ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

A sostegno del Rapporto di Amnesty International: altre storie di violenza del sistema hotspot

Alessandra Sciurba, 2016

Ho ripreso tra le mani un foglio in cui di getto avevo preso una serie di appunti che fino ad oggi non avevo neanche mai riletto. Meno di un anno fa, era stato riposto via senza sapere che farne, dopo un giro di consultazioni con amici giuristi e avvocati.

A chi consegnarlo? Con che prove suffragare quelle parole? Non c'era modo di utilizzarle, anche se ognuna di esse pesava come un macigno.

Quando ti si racconta di avere subito violenze di vario tipo e di essere stati sottoposti a scariche elettriche da parte della polizia italiana è difficile capire cosa fare con queste informazioni, soprattutto se le persone che te le stanno raccontando non denunceranno perché sono terrorizzate e vogliono solo fuggire via il più velocemente e il più lontano possibile.

Pubblicare ora quella storia scritta, per quel che può valere, ha però adesso un senso, mentre il Prefetto Morcone commenta il rapporto di Amnesty International "Hotspot Italia" definendo i suoi contenuti come delle "cretinaggini", perché, a suo dire, "Amnesty costruisce i suoi rapporti a Londra e non in Italia".

Non sta a me ricordare lo statuto di questa organizzazione, per cui ogni singola sezione nazionale non può occuparsi di ciò che avviene nel proprio paese per garantire quell'indipendenza che da sempre caratterizza Amnesty International. Mi limito solo a ribadire, cosa chiara ed evidente a chiunque abbia incrociato in qualunque modo il lavoro di Amnesty, che ogni suo rapporto è frutto di indagini prolungate e attente sul territorio che viene indagato, in stretto contatto con tutti gli attori istituzionali e sociali che possono contribuire alla costruzione di un quadro coerente e veritiero.

Al di là di tutto questo, comunque, io sono invece una ricercatrice italiana che in Italia vive e lavora da anni, e che da anni si occupa di migrazioni e diritti umani, incontrando decine e decine di migranti e raccogliendo le loro storie. Nell'ultimo anno, nello specifico, come altri colleghi e altre colleghe che si occupano di questi temi, ho cercato di indagare sul campo esattamente l'implementazione dell'approccio hotspot in Italia, raccogliendo interviste e documenti.

Quando ho letto il rapporto "Hotspot in Italia", che pure sapevo sarebbe uscito perché faccio parte di una delle realtà intervistate per realizzarlo, sono rimasta senza parole ritrovando esattamente quegli stessi dettagli che conoscevo così bene, di cui non avevo parlato nello specifico con Amnesty e che in generale non avevo avuto modo di diffondere.

Nel farlo oggi, ometterò ogni particolare che possa in qualunque modo ricondurre alle persone di cui sto per parlare. Questa è stata la loro volontà allora e va rispettata fino in fondo, anche adesso che non so più esattamente dove si trovino.

A.S. è un ragazzo proveniente dal X. Ha X anni. È arrivato a Lampedusa il giorno X del mese di X del 2015 ed è stato trattenuto nell'hotspot per diversi mesi perché si rifiutava, insieme ad altri, di dare le impronte digitali. Lo abbiamo incontrato sull'isola, nel corso di una ricerca sugli hotspot, il giorno X del mese di X, e possiamo quindi testimoniare della sua presenza in loco in quella data. Come noi, possono farlo anche gli operatori di un'associazione presente a Lampedusa e operativa fuori dall'hotspot, che hanno assistito al nostro incontro.

In quell'occasione ho parlato a lungo con A.S., ma era spaventato già allora. Non ha voluto firmare una procura per un avvocato né denunciare in alcun modo il suo trattenimento prolungato. Gli ho lasciato i miei contatti, e gli ho chiesto di darmi sue notizie una volta trasferito. Così ha fatto.

Il giorno X del mese di X A.S. è stato portato insieme ad altri 4 ragazzi da Lampedusa in un altro luogo della Sicilia, in un posto che non ha saputo identificare ma così isolato che, dopo essere stato abbandonato nei paraggi dalla polizia, ha dovuto camminare chilometri prima di incontrare un centro abitato.

A.S. ha raccontato che lui e gli altri erano stati costretti a dare le impronte digitali con la forza. Ha raccontato di essere stati usati contro di loro dei bastoni che davano scariche elettriche. Ha detto di avere subito anche altre forme di violenza, di cui si vergognava molto. A.S. parlava anche per i suoi amici, essendo l'unico a conoscere l'inglese e a potere comunicare con me e con le altre persone italiane che hanno voluto ascoltarlo e che hanno cercato di sostenerlo.

Ci siamo sentiti molte volte mentre era sul pullman che aveva preso dalla Sicilia (esattamente da Agrigento) verso Milano. Piangeva. L'ho pregato di fermarsi e farsi aiutare, dicendo che a Palermo avevamo avvocati e medici e che lo avremmo protetto. Che potevamo denunciare quello che aveva subito, che avremmo dovuto refertare immediatamente le ferite e i segni delle violenze, e avrebbe potuto decidere di denunciare anche in un secondo momento.

Ma lui aveva troppa paura e troppa voglia di fuggire.

Ha risposto che la polizia italiana lo aveva minacciato di gravi conseguenze qualora si fosse rivolto a un avvocato e avesse cercato di chiedere aiuto a qualcuno.

Ho chiamato subito il Naga di Milano. Ho chiesto loro di andare alla fermata del pullman dove A.S. e altri ragazzi che avevano subito con lui tutto questo sarebbero arrivati e di capire la situazione, di convincerli a farsi refertare, e comunque di provare a tranquillizzarli e farli riposare.

Nonostante li avessero trovati e portati in un centro di accoglienza per farli dormire almeno una notte, neanche gli operatori del Naga sono riusciti a convincerli a fermarsi e a denunciare. A.S. e gli altri hanno lasciato l'Italia.

Qui finiscono gli appunti presi di mio pugno immediatamente dopo la fuga di questi ragazzi dall'Italia.

Qualche giorno dopo, una volontaria del Naga, Maria Chiara Coppola, mi ha raccontato così il suo incontro con loro a Milano:

Sono contenta che A.S. ti abbia scritto, speriamo che riescano in qualche modo a raggiungere un posto che gli conceda un po' più di pace. Se avessi novità ti chiedo per favore di tenere aggiornati anche noi!

Ti scrivo per raccontarti il nostro incontro dell'altro giorno; se la loro presenza è stata solo un passaggio veloce la testimonianza che ci hanno lasciato resta e pesa come un macigno.

Quando siamo andati a prenderli l'altro giorno erano tutti molto stanchi, sembravano quasi rassegnati ma andavano avanti, con lo sguardo sempre basso. Solo A.S. parlava inglese, ma nessuno di loro ha provato a dirci qualcosa facendosi aiutare da lui. A.S. invece aveva un bisogno impellente di raccontare, continuava a dirmi che poi mi avrebbe raccontato tutto di se, ma per tutto il tempo non ha detto niente. Quando siamo arrivati nell'hub dove li avrebbero accolti la notte e li abbiamo salutati, allora mi ha chiesto di parlare.
Era un racconto a singhiozzi, interrotto dal pianto, non lineare.
Mi ha detto che ha passato a Lampedusa 4 mesi perché lui e altre persone non volevano lasciare le impronte; avrebbero dovuto trasferirli in Sicilia, ma non l'hanno mai fatto.
Per quattro mesi ha ricevuto ricatti, minacce e violenze perché rilasciasse le impronte. Non ho capito dove avveniva tutto questo, parlava della caserma ma non ho capito dove dormisse e vivesse.
Ha raccontato di episodi in cui arrivavano di notte a svegliarli e a chiederli le impronte cercando di vincerli con la stanchezza.
Diceva di trovarsi come in una prigione anche se non era di fatto in carcere.
Ha raccontato di diversi soprusi, violenze sistematiche per ottenere le impronte. Se chiedevano vestiti, perché non ne avevano più e avevano freddo, non glieli davano perché loro non davano le impronte. Insulti e minacce come "fanculo" "animale" "sei venuti a casa mia e ora io faccio di te quello che voglio" "se lo dici all'avvocato ti ammazzo di botte, la pagherai". Queste minacce lo hanno davvero spaventato: ha detto che mi ha confidato tutto solo perché tu gli hai detto che poteva fidarsi, ma non voleva che lo dicessi a nessuno, perché la polizia gliel'avrebbe fatta pagare, anche qua a Milano avrebbero potuto arrestarlo per fargliela pagare.
La violenza veniva usata spesso e spesso li picchiavano.
Però l'ultima volta è stata la più pesante: ha perso sangue dal naso, lo hanno trascinato prendendolo come per la collottola, lo hanno preso per il collo. Mi ha detto che hanno usato la scossa elettrica. Non ne è sicuro ma ha il pensiero, e un ricordo vago, che quando gli hanno dato la scossa lui era talmente debole, e quasi incosciente, che potrebbero avergli preso le impronte.
Quando li hanno portati in Sicilia li hanno mollato in mezzo alla campagna e per raggiungere Agrigento hanno dovuto camminare 12 ore. Non mi ha detto con chi erano e come ci sono arrivati.
Era spaventato e preoccupato perché sapeva che in questo momento sta risuccedendo la stessa cosa ai suoi amici.

Non gli ho posto domande mentre raccontava, ci saremmo dovuti rincontrare qualche giorno dopo per parlare meglio.

Non so cosa abbia raccontato in più a te: questo è quello che quella sera si è sentito di dire.

Credi che si possa fare qualcosa?

Essere stata testimone di una denuncia simile mi ha un po' scioccata. Lo ammetto, ma ora vorrei poter fare qualcosa.

Oltre che con me e Maria Chiara, A.S. ha parlato anche ad un'altra operatrice dell'associazione attiva a Lampedusa, che era presente nel momento in cui avevo lo avevo incontrato sull'isola. Con lei, che preferisce al momento restare anonima per tutelare il lavoro dell'associazione con cui lavorava, il ragazzo aveva creato una forte relazione di fiducia: anche lei era stata investita dal suo racconto di violenza e terrore dopo l'allontanamento dall'isola. E così lo racconta:

A.S. lascia Lampedusa certo di avercela fatta. Con la speranza negli occhi ci salutiamo abbracciandoci prima che salga sul traghetto per la Sicilia. Ha lottato tanto perché fosse concesso a lui e ai suoi amici di lasciare le impronte digitale dove avessero poi scelto di rimanere e fare richiesta di protezione internazionale. Ma dopo due giorno mi chiama, di mattina presto, da un numero diverso. Mi dice che non ha potuto chiamarmi prima, che gli hanno tolto tutto, che il mio numero l'aveva imparato a memoria, che si trova su un pullman in viaggio per Milano. Gli chiedo come stiano, mi dice dapprima che non vuole parlare, che non ce la fa, che lascerà l'Italia. Insisto, gli domando perché. Comincia a piangere piano e mi dice che li hanno forzati a lasciare le impronte, che gli hanno fatto del male. Gli chiedo di dirmi nel dettaglio cosa gli abbiano fatto, gli dico che è importante che lo condivida. Mi risponde che li hanno colpiti e inizia a dirmi qualcosa rispetto a un bastone, ma comincia a piangere forte e non riesce a parlare. Piango anche io. Mi dice con difficoltà, singhiozzando, che hanno subito percosse e violenze anche di altro tipo e che sono poi stati lasciati lontano dai centri abitati, ma non sa dirmi dove. Mi contatta più volte durante il tragitto e cerco, come anche altre persone in cui lui aveva fiducia perché le aveva già incontrate a Lampedusa, di convincerlo a fermarsi a Milano e di non proseguire subito il viaggio per riposarsi e prendersi del tempo per decidere se essere visitato da un medico, se denunciare. Accetta di fermarsi per riposare ma rifiuta di denunciare l'accaduto perché estremamente spaventato dalle minacce che la polizia aveva loro fatto.

Martina Tazzioli, un'altra ricercatrice che aveva incontrato con me A.S. a Lampedusa e lo ha poi ritrovato a Marsiglia 5 giorni dopo il passaggio da Milano, ha visto sul suo corpo e su quello dei ragazzi che erano con lui, tra cui un minore di 15 anni, alcuni dei segni di violenza che avrebbero potuto confermare la veridicità di tutti quei racconti:

A.S è arrivato con altri quattro connazionali, tra cui un minore di 15 anni. A.S. ha raccontato le torture subite dalla polizia italiana in Sicilia, mostrando i segni rimasti sul proprio corpo: segni di percosse e bruciature sugli arti superiori e inferiori, e sul torace. Il prelievo delle impronte, da quanto raccontano, è avvenuto bloccandoli a terra con le mani legate sulla pancia e il viso sul pavimento. Insieme ad altri, non siamo riusciti a farli visitare da un medico, né a farli incontrare con un avvocato perché tutti e cinque temevano di essere rimandati in Italia e ci hanno chiesto di mantenerli nell'invisibilità, per paura di lasciare una traccia del loro passaggio.

È evidente come le decine di testimonianze raccolte da Amnesty International e coraggiosamente pubblicate abbiano fatto risuonare in tutte noi, parola per parola, questa storia raccolta a più mani.

Ed è arrivato il momento, a supporto del rapporto "Hotspot in Italia" e contro gli attacchi che chi l'ha redatto sta subendo, di ritessere questa rete di testimonianze. Tutte le persone che ho nominato possono confermare la coerenza dei racconti, la disperazione di questi ragazzi, il loro terrore. In quel momento ci siamo interrogati in molti su cosa fare, ma in assenza della volontà di denunciare e di farsi refertare da parte delle vittime, non avevamo potuto fare altro che ingoiare il loro sfogo e lasciarli andare.

Resta il fatto che, molto tempo fa, A.S. ha raccontato esattamente le stesse cose che il rapporto di Amnesty denuncia. Lo ha fatto quasi tutte le volte in tempo reale, subito dopo avere lasciato Lampedusa: non aveva certamente avuto modo di incontrare altri che avrebbero potuto influenzarlo narrandogli storie simili, come a volte accade.

Non è possibile che testimonianze raccolte da soggetti diversi in luoghi diversi e con persone diverse (la storia di A.S. non figura tra quelle riportate da Amnesty) siano così congruenti senza che esse contengano almeno una parte significativa di verità.

Dispiace che proprio il Prefetto Morcone abbia liquidato con tanta sveltezza il rapporto "Hotspot in Italia". Ricordo bene quando nel mese di gennaio del 2016 lo stesso Prefetto aveva invece recepito l'allarme delle tante associazioni che denunciavano la prassi dei decreti di respingimento differito consegnati a migliaia negli hotspot (e specialmente a Lampedusa) che di fatto stavano violando gravemente i principi del diritto d'asilo. In quell'occasione, una circolare da lui stesso formulata, prendendo sul serio le tante denunce arrivate, specificava che quello di chiedere protezione internazionale è un diritto universale e che l'Italia non ha alcuna lista di paesi sicuri sulla base della quale qualcuno possa essere apriori escluso dalla procedura.

È ovvio che è molto più semplice denunciare prassi illegittime quando si hanno centinaia di decreti firmati da un questore da potere impugnare, e che di fronte a simili documenti alle istituzioni non resti che prendere atto. Raccontare storie di violenza di cui l'unica prova sono le testimonianze di chi l'ha subita è cosa ben più complessa e delicata.

Ma cosa avrebbe dovuto fare Amnesty, di fronte a decine di testimonianze coerenti e identiche?

Tacere, far finta di nulla? Non avrei dovuto farlo neanche io, così a lungo, rispetto alla storia che avevo incontrato, anche se per delle singole ricercatrici o per delle piccole associazioni è ancora più difficile trovare il modo di denunciare fatti del genere, in assenza di prove materiali, e anche solo di farsi ascoltare.

Anche questa volta, come nel rapporto di Amnesty International, si stanno riportando solo delle testimonianze, per quanto coerenti, puntuali, credibili. Non abbiamo referti né immagini per dimostrare nulla.

Ma su quali basi il Prefetto Morcone o chiunque altro può negare apriori la veridicità di tutte queste storie?

Le violenze raccontate, peraltro, sono avvenute spesso al di fuori degli hotspot veri e propri dove, come lo stesso Prefetto ha sottolineato, è presente anche l'Unhcr (cosa che non ha peraltro impedito la consegna dei decreti di respingimento differito). Diversi spazi contenitivi difficili da identificare, sembrano essere serviti come luoghi di implementazione dell'hotspot in quanto approccio; un approccio che ha esplicitamente come principale e dichiarato obiettivo quello di identificare ed espellere, e non certo implementare il diritto d'asilo e i diritti umani in generale.

Invece di svilire e insultare il lavoro di Amnesty International, ogni istituzione degna di un paese che si professa democratico dovrebbe innanzitutto, adesso, impegnarsi a fare chiarezza.