessa. La Commissione nazionale assicura che tali informazioni, costantemente aggiornate, siano messe a disposizione delle Commissioni territoriali, secondo le modalità indicate dal regolamento da emanare ai sensi dell'articolo 38 e siano altresì fornite agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative». Le stesse garanzie vanno riconosciute ai potenziali richiedenti asilo intercettati in acque internazionali.

Una recente "risoluzione del Parlamento Europeo" del 15 gennaio 2009, dopo avere chiesto agli stati membri di adottare strumenti legislativi che consentano l'ingresso legale dei migranti, deplora "une panoplie croissante de mesures de contrôle aux frontières, qui pèchent par le manque de mécanismes nécessaires à l'identification des demandeurs d'asile potentiels aux frontières de l'Europe, ce qui conduit à une violation du principe de non refoulement, tel qu'inscrit dans la Convention de 1951 relative au statut des réfugiés".

La stessa Risoluzione del Parlamento Europeo "demande au Conseil de clarifier les rôles respectifs de l'Agence européenne pour la gestion de la coopération opérationnelle aux frontières extérieures des États membres de l'Union européenne (FRONTEX) et des États membres, afin de garantir que les contrôles aux frontières sont respectueux des droits de l'homme; considère qu'il est urgent d'amender le mandat de FRONTEX, afin d'y inclure le sauvetage en mer; demande que le Parlement européen puisse exercer un contrôle démocratique dans la conclusion d'accords par FRONTEX avec des pays tiers", e "s'inquiète de ce que la tendance à éloigner de plus en plus les contrôles frontaliers des frontières géographiques de l'Union rende très difficile le contrôle de ce qui se passe quand les personnes aspirant au statut de refugié et les personnes qui ont besoin d'une protection internationale entrent en contact avec les autorités d'un pays tiers". La Risoluzione "rappelle que les migrants qui ne déposent pas de demande d'asile doivent aussi être accueillis dans des structures propres et adaptées, où ils puissent prendre connaissance - avec l'aide d'interprètes et de médiateurs culturels formés à cet effet - de leurs droits et des possibilités offertes par le droit du pays d'accueil, le droit communautaire et les conventions internationales" precisando che "demande d'accorder une attention particulière aux mineurs non accompagnés et à ceux séparés de leurs parents arrivant sur le territoire de l'Union par voie d'immigration irrégulière et souligne l'obligation des États membres de leur fournir assistance et une protection spéciale; demande à toutes les autorités - locales, régionales, nationales - et aux institutions européennes, de coopérer de manière assidue pour protéger ces enfants de toutes les formes de violence et d'exploitation, d'assurer la désignation sans délai d'un tuteur, de leur fournir une assistance juridique, de rechercher leur famille et d'améliorer leurs conditions d'accueil, par le biais d'un logement approprié, d'un accès facilité aux services de santé, d'éducation et de formation, particulièrement s'agissant de l'enseignement de la langue officielle du pays d'accueil, de la formation professionnelle et d'une complète intégration dans le système scolaire". Il Parlamento Europeo vieta categoricamente la detenzione amministrativa di minori, e "rappelle que la détention administrative d'enfants ne devrait pas exister et que les enfants accompagnés de leur famille ne devraient être détenus que dans des circonstances vraiment exceptionnelles, pour la durée la plus limitée possible et seulement si une telle détention est dans leur intérêt, conformément aux articles 3 et 37, point b), de la Convention des Nations unies relative aux droits de l'enfant".

Nella sua ultima relazione del 2009 il Commissario ai diritti Umani del Consiglio di Europa Hammarberg esprime la sua viva preoccupazione per gli ultimi orientamenti del governo italiano in materia di espulsioni e "a questo proposito, il commissario richiama l'attenzione delle autorità sulle Twenty Guidelines on forced return (2005) del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, e in particolare sulla lineaguida n.20 relativa al sistema di monitoraggio e di rimedio contro le procedure di rimpatrio forzato Sarebbe altamente auspicabile - osservava il Commissario- che tali linee guida venissero tradotte in italiano e diffuse fra tutte le competenti autorità amministrative e giudiziarie, in particolare nelle zone di frontiera. Con grande coerenza, malgrado le reazioni stizzite del governo italiano dopi i precedenti rapporti, lo stesso Commissario ai diritti umani del Consiglio d'Europa ha espresso il suo allarme per gli ultimi respingimenti sommari effettuati dall'Italia verso la Libia.

5. I precedenti rapporti tra Italia, Libia ed Unione Europea

L'Italia si è mossa nei confronti della Libia, già a partire dal 2003, nella prospettiva di saldare accordi economici e intese operative al fine di bloccare l'immigrazione irregolare in transito dal quel paese, con una totale continuità tra i diversi governi e tra l'azione di Prodi Presidente dell'Unione Europea e di Frattini, commissario alla sicurezza dell'Unione Europea prima di diventare ministro degli esteri in Italia.

Nel 2003, mentre era in corso in Libia il processo alle infermiere bulgare ed al medico palestinese che venivano accusati, dopo confessioni estorte con torture di ogni genere, di avere infettato con il virus dell'HIV decine di bambini in un ospedale libico, autorevoli rappresentanti del governo italiano si vantavano dei primi risultati della collaborazione "tecnica" con la polizia libica, ben prima che venisse firmato un accordo politico.

"L'Italia sta lavorando per arrivare alla revoca dell'embargo alla Libia e porterà il problema in sede europea durante il semestre di presidenza" annunciava il sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano a margine di un convegno all'ambasciata inglese a Roma, sostenendo che l'ostacolo più duro da superare per arrivare ad un accordo bilaterale con Gheddafi, che permetterebbe di arginare il flusso di immigrati clandestini così come avvenuto per l'Albania, è proprio l'embargo. «Con la Libia, a livello di forze di polizia, è gia definito un protocollo tecnico - ha spiegato Mantovano - ma manca l'avallo politico, e non è poco». L'obiettivo dell'Italia durante il semestre europeo sarà dunque quello di «operare affinché si risolvano tutti i problemi che finora non hanno consentito di arrivare a questo placet politico». E, tra questi problemi, «il più significativo e concreto è quello dell'embargo». «L'impossibilità di concedere alla Libia quel tipo di strumenti che hanno costituito oggetto di contrattazione negli accordi bilaterali con altri Paesi - ha aggiunto - rappresenta un freno non indifferente». La soluzione quindi è la revoca, magari anche parziale, dell'embargo. «Stiamo lavorando in questa direzione - ha concluso Mantovano - e, peraltro, non è soltanto interesse italiano, ma della stessa Unione nell'ottica di un accordo che riguardi l'intera Ue». Nessuna parola per le gravissime violazioni dei diritti umani che in quello stesso periodo altri governi europei contestavano alla Libia.

Anche sul piano delle relazioni multilaterali tra Unione Europea e la Libia dominava da tempo un clima di ambiguità e di sostanziale avvicinamento, malgrado i rapporti delle agenzie comunitarie e delle ONG indipendenti, ma anche di Amnesty e di Human Rights Watch, confermassero le caratteristiche della corruzione e della totale mancanza di democrazia che poi finivano per essere alla radice del trattamento disumano applicato in quel paese nei confronti dei migranti irregolari, soprattutto se di religione cristiana.

Al di la delle "intese informali" maturate nel 2005 tra la Libia e la Commissione Europea a seguito della visita della Commissione Europea documentata nella Relazione tecnica, la Grande Jamahiria non riusciva a concludere per anni un accordo politico vincolante con l'Unione Europea, e le trattative ancora in corso sembrano seguire il passo del gambero, piuttosto che procedere in una direzione univoca, anche per gli ostacoli frapposti nel tempo dalla vicenda delle infermiere bulgare, e poi nel 2008 dall'arresto di un figlio di Gheddafi in Svizzera, per le percosse inflitte ad un domestico.

Secondo il Programma dell'Aja del 2004 occorreva migliorare la capacità, dell'Unione Europea e dei suoi Stati membri, di garantire i diritti fondamentali, le garanzie procedurali minime e l'accesso alla giustizia per fornire protezione alle persone che ne hanno bisogno ai sensi della Convenzione di Ginevra sui rifugiati e di altri trattati internazionali. Lo stesso programma dell'Aja ribadisce che devono essere pienamente rispettati i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.

Nell'ambito del Programma dell'Aja, alcuni studi degli organismi comunitari, anche in collaborazione con l'ACNUR, tentavano di verificare "il merito, l'opportunità e la fattibilità" del trattamento comune delle domande di asilo all'esterno del territorio dell'UE, che dovrebbe integrare l'auspicato, e non ancora realizzato, regime europeo comune in materia di asilo. La nuova "dimensione esterna" dell'asilo e della immigrazione ha assunto nel frattempo risvolti che preoccupano fortemente, per le violazioni dei diritti fondamentali delle persone nei paesi di transito, come confermato, oltre che da Human Rights Watch, e da Amnesty, da documentati siti internet (come Fortress Europe), da una relazione tecnica della Commissione Europea del 2005, dopo una visita effettuata in Libia alla fine del 2004, e da un Rapporto dell'Agenzia europea Frontex nel 2007.

Nel settore della migrazione, l'UE e la Libia cooperano già dal 2004, ma solo su progetti assai limitati, dopo che l'Italia, e in particolare Prodi alla presidenza dell'Unione Europea, hanno avuto un ruolo fondamentale nel rimuovere l'embargo nei confronti della Libia stabilito dopo gli attentati terroristici di Lockerbie ed in Germania, nei quali risultava il coinvolgimento di agenti libici. Nel quadro del programma comunitario "Migrazione e asilo" sono già stati finanziati due progetti: uno relativo al controllo delle frontiere meridionali con il Niger e un altro relativo all'assistenza al rientro volontario di migranti, in collaborazione con l'OIM. Un terzo progetto, sempre relativo al controllo delle frontiere, dovrebbe partire all'inizio del 2009.

La Relazione della Missione tecnica della Commissione Europea nel 2005, poi confermata dal successivo rapporto dell'agenzia Frontex del 2007, osservava peraltro la difficoltà del controllo delle frontiere libiche, alla luce della situazione geopolitica, dei mezzi e delle dotazioni di personale addetto ai controlli. Fino al 2004, in pratica, la Libia non aveva forze navali specificamente destinate per il controllo delle frontiere marittime, ed i controlli alle frontiere terrestri, linee di demarcazione spesso invisibili nelle distese desertiche, si limitavano alle postazioni fisse ubicate sulle principali vie di transito battute da secoli dai carovanieri.

Border management was the subject of particular attention during the mission, considering its key importance in the field of illegal immigration. Border control is significantly affected by the length of the borders (4,400 km of permeable borders with six countries, and 1,770 km of coastline), the geographical situation of border areas (desert in most cases) and the absence of demarcation in many locations. The Libyan authorities seem to have understood the serious problems faced as regards the management of Libya's external borders, the need to dramatically increase the number of staff involved, to improve their training, to provide them with proper equipment, to develop international cooperation as well as to improve inter-service cooperation.

La relazione sulla visita della delegazione della Commissione Europea, alla fine del 2004, tracciava le possibili linee di sviluppo di una collaborazione tra la Libia e l'Unione Europea.

Concrete orientations for co-operation are summarised as follows:

  • Specific co-operation with Libya in a number of areas: In each of the following areas, specific orientations for co-operation are detailed in the report: 1) reinforcement of Institution building; 2) training initiatives; 3) management of asylum; 4) increasing awareness of the public.
  • Co-operation with countries of origin: Specific activities aimed in particular at countries of origin: 1) Discuss migration issues with the main African countries of origin to identify possible areas for co-operation; 2) as a pilot initiative, conduct as soon as possible a mission to Niger to explore possibilities to develop co-operation with Niger on migration, following positive signals from this country and an interest from Libya. 3) improvement of border management co-operation between Libya and countries with shared borders.
  • Dialogue on a wider regional basis: Four main levels for enhancing regional dialogue are suggested: 1) increased focus on EU-Africa dialogue on migration and on efforts of the African Union to address migration, including all aspects related to criminal organisations; 2) increased focus on migration within the "5+5" setting, and also with the AMU (Arab Maghreb Union); 3) co-operation with the Tripoli based CENSAD, the Community of states bordering the Sahara and the Sahel; 4) dialogue associating origin, transit and destination countries including the support to a Conference hosted by Libya.

Dopo quella visita le proposte della Missione tecnica della Commissione non sono state seguite dai fatti, anche perché i paesi europei, dopo l'allargamento ad oriente, risultavano sempre meno propensi ad investire risorse ingenti come quelle necessarie per realizzare i programmi di assistenza tecnica e di controllo alle frontiere meridionali, ed ancora più a sud, addirittura alle frontiere meridionali dei paesi di transito. E' stata l'Italia, semmai, che con i programmi Argo e Across Sahara ha dato un impulso alla formazione ed alla organizzazione della polizia di frontiera libica, attingendo a fondi comunitari, ma i pattugliamenti congiunti e le operazioni aero-navali di contrasto dell'immigrazione clandestina in acque libiche, malgrado lo sporadico impegno di Frontex, non sono mai andate a regime, traducendosi piuttosto in eventi occasionali a scopo propagandistico.

Le possibilità di controllo e di contrasto dell'immigrazione irregolare (in e) dalla Libia apparivano (ed appaiono ancora oggi, malgrado l'apparente successo delle ultime operazioni di contrasto) particolarmente ridotte sia per la tradizionale collusione tra le forze di polizia di frontiera e le organizzazioni criminali che gestivano (e gestiscono ancora) il traffico del migranti, sia per l'aumento esponenziale dei migranti in fuga dagli stati del corno d'Africa e dell'Africa sub-sahariana. In pochi anni la condizione di quei migranti irregolari in Libia, attirati in quel paese prima della fine dell'embargo, diventava sempre più critica e per molti, che già erano stati costretti a fuggire dal paese di origine, dal Corno d'Africa o dall'Africa sub-sahariana, l'unica prospettiva di salvezza restava il tentativo di traversata verso l'Italia, in particolare Lampedusa, o verso Malta.

A differenza di quanto verificatosi, per il diverso contesto geo-politico nei rapporti tra Spagna, Marocco e Mauritania, il controllo dell'immigrazione affidato ad accordi multilaterali tra l'Unione Europea e la Libia (che non è un paese di emigrazione) ha avuto esiti fallimentari ed a farne le spese sono stati i migranti in transito da quel paese, con migliaia di vittime sia nei deserti africani che nel canale di Sicilia. Della "gestione" dei movimenti migratori da parte della Libia hanno pure risentito i paesi comunitari più esposti, come Italia, Cipro e Malta. Malgrado fosse noto il trattamento riservato dalla Libia ai migranti irregolari, questi paesi, piuttosto che attendere o promuovere un atteggiamento comune dell'Europa, ormai allargata a 27 paesi, hanno ripreso a spingere nella direzione delle intese bilaterali, chiedendo però all'Unione Europea il cofinanziamento di accordi bilaterali sempre più onerosi, come anche adesso sta facendo l'Italia dopo l'accordo concluso a Bengasi nel mese di agosto dello scorso anno. D'altra parte, le iniziative assunte dalle diverse istituzioni dell'Unione Europea, nella direzione di un accordo multilaterale con la Libia, restavano senza esito concreto malgrado le tante dichiarazioni promettenti della Commissaria alle relazioni esterne Ferrero-Waldner.

Il dialogo tra Unione Europea e Libia in corso da anni, soprattutto dolo la risoluzione del caso delle infermiere bulgare, non ha finora sortito risultati significativi.

Il Consiglio dell'Unione Europea riunito a Lussemburgo nel giugno del 2005 condivideva la posizione della Commissione secondo la quale era necessario definire un "approccio globale" e integrato nella gestione dell'immigrazione nella regione mediterranea, aggiungendo che la cooperazione ed i paesi terzi, nel quadro della "dimensione esterna dell'asilo e dell'immigrazione", deve rispettare i diritti dell'uomo, i principi democratici dello stato di diritto e "le obbligazioni che loro incombono in virtù della Convenzione di Ginevra relativa allo statuto dei rifugiati e le altre convenzioni internazionali in materia". In quella occasione il Consiglio dell'Unione Europea "domandava alle autorità libiche di fornire la prova di essere determinate a rispettare gli obblighi derivanti dalla Convenzione dell'Unione Africana (OUA) nelle parti che riguardano il problema dei rifugiati in Africa, nell'ambito della quale la Convenzione di Ginevra relativa allo statuto dei rifugiati è considerata come lo strumento di base universale". Il Consiglio sollecitava pure la Libia "ad assicurare una cooperazione efficace con l'UNHCR" ed a rispettare il principio di non refoulement, invitando la Commissione ad un impegno "per aiutare le autorità libiche a rispettare le loro obbligazioni". Il Consiglio "sottolineava la necessità di realizzare un partenariato tra l'Unione Europea ed i paesi di origine e di transito, in conformità al programma dell'Aja del 2004, e che occorreva "intensificare la cooperazione con i paesi situati alle frontiere meridionali dell'UE" al fine di gestire meglio l'immigrazione e di "offrire protezione ai rifugiati".

Occorre anche ricordare che con un voto del 14 febbraio del 2006 il Parlamento europeo si dichiarava formalmente «non più disposto a dare il proprio parere conforme a nuovi accordi internazionali che non contenessero una clausola relativa ai diritti dell'uomo e alla democrazia». Ma intanto si progettavano vertici internazionali in paesi che non garantivano certo quei diritti fondamentali.

Il 22 novembre del 2006 si svolgeva a Tripoli 22 novembre 2006 un Vertice tra l'Unione europea e l'Unione africana in materia di immigrazione. Durante il vertice emergevano le divisioni tra i paesi del Sud dell'Europa (Italia, Grecia, Spagna, Malta, Cipro, Portogallo), che avrebbero voluto coinvolgere l'intera Unione soprattutto sul piano finanziario, e gli altri, meno colpiti dal problema e di conseguenza meno orientati a devolvere risorse a quello scopo.

Nell'ambito del vertice si tracciavano le basi per accordi particolari con la Libia, per importi peraltro assai modesti, circa quattro milioni di euro. Ad uno di questi progetti, finanziato con un milione e mezzo di euro, volto a controllare la frontiera meridionale con il Niger, avrebbe dovuto partecipare anche l'Italia. La Commissione, il 26 aprile 2006, aveva istituito un fondo comune per il ritorno in patria dei clandestini, la Return preparatory action. Lo stanziamento, tuttavia, era piuttosto esiguo: appena 14 milioni di euro da dividere in 20 progetti. Tra questi ne venivano scelti anche alcuni italiani: in particolare quello presentato dal Ministero dell'Interno per i voli congiunti di rimpatrio, i voli di ritorno, per i quali si assegnava la somma 675.893 euro.

Dal 2008 queste "Return preparatory action" sono sostituite da un più organico European Return Fund, che include un fondo per i rifugiati, uno per l'integrazione e uno per le frontiere esterne, ma il ritardo nell'approvazione della direttiva sui rimpatri ha comportato anche il rinvio di questo piano finanziario. Emergeva comunque già allora la scarsità delle risorse che l'Unione Europea era disposta ad accordare per affrontare un problema di così vaste proporzioni come il controllo delle frontiere terrestri della Libia.

La "Missione tecnica Frontex" in visita in Libia dal 28 maggio al 5 giugno 2007, per individuare nuove forme di collaborazione tra l'Unione Europea e quel paese, nel controllo delle frontiere meridionali, "the principal aim of which would be to consult the Libyan authorities on how best the EU could assist Libya with improved management of its southern borders", osservava che "the land borders in the south of Libya do not equate to the EU green borders. Given the lack of clear demarcations and the size of the terrain, fixed border crossing points will play a limited role in controlling illegal immigration. This should not preclude however the need for a change in border management strategy and investment in premises and overall infrastructure including road access to border crossing points.

Tra le raccomandazione finali della Missione tecnica Frontex la sollecitazione rivolta all'Unione Europea per aumentare le forme di assistenza tecnica ed operativa alla Libia nella gestione dei controlli di frontiera, con particolare riferimento alle zone di confine desertico, e la corrispondente sollecitazione rivolta alla Libia per combattere la corruzione della polizia di frontiera:

12.2 In the short term, it is also important to re-examine the possibilities of the EU offering further effective practical assistance to Libya, whether this take the form of providing equipment, training or expertise.
12.3 Libya should be invited to re-examine its strategy on border control at the southern borders allowing for a monitored and lawful option to enter the country through designated suited border check points, on the understanding that this may lead to a decrease in the pressure on illegal trespassing. Libya should be invited also to revise its structures of three-tier desert points, look to more airborne surveillance and land mobile reaction to detections and improve coordination between authorities dealing with border control and between ministries.
12.4 Libya should be encouraged to improve exploitation of intelligence as well as intelligence development and exchange to tackle more effectively the criminal networks behind the illegal migration flows. Libya should also consider the benefits of the establishment at the national level of a standardised statistical methodology and collection plan that could be replicated at the regional level.
12.5 Libya should also be requested to set up a structured response to corruption and offered expertise on how to effectively tackle corruption of border officials, for example by looking at its policy on recruitment of its staff.
12.6 Against the background of the improved operational cooperation amongst EU Member States in the Mediterranean area it could be considered to take next steps to strengthen the operational maritime cooperation in the entire Mediterranean region by extending the operational network to the third countries in the region by developing a structured "Mediterranean Sea Border Control Cooperation" framework. Here Libya could be invited to take a leading role.
12.7 There is a need for the EU to work on improved information and media campaigns with source countries advising potential illegal migrants of the dangers of exploitation by desert smuggler.

La Missione tecnica Frontex segnalava dunque il "pericolo" che i potenziali migranti "illegali" subissero abusi da parte dei trafficanti nelle zone desertiche ai confini meridionali della Libia, ma solo per auspicare campagne di informazione che, proprio sulla base di tali rischi, dissuadessero i candidati all'emigrazione irregolare dal fare ingresso in territorio libico.

Nel mese di ottobre del 2007 Amnesty International aveva peraltro avvertito il rischio che gli accordi con la Libia potessero legittimare la violazione dei diritti fondamentali dei migranti irregolari in transito in quel paese. In una lettera inviata ai ministri degli Esteri dell'Unione europea (Ue), Amnesty International ha affermato che le relazioni con la Libia "devono tener conto delle gravi e perduranti preoccupazioni per lo stato dei diritti umani in questo paese". I ministri degli esteri dell'Unione Europea stavano infatti per conferire alla Commissione europea il mandato per intensificare le relazioni con la Libia. La Sezione Italiana di Amnesty International faceva pervenire allora una copia della sua nota al Ministero degli esteri e alla Presidenza del Consiglio. Già a luglio del 2007, Amnesty International aveva fatto notare come il Memorandum d'intesa tra Ue e Libia, siglato all'indomani del rilascio delle infermiere bulgare e del medico palestinese che rischiavano l'esecuzione, non contenesse alcun riferimento ai principi internazionali in materia di diritti umani.

"L'Ue deve resistere alla tentazione di abbassare i propri standard e le proprie richieste per il fatto che la vicenda dei sei operatori sanitari è terminata bene. Se c'è una lezione da apprendere da quel caso, è proprio che i diritti umani devono essere alla base di ogni accordo con la Libia" - ha dichiarato Dick Oosting, direttore dell'ufficio di Amnesty International presso l'Ue. La situazione dei diritti umani in Libia rimane grave. Ogni mese, Amnesty International riceve informazioni su nuovi casi di giornalisti e dissidenti cui, in assenza di attenzione mediatica e pressioni politiche internazionali, viene negato il diritto a una procedura giudiziaria equa.

A preoccupare fortemente Amnesty International era la prospettiva di cooperazione tra Ue e Libia nel contesto della "immigrazione irregolare". La Libia, ricorda ancora una volta l'organizzazione per i diritti umani, non è Stato parte della Convenzione sui rifugiati del 1951 e l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati non può operare liberamente nel paese. La legge libica non contiene alcuna norma che consenta ai richiedenti asilo politico di sottoporre alle autorità il proprio caso; le condizioni di detenzione dei "migranti irregolari" sono ritenute deplorevoli e si registrano regolarmente espulsioni di massa di migranti e richiedenti asilo, senza la minima attenzione alla protezione di cui hanno bisogno. "Le violazioni che si verificano in Libia sono così clamorose che dovrebbero spingere l'Ue a modificare l'approccio mostrato nel Memorandum, che ignora di fatto la grave situazione dei diritti umani nel paese" - ha aggiunto Oosting. Amnesty International pertanto chiede ai ministri degli Affari esteri di garantire che ogni futuro accordo con la Libia faccia esplicito riferimento alle garanzie sul rispetto dei diritti umani e li invita a non affidare alla Commissione europea il mandato di negoziare con la Libia, se la previsione di tali garanzie non verrà tenuta in debita considerazione.

Al successivo vertice euro-africano di Lisbona nel dicembre del 2007, prima del suo trionfale viaggio a Parigi, Gheddafi si presentava con una folta delegazione e, per bloccare l'immigrazione clandestina verso l'Europa, chiedeva almeno un miliardo di euro, anche a titolo di risarcimento per la occupazione coloniale dell'Italia. Anche in questo caso alle solenni dichiarazione di collaborazione non seguivano impegni concreti e risorse economiche adeguate a garantire quanto richiesto dai libici.

Nel febbraio del 2008, malgrado la situazione del rispetto dei diritti umani e del diritto di asilo in Libia non fosse ancora mutata, come dimostrato dai più recenti rapporti di Human Righrs Watch e dalla Relazione Hammarberg del Consiglio d'Europa, la Commissione Europea arrivava a proporre l'apertura dei negoziati per rinforzare le relazioni tra UE e Libia con l'obiettivo (poi fallito) di chiudere un primo accordo quadro entro lo stesso anno. "Si tratta di una decisione storica- ha sostenuto la commissaria alle Relazioni esterne Benita Ferrero-Waldner-. La Libia è un attore essenziale nella regione del Mediterraneo e in Africa". Ma anche questo obiettivo non era raggiunto, e solo nel novembre del 2008 la Libia e l'UE davano avvio ai negoziati sull'accordo quadro multilaterale.

A margine dell'incontro svoltosi a Bruxelles il 13 novembre 2008, Benita Ferrero-Waldner ha dichiarato: "È da tanto che aspettiamo questo momento, sin da quando, nel 2004, l'UE ha deciso di abrogare le sanzioni nei confronti della Libia e di avviare una politica di impegno con il paese. Sono lieta di poter finalmente dare il via a questi negoziati. La Libia è rimasta l'unico paese del Mediterraneo meridionale con cui l'UE non intrattiene relazioni contrattuali e l'UE desidera instaurare un quadro giuridico chiaro e duraturo che consenta di rafforzare il dialogo e la cooperazione con la Libia. La Commissione ha ricevuto dal Consiglio un mandato negoziale ampio, prova che l'UE intende concludere con la Libia un accordo tanto ambizioso quanto la Libia sarà pronta a consentire, un accordo relativo ad aree quali il dialogo politico, gli scambi commerciali, l'energia, la migrazione e l'ambiente."

Come riferiscono le agenzie di stampa "il mandato negoziale della Commissione è stato adottato dal Consiglio soltanto il 24 luglio 2008. L'immigrazione rappresenta solo un capitolo del vasto dossier. L'obiettivo è quello di concludere con la Libia un accordo ampio che riguardi il dialogo politico e la cooperazione in materia di politica estera e di sicurezza, che crei una zona di libero scambio il più possibile ampia e inclusiva e che serva da base ad una cooperazione in settori nevralgici di interesse comune quali l'energia, i trasporti, la migrazione, i visti, la giustizia e gli affari interni e l'ambiente nonché in altri campi quali la politica marittime e la pesca, l'istruzione e la sanità pubblica. I principi fondamentali alla base dell'accordo saranno il rispetto dei diritti umani e della democrazia, la non proliferazione delle armi di distruzione di massa e l'impegno ad osservare le norme dell'economia di mercato".

Non si ha ancora notizia tuttavia degli sviluppi del negoziato "globale" tra la Libia e l'Unione Europea, né sulla effettiva inclusione di clausole che richiamino il rispetto dei diritti umani dei migranti, tra i quali va ricompreso il diritto di asilo, e si può ritenere che la recrudescenza del conflitto in Palestina non faciliterà il raggiungimento di un intesa politica o il rilancio del processo di Barcelona, dal quale la Libia si è sempre tenuta fuori, anche per la controversa questione del rispetto dei diritti umani. Se l'Europa è rimasta al palo, i singoli stati europei hanno bruciato le tappe nella stipula di accordi bilaterali di cooperazione economica con la Libia e, nel caso dell'Italia, il contrasto dell'immigrazione clandestina ha costituito uno dei punti nodali delle intese che si sono raggiunte nel tempo.

Entro il 2010 dovrà essere realizzato un "regime europeo comune in materia di asilo e immigrazione", ma l'attenzione dominante dell'Unione Europea rimane rivolta al contrasto dell'immigrazione "illegale" ed alla esternalizzazione delle procedure di rimpatrio e di detenzione amministrativa, in qualche caso con il tentativo di coinvolgimento di agenzie umanitarie.

Il nuovo programma dell'Unione europea in questo settore strategico dispone, per il periodo 2007-2013, di 384 milioni di euro per l'assistenza ai Paesi terzi. E tra breve queste risorse potranno essere utilizzate con la finalità di esternalizzare i controlli di frontiera e i campi di detenzione amministrativa dei migranti irregolari nei paesi di transito. Se si pensa che la cifra stanziata dovrà essere distribuita tra diversi paesi terzi nell'arco di sei anni e che l'Italia spenderà in un solo anno la stessa cifra, all'incirca, per la collaborazione con la Libia e gli altri paesi rivieraschi del mediterraneo, come l'Egitto e la Tunisia, per il contrasto dell'immigrazione irregolare, si può comprendere agevolmente come le risorse messe a disposizione dall'Unione Europea risultino assolutamente esigue rispetto agli scopi che si vorrebbero perseguire, e soprattutto rispetto alle attese che nutre la Libia, dopo l'impegno dell'Unione Europea e dell'Italia per costruire un più efficace sistema di controllo delle sue frontiere meridionali.

Anche se il Patto europeo sull'immigrazione e l'asilo, firmato a Bruxelles il 16 ottobre del 2008, conferma l'aspetto più preoccupante delle politiche comunitarie in materia di immigrazione ed asilo costituito dalla stipula di accordi multilaterali o bilaterali di cooperazione nella "lotta" all'immigrazione clandestina, da ultimo con paesi di transito come la Mauritania ed il Ghana, in nessuna parte di questo accordo si rinviene una autorizzazione, o un obbligo nel senso di consentire o imporre le pratiche di respingimento collettivo in acque internazionali. I mezzi finanziari apprestati dall'accordo, considerando l'estensione delle frontiere esterne comunitarie e l'arco temporale degli interventi previsti (cinque anni) appaiono del tutto inadeguati, e saranno destinati non solo alle frontiere mediterranee, ma anche alle frontiere orientali.

L'approccio adottato dal Patto rimane sempre quello della "condizionalità migratoria", prospettiva adottata anche dai diversi governi italiani che si sono succeduti nel tempo. In cambio di aiuti economici e di limitate possibilità di ingresso legale per i cittadini di quei paesi, si cerca di ottenere un maggiore impegno nei controlli di frontiera, nell'arresto e nella successiva espulsione, o nel respingimento verso altri paesi dei migranti in transito, molti dei quali provenienti da regioni in guerra o afflitte da gravi conflitti etnici, spesso potenziali richiedenti asilo.

In nessuna parte del Patto si afferma comunque il diritto di respingimento collettivo in acque internazionali, come invece afferma adesso il governo italiano.

Dopo la firma del Patto, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr/Acnur) - ha dichiarato che «accoglie con favore l'impegno solenne del Consiglio europeo di assicurare che le politiche europee in materia di immigrazione e asilo rispettino il diritto internazionale dei rifugiati e i diritti umani" - ma ha invitato anche ad "assicurare coerenza" tra immigrazione e diritto all'asilo, chiedendo all'UE di sviluppare misure concrete per assicurare che tale principio venga rispettato. "Non potremo mai avere un''Europa dell'asilo' se non viene garantito l'accesso nell'UE a chi è in cerca di protezione". Secondo Bjarte Vandvik, segretario generale del Consiglio europeo per i rifugiati e gli esiliati, invece, si può ritenere "che il Patto sposti ulteriormente la bilancia verso il fronte della sicurezza - che finora non ha fornito alcuna soluzione alle sfide europee in tema di migrazione - e lontano dalle azioni necessarie per salvaguardare i diritti umani".

Decisioni importanti del Parlamento europeo come la Risoluzione di condanna dell'Italia nel 2005 dopo le espulsioni collettive verso la Libia o la più recente Risoluzione sulla violazione dei diritti fondamentali nell'Unione Europea, con particolare riferimento ai migranti ed ai richiedenti asilo, rischiano ancora una volta di rimanere lettera morta. Quanto sta avvenendo in questi giorni, con i respingimenti decisi dall'Italia praticati nelle acque internazionali, anche ai danni di minori, richiedenti asilo e donne vittime di stupro, conferma la crescente impunità di quei governi che per garantire una effimera sicurezza al proprio elettorato, massacrano senza ritegno la vita di centinaia di uomini, donne, bambini. Al punto che si arriva a negare anche l'evidenza, come continua a fare il capo del governo italiano, che nega la stessa presenza di potenziali richiedenti asilo a bordo dei barconi intercettati dai mezzi militari italiani nelle acque internazionali del Canale di Sicilia. Una affermazione smentita dai fatti. Oltre il 75% dei migranti giunti a Lampedusa lo scorso anno ha presentato una domanda di asilo, ed oltre la metà di queste domande è stata accolta con il riconoscimento dello status di silo o della protezione internazionale.

6. Il protocollo operativo Italia- Libia del 2007 e il suo richiamo nel Trattato di Amicizia tra Italia e Libia nel 2008

L'Italia, che, a partire dal 1996, ha stipulato decine di accordi di riammissione con i paesi di origine dei migranti, dopo l'"accordo bilaterale" stipulato con l'Egitto nel gennaio del 2007, ha concluso con la Libia, nel dicembre dello stesso anno, un "Protocollo di cooperazione" in base al quale il governo italiano si impegnava, altresì, a sostenere con l'Unione europea i programmi di cooperazione a livello comunitario, con particolare riferimento ai controlli sull'immigrazione clandestina.

In precedenza, dall'ottobre del 2004 al febbraio del 2006 l'Italia aveva finanziato il rimpatrio nei paesi di origine di oltre 5500 immigrati irregolari presenti in Libia ed arrestati dalla polizia locale. Sempre nello stesso periodo, non certo casualmente, la Libia accettava la riammissione sommaria, senza identificazioni certe, e dunque nella forma di espulsioni collettive, di 1500 immigrati di diversi paesi, giunti irregolarmente a Lampedusa e da lì trasferiti direttamente con voli diretti in aeroporti libici, prima, nell'ottobre del 2004, con aerei militari, e poi, dopo le rimostranze di Gheddafi, ed una breve sospensione dei voli, con aerei civili.

Per quanti vogliano andare oltre le dichiarazioni propagandistiche diffuse dai ministri di questo governo, converrà ricostruire i rapporti tra L'Unione Europea ed i paesi terzi di transito, con specifico riferimento alla Libia, anche per valutare la portata della recentissima "Dichiarazione congiunta" per il contrasto dell'immigrazione "illegale" sottoscritta nel gennaio del 2009 dal cd. Gruppo dei quattro, dall'Italia con la Grecia, con Malta e con Cipro, dopo un incontro dei ministri dell'interno. In questo caso, secondo quanto si apprende dalle fonti di stampa, si tratterebbe di una posizione comune adottata allo scopo di ricevere un maggiore contributo finanziario dall'Unione Europea per il contrasto dell'immigrazione irregolare, per una più equa distribuzione degli oneri derivanti dall'accoglienza di quanti presentano domanda di asilo o protezione sussidiaria, e ancora per garantire la riammissione nei paesi di origine di coloro che giungono irregolarmente negli stati firmatari della dichiarazione congiunta. L'iniziativa del governo italiano testimonia una evidente spaccatura tra i paesi del mediterraneo centro-orientale e gli altri membri dell'Unione Europea. Questa dichiarazione congiunta sembra comunque naufragata dopo le polemiche sorte tra Italia e Malta in occasione dell'intervento di salvataggio della nave turca Pinar, come è confermato anche dai ricorrenti casi di respingimento di unità militari italiane che tentano di "scaricare" nel porto di La Valletta, a Malta, naufraghi soccorsi nelle acque internazionali del canale di Sicilia, in zona di competenza SAR delle autorità maltesi.

Il "Protocollo per la cooperazione tra l'Italia e la Libia per fronteggiare il fenomeno dell'immigrazione clandestina", firmato a Tripoli alla fine del 2007 dal ministro dell'Interno Giuliano Amato e dal ministro degli Esteri libico, Abdurrahman Mohamed Shalgam, costituisce il documento che ha segnato il punto di svolta nelle relazioni tra Italia e Libia.

«Quello che oggi si conclude è un lungo e riservato negoziato con la Libia», affermava il 27 dicembre del 2007 l'allora ministro dell'interno Amato che elogiava con toni entusiastici il raggiungimento dell'intesa. Secondo il ministro del governo Prodi allora in carica, «sarà ora possibile un pattugliamento con squadre miste a ridosso delle coste libiche, davanti ai porti e alle baie da cui escono le imbarcazione dei trafficanti di uomini. In questo modo sarà possibile contrastare con molta maggiore efficacia questi traffici, salvando molte vite umane e sgominando le bande criminali che li gestiscono. E' ciò che è stato fatto sulle coste dell'Albania, azzerando di fatto l'afflusso dei clandestini attraverso quella rotta. Ora sarà possibile farlo anche con la rotta dalla Libia". Un madornale errore di valutazione come i fatti succedutisi nel tempo hanno dimostrato in maniera inequivocabile. Un errore che ora il ministro dell'interno Maroni si appresta a ripetere rilanciando il pattugliamento congiunto che dovrebbe avere finalmente inizio, dopo continui rinvii, il 15 maggio.

L'accordo del 2007 che aveva avuto il pronto appoggio dell'allora commissario UE Frattini, prevedeva appunto l'invio di sei navi della Guardia di Finanza, tre guardacoste e tre vedette, pronte a operare in acque territoriali libiche, e dunque non in acque internazionali, con equipaggi misti, allo scopo di riportare nei porti africani le barche intercettate. Sei unità navali della Guardia di Finanza - le tre guardacoste e le tre vedette - saranno cedute temporaneamente alla Libia per effettuare «operazioni di controllo, ricerca e salvataggio nei luoghi di partenza e di transito delle imbarcazioni dedite al trasporti di immigrati clandestini, sia in acque territoriali libiche che internazionali». A bordo equipaggi misti con personale libico e personale di polizia italiano, che si occuperà anche di addestramento, formazione, assistenza e manutenzione dei mezzi. L'accordo prevede anche che l'Italia si impegni a cooperare con l'Unione Europea «per la fornitura di un sistema di controllo per le frontiere terrestri e marittime libiche, al fine di fronteggiare l'immigrazione clandestina».

La direzione e il coordinamento delle attività addestrative ed operative di pattugliamento marittimo vengono affidati ad un Comando operativo interforze che sarà istituito presso una «idonea struttura» individuata dalla Libia. Il responsabile sarà un «qualificato rappresentante» designato dalle autorità libiche, mentre il vice comandante (con un suo staff) verrà nominato dal Governo italiano. Tra i compiti del Comando interforze quello di organizzare l'attività quotidiana di addestramento e pattugliamento; di «impartire le direttive di servizio necessarie in caso di avvistamento e/o fermo di natanti con clandestini a bordo»; di 'interfacciarsì con le «omologhe strutture italiane», potendo anche richiedere l'intervento o l'ausilio dei mezzi schierati a Lampedusa per le attività anti-immigrazione. L'accordo prevede anche la fornitura (con un finanziamento Ue) di un sistema di controllo per le frontiere terrestri e marittime libiche, come richiesto dalle autorità libiche alla missione di Frontex che visitò il paese nel maggio 2007. La direzione e il coordinamento delle attività di pattugliamento - e di addestramento - saranno affidati ad un Comando operativo interforze, con sede in Libia. Il responsabile sarà libico, mentre il vice comandante sarà designato dal Governo italiano. In caso di necessità il Comando potrà anche richiedere l'intervento dei mezzi italiani schierati a Lampedusa.

Malgrado l'assenza di un accordo politico complessivo tra Italia e Libia, rivolto ad un maggiore controllo dei punti di passaggio e di partenza dei migranti irregolari in Libia, questo protocollo operativo produceva per la prima volta risultati significativi e, probabilmente per i maggiori controlli sulla terraferma, gli arrivi di immigrati irregolari provenienti dalla Libia registravano fino ai primi mesi dl 2008 un significativo calo. A partire dall'estate dello stesso anno invece, proprio dopo l'insediamento del nuovo governo, gli arrivi, o meglio i salvataggi in mare di migranti fatti partire dalla Libia, aumentavano mese per mese, fino a raddoppiare complessivamente alla fine del 2008. Evidentemente il governo libico tentava di alzare il prezzo della collaborazione offerta all'Italia nella esternalizzazione dei controlli di frontiera.

Il protocollo operativo del 2007 è stato quindi ripreso, confermato e finanziato il 30 agosto del 2008, quando veniva stipulato a Tripoli alla presenza di Berlusconi e Gheddafi un vero e proprio accordo politico bilaterale, definito come «Trattato di amicizia, di partenariato e cooperazione», che prevede la «collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, all'immigrazione clandestina». Secondo quanto previsto dall'accordo, all'art. 19, le due Parti intensificano la collaborazione in atto nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti e all'immigrazione clandestina, in conformità a quanto previsto dall'Accordo firmato a Roma il 13/12/2000 e dalle successive intese tecniche, tra cui, in particolare, per quanto concerne la lotta all'immigrazione clandestina, i Protocolli di cooperazione firmati a Tripoli il 29 dicembre 2007.

L'accordo Italia - Libia del 2008 fa espresso riferimento al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, affermando all'art. 6 che «Le Parti, di comune accordo, agiscono conformemente alle rispettive legislazioni, agli obiettivi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo», senza alcuna menzione alla Convenzione di Ginevra del 1951 a protezione dei diritti dei rifugiati, Convenzione di cui la Libia non risulta ancora firmataria, tanto che l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati non ha ancora una sede operativa aperta ai potenziali richiedenti asilo, come avviene invece, seppure con gravi limitazioni, in Egitto, in Tunisia, in Algeria ed in Marocco. Negli ultimi anni si è appreso soltanto dell'intervento dell'ACNUR in alcune operazioni di resettlement (rieinsediamento) di alcune decine di persone, in prevalenza donne e minori, ritenuti meritevoli di protezione internazionale, dalla Libia verso l'Italia ed altri paesi europei.

Si prevede inoltre, sempre all'art. 19 dell'accordo, concluso a Bengasi nel mese di agosto dello scorso anno, che Italia e Libia collaborino alla definizione di iniziative, sia bilaterali, sia in ambito regionale, per prevenire il fenomeno dell'immigrazione clandestina nei Paesi di origine dei flussi migratori, compresa la fornitura di sofisticate attrezzature elettroniche per il controllo delle frontiere terrestri della Libia.

Secondo lo stesso accordo, che "sostituisce il Comunicato Congiunto del 4 luglio 1998 e il Processo verbale delle conclusioni operative del 28 ottobre 2002", "sempre in tema di lotta all'immigrazione clandestina, le due Partì promuovono la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche, da affidare a società italiane in possesso delle necessarie competenze tecnologiche. Il Governo italiano sosterrà il 50% dei costi, mentre per il restante 50% le due Parti chiederanno all'Unione Europea di farsene carico, tenuto conto delle Intese (?) a suo tempo intervenute tra la Grande Jamahiria e la Commissione Europea".

Non si comprende affatto a quali "Intese" con la Commissione Europea faccia riferimento l'accordo tra l'Italia e la Libia sottoscritto da Berlusconi e da Gheddafi, dal momento che ancora nel 2008 la stipula di un accordo tra L'Unione Europea e la Libia restava nell'agenda delle intese non ancora concluse, ma conoscendo la attendibilità dei due personaggi politici non è difficile immaginare che si tratta, al massimo, delle "intese informali" che avevano preceduto e seguito le Missioni tecniche della Commissione, nel dicembre del 2004, e dell'agenzia Frontex nel 2007. E' la Relazione tecnica al Disegno di legge di ratifica dell'accordo attualmente all'esame del parlamento italiano, come si vedrà più avanti, a chiarire quale sarebbe l'"intesa". Che in realtà sarebbe soltanto un "Memorandum of Understanding (MoU)", tra la Libia e l'Unione Europea che dovrebbe costituire la cornice comunitaria nella quale si inserisce l'Accordo bilaterale di amicizia e di cooperazione stipulato a Bengasi.

Nella Relazione tecnica allegata al Disegno di legge n.2041, per la ratifica e l'esecuzione del Trattato si amicizia, partenariato e cooperazione firmato tra Libia ed Italia a Bengasi il 30 agosto 2008, si legge che, oltre ai Protocolli di cooperazione firmati a Tripoli il 29 dicembre 2007, "dei quali ci si attende pertanto una compiuta attuazione da parte libica", "le due Parti promuoveranno la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche, da affidare a società italiane in possesso delle competenze tecnologiche necessarie. L'Italia si è impegnata a sostenere il 50 per cento dei costi di realizzazione di tale sistema, mentre per il restante 50 per cento Italia e Libia chiederanno all'Unione europea di farsene carico, tenuto conto delle intese intervenute tra Tripoli e Bruxelles, anche su questo aspetto, con la firma di un Memorandum of Understanding (MoU) nel luglio 2007.

Su un piano più generale, le due Parti collaboreranno alla definizione di iniziative volte a prevenire il fenomeno dell'immigrazione clandestina nei Paesi di origine dei flussi migratori. Le somme necessarie da parte italiana da versare al governo libico per l'attuazione degli accordi saranno ricavate dalla tassazione con una apposita Addizionale all'imposta sul reddito delle società).da applicare nei confronti delle società e degli enti commerciali residenti nel territorio dello Stato: che operano nel settore della ricerca e della coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi.

Secondo la stessa relazione tecnica, allegata al DDL 2041 con il quale gli accordi italo-lbici venivano ratificati dal Parlamento italiano, infine, "si ritiene che i princìpi contenuti nel Trattato siano in linea con l'ordinamento comunitario. Analogamente esso è compatibile con gli obblighi internazionali già assunti dal nostro Paese".

Se l'accordo tra Italia e Libia del 30 agosto scorso presenta aspetti oscuri, non si può dire che la relazione allegata al Disegno di legge di ratifica contribuisca a fare chiarezza sulle concrete modalità attuative degli accordi e sulle garanzie per il rispetto dei diritti fondamentali della persona migrante in Libia. Risulta assai dubbio il richiamo al Memorandum of Understanding (MoU) nel luglio 2007", che costituirebbe un"accordo" raggiunto dalla Libia, sulla base del quale adesso l'Unione Europea dovrebbe versare somme consistenti per lì esecuzione dell'accordo Italia-Libia, somme che probabilmente deriveranno piuttosto dallo sblocco dei fondi per i rimpatri, conseguente all'approvazione definitiva della direttiva 2008/115/CE.

Il Parlamento italiano, chiamato a ratificare l'intesa di Bengasi tra Berlusconi e Gheddafi, non è stato messo nelle condizioni di conoscere la esatta portata degli "accordi" tra la Libia e l'Unione Europea in materia di immigrazione (ammesso che esistano...), né quali siano le garanzie sostanziali per i diritti fondamentali della persona migrante in transito in quel paese, con particolare riferimento alla condizione dei potenziali richiedenti asilo.

Con i finanziamenti previsti dall'ultimo Accordo Italia-Libia, si potranno tenere in esercizio due o tre motovedette per ciascun turno di vigilanza, troppo poco per 1400 chilometri di coste. Sul territorio libico si potranno rinforzare (forse) i controlli sulle principali vie di ingresso dal Sudan, dal Chad e dal Niger, dal momento che Algeria, Egitto e Tunisia sorvegliano piuttosto bene le oro frontiere, ma i risultati attesi, come del resto si è verificato con le operazioni Frontex nel Canale di Sicilia, saranno puramente propagandistici, di certo con la prosecuzione delle violazioni più gravi dei diritti fondamentali della persona a partire dal diritto di entrare in Europa per presentare una richiesta di asilo, richiesta che ben difficilmente può essere presentata ed esaminata in Libia.

I paesi europei che stipulano accordi di cooperazione con i paesi di transito non possono agire in violazione diretta o indiretta dei principi affermati dalle Convenzioni internazionali alle quali hanno aderito, e nel caso dell'Italia, delle previsioni vincolanti contenute nella Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell'Uomo e nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati, alla quale, "naturalmente", né l'accordo Italia-Libia, né il Disegno di legge di ratifica fanno alcun riferimento. Eppure quelle disposizioni costituiscono "ius cogens", hanno carattere imperativo ed inderogabile, sanciscono diritti fondamentali della persona con previsioni che, per quanto riguarda il riconoscimento del diritto di asilo e del correlato divieto di refoulement (art. 33 Conv. Ginevra), come nel caso del divieto di trattamenti inumani e degradante (art. 3 CEDU), hanno valore assoluto ed inderogabile. Di fronte alla violazione grave e reiterata di questi principi da parte del governo italiano non resterà che appellarsi ancora una volta alle corti internazionali e, quando sarà possibile, ai giudici nazionali.

7. Gli obblighi di salvataggio nel diritto internazionale del mare

2. Secondo il diritto internazionale, ogni Stato può obbligare i comandanti delle navi che battono la sua bandiera - sempre che ciò sia possibile «senza mettere a repentaglio la nave, l'equipaggio o i passeggeri» - a prestare assistenza a naufraghi trovati in mare od a portarsi immediatamente in soccorso di persone in pericolo quando si abbia notizia del loro bisogno di aiuto (Convenzione UNCLOS 98,1). Secondo il Glossario del mare, pubblicazione ufficiale del Ministero della Difesa, consultabile on-line, "tale obbligo prescinde dal regime giuridico della zona di mare in cui avviene il soccorso nel senso che può esplicarsi tanto nelle acque internazionali come nella zona economica esclusiva o nella zona contigua di uno Stato diverso da quello di bandiera. Il soccorso a persone o navi in pericolo è altresì possibile nelle acque territoriali straniere (UNCLOS 18, 2) come deroga al principio del «passaggio continuo e rapido» previsto dal regime del transito inoffensivo, ferma restando la competenza esclusiva dello Stato costiero sia per il coordinamento dell'operazione sia per l'intervento di mezzi, quali rimorchiatori, specificatamente adibiti a prestare assistenza a navi in difficoltà.

Tutti gli Stati provvisti di litorale marittimo sono altresì tenuti a creare e mantenere un servizio di ricerca e salvataggio (indicato come SAR dall'acronimo di Search and Rescue), facendo ricorso, ove opportuno, ad accordi regionali di mutua assistenza con gli Stati confinanti (Ginevra, II, 12, 2; UNCLOS 98,2) basati sul principio che le autorità dello Stato costiero responsabili dei servizi di ricerca e salvataggio, qualora vengano informate dalle autorità di un altro Stato che vi sono persone in pericolo di vita nella zona SAR di propria competenza, sono tenute ad intervenire «senza tener conto della nazionalità o della condizione giuridica» di dette persone.

Disposizioni specifiche in questa stessa materia sono contenute nella Convenzione di Amburgo del 27 aprile 1979 sulla ricerca e il salvataggio marittimo, detta convenzione SAR, (ratificata dall'Italia con L. 3 aprile 1984, n. 147)". Una normativa vincolante che Italia, e soprattutto Malta, hanno violato ripetutamente nel tempo, a partire dal caso Cap Anamur nel luglio del 2004, arrivando a processare i comandanti delle navi che avevano effettuato interventi di salvataggio in favore dei naufraghi e successivamente avevano fatto ingresso per ragioni di soccorso nelle acque territoriali allo scopo di sbarcare gli stessi naufraghi in un porto sicuro, come prescritto da tutte le convenzioni internazionali. Soltanto negli anni 2007 e 2008 il comportamento delle autorità italiane si era orientato verso un pieno rispetto degli obblighi internazionali di salvataggio. Una prassi umanitaria, adottata dai mezzi della nostra Marina Militare e dalle altre forze di polizia marittima, che adesso il ministro Maroni vuole bruscamente interrompere.

In ogni caso il diritto derivante dalle Convenzioni internazionali sottoscritte e ratificate dall'Italia pone precisi limiti alle decisioni politiche ed obblighi di protezione alle autorità che operano nelle acque del Mediterraneo o nei paesi di transito. In base alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3 (consultabile nella Gazzetta Ufficiale n.132 del 10 giugno del 2003), gli obblighi di fonte internazionale costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato. In base all'art. 11 della nostra Costituzione il diritto internazionale generalmente riconosciuto e le Convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro paese, come le norme comunitarie vincolanti, costituiscono parte integrante del nostro ordinamento giuridico e non possono essere derogate da scelte discrezionali dell'autorità politica o amministrativa. Questa previsione rafforza il dettato dell'art. 10 della nostra Costituzione, che peraltro riconosce il diritto di asilo in termini assai più ampi della Convenzione di Ginevra.

La Convenzione di Montego Bay del 10 dicembre 1982 (UNCLOS) costituisce la fonte primaria del diritto internazionale del mare. L'art. 311 dispone, infatti, che sono salvi soltanto gli altri accordi internazionali compatibili con la Convenzione stessa. Due o più Stati - continua l'art. 311 della Convenzione sul diritto del mare - possono concludere accordi che modifichino o sospendano l'applicazione delle disposizioni della Convenzione e che si applichino unicamente alle loro reciproche relazioni, solo a condizione che questi accordi non rechino pregiudizio ad una delle disposizioni della Convenzione, la cui mancata osservanza sarebbe incompatibile con la realizzazione del suo oggetto e del suo scopo e, parimenti, a condizione che questi accordi non pregiudichino l'applicazione dei principi fondamentali della Convenzione e non pregiudichino anche il godimento dei diritti o l'adempimento degli obblighi degli altri Stati derivanti dalla Convenzione stessa. Questo principio di compatibilità non entra in discussione qualora la medesima Convenzione di Montego Bay richiami e confermi espressamente accordi internazionali in vigore o ne auspichi la stipulazione con riferimento a specifici settori.

Tra le norme che non possono essere oggetto di deroga da parte degli Stati anche mediante accordi bilaterali o multilaterali con altri Stati va richiamato anzitutto l'art. 98 dell'Unclos, perché esso costituisce l'applicazione del principio fondamentale ed elementare della solidarietà. Ogni Stato - si legge nel citato art. 98 - impone che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nei limiti del possibile e senza che la nave, l'equipaggio ed i passeggeri corrano gravi rischi: a) presti assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare; b) vada il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà se viene informato che persone in difficoltà hanno bisogno d'assistenza, nei limiti della ragionevolezza dell'intervento; c) presti soccorso, in caso di collisione, all'altra nave, al suo equipaggio ed ai passeggeri e, nella misura del possibile, indichi all'altra nave il nome ed il porto d'iscrizione e il primo porto del suo approdo. Il secondo comma prevede che gli Stati costieri creino e curino il funzionamento di un servizio permanente di ricerca e di salvataggio adeguato ed efficace per garantire la sicurezza marittima e aerea e, se del caso, collaborino a questo fine con gli Stati vicini nel quadro di accordi regionali.

Varie convenzioni internazionali, tutte in vigore in Italia insieme all'Unclos, costituiscono un completamento della norma ora citata.

In primo luogo, l'art. 10 della Convenzione di Londra del 1989 sul soccorso in mare così dispone: Ogni comandante è obbligato, nella misura in cui ciò non crei pericolo grave per la sua nave e le persone a bordo, di soccorrere ogni persona che sia in pericolo di scomparsa in mare. Gli Stati adotteranno tutte le misure necessarie per far osservare tale obbligo.

La Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione Solas) impone al comandante di una nave "che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione".

Secondo la Convenzione internazionale riguarda la ricerca ed il salvataggio marittimo. In base alla Convenzione on Marittime Search and Rescue (Sar) del 1979, l'autorità responsabile per l'applicazione della convenzione è il Ministro dei trasporti mentre l'organizzazione centrale e periferica è affidata al Comando generale del Corpo delle Capitanerie di porto ed alle relative strutture periferiche. La Convenzione SAR si fonda sul principio della cooperazione internazionale. Le zone di ricerca e salvataggio sono ripartite d'intesa con gli altri Stati interessati. Tali zone non corrispondono necessariamente con le frontiere marittime esistenti. Esiste l'obbligo di approntare piani operativi che prevedono le varie tipologie d'emergenza e le competenze dei centri preposti.

La Convenzione sulla ripartizione delle zone Sar impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare "regardlerss of the nationality or status of such a person or the circumstances in which that person is found", senza distinguere a seconda della nazionalità o dello stato giuridico, stabilendo altresì, oltre l'obbligo della prima assistenza anche il dovere di sbarcare i naufraghi in un "luogo sicuro". I poteri-doveri di intervento e coordinamento da parte degli apparati di un singolo Stato nell'area di competenza non escludono, sulla base di tutte le norme più sopra elencate, che unità navali di diversa bandiera possano iniziare il soccorso quando l'imminenza del pericolo per le vite umane lo richieda. Occorre però garantire che dopo l'espletamento delle operazioni di salvataggio i migranti siano ricondotti in un "porto sicuro" che non è necessariamente quello più vicino.

Come riferisce il Glossario del mare, pubblicazione ufficiale del Ministero della difesa, consultabile on-line, "la Convenzione di Amburgo del 1979 prevede anche la stipula di accordi regionali per la delimitazione tra Stati frontisti o contigui delle zone SAR di competenza nazionale relative sia alle acque territoriali, sia alle acque internazionali adiacenti. La delimitazione di queste zone non è legata a quella delle frontiere marittime esistenti né pregiudica il regime giuridico delle acque secondo la Convenzione del Diritto del Mare del 1982. I limiti delle zone SAR di rispettiva pertinenza dell'Italia e degli altri Stati definiti con tali Memorandum sono stati del tutto svincolati da quelli degli accordi di piattaforma continentale esistenti a rimarcare il principio che simili delimitazioni sono svincolate da quelle delle frontiere marittime".

Sempre secondo il Glossario del mare, "in assenza di accordi di delimitazione i limiti delle zone SAR sono concordati in ambito IMO, dunque a livello internazionale e non comunitario. Per quanto riguarda Mar Mediterraneo nel corso della Conferenza IMO di Valencia del 1997 si è provveduto ad approvare un «General Agreement on a Provisional SAR Plan» in cui sono stabiliti i limiti delle zone SAR mediterranee. Un'eccezione in questo processo di definizione concordato delle zone SAR mediterranee è stata quella di Malta. La zona SAR stabilita unilateralmente da questo Paese, come risultante dal Global SAR Plan elaborato dall'IM, con l'intento di dare informazioni sulle organizzazioni nazionali dei servizi responsabili in materia SAR, ha un'estensione vastissima che coincide con la «Flight Information Region» (FIR). Essa si sovrappone nella parte a Nord e ad Ovest con la corrispondente zona SAR italiana definita con il DPR 664/1994, coprendo addirittura le acque territoriali di Lampedusa e Lampione. A Ovest la zona SAR lambisce le acque territoriali della Tunisia impedendo a questo Paese di svolgere in autonomia operazioni SAR a poche miglia dalle proprie coste. Queste anomalie della zona SAR mal tese potranno essere corrette a seguito di specifici accordi di delimitazione. Riserve sull'estensione della zona SAR di Malta in rapporto alla limitata capacità dei mezzi adibiti al soccorso, sono in passato state espresse dall'Italia nel corso delle ricorrenti ondate migratorie. Il problema stava nel fatto che, in assenza di interventi di soccorso delle autorità di Malta, l'organizzazione SAR italiana si attivava nella zona di competenza maltese per dare assistenza a migranti in pericolo".

Nei rapporti con Malta e con la Libia, dunque, rimangono ancora da definire le regole d'ingaggio delle marine nel caso vengano salvati immigrati in difficoltà, e lo stesso vale all'interno delle missioni congiunte dell'agenzia europea Frontex. Questa situazione di incertezza può comportare gravi ritardi nelle operazioni di salvataggio, oltre che respingimenti collettivi verso i porti di partenza di paesi che non riconoscono (o non siano nelle condizioni di applicare effettivamente, come nel caso della Tunisia) la Convenzione di Ginevra o altre norme internazionali che tutelano i diritti della persona umana, con particolare riferimento ai soggetti più vulnerabili (donne, minori, vittime di tortura). Ancora più incerta è la definizione delle responsabilità di salvataggio nel caso degli interventi delle pattuglie congiunte dell'Agenzia comunitaria FRONTEX, questione sulla quale negli anni precedenti i diversi paesi che partecipavano alle missioni avevano litigato a lungo senza riuscire a trovare una soluzione generalmente condivisa. Al punto che nel 2007 e nel 2008 le missioni di FRONTEX nel Mediterraneo centrale venivano sospese prima della loro scadenza prevista.

In ogni caso, la doverosa cooperazione dello Stato coinvolto nell'operazione di soccorso in mare, comprende l'obbligo dello sbarco dei naufraghi in un "luogo sicuro" sulla base del giudizio del comandante dell'unità che porta a compimento l'intervento di salvataggio, prescindendo dal potere dello Stato stesso di perseguire successivamente i presunti favoreggiatori (comandante ed equipaggio) o di adottare verso i clandestini (ma in tutta sicurezza) i provvedimenti di espulsione o di respingimento previsti dalla legge. Una particolare considerazione merita la problematica relativa a ciò che debba intendersi per "conduzione della persona salvata in luogo sicuro". Infatti è dal momento dell'arrivo in tale luogo che cessano gli obblighi internazionali (e nazionali) relativamente alle operazioni di salvataggio, che pertanto non si esauriscono con le prime cure mediche o con la soddisfazione degli altri più immediati bisogni (alimentazione etc.). Con l'entrata in vigore (luglio 2006) degli emendamenti all'annesso della Convenzione Sar 1979 (luglio 2006) e alla Convenzione Solas 1974 (e successivi protocolli) e con le linee guida - adottate in sede IMO lo stesso giorno di approvazione degli emendamenti alle convenzioni e protocolli - viene fatta maggiore chiarezza sul concetto di place of safety e sul fatto che la nave soccorritrice è un luogo puramente provvisorio di salvataggio, il cui raggiungimento non coincide con il momento terminale delle operazioni di soccorso. Le "linee guida" insistono particolarmente sul ruolo attivo che deve assumere lo Stato costiero nel liberare la nave soccorritrice dal peso non indifferente di gestire a bordo le persone salvate.

Secondo le linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare adottate nel maggio del 2004 dal Comitato marittimo per la sicurezza, che emendano le convenzioni Sar e Solas, "il governo responsabile per la regione Sar in cui sono stati recuperati i sopravvissuti è responsabile di fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito". Secondo le stesse linee guida "un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse e dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possano essere soddisfatte; e possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale.

Va ricordato che Malta non ha riconosciuto questi ultimi emendamenti delle convenzioni SAR e SOLAS, e dunque legittimamente, dal suo punto di vista, riconosce la responsabilità per gli interventi di salvataggio, a livello di coordinamento, ma non consente lo sbarco nell'isola, di tutti i naufraghi che sono soccorsi nella immensa zona SAR di sua competenza.

Si potrà discutere di cinismo politico e di calcolo economico, ma ben difficilmente il governo italiano potrà dimostrare a livello internazionale o davanti agli organismi dell'Unione Europea che Malta ha l'obbligo di accogliere tutti i migranti in difficoltà nelle acque del Canale di Sicilia. Dove lo scorso anno oltre trentamila migranti, in gran parte richiedenti asilo, nel quale venivano soccorsi dai mezzi militari italiani e condotti nel centro di prima accoglienza e soccorso di Lampedusa o in altri centri in Sicilia. Anche la ipotesi delle riammissioni o dei respingimenti in Libia appare vietata dal diritto internazionale, oltre che dalle normative comunitarie che riconoscono il diritto di asilo ed i diritti fondamentali della persona, a partire dal divieto di trattamenti inumani o degradanti (Art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell'uomo).

Come ricorda Caffio (Il controllo dell'immigrazione via mare, consultabile on line), in ogni caso, l'attività delle autorità navali deve essere svolta" nel rispetto dei obblighi di soccorso alla vita umana stabiliti dal Codice della Navigazione e dalla Convenzione del Diritto del Mare la cui responsabilità è attribuita, secondo il DPR 662/1994, alla marina militare nelle acque internazionali ed al Corpo delle Capitanerie di Porto-Guardia Costiera nelle acque territoriali. Tali obblighi rivestono naturalmente una valenza prioritaria ed assoluta che è superiore a qualsiasi altro interesse da tutelare nell'ambito dell'azione dello Stato in mare. Prova ne sia il gran numero di interventi di Search and Rescue (SAR) a migranti svolti dalla Marina Militare in acque internazionali (nel periodo 2007-2008, come si diceva, è stata prestata assistenza a favore di circa 30.000 persone), in alcuni casi a centinaia di miglia dalle coste nazionali, all'interno delle zone SAR, regolamentate dalla Convenzione di Amburgo del 1979, ricadenti potenzialmente sotto la giurisdizione di altri Stati come Malta o la Libia. Tra l'altro, va ricordato che la quasi totalità delle persone salvate in acque internazionali sono state finora condotte in Italia, mentre, secondo i principi affermati dall'IMO nella Risoluzione 167 (78) linee guida su "Safety measuresand procedures for the treatment of persons rescued at sea", la competenza ad accogliere le persone salvate in mare dovrebbe normalmente essere del Paese nella cui zona SAR è avvenuto il salvataggio".

8. Ricorsi collettivi ed attività ispettive per garantire i diritti dei migranti

La pratica dei respingimenti in acque internazionali, che sembrerebbero adottati in base all'art. 10 del testo Unico n.286 del 1998, effettuati su persone soccorse in mare e sottoposte alla giurisdizione italiana in quanto si trovavano su imbarcazioni militari italiane in acque internazionali, viola il diritto a entrare nel territorio italiano per il tempo necessario per l'accertamento dell'età, per il tempo necessario per l'esame della domanda di protezione internazionale, per il tempo necessario a fare valere i mezzi di ricorso.

Il ricorso all'allontanamento in frontiera con la assimilazione del respingimento alle frontiere terrestri al respingimento in acque internazionali, e dunque il richiamo all'articolo 10 del Testo Unico sull'immigrazione, non è sostenibile perché, mentre il respingimento in frontiera terrestre limita la libertà di circolazione della persona alla quale si impedisce l'ingresso nel territorio nazionale, nel caso di respingimenti in acque internazionali, le persone sottoposte alla misura del respingimento sono soggette al potere di imperio delle autorità militari che impediscono l'ingresso nelle acque territoriali, limitando la libertà personale dei migranti, in quanto li trattengono a bordo decidendo quindi il porto di destinazione verso il quale sbarcarli. Ricorre dunque per intero la responsabilità dello stato di bandiera delle unità che effettuano il blocco o il salvataggio in mare, che è tenuto a condurre i naufraghi verso un "porto sicuro" come è imposto dalle Convenzioni internazionali sul diritto del mare.

Come si è detto in precedenza queste pratiche di polizia violano diverse disposizioni della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell'uomo, della Convenzione di Ginevra, della Convenzione di New York sui diritti dell'infanzia del 1989, delle Direttive comunitarie in materia di accoglienza (2003/9/CE), di qualifiche (2004/83/CE) e di procedure di asilo(2005/85/CE) relative ai richiedenti protezione internazionale, oltre che le disposizioni interne di attuazione.

Soprattutto si verifica la violazione reiterata dell'articolo 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti della persona, che sancisce il divieto di trattamenti inumani e degradanti, norma che può essere invocata tanto davanti agli organi comunitari che davanti alla Corte Europea dei diritti dell'uomo ed al Comitato per la prevenzione della tortura (CPT). I poteri di respingimento in acque internazionali esercitati dall'Italia incidono in modo sostanziale sul godimento dei diritti fondamentali della persona riconosciuti dai Trattati internazionali e dal Trattato sull'Unione Europea, a partire dal diritto alla vita, ma è soprattutto l'art. 3 della CEDU che appare inesorabilmente violato per una precisa scelta politica del governo italiano.

Di fronte alla gravità dei fatti che continuano a verificarsi nel Canale di Sicilia, nella prospettiva delle nuove intese maturate con la Libia occorre individuare forme di rappresentanza collettiva delle tante vittime delle procedure amministrative di "respingimento immediato" o di respingimento differito subito dopo lo sbarco nei porti e di successivo rimpatrio forzato verso i paesi di provenienza.

Le vittime di queste prassi "informali" ben difficilmente possono fare valere con ricorsi individuali i loro diritti fondamentali, dal diritto alla vita ed alla salute, ai diritti di comprensione linguistica e di protezione internazionale.

I più "fortunati" tra i migranti partiti dalla Libia, che riescono ad entrare nel territorio nazionale ed avere accesso ad una procedura di asilo o in un progetto di assistenza in Italia, non saranno quasi mai nelle condizioni presentare denunce o di testimoniare su quanto hanno vissuto, per il timore di azioni ritorsive da parte delle autorità amministrative.

La Commissione Europea deve aprire immediatamente una indagine, ed eventualmente una procedura di infrazione, sul comportamento dell'Italia nella esecuzione dei respingimenti collettivi nelle acque internazionali del Canale di Sicilia, in quanto le diverse violazioni sopra riferite sono state compiute da autorità militari italiane, su indicazione del ministero dell'interno e del capo della polizia italiani, nell'ambito dell'esercizio del potere dello stato in acque internazionali, e quindi in un luogo, a bordo di unità militari battenti bandiera italiana, nel quale le persone recuperate a mare venivano raccolte, luogo nel quale queste stesse persone erano sottoposte alla giurisdizione italiana. Questo profilo assume rilievo preminente trattandosi di un caso eclatante di violazione dell'art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell'Uomo. (Sul punto si rinvia a Liguori A. Le garanzie procedurali avverso l'espulsione degli immigrati in Europa, Editoriale Scientifica, Napoli, 2008).

Il fondamento delle competenze della Commissione nell'intervento sulle materie sollevate dalla presente denuncia risiede anche nella rilevanza dei valori tutelati dall'art. 3 della Cedu, dalla gravità già documentata delle conseguenze delle violazioni compiute dall'Italia, e soprattutto dal rischio che questi comportamenti illegali possano ancora reiterarsi in futuro, come affermato dal ministro dell'interno Maroni e dal presidente del Consiglio Berlusconi.