ADIR - L'altro diritto

Dire, fare, baciare, lettere e testamento
Divertissement sull'acquisizione della cittadinanza da parte degli stranieri nati in Italia (*)

Emilio Santoro, 2014

Il titolo prende spunto da una popolare penitenza usata dai bambini. Esso nasce un poco dalla retorica del governo Letta che ha definito "decreto del fare" uno dei provvedimenti che più ha caratterizzato la sua breve vita e un poco dal fatto che il tema trattato nelle note che seguono sono il diritto e la speranza di qualche migliaio di bambini e ragazzi nati in Italia, ai quali, forse, un articolo di quel provvedimento potrebbe evitare una vita di penitenza! Il sottotitolo nasce, invece, dalla nota tesi di Blaise Pascal (1), che polemizzava contro il divertissement, da lui inteso in senso etimologico di "allontanamento", "deviazione" (dal latino devertere), cioè come un'attività ludica intrapresa per sottrarsi a ciò che genera infelicità nella sua vita. Il mio intento è esattamente l'opposto: attraverso la metafora del gioco dei bambini vorrei attirare l'attenzione sulla drammatica condizione di molti ragazzi nati in Italia apolidi di fatto e sull'importanza di sfruttare gli spiragli aperti dalla nuova normativa per ovviare alla vita piena di difficoltà e vuota di diritti a cui sembrano ineluttabilmente destinati.

1. Dire ... anzi denunciare!

La cosa da dire è che dal 1998, anno di approvazione del Testo unico sull'immigrazione, si compie un'enorme ingiustizia a danno dei figli, nati in Italia, degli immigrati irregolari.

Nel Testo unico ci sono infatti almeno tre disposizioni rilevanti per i minori figli di genitori irregolari: l'art. 19, che va letto insieme al comma 1 lettera a) dell'art. 28 del "Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero" (D.P.R. 394 del 31 agosto 1999), l'art. 31 e l'art. 33.

Le parti rilevanti, per i minori figli di genitori irregolari, di queste ultime due disposizioni gravitano intorno alla prima, l'art. 19, che rappresenta la pietra angolare su cui poggia la tutela dei minori stranieri in questa particolare situazione. L'art. 31, dopo aver regolato il permesso di soggiorno dei minori conviventi con genitori regolari, dispone che "il Tribunale per i minorenni, per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell'età e delle condizioni di salute del minore che si trova nel territorio italiano, può autorizzare l'ingresso o la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle altre disposizioni del presente testo unico". Poi regola le condizioni di revoca di questa autorizzazione. Per cui nulla esso dice sullo status del minore figlio di genitori irregolari, ma assicura a quest'ultimo, quando si trova in particolari condizioni di necessità, il diritto di essere assistito dai suoi genitori, o da altro familiare, consentendo loro di entrare regolarmente in Italia o di regolarizzare la permanenza. L'art. 33 istituiva il Comitato dei minori, oggi soppresso, affidandogli il compito, tra l'altro, di provvedere a "la tutela dei diritti dei minori stranieri in conformità alle previsioni della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989". In particolare il Comitato avrebbe dovuto definire "le modalità di accoglienza dei minori stranieri non accompagnati presenti nel territorio dello Stato", raccordandosi con i servizi sociali degli enti locali e con le altre amministrazioni interessate per organizzare l'accoglienza o il rimpatrio assistito e il ricongiungimento del minore con la sua famiglia nel Paese d'origine o in un Paese terzo. La funzione forse più importante di questo comitato era però quella di dare, a norma dell'art. 32, il parere sulla possibilità di un minore non accompagnato di avere, al compimento della maggiore età, un permesso per lavoro o studio. Quindi anche l'art. 33 non riguarda direttamente lo status del minore figlio di genitori irregolari, ma definiva chi doveva coordinare le autorità che se ne dovevano fare carico e stabilire il suo destino al momento in cui diventava maggiorenne.

Come accennato il Comitato per i Minori Stranieri è stato soppresso dal Decreto sulla Spending Review (art. 12, comma 20, del Decreto legge n. 95/2012, convertito con modificazioni nella L. n. 135/2012). Il governo si è affrettato a sottolineare che la sua abolizione non avrebbe determinato

una interruzione dei meccanismi di tutela e protezione dei minori stranieri non accompagnati in quanto le funzioni del Comitato sono state trasferite alla Direzione Generale dell'Immigrazione e delle Politiche di Integrazione presso lo stesso Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nel quale era incardinato il Comitato.
Gli obblighi dei Comuni e degli altri Enti Istituzionali che a vario titolo si occupano di minori stranieri non accompagnati rimangono perciò gli stessi in ottemperanza (sic!) alla segnalazione della presenza del minore sul territorio italiano, all'invio della scheda censimentaria, alla richiesta delle indagini familiari nel paese di origine, alla richiesta di rimpatrio assistito volontario e alla richiesta di parere sulla permanenza in Italia da darsi poco prima del raggiungimento della maggiore età ai sensi del Testo Unico sull'Immigrazione, art. 32 comma 1 bis, come modificato dal D. Lgs. 89/2011.

Tutte queste disposizioni presuppongono, in qualche modo, che il minore privo di genitori regolarmente soggiornanti abbia diritto a restare sul territorio italiano in condizioni di assoluta regolarità, fino a che questo non venga considerato in contrasto con il suo interesse. Il punto nodale è dunque il secondo comma dell'art. 19 che regola questo diritto. Esso stabilisce che "non è consentita l'espulsione, salvo che nei casi previsti dall'articolo 13, comma 1, nei confronti: a) degli stranieri minori di anni diciotto, salvo il diritto a seguire il genitore o l'affidatario espulsi". Quindi un minore non comunitario non può essere espulso se non nel remoto caso che debba essere allontanato "per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato". In questo caso, l'espulsione deve essere disposta dal Tribunale per i minorenni (ai sensi dell'art. 33 4º comma del T.U. sull'immigrazione) su richiesta del Ministro dell'interno, che ne deve darne "preventiva notizia al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro degli affari esteri". Quando vengono espulsi i genitori la loro espulsione non si "estende" ai figli minori. La lettera della legge dice chiaramente che i minori, che non possono essere allontanati dal territorio, hanno il "diritto" (non il dovere!) di seguire i genitori rimpatriati. Sono i genitori che, al momento dell'espulsione, devono valutare se ritengono più opportuno portare con se i minori o lasciarli in Italia. L'eventuale scelta dei genitori di lasciare il minore in Italia potrà essere valutata in un secondo momento dal Tribunale per i minorenni del luogo in cui il minore concretamente si trova. Il Tribunale, in origine in collaborazione con il Comitato per i minori stranieri, oggi direi in modo autonomo, deve stabilire se è effettivamente nell'interesse del minore restare oppure se il suo interesse è meglio garantito attraverso il ricongiungimento con la propria famiglia nel paese in cui questa si trova.

Qualora il Tribunale ritenga che sia meglio per il minore rimanere con la propria famiglia, si provvederà al rimpatrio assistito del minore. Questa valutazione deve però essere fatta caso per caso a seconda delle condizioni in cui si trova il minore in Italia e quelle in cui si troverebbe una volta rimpatriato. Saremmo degli ipocriti se ritenessimo che l'interesse del minore sia sempre quello di stare con la sua famiglia. Il nostro sistema di assistenza domiciliare si regge su quello che in letteratura è stato definito care drain, cioè su un gran numero di madri che lasciano i loro figli, anche piccolissimi nelle Filippine, piuttosto che in Romania, in Ucraina, in Perù, eccetera, alla cura dei nonni o della zia, per venire a vivere nelle nostre case ed assistere i nostri bimbi e i nostri anziani non autosufficienti. In questo caso ci sembra legittimo che il minore cresca senza i genitori (2).

Il ricordato "Regolamento recante norme di attuazione del testo unico" all'art. 28, rubricato "Permessi di soggiorno per gli stranieri per i quali sono vietati l'espulsione o il respingimento", primo comma, descrive il tipo di permesso che il questore deve rilasciare quando la legge dispone il divieto di espulsione. Il primo caso esaminato - lettera a) del primo comma - è proprio quello del minore che non ha genitori regolarmente presenti sul territorio: la norma prescrive che venga rilasciato un permesso "per minore età", quando il minore stesso non ha un genitore regolarmente soggiornante e quindi, se è infra-quattordicenne, non può essere iscritto sul permesso di soggiorno di questo o, se è più grande, non può avere un permesso per motivi di famiglia collegato a quello del genitore. La norma si affretta ad aggiungere che se il minore, oltre ad essere privo di genitori con permesso di soggiorno, risulta abbandonato, deve essere "immediatamente informato il Tribunale per i minorenni per i provvedimenti di competenza". È importante sottolineare che la norma non fa coincidere la mancanza di un genitore regolarmente soggiornante con lo stato di abbandono. Lo stato di abbandono è considerato solo come una eventualità che può conseguire dalla mancanza di un genitore regolarmente soggiornante. Questo vuol dire che, se i servizi sociali constatano che il minore non è in stato di abbandono, perché il genitore, pur essendo irregolarmente soggiornante, riesce a prendersi cura di lui oppure perché ci sono altre persone che si assumono in modo soddisfacente questa incombenza, non devono avvisare il Tribunale per i minorenni, perché non necessitano provvedimenti da parte di quest'ultimo. Eventualmente constatino lo stato di abbandono, l'unica strada non è, comunque, procedere all'affido del minore, il Tribunale può sempre, come abbiamo visto, valutare di eliminare la situazione di sofferenza del minore consentendo l'entrata o la permanenza regolare del genitore, o di un altro familiare, a norma dell'art. 31 3º comma.

In sostanza, secondo il quadro normativo vigente dal 1998, quando si trova un minore con una famiglia irregolare, a meno che lui non decida di esercitare il diritto di seguire la famiglia se questa viene espulsa, gli si deve rilasciare un permesso per minore età sia se non si provvede all'espulsione della famiglia, sia se vi si provvede e il minore resta in Italia. Al minore dotato di un permesso di soggiorno per minore età deve essere data una residenza, che può essere presso il luogo in cui vive con la famiglia irregolarmente presente, la persona a cui la famiglia lo ha affidato, oppure presso la famiglia o la casa famiglia cui ritiene di affidarlo il Tribunale per i minorenni, qualora valuti che il minore stesso si trovi in condizioni di abbandono.

Queste disposizioni non sono mai state osservate. Il permesso per minore età è stato in tutti questi anni un permesso virtuale a geometria variabile: non è stato quasi mai fisicamente rilasciato, si è spesso assunto che i minori non accompagnati ce lo abbiano, gli effetti che sono stati attributi a questo permesso "virtuale" sono stati spesso minimi, mai tutti quelli che dovrebbero essere connessi ad un permesso di soggiorno, e i diritti che sono stati ricondotti ad esso hanno variato da circostanza a circostanza. Ma soprattutto il destino legale del minore non è mai stato distinto da quello dei suoi genitori. Non è praticamente mai stato conferito il permesso per minore età a un minore la cui famiglia è irregolare e non viene mai detto a una famiglia destinataria di un provvedimento di allontanamento, che esso non riguarda il minore e che se lui vuole può restare in Italia, in condizioni di regolarità, salvo che il Tribunale per i minorenni valuti la cosa contro il suo interesse. Questa prasi, che ripetendosi ormai da circa sedici anni, si può definire una "scelta politica", è probabilmente dettata da un lato dalla volontà di non incoraggiare l'arrivo di minori non accompagnati o di famiglie con minori, dall'altro dal costo e dalle difficoltà che comporta la presa in carico di un minore privo di famiglia.

Questa inosservanza danneggia gravemente tutti i minori stranieri, costretti a condurre una vita da irregolari, quando avrebbero diritto ad un permesso di soggiorno. Essa danneggia però in modo particolarmente drammatico i minori nati in Italia da genitori stranieri. Infatti il secondo comma dell'articolo 4 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 recante "Nuove norme sulla cittadinanza", prevede che "lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data". Il D.P.R. 572/93, con cui viene emanato il regolamento di attuazione della legge sulla cittadinanza, all'art. 1 stabilisce che: "Ai fini dell'acquisto della cittadinanza italiana: a) si considera legalmente residente nel territorio dello Stato chi vi risiede avendo soddisfatto le condizioni e gli adempimenti previsti dalle norme in materia d'ingresso e di soggiorno degli stranieri in Italia e da quelle in materia d'iscrizione anagrafica". Attraverso varie Circolari (in particolare la Circ. M.I. n. 60.1 del 28 settembre 1993 e la Circ. M.I. n. K.69/89 del 18 febbraio 1997) il Ministero degli Interni ha ribadito, negli anni successivi, che il requisito della residenza implica l'obbligo per la persona straniera di essere in regola con le norme relative al permesso di soggiorno, oltre che con quelle relative all'iscrizione anagrafica. Per poter scegliere la cittadinanza italiana si dovrebbe essere identificabili con certezza (dunque in possesso di un documento di identità, passaporto o equipollente), essere nati in Italia, essere stati sempre regolarmente presenti ed esserlo al momento della domanda, essere stati sempre residenti ed esserlo al momento della domanda. Il mancato conferimento del permesso per minore età ai minori nati in Italia da genitori irregolarmente presenti o divenuti tali durante i primi anni di vita del figlio, senza che lo status di questo sia distinto da quello dei genitori, oltre a costringere il minore a vivere da irregolare, contrariamente a quanto prescritto dalla legge, lo priva dunque del diritto di avere la cittadinanza italiana al compimento dei diciotto anni.

Che l'Italia stia compiendo una grave violazione dei diritti di questi minori lo dice anche il Comitato sui diritti dell'Infanzia che, in occasione della sua 58ª sessione, tenutasi tra 19 settembre e il 7 ottobre 2011, commentando il rapporto dell'Italia sull'attuazione della Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia (3), denuncia le gravi conseguenze che la mancata iscrizione anagrafica comporta per i minori. La preoccupazione del Comitato nascono dalla legge n. 94/2009 (uno dei tanti cosiddetti "pacchetti sicurezza" che hanno costellato la legislazione italiana dell'ultimo quindicennio) che ha reso obbligatoria, per tutti coloro che non sono italiani, l'esibizione del permesso di soggiorno al fine di ottenere documenti sullo stato civile. Come abbiamo detto, in effetti il problema non nasce tanto dalle previsione della legge 94/2009 quanto dal comportamento delle questure, che in totale e palese violazione della legge, non rilasciano il permesso di soggiorno per minore età quando emerge la presenza sul territorio di un minore primo di genitori legalmente soggiornanti. Questo precisazione non sminuisce però l'importanza del richiamo del Comitato che raccomanda allo Stato italiano "di attuare la legge n. 91/1992 sulla cittadinanza italiana in modo da tutelare i diritti di tutti i minorenni che vivono in Italia" e in particolare di "garantire per legge, e facilitare nella pratica, l'obbligo della registrazione alla nascita per tutti i minorenni che nascono e vivono in Italia [...] indipendentemente dalla loro origine sociale ed etnica e dallo status di residenti dei genitori" e di "facilitare l'accesso alla cittadinanza peri minorenni che altrimenti potrebbero essere apolidi" (4).

Sulla stessa linea, nel rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione ONU sull'infanzia e l'adolescenza e i Protocolli opzionali (5), pubblicato il 17 giugno scorso, quindi pochi giorni prima dell'emanazione del "decreto del fare", il Gruppo CRC (6), denuncia, in primo luogo, la mancanza di modifiche normative necessarie ad assicurare la sicura registrazione anagrafica per i minori stranieri figli di cittadini presenti irregolarmente, così come già richiesto nel precedente rapporto (7). Esso chiede poi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri di promuovere la riforma dell'art. 6 del Testo Unico sull'Immigrazione in modo da reintrodurre gli atti di stato civile tra i documenti per i quali non è necessaria l'esibizione del permesso di soggiorno. Viene, inoltre, nuovamente richiesto al Parlamento di provvedere ad una modifica della normativa sulla cittadinanza rispetto all'accesso da parte di minori stranieri giunti in Italia da piccoli, sebbene alcune modifiche positive siano state rilevate.

Merita di essere sottolineato che il Gruppo sollecita il legislatore non solo a garantire la cittadinanza ai minori nati in Italia, anche da genitori irregolari, ma stigmatizza anche "la mancanza di disposizioni in merito all'acquisto della cittadinanza da parte di minorenni, figli di genitori stranieri, arrivati in Italia da piccoli". Per loro non è prevista la possibilità di acquisizione della cittadinanza, se non attraverso i canali già previsti per gli adulti (dieci anni di residenza o matrimonio), a meno che i genitori non divengano a loro volta cittadini italiani: in questo caso anche il figlio minorenne con essi convivente acquisisce la cittadinanza. Da questa situazione emergono, tuttavia, ulteriori problematiche come la possibilità per il minorenne straniero di 'seguire' la cittadinanza del genitore straniero che diventi cittadino italiano, solo se convivente con quest'ultimo; ma tale convivenza può essere dimostrata, secondo gli uffici comunali, solo con la residenza anagrafica. In tal modo, quindi, "non si tiene conto dell'effettivo legame del genitore con il figlio, il quale può, ad esempio, essere da questi separato, magari perché costretto a vivere lontano per motivi di lavoro, ma avere ugualmente un rapporto stretto con il proprio figlio".

2. Fare

Il cosiddetto "decreto del fare" del governo Letta, cioè il decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 contenente "Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia", convertito con la legge 9 agosto 2013, n. 98, all'art. 33, rubricato "Semplificazione del procedimento per l'acquisto della cittadinanza per lo straniero nato in Italia", ha finalmente preso atto della grave ingiustizia perpetrata ai danni di tanti minori e predisposto un percorso per consentire ai ragazzi che non hanno ancora compiuto diciannove anni di porre rimedio almeno per quanto riguarda la possibilità di chiedere la cittadinanza. Il dato più eclatante è che il ricordato articolo 33 sancisce, infatti, che ai fini dell'ottenimento della cittadinanza, non posso essere fatti ricadere sui ragazzi stranieri nati in Italia "eventuali inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della Pubblica Amministrazione".

L'origine di questa norma probabilmente non è la cattiva coscienza per la prassi seguita fino ad oggi a danno dei minori figli di genitori irregolari. Essa fu originariamente concepita dal ministro Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio. Nasce quindi probabilmente dalle perplessità, di cui la Comunità si era spesso fatta portatrice, derivanti dall'applicazione dell'art. 4 della legge sulla cittadinanza alle cosiddette popolazioni 'nomadi di antico insediamento'. Tali perplessità si fondano sul fatto che la normativa relativa al soggiorno vigente prima della fine degli anni Ottanta del secolo scorso, cioè prima dell'approvazione della legge Martelli, non è paragonabile alla normativa entrata in vigore successivamente, e non sempre i nuclei familiari cosiddetti 'nomadi' sono stati opportunamente informati in quegli anni sull'opportunità di non perdere lo status di soggiorno regolare o sull'opportunità di iscrivere i propri figli sul titolo di soggiorno personale. Molte amministrazioni comunali anzi hanno avvalorato la percezione di queste persone di essere in stato di regolarità rilasciando loro la carta di identità e continuando a rinnovargliela alla scadenza.

L'art. 33 del "decreto del fare" ha un progenitore nella circolare n. 22/07 del 7 novembre 2007 del Ministero dell'Interno. Con essa si prendeva atto che alcuni genitori stranieri sebbene presenti nel nostro Stato, non avevano provveduto, o lo avevano fatto in ritardo, all'inserimento nel proprio permesso di soggiorno dei figli nati in Italia o alla loro iscrizione all'anagrafe del Comune di residenza e in mancanza di tale requisito non era stata possibile l'acquisizione del nostro status civitatis. Da questa considerazione il Ministero dell'Interno faceva discendere la raccomandazione di non considerare pregiudizievole ai fini dell'acquisto della cittadinanza italiana, ai sensi dell'art. 4 comma 2 della legge 91/92, l'iscrizione anagrafica tardiva del minore presso un Comune italiano. Già questa circolare afferma che l'impossibilità di dimostrare i requisiti previsti dall'art. 4, comma 2 e del conseguente art. 1 del D.P.R. 572/93, derivano normalmente da "omissioni o i ritardi" dovuti "ai soggetti esercenti la patria potestà e non imputabili al minore", che finiscano però per arrecare danno a quest'ultimo. È in base a questa considerazione che il Ministero legittima l'adempimento tardivo, "in armonia con la linea di azione del Governo - e qui il riferimento è alla circolare n. K.60.1 del 5 gennaio 2007, con cui il ministero aveva provveduto ad una generale attenuazione della rigidità dei parametri previsti dai vari percorsi di acquisizione della cittadinanza - e con l'orientamento in ambito internazionale volto alla tutela in via primaria degli interessi del minore". Merita di essere sottolineato che questo adempimento tardivo è possibile, dice sempre la circolare, "ove vi sia una documentazione atta a dimostrare l'effettiva presenza dello stesso nel nostro Paese nel periodo antecedente la regolarizzazione anagrafica (attestati di vaccinazione, certificati medici in generale etc.)". La circolare aggiungeva che questa documentazione doveva essere tale da consentire di ricollegare "ragionevolmente" l'iscrizione anagrafica al momento della nascita e quest'ultima doveva "essere stata regolarmente denunciata presso un Comune italiano da almeno uno dei genitori legalmente residente in Italia" (corsivo mio).

Quest'ultimo limite, non presente nella legge, e aggiunto attraverso una circolare, è stato ritenuto illegittimo dalla giurisprudenza di merito (8), che ha correttamente sottolineato che l'art 4 comma 2º della legge 91/1992

stabilisce, quali unici presupposti per l'ottenimento della cittadinanza, che il minore sia nato in Italia e che vi abbia risieduto, ininterrottamente e legalmente, fino al raggiungimento della maggiore età, senza fare affatto riferimento all'ulteriore requisito che il minore sia stato iscritto all'anagrafe italiana da almeno un genitore con residenza legale in Italia.
La ratio della norma in questione consiste nell'esigenza di favorire l'acquisto della cittadinanza da parte di persone che, essendo nate nel nostro paese e avendovi continuativamente abitato, sono verosimilmente del tutto integrate nel nostro tessuto sociale, economico e culturale.
Non possono quindi essere introdotti in via amministrativa limiti all'acquisto della cittadinanza ulteriori rispetto a quelli previsti dalla Legge del 1992, che ne frustrino gli intenti.

Questa genealogia non tocca però il fatto che la locuzione "eventuali inadempimenti riconducibili [...] agli uffici della Pubblica Amministrazione" può, al di là delle intenzioni del legislatore, essere letta come l'esplicito riconoscimento che in questi anni è stata seguita una prassi illegittima, quella di negare il permesso di minore età ai minori privi di genitori regolarmente presenti. È stato, infatti, sicuramente, come abbiamo visto, un errore della pubblica amministrazione (errore che continua purtroppo ad essere commesso), non rilasciare un permesso di soggiorno per minore età ai figli di genitori irregolarmente soggiornanti precludendo loro la possibilità di risultare regolarmente residenti. Appare quindi non solo legittimo ma doveroso considerare la procedura disegnata dall'art. 33 del Decreto del fare, come uno strumento per rimediare alle gravi ingiustizie provocate da questa prassi illegittima. Appare inoltre evidente che oggi le Questure non si possono più esimere di rilasciare i permessi di soggiorno ai minori stranieri, siano pure essi conviventi con genitori irregolarmente soggiornanti e soggetti a procedura di espulsione.

Il secondo comma dell'art. 33 detta disposizione ai comuni affinché i ragazzi siano informati del loro diritto di chiedere il riconoscimento della cittadinanza e non dimentichino di farlo in tempo utile, cioè prima del compimento del diciannovesimo anno. Esso infatti stabilisce che "gli ufficiali di stato civile sono tenuti, nel corso dei sei mesi precedenti il compimento del diciottesimo anno di età, a comunicare all'interessato, nella sede di residenza quale risulta all'ufficio, la possibilità di esercitare il diritto di cui al comma 2 del citato articolo 4 della legge n. 91 del 1992 entro il compimento del diciannovesimo anno di età". La disposizione si conclude con l'affermazione che in mancanza di tale avviso "il diritto può essere esercitato anche oltre tale data".

L'obbligo di inviare l'avviso è posto in capo agli ufficiali di stato civile, questi, pur titolari del potere di conferire la cittadinanza, non hanno le informazioni anagrafiche per sapere a chi e quando inviare l'avviso. Il secondo comma erra quando afferma che all'ufficio si stato civile risulta un indirizzo di residenza del minore, quell'ufficio non ha nessuna informazione relativa alla residenza. In sede di conversione del decreto è, quindi opportunamente, stato aggiunto un articolo 2-bis che impone agli uffici di stato civile di acquisire, entro tre mesi dall'entrata in vigore della legge, tutte le informazioni necessarie dagli altri uffici pubblici utilizzando "gli strumenti informatici". Il problema più delicato è però quello della comunicazione. Dato che dalla sua mancanza deriva il diritto di presentare la domanda di cittadinanza anche dopo il compimento del diciannovesimo anno, sebbene la legge non dica niente su come la comunicazione debba essere effettuata, appare fondamentale che essa avvenga in modo da evitare contestazioni: quindi o attraverso messo comunale o attraverso raccomandata.

La norma poi prevede che il diritto può essere esercitato dopo il compimento del diciannovesimo anno di età quando la comunicazione relativa al diritto di optare per la cittadinanza italiana non viene effettuata, "nel corso dei sei mesi precedenti il compimento del diciottesimo anno", questo vuol dire che, se la comunicazione avviene dopo che il ragazzo o la ragazza straniera hanno compiuto il diciottesimo anno, essi possono fare la domanda in qualsiasi momento vogliano e non più entro il loro diciannovesimo anno. La norma infatti non prevede un termine entro il quale il diritto deve comunque essere esercitato, per cui chi non riceve la comunicazione nei sei mesi antecedenti al compimento del diciottesimo anno di età, può esercitare il diritto di optare per la cittadinanza italiana in qualsiasi momento, anche quando avrà cinquant'anni o in punto di morte!

Dato questo quadro normativo sembra ragionevole sostenere che l'art. 33 rappresenti anche una remissione in termini per tutti quei ragazzi stranieri, nati in Italia, che, pur avendone diritto, hanno compiuto il diciannovesimo anno di età senza chiedere il riconoscimento della cittadinanza italiana. Altrimenti la norma avrebbe un forte impatto discriminatorio, su un diritto fondamentale, come quello di acquisire lo status civitatis. I ragazzi stranieri, nati in Italia, che compiono diciotto anni, dopo l'entrata in vigore del decreto, senza ricevere l'avviso, possono da ora in poi in qualsiasi momento optare per la cittadinanza italiana, mentre tutti i ragazzi che hanno già compiuto i diciotto anni al momento dell'entrata in vigore della legge sono esclusi dalla cittadinanza italiana, e spesso condannati alla vita di esclusione che comporta l'essere apolidi di fatto.

L'ultimo delicato problema riguarda la platea a cui i Comuni devono mandare la comunicazione. La ratio stessa della norma esclude che la lettera debba essere mandata ai soli minori che sono regolarmente residenti dalla nascita: scopo dell'art. 33 è, come recita il primo comma, quello di consentire all'interessato di dimostrare il possesso dei requisiti che eventualmente non risultino. Se vengono esclusi i minori che apparentemente non hanno i requisiti si vanifica la norma stessa.

Chiarito questo punto resta da stabilire se la comunicazione da inviare deve contenere anche l'avviso che, in mancanza di una residenza ininterrotta per tutti i diciotto anni, la persona può provare la sua presenza sul territorio "con ogni idonea documentazione" e se l'avviso vada inviato solo ai minori che quando hanno diciassette anni risultino regolarmente presenti sul territorio. Data la ratio della norma enunciata dal primo comma dell'articolo, non mi sembra che ci siano dubbi che la comunicazione deve contenere l'avviso che il minore può "dimostrare il possesso dei requisiti con ogni idonea documentazione" ove questi non risultassero per "inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della Pubblica Amministrazione". Per quanto concerne la platea dei soggetti ai quali la comunicazione deve essere inviata, la legge stabilisce che essa va fatta "all'interessato, nella sede di residenza quale risulta all'ufficio", sembrerebbe quindi che i Comuni debbano mandare la comunicazione solo ai minori residenti. Se questa fosse l'interpretazione si riproporrebbe il problema dei minori non iscritti all'anagrafe, che non verrebbero raggiunti da alcuna comunicazione: quindi, paradossalmente, la norma perpetuerebbe l'errore per riparare al quale è nata. O meglio essa creerebbe una grave ed ingiustificata disparità di trattamento. Se un minore non risulta regolarmente residente dalla nascita al compimento dei tre anni, lo si metterebbe in condizione di dimostrare che la sua mancata iscrizione come residente dipende da "inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della Pubblica Amministrazione" ed egli potrebbe "dimostrare il possesso dei requisiti con ogni idonea documentazione". Mentre se un minore non risulta regolarmente soggiornante dai quindici ai diciassette anni e mezzo gli verrebbe preclusa questa possibilità. Appare quindi logico sostenere che l'avviso deve essere mandato a tutti i minori stranieri nati in Italia.

La ratio della disposizione impone che l'avviso sia mandato anche a quei minori che ai comuni risultano presenti sul loro territorio pur se non sono regolarmente residenti. Saranno i ragazzi stranieri e le famiglie a dover produrre la documentazione necessaria per dimostrare che in effetti sono stati sempre presenti sul territorio nazionale, pur non potendo acquisire formalmente la residenza perché, per esempio, non gli è stato erroneamente rilasciato il dovuto permesso per minore età.

Indicazioni in questo senso mi sembrano contenute anche nella lettera che il presidente dell'ANCI Piero Fassino ha inviato, insieme ad una bozza di comunicazione da mandare ai minori stranieri nati in Italia, a tutti i Sindaci italiani. Ricordato come l'art. 33 sia anche il frutto della campagna "18 anni.. in Comune" avviata nell'ottobre 2011 da ANCI, Save the Children e Rete G2 - Seconde Generazioni e come "l'acquisto della cittadinanza e con essa della completa titolarità dei diritti e doveri costituisce un passaggio chiave del percorso verso la piena integrazione", sottolineato che "le persone nate e cresciute in Italia" sono "nostri concittadini di fatto e non di diritto", il presidente dell'ANCI ricorda "l'obbligo per gli Ufficiali di stato civile di informare le ragazze e i ragazzi di origine straniera nel corso dei sei mesi precedenti il compimento del diciottesimo anno, della possibilità di esercitare il diritto di cui all'art. 4, co. 2 della legge n. 91 del 1992 entro il compimento del diciannovesimo anno di età" (l'enfatizzazione è contenuta nella lettera). Queste parole, da un lato, chiariscono che quello posto in capo ai Comuni dall'art. 33 del "decreto del fare" è un obbligo a tutti gli effetti, la cui mancata osservanza da luogo a tutta una serie di responsabilità civili e penali. Dall'altro esse non limitano in alcun modo la platea dei minori destinatari della comunicazione, al contrario sembrano invitare ad inviarla a tutti i minori potenzialmente titolari del diritto di optare per la cittadinanza italiana, per cui anche a quelli eventualmente in grado di produrre la documentazione idonea a dimostrare che hanno i requisiti apparentemente mancanti, a cominciare da quello della residenza.

Nello stesso senso va la bozza di comunicazione da inviare ai minori stranieri nati in Italia allegata alla lettera. Il secondo capoverso della comunicazione è una esplicita enfatizzazione dei vantaggi che potrebbero derivare dall'acquisizione della cittadinanza:

Diventare cittadini italiani significa fare parte a pieno titolo del Paese in cui viviamo, accedendo a importanti diritti, tra cui: non poter essere espulsi dall'Italia e non essere tenuti a rinnovare periodicamente il permesso di soggiorno; viaggiare liberamente all'interno dei paesi dell'Unione Europea; votare e potersi candidare alle elezioni; accedere ai concorsi pubblici e al servizio civile senza alcuna limitazione connessa alla cittadinanza (enfasi nell'originale).

Il capoverso successivo si apre con un evidente rammarico per il fatto che la normativa sull'acquisizione della cittadinanza non sia retta dal principio dello ius soli ("ad oggi la legge italiana non riconosce automaticamente la cittadinanza a chi nasce in Italia, se almeno un genitore non è a sua volta cittadino"). Ma la cosa più importante e dirimente la questione se i minori non iscritti come residenti, ma presenti sul territorio comunale, devono essere inclusi tra i destinatari delle lettera è che il presidente dell'ANCI ha inserito nella bozza di comunicazione che suggerisce ai Comuni l'avviso che esso può dimostrare l'erroneità della mancato risultare dei requisiti richiesti:

La informiamo che, in applicazione dell'art. 33, co. 1 della Legge) agosto 2013, n. 98, nel caso in cui non sia in grado di dimostrare il possesso di un titolo di soggiorno e a causa di inadempimenti riconducibili ai suoi genitori o agli uffici della Pubblica amministrazione, le è consentito di dimostrare la residenza legale in Italia con ogni idonea documentazione (ad es. certificati medici e scolastici, ecc...) (enfasi nell'originale).

È evidente che questo avviso ha senso solo se la lettera viene inviata anche agli stranieri nati in Italia che risultano privi dei requisiti previsti dalla legge per poter effettuare l'opzione a favore della cittadinanza italiana, e in particolare privi della residenza continuativa come dimostrano i documenti indicati in via esemplificativi come possibili prove del possesso dei requisiti stessi. D'altra parte come è detto sarebbe una discriminazione intollerabile e immediatamente sanzionabile avvisare che era privo della residenza ad un'età precedente i diciassette anni e non chi non l'ha nel diciassettesimo anno di età.

3. Baciare ... il rospo

La normativa prevista dall'art. 33 del decreto del fare impone, finalmente (!!), di baciare il rospo. Essa impone cioè di fare quello che da oltre quindici anni lo Stato italiano si rifiuta di fare: consentire di diventare cittadini italiani ai ragazzi nati nei numerosi campi rom di (s)fortuna presenti nel nostro paese. Come sottolinea il Comitato sui diritti dell'Infanzia (9), infatti, la prassi illegale seguita dalle autorità italiane colpisce soprattutto "alcune centinaia di minorenni Rom". Tra l'altro, come afferma sempre il Comitato, il fatto che lo Stato italiano consideri non legalmente residenti i minori Rom nati da genitori irregolari, impedendogli così di risultare regolarmente residenti e quindi di acquisire la cittadinanza al compimento della maggiore età, finisce per rendere questi minori de facto degli apolidi. Essi infatti spesso non riescono ad acquisire neppure la cittadinanza dei genitori, a volte risultano addirittura inesistenti per gli Stati da cui provengono i genitori, in quanto, essendo nati in Italia, non vengono mai denunciati agli uffici di stato civile di quegli Stati.

Su questa situazione si innesta un altro grave problema: la quasi impossibilità in Italia di trasformare l'apolidia di fatto in un'apolidia legalmente riconosciuta. Nel nostro paese l'accertamento dello status di apolidia può essere chiesto sia in sede amministrativa, sia in sede giudiziaria. Il procedimento giurisdizionale è considerato dalla giurisprudenza maggioritaria come alternativo e non come successivo al procedimento amministrativo, quindi la via giudiziaria si può intraprendere anche senza aver prima percorso quella amministrativa. La procedura amministrativa ha tempi biblici: la procedura deve concludersi entro 350 giorni. che diventano 895 (oltre due anni e mezzo!!) nel caso in cui debba chiedersi il parere della Rappresentanza diplomatica o consolare e quello del Ministero degli Affari esteri. Il dato paradossale è però che la via amministrativa è preclusa a quegli stessi soggetti a cui era fino ad oggi precluso il riconoscimento del diritto di chiedere la cittadinanza al compimento del diciottesimo anno. Infatti, l'art. 17 del D.p.r. 12 ottobre 1993 n. 572 (cioè del già citato "Regolamento di esecuzione della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza"), che attribuisce al Ministero dell'Interno la competenza a certificare lo status di apolidia della persona residente nel territorio italiano, prevede che la domanda debba essere corredata dalla seguente documentazione:

  1. atto di nascita;
  2. documentazione relativa alla residenza in Italia. Esattamente come avveniva per la cittadinanza, nella prassi amministrativa si esige il certificato di residenza e copia autenticata del titolo di soggiorno (attestazione comunale del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente del cittadino comunitario residente in Italia, permesso di soggiorno, permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, carta di soggiorno di familiare di cittadino comunitario residente in Italia, carta di soggiorno permanente di cittadino comunitario residente in Italia, iscrizione del minore di 14 anni sul permesso di soggiorno o sulla carta di soggiorno del genitore, tutore o affidatario);
  3. ogni documento idoneo a dimostrare lo stato di apolide (es. l'attestazione rilasciata dall'autorità consolare del Paese d'origine o, se ritenuto necessario, anche del Paese di ultima residenza dell'interessato da cui risulti che il medesimo non è in possesso di quella cittadinanza).

Quindi per tutti coloro che non hanno una residenza continuativa l'unica strada per richiedere il riconoscimento dell'apolidia è quella giudiziale. Questa strada già di per sé impervia e costosa, è diventata anche essa quasi impraticabile per moltissimi ragazzi rom da quando, in conformità ad alcune decisione della Corte di Cassazione, si è deciso che la competenza si radica secondo le regole del foro erariale e quindi a Roma.

L'art. 1, comma 1, lett. b, legge 5 febbraio 1992, n. 91 ("Nuove norme sulla cittadinanza"), statuisce che è cittadino italiano il figlio nato in Italia da genitori apolidi. Senza la quasi impossibilità di ottenere il riconoscimento giuridico dell'apolidia, molti bimbi rom nati in Italia negli ultimi anni sarebbero dunque cittadini italiani. Infatti i loro genitori sono in molti casi apolidi di fatto, che non sono riusciti ad ottenere il riconoscimento giuridico del loro status. Questo è vero specialmente per coloro provengono dai paesi nati dalla disgregazione della Jugoslavia: essi spesso non sono più riconosciuti come cittadini degli Stati di origine o sono essi stati nati in Italia senza essere registrati nei paesi di provenienza dei loro genitori e non hanno potuto acquisire la cittadinanza italiana in quanto privi di un permesso di soggiorno.

Questa assurda normativa comporta che, secondo il già ricordato rapporto del Gruppo CRC del giugno 2014, in Italia si trovano 15.000 minori, normalmente figli di genitori scappati da Paesi in guerra, apolidi di fatto, cioè privi di un status giuridico definito.

4. Lettere

In questa situazione diventano fondamentale le lettere o meglio, come recita il ricordato art. 33 del "Decreto del fare", "ogni idonea documentazione" attraverso cui i minori rom, non ancora diciannovenni, nati in Italia, a cui non è stato rilasciato un permesso di soggiorno, possono dimostrare di essere stati ininterrottamente presenti nel nostro paese dalla nascita, pur non essendo stati iscritti all'anagrafe. Merita di essere sottolineato che l'"ogni" presente in questa norma rende la tipologia di documenti presentabili più ampia di quella contenuta nella circolare n. 22/07 del 7 novembre 2007 che, come ricordato, parlava genericamente di "documentazione atta a dimostrare l'effettiva presenza [...] nel nostro Paese nel periodo antecedente la regolarizzazione anagrafica (attestati di vaccinazione, certificati medici in generale etc)". La tipologia di lettere idonee appare anche più ampia da quella prevista dall'art. 5 del Decreto legislativo 16 luglio 2012, n. 109, che, limitando la possibilità di fare richiesta di regolamentazioni agli stranieri presenti in Italia prima del 31 dicembre 2011, stabiliva che "la presenza sul territorio nazionale dal 31 dicembre 2011 deve essere attestata da documentazione proveniente da organismi pubblici" (corsivo mio). La categoria di lettere previste dal decreto del fare resta più ampia, anche se si interpreta la disposizione del 2012 alla luce della Circolare del Ministero degli interni n. 6121 del 4/10/2012, che afferma che,

qualora il legislatore avesse voluto restringere la tipologia di documentazione idonea alla richiesta di emersione soltanto a quella rilasciata da un'amministrazione pubblica in senso stretto, l'avrebbe fatto, chiarendolo esplicitamente. Pertanto la scelta del più ampio termine "organismo pubblico" porta con sè la volontà di includere nello spettro di interesse tutti i soggetti pubblici, privati o municipalizzati che istituzionalmente o per delega svolgono una funzione, un'attribuzione o in ogni caso un servizio di tipo pubblico.

Le lettere (i documenti) che producibili per dimostrare la presenza del minore sul territorio possono dunque essere atti redatti da autorità sanitarie o scolastiche, da gestori di pubblici servizi, atti, paradossalmente, prodotti da uffici pubblici in conseguenza di azioni "devianti" (reati o illeciti amministrativi) dei genitori, ma anche attestazioni di privati, prove documentali fornite da parenti, amici e conoscenti (che invece erano escluse dalla norma sulla regolarizzazione). In particolare, possono essere prodotte dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà rese da persone che possono attestare la presenza del minore. Infatti secondo l'art. 47 del D.P.R. n. 445 del 28.12.2000, tale dichiarazione "può riguardare anche stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti" di cui il dichiarante "abbia diretta conoscenza". A titolo più indicativo che esemplificativo, tenuto conto anche degli esempi menzionati nella circolare del 2007, si possono produrre, oltre le dichiarazioni sostitutive di atto notorio (10):

  • certificati di iscrizione e frequenza scolastica, nonché copie di compiti effettuati in classe, ed eventuali diplomi (scuola elementare e media) conseguiti;
  • attestazione ASL relativa a vaccinazioni, ricoveri, esami diagnostici;
  • testimonianze di medici pediatri e di operatori di ambulatori;
  • relazione dell'Assistente Sociale comunale che attesta la presenza dei minori sul territorio comunale;
  • copia dell'eventuale ricorso ex art. 31 al Tribunale per i minorenni con cui si chiede l'autorizzazione per uno o entrambi i genitori a permanere in Italia per occuparsi dei figli minori;
  • dichiarazioni della Polizia municipale dalle quali può emergere la presenza della famiglia in Italia (per esempio coinvolgimento della famiglia nello sgombero di un insediamento abusivo, et similia);
  • certificato di detenzione di uno dei genitori con allegate attestazioni e dichiarazioni relative alle visite fatte dai figli;
  • fotografie che ritraggono il bambino, in zone evidentemente parte del territorio comunale.

Importante è che i documenti riescano a mostrare la presenza del minore in Italia per tutto il tempo in cui è stato privo di una residenza ufficiale.

5. Testamento

Nel gioco-penitenza dei bambini, la quinta, il testamento, è la penitenza più dolorosa in quanto bisogna subire i dispetti dei compagni, in genere botte: chi paga pegno volge la schiena ai compagni che nel frattempo decidono dieci penitenze fisiche, alcune sicuramente dolorose come calci, sculaccioni, eccetera, ma alcune dolci, come baci, carezze et similia. Poi uno chiede. "Quanti ne vuoi di questi?" e chi è sottoposto alla penitenza risponde un numero da uno a dieci senza sapere di cosa si tratti.

La speranza è che la procedura predisposta dal "Decreto del fare" sia presto attuata dai Comuni italiani in modo da consentire a tanti ragazzi rom di acquisire la cittadinanza italiana. Questo non farà sì che la loro vita sia tutta rose e fiori. La loro vita sarà ugualmente difficilissima, però, contrariamente a quanto succede oggi, una volta diventati maggiorenni, non saranno più soggetti irregolarmente presenti sul nostro territorio, spesso senza la possibilità di tornare in patria, perché nessuno Stato, come accennato li riconosce come propri cittadini. Non avranno la pressoché assoluta certezza di non poter godere di molti diritti e di dover faticare molto per poter rendere effettivi anche i pochi che sono loro riconosciuti quali apolidi di fatto. Saranno cittadini, spesso in condizioni disagiate, che quando andranno a chiedere qualcosa avranno, come il bambino sottoposto a penitenza, la speranza di ricevere, almeno qualche volta, una carezza o un bacio invece della certezza di avere come risposta un calcio o uno schiaffo.

Note

*. Una versione precedente di questo articolo è apparsa nel volume M. Mannoia, G. Veca (a cura di), Entrare Fuori. Marginalità e percorsi di inclusione delle comunità Rom, Aracne, Ariccia, 2014.

1. B. Pascal, Della necessità della scommessa, Edizioni Studio Tesi, Roma, 1994.

2. Per una eccellente analisi del tema, con un'ampia bibliografia, cfr. A. Sciurba, La cura servile, Pacini, "I quaderni dell'Altro diritto", Pisa, in corso di stampa.

3. La Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia prevede un meccanismo di monitoraggio della sua attuazione da parte degli Stati che l'hanno ratificata. Periodicamente gli Stati devono inviare un rapporto al Comitato ONU sui diritti dell'infanzia, che, dopo averlo esaminato, elabora delle Osservazioni conclusive.

4. La traduzione delle osservazioni del Comitato ONU sui diritti dell'infanzia è stata curata dal Comitato Interministeriale sui Diritti Umani e dall'UNICEF Italia, per consentirne un'ampia diffusione e si trova on line sul sito dell'UNICEF con il titolo Osservazioni conclusive, Analisi del rapporto presentato dall'Italia ai sensi dell'art. 44 della convenzione sui diritti dell'infanzia. Le citazioni si trovano al punto 29; il corsivo è naturalmente mio.

5. Si tratta del 7º rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza in Italia (2013-2014) redatto dal gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza.

6. Acronimo di Convention on the Rights of the Child la cui traduzione ufficiale in italiano è «Convenzione sui diritti del fanciullo», ma nel testo si preferisce utilizzare la denominazione di uso corrente «Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza». Il Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza (Gruppo CRC) è un network di associazioni italiane che opera al fine di garantire un sistema di monitoraggio indipendente sull'attuazione della CRC e delle Osservazioni finali del Comitato ONU in Italia.

7. I diritti dell'infanzia e dell'adolescenza in Italia. 6º Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza in Italia (2012-2013), p. 41.

8. Tribunale di Imperia, sentenza 11 settembre 2012.

9. Osservazioni conclusive, Analisi del rapporto presentato dall'Italia ai sensi dell'art. 44 della convenzione sui diritti dell'infanzia, cit., punto 28.

10. Questo elenco è ricavato da una vicenda seguita dal Centro Anti Discriminazione della Provincia di Pistoia, che si protraeva da molto tempo e che si è conclusa positivamente proprio in seguito all'entrata in vigore dell'art. 33 del "Decreto del fare".