Effetto serra
Le donne rumene nelle campagne del ragusano
Nel corso della ricerca che sto conducendo sul mercato della cura migrante in Italia (1), ho realizzato alcune interviste nella città di Palermo con donne rumene impiegate (più o meno regolarmente) come collaboratrici familiari. Più di una volta, a latere delle interviste, queste donne affermavano che, nonostante le loro condizioni di vita e di lavoro fossero difficili, alcune loro connazionali certamente ne vivevano di peggiori. Dalle loro voci, per la prima volta, ho così sentito parlare delle donne migranti provenienti dalla Romania che lavorano nelle serre del cosiddetto "triangolo della fascia trasformata del ragusano", delimitato dalle cittadine di Vittoria, Santa Croce Camerina e Marina di Acate (2).
Tra il 24 e il 26 luglio del 2013 sono partita insieme ad altri tre ricercatori per raggiungere questi luoghi. Le pagine che seguiranno offrono una prima analisi dei dati raccolti e delle esperienze vissute in quei giorni (3).
1. Premesse: il lavoro agricolo migrante nella "fascia trasformata" del ragusano
Non è possibile quantificare con esattezza il numero dei lavoratori migranti impiegati nella fascia trasformata del ragusano: mancano dati ufficiali e, soprattutto, quelli esistenti non tengono in considerazione le moltissime persone impiegate irregolarmente. Le stime più credibili, però, parlano di circa 15 o 20 mila persone non italiane attive nelle serre, anche se "solo" 11.845 immigrati risultavano regolarmente registrati nella Provincia di Ragusa come operai agricoli alla fine del 2011 (4). Questo tipo di lavoro nelle campagne appartiene certamente a quella categoria dei "dirty, dangerous, demeaning, and demanding jobs" (5), le cui condizioni, sempre a ribasso rispetto alla tutela dei diritti e della dignità, sono stabilite sulla base del fatto che a svolgerli è la manodopera migrante (6).
Si lavora nelle serre per più di 12 ore al giorno, a temperature altissime d'estate e basse d'inverno, immersi nei fitofarmaci e nei diserbanti dannosi per la salute, e il tutto per un compenso che varia dai 15 ai 30 euro al giorno a seconda della nazionalità delle persone impiegate (7). Esiste infatti una gerarchia dello sfruttamento: i tunisini, ad esempio, ricevono un compenso maggiore, a parità d'impiego, dei braccianti rumeni. Questa differenza è spiegabile con il fatto che la comunità tunisina è quella di più antico insediamento sul territorio (già dagli inizi degli anni Ottanta), possiede una rete stabile di relazioni e supporto tra connazionali, ed è composta prevalentemente da persone che hanno ormai ottenuto il permesso di soggiorno.
Se molti tunisini, sulla base di questi vantaggi, hanno iniziato a svolgere mansioni di caporalato più che di bracciantato, o sono diventati a loro volta piccoli proprietari terrieri, altrettanti, però, hanno da qualche anno scelto di lasciare la Provincia di Ragusa, proprio a seguito dell'arrivo dei migranti rumeni, solitamente disposti a lavorare per compensi inferiori e in condizioni peggiori (8).
A raccontare la storia di questa successione nella catena migratoria è stato Vincenzo Lamonica, rappresentante della Caritas Diocesana di Ragusa, che ogni anno cura la parte del Rapporto Caritas Migrantes relativa alla Sicilia:
"Nonostante la diffusa irregolarità del lavoro, negli anni i primi migranti arrivati, tutti uomini tunisini, sono diventati una presenza sempre più stabile, iniziando a ottenere i permessi di soggiorno, ad avviare i ricongiungimenti familiari, persino a rivendicare diritti sindacali. Ad oggi ci sono non solo le seconde generazioni di questa migrazione tunisina, ma anche le terze, che hanno spesso avuto origine dai numerosi matrimoni misti che si sono verificati. Pensate che all'inizio del 2000 le persone di origine tunisina rappresentavano circa il 40% dei 2000 abitanti di S. Croce Camerina. Molti di loro sono adesso regolari rispetto al permesso di soggiorno, anche se il lavoro resta permanentemente 'grigio'. La vera concorrenza inizia solo dal 2007, dopo l'ingresso della Romania in Europa, ed è allora che scoppia una vera e propria guerra tra poveri" (9).
Il numero di lavoratori agricoli rumeni che risultano impiegati nella Provincia di Ragusa è ormai quasi equivalente a quello dei lavoratori tunisini e, se si considerano anche le presenze non registrate, è presumibilmente (non di poco) maggiore. I cittadini rumeni, ad esempio, sono la quasi totalità dei lavoratori nei piccoli centri di trasformazione dei prodotti agricoli, dove vengono pagate solo le ore effettivamente lavorate (2 o 3 al giorno), a fronte di giornate intere passate aspettando l'arrivo della merce dalle serre. In questo comparto lavorativo i controlli sono più facili da effettuare, e quindi i lavoratori non devono avere problemi di permessi di soggiorno. In generale, da quando i cittadini rumeni sono diventati cittadini europei, i datori di lavoro non rischiano più di incorrere nel reato di favoreggiamento o sfruttamento della migrazione clandestina. L'avere acquisito la cittadinanza Ue, paradossalmente, ha reso queste persone più facilmente sfruttabili all'interno di un sistema produttivo che li vede di norma come ultimo anello di cuna catena in cui italiani e tunisini vengono prima di loro.
Di qualunque nazionalità siano, in ogni caso, questi lavoratori sono sfruttati in un contesto economico a dir poco opaco, la cui assenza di regolamentazione appare favorita dalle caratteristiche strutturali della produzione agricola ragusana. Come spiega ancora Lamonica:
"Bisogna tenere presente che in questi luoghi non si è mai storicamente data la presenza dei grandi latifondi, come in tante parti del Sud Italia, ma che parliamo spesso di piccole, e anche piccolissime proprietà. Questo tipo di realtà ha favorito una sorta di fidelizzazione anche dei lavoratori migranti, dapprima in gran parte irregolari anche rispetto al permesso di soggiorno, all'interno di un'economia difficilissima da sottomettere a regole e controlli". (10)
Lavoro nero nella maggioranza dei casi, o comunque "grigio", perché si dichiara solo una parte dei giorni lavorati; contratti quasi sempre stagionali, quando esistono, anche se si lavora per 11 mesi l'anno; compensi, lo abbiamo detto, di gran lunga inferiori ai 50 euro giornalieri sindacalmente stabiliti.
I proprietari agricoli della zona giustificano queste forme di sfruttamento adducendo il fatto di essere strozzati dalle dinamiche del mercato, che paga pochissimo la produzione anche a fronte di un prezzo al pubblico della merce molto elevato, e di avere assoluto bisogno, quindi, di risparmiare almeno sulla manodopera. La loro difficile situazione, però, deriva anche certamente dalla scelta storica e dal limite culturale di avere sempre puntato su grandi quantità di prodotto, senza curarne troppo la qualità, e senza mai consorziarsi per diventare più forti.
2. La nuova realtà dello sfruttamento femminile
Da quando la comunità rumena si è affiancata e in parte è subentrata a quella tunisina, ha portato con sé le peculiarità che le sono proprie. L'emigrazione rumena, come quella che segna molti altri paesi dell'Est Europa, ha subito negli ultimi anni una fortissima femminilizzazione, dovuta in gran parte all'offerta di lavoro domestico e di cura nelle società di arrivo, che richiedono per questo tipo di occupazione soprattutto donne (11), ma anche al fatto che le madri, le figlie, le mogli rumene, sembrano essere quelle cui sono maggiormente delegate, più in generale, la fatica del lavoro e la responsabilità di sostenere la famiglia in tutte le sue dimensioni.
Come un Rapporto del 2010 elaborato dall'Associazione per i diritti umani di Vittoria sull'immigrazione femminile nella fascia trasformata del ragusano illustra nel dettaglio, mentre le donne tunisine presenti sul territorio non cercano lavoro, le donne rumene, invece, trovano nel lavoro la ragione della loro immigrazione. La loro principale occupazione è proprio quella di operaie agricole e quasi tutte sono occupate per 10/11 mesi l'anno. Le "donne dell'Est", inoltre, al contrario della maggioranza delle "maghrebine" lavoravano già nel paese d'origine (12).
In Romania, del resto, moltissime sono le donne ancora impiegate nel settore agricolo e per alcune di loro, quindi, partire dal loro paese per lavorare altrove, ancora una volta da contadine, sembra una scelta assolutamente percorribile. Come racconta Padre Beniamino Sacco, della parrocchia di Santo Spirito, a Vittoria:
"L'arrivo di queste donne dell'Est ha scombussolato il panorama agricolo siciliano, in cui la moglie del proprietario sta a casa e difficilmente lavora nelle campagne. Questa presenza femminile ha destato inizialmente curiosità e in seguito un vero e proprio scompenso sociale. Si cominciava a dire che i proprietari avessero 'riscoperto il piacere della campagna' poiché alla sera tornavano a casa sempre più tardi. Molte famiglie sono entrate in crisi" (13).
Se altrove le donne migranti provenienti dai paesi degli ex regimi comunisti trovano come destinazione "naturale", nel contesto della segmentazione etnica e di genere del mercato del lavoro, quella di diventare le cosiddette "colf e badanti" di cui il nostro paese dal welfare collassato ha estremo bisogno, qui arrivano invece sapendo già che le aspetterà la campagna.
Quel che è meno chiaro è se esse, prima di partire, siano a conoscenza, fino in fondo, anche delle condizioni lavorative che incontreranno e del livello di subordinazione e violenza che si troveranno ad affrontare.
Le persone che sembrano interessarsene in questo territorio non sono molte. Da una veloce ricerca sul web e dalla consultazione telefonica con qualche attivista con cui ero in contatto, erano emersi solo il nome di una cooperativa, quello di un prete - il già citato Padre Sacco - quello di una ginecologa attiva nei consultori per "stranieri temporaneamente presenti" e quello di un sindacato.
La Cooperativa Proxima, impegnata sul fronte della tutela delle donne in relazione all'art. 18 e all'art. 13 del Testo Unico sull'immigrazione, che proteggono dalla tratta e dal grave sfruttamento, ha sede nel centro di Ragusa. Lì, Ausilia Cosentini, assistente sociale che per il progetto Nova Vita dirige una casa famiglia per donne e bambini, racconta di come, per occuparsi delle lavoratrici rumene impiegate nelle serre, Proxima abbia dovuto in qualche modo forzare i limiti del proprio mandato:
"Il nostro obiettivo principale è l'emersione dei fenomeni di tratta, ma anche di grave sfruttamento, da cui questo territorio è evidentemente segnato in modo estremo. Le donne che lavorano nelle serre sono tra le prime vittime, e non solo dal punto di vista dello sfruttamento lavorativo" (14).
La storia è appunto questa: per lavorare nelle serre le donne rumene non devono solo accettare una paga misera, a fronte di giornate lavorative che durano anche 14 ore. Il loro sfruttamento è doppio, poiché molte di esse devono inoltre accettare di piegarsi ai piaceri sessuali dei datori di lavoro, dei caporali, dei "colleghi".
Per rendersi davvero conto della gravità e dell'estensione di questa situazione, basti pensare che, da qualche tempo, la città di Vittoria è diventata percentualmente in Italia quella in cui ogni anno viene rilevato il numero più alto di interruzioni volontarie di gravidanza. In mancanza di dati ufficiali da incrociare, quel che si può constatare è che questo innalzamento del numero degli aborti ha coinciso temporalmente con l'incremento della popolazione rumena femminile sul territorio.
La dottoressa Elena Afonina, incontrata ad Ispica, in uno degli ambulatori STP della Provincia, operativi anche nel servizio ENI per i cittadini comunitari che non hanno una residenza formale, ha molte storie da raccontare al riguardo:
"Le donne rumene vengono qui accompagnate sempre da uomini, il più delle volte italiani ma anche tunisini e in qualche caso albanesi. Spesso sono poco più che ragazzine. Loro restano sedute con lo sguardo fisso a terra e gli uomini parlano al posto loro. Dicono di essere amici o conoscenti, e hanno molta cura di non lasciarle mai da sole con me. Solo quando le donne arrivano con un compagno della loro nazionalità, cosa che avviene negli altri Comuni, e quasi mai a Vittoria, lo fanno di solito perché vogliono tenere il bambino, e hanno tutt'altro tipo di atteggiamento. Nel 2011 un tunisino mi ha portato tre donne rumene, tutte incinta, per farle abortire. Le ragazze parlavano poco e solo in italiano perché lui potesse capire quel che dicevano. Nell'unico momento in cui sono rimasta sola con loro mi hanno detto soltanto di lavorare nelle serre di cui lui era proprietario. Tutte queste donne lavorano nelle serre, pochissime nelle famiglie. Quelle che fanno le "badanti", sono riuscite a raccontarmi certe volte che andare a letto con la persona che assistono, anche se si tratta di anziani, o con i loro figli, è un modo per integrare il loro magro stipendio. Questo fenomeno però, che accomuna lo sfruttamento lavorativo a quello sessuale, è molto diffuso soprattutto nelle campagne. In questo momento sto seguendo una ragazzina di 18 anni, all'ambulatorio di Vittoria, che è rimasta incinta ma è troppo in là con la gravidanza per interromperla. Lei cercherà di dare in affidamento il bambino subito dopo la nascita. Io posso solo mandarle ai consultori, dove di solito non ricevono molte informazioni e quando tornano qui dopo l'aborto non hanno mai una prescrizione per acquistare degli anticoncezionali. Con queste donne è comunque difficilissimo costruire un rapporto sano tra medico e paziente, e anche assistenti sociali e psicologi fanno grande fatica in questo senso, e la verità non emerge mai" (15).
La "verità", del resto, si consuma nell'isolamento delle campagne e delle piccole imprese agricole quasi impenetrabili, la cui estensione è spesso delimitata da cancelli, reti con filo spinato, cani da guardia che non lasciano avvicinare nessun estraneo.
Lì dentro, stando ai racconti ascoltati in quei giorni, succede davvero di tutto. Padre Beniamino ci ha dato il suo punto di vista senza mezzi termini:
"Qui si arriva a dar vita a vere e proprie feste a sfondo sessuale in cui i proprietari e datori di lavoro mettono a disposizione di amici e conoscenti le proprie lavoratrici. I festini sono diffusi soprattutto nelle piccole aziende a conduzione familiare, perché le grandi aziende sono più controllate. Hanno luogo tra le serre stesse, o in cascine isolate, o talvolta anche in disco-bar poco frequentati. Le ragazze coinvolte sono lavoratrici rumene giovani che spesso hanno dai 20 ai 24 anni. A volte si tratta anche di ragazze figlie di dipendenti a cui il proprietario affitta la cascina. Ogni tanto succede anche che siano i figli dei proprietari a sfruttarle. Una volta che si entra in questo giro è difficile uscirne. Non c'è una rete familiare o amicale forte a sostegno di queste donne, né esistono legami solidaristici tra lavoratrici, un po' per la segregazione cui sono costrette, un po' per la concorrenza innescata dagli stessi datori di lavoro, un po' per la disperazione" (16).
Che relazione esiste tra la realtà di questi "festini agricoli" e l'incremento di richieste di IVG sul territorio? Anche le ragazze incinte che Padre Beniamino ha scelto di ospitare nella sua parrocchia dal momento in cui hanno deciso di non abortire provengono probabilmente da questa realtà di abuso e mercificazione del corpo delle donne. Il prete può solo raccontarci ciò che vede tutti i giorni:
"Sono accompagnate e abbandonate da uomini italiani. Di solito, questi accompagnatori dicono di averle trovate per strada e di avere deciso di portarle da lui, ma dai racconti di alcune ragazze si capisce che quegli uomini sono i datori di lavoro stessi che se ne vogliono sbarazzare percependole come un rischio per l'unità della propria famiglia. Alcune di queste donne, dopo avere partorito, hanno deciso di dare il bambino in adozione e di tornare a lavorare nelle serre, poche altre hanno tenuto il bambino e non sono più tornate a lavorare".
Non è facile stabilire il confine tra la violenza sessuale e quella psicologica che porta queste donne a piegarsi ad ogni forma di sfruttamento. Così come è difficile stabilire, al momento, l'esistenza di una vera e propria tratta che, se verificata, potrebbe portare all'imputazione di decine di datori di lavoro e caporali attivi sul territorio.
Nessuna istituzione sembra avere la possibilità o la volontà di andare in fondo a questa e le donne che subiscono non denunciano quasi mai (17).
Ausilia Cosentini ha chiesto un tavolo con la Prefettura per esporre il problema e confrontarsi sui dati che lei e gli altri operatori hanno raccolto, mentre Padre Beniamino si è trovato isolato nella sua stessa città da quando ha iniziato a denunciare le situazioni di cui è venuto a conoscenza in maniera più diretta.
L'omertà sembra essere favorita dal fatto che tutto si consuma lontano dai luoghi pubblici, senza interferire, in apparenza, col normale andamento della vita lenta di questa provincia. A differenza delle ragazze costrette a prostituirsi in strada, quel che succede alle donne rumene resta invisibile a chi non vuole vedere.
Eppure, la distesa senza fine di teli bianchi, tesi a coprire le serre, acceca la vista se si volge lo sguardo verso qualunque punto della campagna ragusana. E non è difficile immaginare quante vite attraversino quei luoghi nei periodi più intensi di lavoro.
Le operaie agricole migranti abitano nello stesso luogo in cui lavorano, all'interno di catapecchie di pietra, anche solo di legno e cellofan, di cui spesso devono pure pagare l'"affitto" che il datore di lavoro detrae dalla paga giornaliera.
Come si legge ancora nel già citato Rapporto del 2010, rispetto alle condizioni abitative delle donne migranti sul territorio di Ragusa, "il comodato d'uso riguarda per la maggior parte donne rumene i cui datori di lavoro hanno costruito sul luogo di lavoro stesso piccole stanze con bagno esterno" (18). Solo grazie alla disponibilità degli operatori del Solidal Transfert, che stanno cercando con tutti gli strumenti in loro possesso di spezzare questa forma di segregazione, abbiamo avuto modo di verificare personalmente queste condizioni.
Il Solidal Tranfert è un servizio attivato dalla Cooperativa Poxima in collaborazione con La Flai-Cgil di Vittoria, e nasce da un'idea semplice: offrire ai lavoratori agricoli tutti la possibilità di spostarsi sul territorio per provvedere alle loro necessità di base (fare la spesa, ricaricare un cellulare), senza dover pagare un sistema informale di trasporti per cui a volte vengono richiesti anche 15 euro per percorrere pochi chilometri.
In questo modo, nelle intenzioni di chi lo ha attivato, il servizio, nel tempo, potrebbe permettere di costruire delle relazioni con i lavoratori, e soprattutto con le lavoratrici, per aiutarli a fare emergere la loro situazione e supportarli da un punto di vista giuridico e socio-sanitario. Come ci ha spiegato ancora Ausilia Cosentini:
"Il Solidal Transfert fornisce un servizio che ha immediate ricadute positive per le persone che salgono a bordo, perché le sottrae al racket della mobilità, ma è anche un modo per "agganciarle". Nel tragitto che si fa, dando loro questo passaggio, l'operatore di Proxima, sempre insieme a qualcuno della Cgil, cerca di instaurare una relazione, di capire quali siano i loro principali problemi. Non è una cosa facile, perché (...) la comunità rumena, isolata e frammentata più delle altre, è quella più difficile da approcciare, soprattutto le donne. Ogni volta che riusciamo a dare un passaggio a qualcuna, emerge qualche elemento in più, ma poi è difficile approfondirlo. Fino ad ora abbiamo avuto un solo caso di sfruttamento sessuale dichiarato".
I migranti possono chiamare un numero verde e chiedere di essere venuti a prendere. Emanuele Bellassai, l'operatore di Proxima che si occupa del servizio, ci ha raccontato le difficoltà che incontra quotidianamente, ma anche i piccoli margini di progresso che si iniziano a intravedere:
"Quando abbiamo cominciato c'era tanta diffidenza e solo pochi lavoratori, tutti uomini, fruivano del nostro servizio. È passato del tempo ma, dopo i primi mesi, anche alcune lavoratrici rumene hanno cominciato a prendere il pulmino per svolgere le proprie commissioni nei centri abitati" (19).
Proprio mentre siamo sul furgone del Solidal Tranfert, Emanuele riceve la telefonata di una di loro.
Passiamo a prenderla all'ingresso di una proprietà recintata. Esce dal cancello accompagnata da suo marito che lavora anche lui nelle serre. Tutti e due hanno una cinquantina d'anni. Lui non parla una parola di italiano, ed è questo il motivo per cui è qui:
"Come posso lasciarlo solo? Lui non parla niente, devo stare con lui. Prima facevo la badante in Sardegna e poi a Perugia ma in quel lavoro non potevo stare con mio marito. Così mandiamo i soldi a casa perché il figlio piccolo ancora studia. Quella grande è sociologa laureata e lavora" (20).
Liliana non ha le caratteristiche per rientrare tra le donne sfruttate anche sessualmente. È avanti con gli anni, alta e massiccia, vive con suo marito. In questo senso appare quasi "fortunata", anche se come tutte le altre sue connazionali che lavorano come lei, subisce un continuo sfruttamento lavorativo cui non può opporre alcun potere negoziale né alcun diritto da esercitare:
"Domani torno nella campagna dove lavoravo prima per farmi pagare. Non mi pagano più. Dicono sempre: mercoledì vieni, e poi vado mercoledì e dicono: vieni sabato. È sempre così" (21)
E se non volessero proprio pagarla lei avrebbe veramente pochissimo da fare per ottenere ciò che le spetta.
3. Se l'alternativa non c'è: la "scelta di Sofia" delle donne rumene nelle serre del ragusano
La mancanza di interventi rispetto alla situazione appena illustrata appare prodotta anche dall'ambiguità in cui essa si consuma. Come Padre Beniamino sottolineava, esiste un limite labile tra sfruttamento della prostituzione e generico degrado delle condizioni di vita all'interno delle serre.
Non è raro sentirsi dire dalla gente di Ragusa che "queste donne sono disposte a tutto", che in sostanza, quindi, sarebbero in qualche modo artefici della loro sorte, arrivando a offrirsi sessualmente ai loro datori di lavoro per ottenere dei vantaggi.
La loro condizione è invece una declinazione, più estrema di altre che abbiamo incontrato, di quella che Kittay ha definito "la scelta di Sofia" (22): una scelta adattiva, mai libera, perché è impossibile che lo sia. Vi si incorre quando si è costretti ad optare tra due possibilità, tra due ordini di beni, che non dovrebbero mai essere alternativi l'uno all'altro; quando ci si trova a decidere, ad esempio, tra dare la priorità al fatto di crescere i propri figli restandogli accanto, o dovere emigrare per garantire loro dei diritti fondamentali, come quello a un'istruzione e ad una sanità adeguate, o, più in generale, delle condizioni di vita dignitose.
Ed è questo il bivio davanti al quale si trovano moltissime tra le donne che emigrano per prestare lavoro di cura in paesi esteri e mandare le rimesse in patria. Sono soprattutto le madri a partire, lasciando indietro quelli che ormai sono stati definiti, anche dai governi dei paesi di emigrazione, degli "orfani sociali" (23).
Paradossalmente, le donne rumene che vivono e lavorano nelle serre sembrano avere fatto un'altra scelta ancora, estrema, forse ancor di più, rispetto a quella di chi parte lasciando la famiglia per sostenerla.
Liliana è venuta a lavorare a Ragusa, nelle campagne, anche se avrebbe potuto continuare a prestare lavoro familiare a pagamento nelle case degli italiani.
Lo ha fatto, abbiamo riportato le sue parole, per non separarsi almeno dal marito. I figli li aveva già lasciati in patria e serviva che entrambi i genitori continuassero a lavorare all'estero per sostenerli anche nel loro percorso di adulti.
Altre donne, invece, accettano di lavorare nelle serre proprio per non doversi separare dai loro bambini. Anche i figli più grandi, a volte, si trovano lì con loro, a lavorare anch'essi o ad occuparsi dei fratelli più piccoli, in un paradossale esercizio del diritto all'unità familiare che invece verrebbe strutturalmente compromesso dal lavoro familiare a pagamento, l'altra unica possibilità che queste donne potrebbero avere.
Gli orari e i doveri del lavoro domestico e di cura salariato, per come esso è strutturato oggi attraverso la delega alle donne migranti, rendono infatti impossibile la conciliazione tra la vita professionale e quella familiare di chi lo presta.
Quando, lungo il nostro viaggio, riusciamo per pochi muniti ad avvicinare due lavoratrici agricole rumene, sono proprio loro a farci comprendere come questa inconciliabilità, insieme alla loro precedente esperienza da contadine anche in Romania, le abbia portate a "scegliere" la campagna, nonostante tutto.
Le incontriamo grazie al Solidal Transfert: sul furgone arriviamo fin dove loro vivono: un magazzino di pietra dentro cui sono stati ricavati degli spazi abitativi. Per raggiungere questo luogo abbiamo varcato due cancelli e attraversato centinaia di metri di serre. Nulla può vedersi dall'esterno.
Adriana non ci sorride, ma ci fa segno di entrare. Un uomo che puzza di alcool si frappone tra noi e l'ingresso della catapecchia. Capiamo che è suo marito, e inizia immediatamente a rispondere per lei. Continuiamo comunque a parlare, riusciamo a farci accompagnare all'interno. Non c'è mobilio, fatta eccezione di un tavolo dove il cibo si mescola agli attrezzi di lavoro, e di un materasso, poggiato su una rete. Adriana, quando convinciamo l'uomo ad allontanarsi di qualche metro pur restando dentro il magazzino, ci racconta di un primo marito morto di leucemia in Romania, mentre lei era già arrivata in Italia con la sua figlia più piccola, di appena due mesi, e con il figlio maggiore, che ai tempi aveva 17 anni. Aveva fin da subito trovato impiego nelle serre, e la bambina stava insieme a lei, in un posto come questo, affidata alle cure del fratello mentre la madre lavorava:
"non si può andare con bambini da vecchietti a fare la badante".
Anche in Romania era contadina, coltivava melanzane, cetrioli e peperoni. Solo dopo tre anni è tornata per la prima volta nel suo paese e ha deciso di lasciare la bambina, ormai più grande, ad un'altra figlia che invece era rimasta in patria ad accudire il padre malato:
"adesso la mia bambina dice 'mamma' a sua sorella. Sono da sole, serve lavorare per loro. Io lavoro per tutti. Se non vengo qua a lavoro bambini non ce l'ha da mangiare, non ce l'ha scarpe".
Il marito sembra particolarmente orgoglioso del lavoro di sua moglie:
"non è come con donne italiane. La donna in Romania lavora come uomo!".
Quando le chiediamo come faccia a sopportare queste condizioni di vita e di lavoro ci dice che se sei abituata alla Romania, qui non è poi così pesante. Suo marito continua a parlare, ma smettiamo di ascoltarlo. Adriana dice soltanto:
"lascia stare uomini. Lascia parlare. È così: tu lavori e loro ti guardano e bevono il caffè".
È a quel punto che entra anche Ivana e si siede accanto alla sua connazionale. Non è sola: con lei c'è una ragazzina di 11 anni, sua figlia:
"sono qui per lei e lei abita qua con me. Se lavoravo da vecchietta non era possibile. A casa di un vecchio non puoi portare i figli. Per questo ci sono nelle serre tante mamme rumene coi bambini. Non posso stare lontano da lei. Qui la guardo che cresce, la guardo quando mangia. Ci vuole tanta forza. Solo un mese e 10 giorni l'ho lasciata, due anni fa, e ci voleva ancora più forza. Sono andata a prenderla ancora e ora lei è contenta".
La ragazzina parla un italiano perfetto, fino a quest'anno è riuscita ad andare a scuola. Il suo problema sembra essere solo quello che adesso, che ha appena cambiato "casa" con la madre, spostandosi da una proprietà agricola a un'altra ancora più difficile da raggiungere, il bus della scuola forse non riuscirà a venirla a prendere.
Ma sono insieme, lei e la madre, ed entrambe dicono che questo gli basta. Non sapremo mai cosa conosca la ragazzina dei "festini agricoli", o delle giovani donne che vanno ad abortire.
La sua presenza stridente con ogni particolare dell'ambiente che ha attorno, è una ragione chiara della "scelta" di Ivana, che è stata per un lungo periodo anche quella di Adriana, e che è quella di chissà quante altre donne: non esistono stime ufficiali di quanti bambini e bambine vivano nelle serre del ragusano.
La maggior parte delle donne emigrate dalla Romania, dall'Ucraina, dalla Moldavia o dalla Bulgaria accettano le condizioni di lavoro a volte neoschiavistiche che si verificano nelle case degli italiani dove sono impegnate come "colf e badanti", restando lontane dai loro figli pur di farli crescere lontani dalla miseria. Queste operaie agricole, invece, vivono la "scelta di Sofia" tra lasciare i propri figli oppure tenerli con sé e farli crescere nelle condizioni di estremo degrado e spesso di violenza in cui esse stesse vivono.
Ivana sembra ancora volerci parlare di qualcosa. Ma alla presenza ingombrante del marito di Agrippina si aggiunge anche quella del datore di lavoro italiano di entrambe. L'uomo ci chiede con una certa insistenza cosa siamo andati a fare lì. Gli diciamo della nostra ricerca sulle madri rumene. Non se ne va più. Pressa le donne perché tornino al lavoro. E le donne ci baciano, guardano gli uomini che le circondano, poi volgono ancora lo sguardo verso di noi e lo piantano nei nostri occhi: "sono niente", sembrano dirci mentre vanno via.
Qualunque cosa possano farci, loro sono niente.
Note
1. Tra i prodotti di questa ricerca, cfr. Sciurba, A., La scelta di Sofia: come incidono le migrazioni femminili sui diritti dei minori 'Left behind'?, in Zagato, L., De Vido S. (a cura di), Il divieto di tortura e altri comportamenti inumani o degradanti nelle migrazioni. p. 325-344, CEDAM, Padova 2012; Sciurba A., Diritti umani violati nel mercato del lavoro domestico e della cura migrante, in «Nuove Autonomie. Rivista di diritto pubblico», Editoriale Scientifica, Palermo 2013 (in corso di stampa); Sciurba A., Doppiamente assenti per prestare "cura". Donne migranti nel mercato del lavoro familiare in Italia, in Grasso M., Razzismi, discriminazioni, confinamenti, Ediesse, Roma 2013 (in corso di stampa).
2. Per "fascia trasformata" si intende quel territorio della Provincia di Ragusa tra Vittoria, Acate e Santa Croce Camerina, dove le culture stagionali sono state sostituite da quelle intensive nelle serre. Questo cambiamento ha richiesto la presenza costante sul territorio, almeno per dieci mesi l'anno, di migliaia di lavoratori immigrati.
3. Un Report di taglio più giornalistico di questa stessa missione è stato pubblicato dal sito Melting Pot. Cfr. Sciurba A., Carnemolla D., Di Franco C., Moschini E, Due volte sfruttate. Le donne rumene nella "fascia trasformata" del ragusano (a cura di Alessandra Sciurba).
4. Cfr. Caritas/Migrantes, Dossier Statistico Immigrazione 2012, XII Rapporto, Edizioni Idos, Roma 2012, p. 261. Questo dato ufficiale piazza comunque la Provincia di Ragusa al quinto posto in Italia per presenza di lavoratori agricoli immigrati.
5. Carens, J., The Ethics of Immigrations, Oxford University Press 2013, p. 123.
6. Il lavoro agricolo migrante ha ormai assunto un carattere strutturale, ed è quello che permette al settore di mantenersi attivo. Cfr. Inea, Indagine sull'impiego degli immigrati in agricoltura in Italia, 2012. Per una panoramica sullo sfruttamento agricolo della manodopera migrante nel Sud Italia cfr. Flai-Cgil, Primo rapporto su Agromafie e caporalato, 2012, curato dell'osservatorio Placido Rizzotto.
7. Dati forniti dalla Diocesi della Caritas di Ragusa, nel corso dell'intervista con il suo rappresentante Vincenzo Lamonica, raccolta il 26 luglio del 2013 a Ragusa.
8. La presenza rumena, sul tutto il territorio nazionale, è ormai quella prevalente nel settore agricolo, Cfr. Ibidem. Alla fine del 2011 la collettività romena contava 103.971 presenze regolari nel settore agricolo italiano, attestandosi al primo posto sul territorio nazionale.
9. Intervista raccolta a Ragusa il 26 Luglio 2013 da Alessandra Sciurba ed Ester Moschini.
10. Ibidem.
11. Cfr. Tra i tanti studi esistenti rispetto alla realtà italiana, D. Del Boca e A. Rosina, Famiglie sole. Sopravvivere con un welfare inefficiente, Il Mulino, Bologna 2009; Fondazione G. Brodolini, GALCA project. Final Report 2004; si veda anche il progetto europeo Eurofamcare; Catanzaro R., Agostini C., Longobardi E., Vitaletti G., Donne migranti. Quali opportunità per il nostro paese? in «L'economia dell'immigrazione», Fondazione Leone Moressa, n. 2, 2012; Caritas/Migrantes, Dossier statistico immigrazione 2011, 21º Rapporto, Edizioni Idos, Roma 2011; Fondazione Leone Moressa, Quali badanti per quali famiglie, Studi e Ricerche sull'economia dell'immigrazione, Venezia 2011; Colombo, A. (a c. di), Badanti & Co. Il lavoro domestico straniero in Italia, Il Mulino, Bologna 2009, G. B. Sgritta, Badanti e anziani in un welfare senza futuro, Edizioni lavoro, Roma 2009; Piperno, F., Tognetti Bordogna M., (a cura di), Welfare transnazionale. La frontiera esterna delle politiche sociali, Ediesse, Roma, 2012.
12. Cfr. Città di Vittoria, Settore Servizi Sociali e Associazione per i diritti umani, Storie di donne immigrate. Indagine sulle difficoltà e i disagi affrontati dalle donne che approdano nella nostra terra. Quali limiti della nostra terra, quali gli ostacoli, 2010. Da sottolineare, come si legge nell'indagine, è che "La ricerca effettuata risente di un numero limitato di intervistate in quanto, molte delle donne contattate sono risultate diffidenti o hanno opposto totale rifiuto a rispondere. Questo avviene soprattutto nelle campagne dove la presenza di immigrati irregolari è più alta. Nonostante la presenza di una ragazza rumena che ha fatto da mediatrice linguistica, molte rumene negavano la loro nazionalità dicendo di essere siciliane".
13. Intervista raccolta a Vittoria il 26 Luglio 2013 da Davide Carnemolla e Claudia Di Franco. Il modo in cui questa migrazione femminile sta riconfigurando anche i rapporti familiari degli italiani del luogo sarebbe certo un tema importante da approfondire da un punto di vista sociologico. Questo approfondimento esula però dalle intenzioni e dalle possibilità di questo scritto.
14. Intervista raccolta a Ragusa il 24 Luglio 2013 da Davide Carnemolla, Claudia di Franco, Ester Moschini, Alessandra Sciurba.
15. Intervista raccolta a Ispica il 25 Luglio 2013.
16. Intervista raccolta a Vittoria il 26 Luglio 2013 da Davide Carnemolla e Claudia Di Franco.
17. Anche laddove intervistate, come è avvenuto per il già citato rapporto del 2010 elaborato dall'Associazione per i Diritti umani di Vittoria, il 94% delle donne immigrate ha dichiarato di non aver mai subito violenza sul territorio italiano, mentre il 6% restante ha dichiarato che la violenza è stata solo di tipo verbale e non ha sporto denuncia. Il 7% del campione, però, ha altresì dichiarato "di averne sentito parlare". Cfr. Città di Vittoria, Settore Servizi Sociali e Associazione per i diritti umani, Storie di donne immigrate, op, cit.
18. Cfr. Città di Vittoria, Settore Servizi Sociali e Associazione per i diritti umani, Storie di donne immigrate, op. cit.
19. Intervista raccolta il 25 Luglio 2013 sul furgone del Solidal Transfert.
20. Intervista raccolta il 25 Luglio 2013 sul furgone del Solidal Transfert.
21. Ibidem.
22. E.F. Kittay, Il danno morale del lavoro di cura migrante: per un diritto globale alla cura, trad. it. di Brunella Casalini, in SIFP, 14 luglio 2009.
23. Per maggiori dettagli, cfr. L'Albero della Vita.