I capitolo
Cenni sulla storia dell'immigrazione albanese in Italia
Il processo migratorio albanese in Italia ha avuto un andamento irregolare, delineandosi sostanzialmente in tre fasi: la prima risale al 1991 ed è distinta in due ondate quella di marzo e quella di agosto differenziate fra loro sia per i motivi che hanno spinto gli albanesi ad intraprendere la via della fuga, sia per il comportamento adottato dalle autorità italiane nei loro confronti.
Sei anni più tardi, nel 1997, si è verificata una seconda ondata migratoria profondamente diversa dalla prima: infatti, il fallimento della maggior parte delle società finanziarie nazionali aveva condotto il Paese alla miseria, costringendo molti alla fuga nel tentativo di mettersi in salvo e costruirsi una nuova vita in un altro Stato. È con la guerra del Kosovo (1999) che si verifica quella che viene chiamata "l'ondata invisibile": trascurati dalle autorità, 100.000 albanesi lasciarono il loro Paese chiedendo asilo politico come cittadini Kosovari.
Fra l'una e l'altra ondata migratoria è avvenuto il vero esodo della popolazione albanese gestito dalle organizzazioni del traffico clandestino: uno stillicidio durato a lungo anche se non sempre con gli stessi ritmi.
1. L'era dei cambiamenti e le prime scosse al regime comunista
"Durante gli anni del monopartitismo il governo albanese ha propagandato un'immagine negativa dell'immigrazione presentandola come una piaga sociale frutto del capitalismo" (1) e conseguentemente ha chiuso tutte le frontiere e impedito ogni tentativo di lasciare il Paese. Nell'immaginario collettivo il fenomeno migratorio è stato associato alle deportazioni territoriali degli oppositori politici e "alle tristi circostanze politico-militari in cui si è venuta a situare l'emigrazione" (2). È solo dal 1990 che gli albanesi sono tornati a varcare i confini nazionali ed il fenomeno non è passato inosservato. Le ragioni di questo esodo, che ha assunto proporzioni sempre più allarmanti devono essere ricercate non solo in oltre quarant'anni di forte isolamento, ma soprattutto nella difficile fase transitoria che l'Albania ha attraversato dopo la caduta del regime stalinista di Enver Hoxha.
La sua morte (11 aprile 1985) coincide con l'elezione di Gorbacèv a segretario generale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica, il quale si fa interprete di tutto ciò che il leader albanese aveva detestato, iniziando a riformare il sistema socialista dell'Unione Sovietica unendo elementi dell'economia di mercato e indirizzi politici democratici al fine di invertire il processo di disfacimento morale e materiale che investe il Paese di fronte alle nuove sfide imposte dai processi di globalizzazione. Si avvia in questo modo un processo epocale che in pochi anni porta alla caduta del muro di Berlino (1989) (3).
L'Albania, diversamente dai Paesi dell'Est-Europa che avevano intrapreso un cammino di riforme in senso democratico, continuava a sostenere l'idea di essere l'unico Paese a costruire il "vero socialismo nel mondo". Quarant'anni di totalitarismo non avevano fatto altro che isolare l'Albania dalle nazioni europee tramite leggi e norme decise da un potere verticista. La nazione "shqipetare" non aveva conosciuto nulla di simile alla "Primavera di Praga" del '68 o al movimento polacco di Solidarnosc negli anni ottanta (4). Le manifestazioni di dissenso e i tentativi di opposizione erano sistematicamente stroncati sul nascere dalla "Sigurimi" (polizia politica): lo Stato non lasciava alcuno spazio, sia pure minimo, di libertà ed iniziativa privata.
Con il crollo del muro di Berlino e l'avvento al potere del delfino di Hoxha, Ramiz Alia (segretario generale del partito nel 1986 e capo dello stato nel 1987), il regime comunista albanese non poteva più ignorare i radicali mutamenti che si erano verificati in molti paesi comunisti; è vero che Edward A. Ackerman nel lontano 1938 aveva definito l'Albania come "la Svizzera dei Balcani", ma aveva aggiunto anche che "la metafora regge se si pensa che l'Albania, come la Svizerra, è un piccolo paese montagnoso a cui scabri rilievi e la posizione centrale hanno permesso di mantenere una certa indipendenza" (5), e le somiglianze si fermano qui. L'Albania negli ultimi anni del regime comunista (1985-1990) era un Paese poverissimo, con un'economia prevalentemente agricola e con uno sviluppo industriale interamente programmato e viveva una profonda crisi economica che lo ha portato alla fame: questo fu il risultato della mancanza di riforme efficaci. I tentativi di Alia per affrontare la crisi economica non ebbero il successo sperato a causa della scarsa produzione industriale, della bassa qualità dei prodotti, della cattiva gestione delle esportazioni e soprattutto perché la cauta apertura all'esterno non fu accompagnata da trasformazioni interne, ritenute pericolose perché potevano favorire una restaurazione del capitalismo. La perestrojka (6) era giunta anche in Albania nel 1988 sotto il nome di perteritje ma il regime la considerava un attacco, potenzialmente dannoso per il Paese, all'ideologia marxsita-leninista.
Solo nel 1990 rendendosi conto della grave situazione economica, Alia ha iniziato a fare i primi passi verso una riforma più strutturata concedendo alcune aperture. Prima di tutto si cercò di dare all'Albania una nuova identità nazionale eliminando quel concetto di differenza che contrapponeva gli albanesi agli altri popoli della penisola balcanica: era venuto il momento in cui l'Albania doveva essere un normale Paese balcanico legato ai suoi vicini sia sul piano storico-culturale che su quello degli interessi economici. Ciò fu sufficiente perché ad Alia fosse attribuito l'epiteto di "Gorbacév dei Balcani" (7). La volontà di sbloccare un'economia che aveva messo in ginocchio l'intero Paese (8) fu tradotta in scelte politiche ed economiche che favorirono l'inizio della decentralizzazione del potere decisionale. Il governo autorizzò i privati cittadini ad intraprendere direttamente attività commerciali con la Jugoslavia, la Grecia e con i Paesi leader dell'economia mitteleuropea; ad alcune industrie fu permesso di definire autonomamente, seppur in misura limitata, il piano di produzione e di intraprendere la vendita privata; la proibizione (prevista costituzionalmente) di accettare investimenti stranieri fu aggirata attraverso l'obbligo di creare joint-venture; inoltre si cercò di abolire il sistema cooperativo.
A queste riforme ne seguirono altre che modificarono il codice penale abrogando i reati di propaganda religiosa, di propaganda e manifestazione antistatale, limitando il numero di quelli puniti con la pena di morte (da trentaquattro passarono a undici) ed attenuando le pene per chi tentava di uscire illegalmente dal Paese.
Tuttavia la diffusione di statistiche false circa i livelli di produzione e la situazione economica generale (9), non bastò ad ingannare la popolazione: questa aveva maturato la consapevolezza che le cifre e le parole non avrebbero risolto la situazione di miseria in cui l'Albania si trovava (10). Era necessario trovare il coraggio di opporsi con forza ai dirigenti nazionali; chi meglio delle nuove generazioni poteva assumere il compito di rompere il lungo silenzio imposto dal regime comunista? Nel luglio del 1990 centinaia di giovani si diressero, spinti dalla speranza di una vita migliore, verso le ambasciate come fossero la luce che li avrebbe guidati verso l'occidente.
1.1 "I templi della speranza"
All'epoca, le ambasciate straniere a Tirana non potevano essere aperte al pubblico come succedeva in tutte le altre parti del mondo: questo a causa dell'isolamento dell'Albania e dell'impossibilità per i cittadini di ottenere i visti per l'estero. Intorno ai mesi di aprile-maggio 1990 il governo inizia a concedere il diritto di ottenere un passaporto per recarsi a lavorare all'estero: tutto questo ha comportato lunghe file agli sportelli delle ambasciate. Per scongiurare il pericolo di assalti agli uffici delle ambasciate, il Ministero degli Esteri chiese al corpo diplomatico di organizzare pritje populli (11). Tuttavia ciò non fu sufficiente ad evitare, il 2 luglio 1990, l'invasione delle ambasciate da parte di cittadini che richiedevano asilo politico (12).
In ogni modo il cambio di regime era preannunciato dal caso dei fratelli Popa, anticomunisti perseguitati dal regime: il 12 dicembre del 1985, sei membri della famiglia Popa (quattro sorelle e due fratelli) entrarono nell'ambasciata italiana a Tirana fingendo di essere turisti italiani. I fratelli Popa erano stati brutalmente perseguitati per motivi ideologici e religiosi ed in quanto figli di un farmacista, che avendo studiato a Napoli fu accusato di collaborazionismo durante l'invasione fascista (13). Furono poi confinati nella campagna Kulle di Sukth e costretti a vivere in gallerie sotterranee prive di prese di luce naturale. Il gesto compiuto dai fratelli Popa scosse fino alle fondamenta, considerate sino a quel momento "indistruttibili", il sistema totalitario e fece nascere nella coscienza degli albanesi l'idea che forse non tutto era perduto.
Sulla scia del Caso Popa altri tentativi di singoli cittadini si erano verificati anche prima del 2 luglio, ma erano rimasti episodi isolati. Nel frattempo erano tante le persone, arrivate anche dalle altre città, che passavano la notte nei parchi e nei giardini della capitale, osservando il comportamento delle ambasciate nei confronti di quei pochi che vi si erano rifugiati. Tranne l'ambasciata cinese e quella cubana, le altre avevano accolto generosamente gli "invasori", ma si temeva comunque che questi potessero poi essere consegnati alle autorità albanesi. Era una convinzione diffusa che a giorni le ambasciate sarebbero state assaltate. Dopo l'ingresso, il 22 giugno, di un gruppo di giovani che con un camion spalancarono il cancello dell'Ambasciata Italiana, il Ministero degli Interni e la Direzione di Polizia di Tirana iniziarono a prendere le misure necessarie per impedire una, oramai più che probabile, fuga di eclatanti dimensioni.
Il 2 luglio 1990 verrà ricordato come la data in cui uomini, donne e bambini hanno rotto il lungo silenzio contro il regime comunista indirizzandosi verso le ambasciate per entrare nei "templi della speranza". L'ingresso nelle ambasciate ebbe inizio in serata e fu un feroce scontro tra il popolo che tentava la via della "salvezza" e le forze di polizia che avevano ricevuto l'ordine di fermarli (14). Si può affermare che la liberazione del paese passò attraverso questa "fuga" verso le ambasciate: circa tremila persone si rifugiarono all'ambasciata tedesca; altre cinquemila in quelle italiane, francesi, greche, turche, polacche, ungheresi e slovacche (15).
I vertici del Partito Socialista, scossi profondamente dagli eventi del 2 luglio, crearono una task force di emergenza per il controllo della situazione. Molti importanti funzionari dello Stato, tra i quali spiccavano il Ministro degli Interni e il Direttore Generale della Polizia di Stato furono rimossi dal loro incarico; tuttavia le misure adottate non riuscirono a porre rimedio alla situazione. Nei giorni che seguirono si verificarono vari casi in cui la gente scavalcando i muri e i cancelli entrava nelle ambasciate. Inizialmente questi eventi non furono fermati dalla polizia con l'intenzione di evitare uno scontro sanguinoso con il popolo, ma dopo un po' di tempo la situazione diventò insostenibile per le stesse ambasciate le quali chiesero al governo di impedire i tentativi di rifugio presso le loro sedi.
Nel frattempo per coloro che già si trovavano nei locali delle ambasciate si attivò l'ONU nel tentativo di mediare con il Governo albanese affinché concedesse i visti per lasciare lo Stato. La presenza nel governo albanese di alcuni fedeli successori di Hoxha, fra i quali il Ministro dell'Interno che teneva in mano l'apparato della polizia, Simon Stefani, impedivano tuttavia una svolta postitiva delle trattative condotte dall'ONU. Il 7 luglio del 1990 il primo ministro Alia sostituisce Stefani aprendo così la strada ad una concreta soluzione della situazione creatasi nelle ambasciate (16). Nel tentativo di entrare con onore nella scena internazionale Alia permette il 9 luglio l'atterraggio a Tirana del Jet Tupolev 154, usato normalmente dal presidente cecoslovaco Valclov Havel, che aveva il compito di portare a Praga 51 cittadini albanesi ospitati dalla ambasciata di cecoslovachia (17). Questo avvenimento e l'intervento di diverse cancellerie diplomatiche europee hanno fatto sì che 4.803 profughi, di cui 2.000 rifugiati nell'ambasciata francese, 2.000 in quella tedesca e 803 in quella italiana, lasciassero il Paese il 13 luglio del 1990, partendo dal porto di Durazzo e sbarcando a Brindisi per essere poi successivamente trasferiti negli altri Stati che si erano offerti di ospitarli (18).
1.2 L'esodo biblico (1991-1992)
"L'Albania è rimasta bloccata e chiusa al resto del mondo, confinata in un ghetto ideologico senza vie d'uscita, isolata da qualsiasi corrente culturale, sociale o politica, ritrovandosi, dopo quarant'anni non solo allo stesso punto di partenza, ma con in più il peso del ritardo accumulato in tutti i settori e le conseguenze negative, sopportate soprattutto a livello individuale, dovute alla totale mancanza di libertà ed alla tolleranza passiva del senso civico. Il collettivismo annienta la personalità e perverte il principio di responsabilità individuale" (19).
Il riformismo di Alia, considerato come 'miope gestore' e custode del regime di Hoxha, era troppo timido e concentrato più sulla crisi economica che su una sostanziale riforma istituzionale. I diversi gruppi sociali manifestarono simultaneamente il loro malcontento, organizzando scioperi e manifestazioni. Da una parte gli studenti universitari scesero in piazza in numero sempre maggiore. Se in un primo momento le loro pretese erano limitate alle condizioni di studio, ben presto acquisirono anche una valenza politica: chiedevano condizioni non solo materiali ma anche culturali più favorevoli, chiedevano un insegnamento pluralista e più aperto.
Dall'altra parte anche gli operai avevano intrapreso alcune azioni, rimaste però isolate e prive di un coordinamento politico. L'inflazione stava annullando il potere d'acquisto e i salari non riuscivano a far fronte ai prezzi di mercato. I lavoratori di molti settori iniziarono a scioperare.
Mentre Alia cercava di fare piccoli cambiamenti per conquistare la fiducia dei cittadini (20), nel Paese la protesta saliva rapidamente. La crisi si estese in tutti i settori. Nei grandi complessi industriali gli scioperi erano continui, i lavoratori occupavano le piazze e anche nelle campagne si assisteva a manifestazioni spontanee contro il regime. Una cosa era chiara a tutti: oramai non si trattava più di una semplice protesta poiché le manifestazioni tendevano ad assumere i connotati di una rivolta. Le motivazioni delle proteste erano prevalentemente di natura materiale e pochi ad eccezione degli studenti esigevano mutamenti di indirizzo politico. Le riforme di Alia rispondevano a queste ultime richieste, sancendo il rispetto dei diritti umani, una precisa limitazione dei poteri di polizia e soprattutto il multipartitismo, però non potevano avere rilevanza rispetto alla crisi economica. Le riforme assunsero sempre più il carattere di un strada obbligata (21).
L'arma vincente per affrontare la crisi fu trovata nella creazione di un comitato di esperti riunito dal presidente, inedito "clan di intellettuali", con il compito di tacitare la piazza senza mettere in discussione le riforme e di mettersi alla guida dei studenti. La situazione imponeva un cambiamento radicale e cioè la rinuncia, almeno formale, al monopartitismo e la creazione a tavolino di un nuovo partito d'opposizione: questo doveva avere un programma marcatamente anticomunista, tanto da potersi mettere a capo di ogni movimento di rivolta, coordinando sia quelli studenteschi che quelli operai (22). I manifestanti erano ancora privi di guide e ciò che preoccupava Alia era l'idea che il dibattito politico si svolgesse prevalentemente nelle piazze e che il Governo sarebbe stato costretto a sottostare alle loro richieste. Per impedire che questo accadesse, ai membri del nuovo partito fu affidato il compito di conquistare la fiducia dei manifestanti facendo proprie le loro motivazioni per poterne assumere poi la guida (23). A capo della nuova forza politica furono collocati comunisti di assoluta fedeltà, ma ovviamente si trattava di personaggi che facevano parte dell'intellighentia nazionale e non troppo noti. La soluzione individuata era una finta forma di transizione: si passava dal monopartitismo al bipolarismo in cui, tuttavia, il nuovo attore che compariva sulla scena politica non era altro che una filiazione del vecchio Partito del Lavoro albanese (24).
Il compito di guidare l'opposizione fu attribuito a Sali Berisha, cardiochirurgo di livello internazionale (25), che si rivolse agli studenti formando il Partito Democratico. La nuova forza politica predicava una rigorosa applicazione delle norme del mercato e un liberalismo privo di quelle tutele sociali che Alia invece voleva garantire.
Berisha riuscì in pochi giorni a mobilitare le manifestazioni degli studenti, ma cambiò molto presto fronte abbandonando il ruolo di mediatore che gli era stato affidato e diventando realmente il primo oppositore del regime di Alia: riunì intorno a sé amici ed intellettuali per formare, insieme agli studenti, un vero partito di opposizione di cui assunse la leadership.
La situazione politica in cui si trovava l'Albania in quel periodo fu definita come "l'epoca delle forze oscure" poiché nessuno, tranne i vertici supremi del partito socialista, era in grado di comprendere quali fossero le forze politiche in campo: ognuno dei principali attori difendeva interessi politici diversi da quelli dei gruppi che in effetti sosteneva di rappresentare.
In questa confusione politica, economica e sociale, alla vigilia delle prime elezioni libere nel marzo del 1991, il popolo albanese, convinto che la natura dello stato non fosse sostanzialmente mutata (26), scelse di raggiungere il 'paradiso' occidentale piuttosto che lottare per trasformare l'Albania.
In condizioni di povertà diffusa (27), di disoccupazione crescente e di mancanza di reali prospettive per il futuro, l'emigrazione sembrava l'unica strada percorribile. Il richiamo della libertà era molto forte ed il sogno di trovare una specie di Eldorado fece sì che gli albanesi, nel mese di febbraio-marzo, si dessero alla fuga. Già un anno prima, mentre migliaia di persone occupavano le ambasciate straniere a Tirana per chiedere asilo politico, il 3 luglio 1990 un gruppo di sei uomini riuscì a varcare clandestinamente i confini, arrivando in Italia a bordo di una zattera e prima degli 8000 albanesi rifugiati nelle ambasciate (28).
L'Albania fino a quel momento era stata come una prigione, una prigione cui ora era stato aperto il cancello. Per uscire e riconquistare la libertà bisognava attraversare il fossato rappresentato dal basso Adriatico.
Il 9 febbraio oltre 10 mila persone, giunte da diverse parti dell'Albania, si ammassarono nel porto di Durazzo per emigrare in Italia: cominciava così il grande esodo, che vedrà arrivare in Italia gente affamata in cerca di lavoro.
Nei giorni che seguirono, centinaia di persone salivano su 'imbarcazioni di fortuna' di ogni tipo (mercantili e pescherecci malandati, zattere, etc) con destinazione la costa pugliese.
"E' a partire dal 7 marzo 1991 che gli albanesi sono entrati a pieno titolo sulla scena nazionale ed internazionale con quello che fu denominato 'l'esodo biblico'; lo hanno fatto nella forma più spettacolare che tanto impressionò l'immaginario collettivo della popolazione Italiana e mondiale: in tutte le case italiane, attraverso centinaia di ore di trasmissioni televisive, quelle immagini si imposero all'attenzione generale. Come d'incanto emerse la condizione di un popolo avvolto per mezzo secolo in un involucro impenetrabile. Nei tre porti di Brindisi, Bari ed Otranto arrivarono 25.708 albanesi su quelli che presto furono definiti "carretti di mare" (29).
I "boat-people" albanesi furono un fiume inarrestabile che partiva da Durazzo, Valona e Santi Quaranta prendendo il largo, in direzione dell'Italia, con i motori in panne e lanciando disperati SOS. Le scene raccapriccianti toccarono il cuore degli italiani che accolsero i profughi come fratelli non senza l'imbarazzo che derivava dal fatto che la 'Legge Martelli' in materia di immigrazione era appena entrata in vigore: essa, che permetteva ai cittadini di entrare in Italia soltanto se riconosciuti come perseguitati politici, rendeva impossibile la permanenza dei profughi albanesi che avevano dato assalto alle navi facendo rotta in Italia; costoro, infatti, non erano secondo il governo italiano dei perseguitati politici, ma solamente uomini e donne esasperati dalla fame e dalla crisi economica che l'Albania stava attraversando. Come conseguenza, diverse navi, fra cui la Tirana con a bordo 3.500 persone e la Lirija con 3.000, rimasero bloccate a largo del porto di Brindisi in attesa della decisione del governo. Nel frattempo l'Italia, tramite una delegazione di parlamentari, aveva iniziato le trattative con il governo albanese per far fronte a questa nuova emergenza che la trovava impreparata (30). La grande sensibilità che gli italiani mostrarono per il popolo albanese fu condizionata anche dal fatto che gli occhi di tutto l'Occidente, e non solo dell'Occidente, erano puntati sul Governo Italiano e sulle decisioni che avrebbe adottato riguardo il destino di questi 'poveracci'. L'Italia fece ricorso ad una normativa ad hoc (31). Il governo italiano accordò ai migranti un permesso di soggiorno straordinario per la durata di un anno, nel corso del quale gli albanesi avrebbero dovuto frequentare dei corsi di formazione, trovare un lavoro e una casa dimostrando così di non essere un peso per lo Stato Italiano. Contemporaneamente in una Conferenza tra Stato e Regioni fu raggiunta l'intesa per la ripartizione degli stessi profughi in diverse regioni al fine di un loro più facile inserimento nel tessuto socio-economico del territorio di accoglienza.
I motivi di questa ondata di immigrazione non devono essere ricercati solo nelle condizioni economiche e politiche che l'Albania stava vivendo all'epoca: secondo il governo italiano dietro il flusso di migranti si nascondeva la mano di Alia che sfruttava il fenomeno per fare pressione sull'occidente affinché questo lo aiutasse economicamente; la sensazione era che, sulla pelle dei profughi, il governo di Tirana giocasse un cinico braccio di ferro con l'Italia: in ballo c'erano gli aiuti umanitari promessi dall'Italia e l'arma di ricatto furono 125 mila persone in attesa di lasciare l'Albania. I militari avevano abbandonato ogni intenzione di fermare l'esodo oppure avevano ricevuto l'ordine di lasciar partire chiunque volesse. Oramai era chiaro che per risolvere la crisi economica era necessario un appoggio dell'Occidente.
Non si può comunque negare anche il contributo della televisione come finestra su un nuovo mondo chiamato "occidente". I boat-people che nel 1991 giungono alle coste italiane furono anche una generazione di spot-people: la televisione italiana, che si poteva vedere in Albania sin dai primi anni '80 grazie ad un grosso ripetitore installato in Montenegro, aveva costruito nell'immaginario collettivo una sorta "mito dell'occidente" ed il Mar Adriatico rappresentava l'unica barriera che separava gli albanesi da questo paradiso capitalistico (32). Nelle condizioni di arretratezza generale in cui versava l'Albania dei primi anni '90 i media italiani creavano speranze e facevano sognare in pieno giorno. La diffusione della lingua italiana imparata grazie ai programmi RAI, la vicinanza geografica e la chimera dei "soldi facili" ottenibili con la partecipazione a semplici trasmissioni televisive che promettevano ricchissimi montepremi, furono dei catalizzatori che attirarono gli albanesi verso l'Italia.
Il 31 marzo 1991 si svolsero le prime elezioni pluraliste in Albania che videro la vittoria del Partito del Lavoro (trasformato nel giugno dello stesso anno in Partito Socialista d'Albania). Alia aveva iniziato ad attuare un vasto progetto di riforma che rispondeva all'esigenza di tutela dei diritti negativi dell'individuo, la cui violazione era ora sanzionata costituzionalmente. Questo rappresentò una svolta importante per un Paese sottoposto all'onnipotenza della Sigurimi.
La riconquista della libertà, però, si accompagnò ad un generale crollo dei valori ed i nuovi diritti concessi da Alia si tradussero nella sola libertà di fuggire all'estero.
1.3 I profughi rinchiusi nello stadio della Vittoria
Durante il regime l'individuo era inserito in un sistema in cui non poteva assumersi alcuna responsabilità. Nonostante i cambiamenti in atto, la libertà d'azione era ancora limitata dalle circostanze contingenti, legate alla gravissima crisi economica, agli scompensi creati dalla mancanza di un sistema di riferimento in ogni campo ed alla paura della libertà di pensiero, derivante dalla cultura del sospetto diffusa nel vecchio regime. Pure la responsabilizzazione improvvisa della popolazione generava smarrimento poiché esisteva ancora una forte dipendenza del cittadino dallo Stato dal quale egli riceveva anche il cibo. Il popolo albanese si trovò quindi a patire una sindrome di sfiducia nelle proprie capacità: per la prima volta dovette operare delle scelte senza una vera guida.
In un momento in cui la sensazione diffusa era che poco fosse veramente cambiato, elemento costantemente presente rimaneva la voglia di emigrare per raggiungere una condizione di benessere e per vedere quel mondo sconosciuto e tanto ammirato tramite la TV italiana.
Un fattore significativo collegato all'aspetto ideologico-generazionale ha influenzato il grande esodo del marzo 1991 e quello successivo del mese di agosto: il netto rifiuto della passata propaganda del regime e di tutti i suoi contenuti, considerati interamente falsi; di conseguenza, cambiò radicalmente anche l'opinione riguardo i Paesi capitalisti costantemente demonizzati nel corso della dittatura e divenuti ora un mito (33). L'esodo si trasformò quindi in una vera emergenza per l'Italia: è l'otto di agosto quando le scene bibliche del marzo si ripetono con la nave Vlora che, con un carico di quasi 20.000 persone, partita dal porto di Valona giunge sulla costa pugliese. L'Italia che si era trovata impreparata, aveva commesso un errore imperdonabile: gli aiuti umanitari promessi ad Albania, infatti, non erano stati tempestivi per fronteggiare la crisi ed impedire il nuovo flusso. Fra la prima e la seconda ondata dell'esodo del 1991, però, lo scenario era radicalmente mutato: le immagini di gente lacera, arrampicata persino sui pennoni non intenerirono più il cuore degli Italiani; furono portati tutti nello "Stadio della Vittoria" di Bari, al quale di "vittorioso" è rimasto solo il nome, essendosi trasformato in un simbolo di vergogna per l'Italia, e lasciati in condizioni disumane: nella memoria di tutti rimane l'immagine di uno stadio divenuto ghetto per indesiderabili. Un ruolo fondamentale hanno avuto anche i media che hanno iniziato un'opera di stigmatizzazione degli albanesi arrivati con quest'ultima ondata. Nel frattempo anche il clima politico era cambiato e persino le forze del volontariato che con tanta devozione avevano fronteggiato l'emergenza primaverile reagirono con meno efficacia. Gli albanesi non furono più accolti quali vittime di un duro regime, ma come stranieri indesiderati.
Il governo adottò una linea severa: davanti alla scelta di negare l'ingresso (34) oppure consentirlo, legittimando però analoghe richieste da centinaia di migliaia di altre persone provenienti da ogni angolo del mondo, il Ministro dell'Immigrazione Margherita Boniver optò per una strada più lunga, ma che dava speranza di migliori e più duraturi risultati. Così fu scelto di rimandare la massa a casa propria e di cercare di aiutarla a ricrearsi una vita dignitosa e un'organizzazione economica e sociale che intanto permettesse un minimo di sopravvivenza e, poi, un possibile recupero. Questa decisione in tutt' Europa fu accolta con qualche apparente critica e con un grosso respiro di sollievo da parte di chi temeva di vedere invasi i propri territori da masse umane affamate, disperate e incontrollabili (35).
L'Italia, con la promessa di concedere l'asilo politico, ingannò i rifugiati cercando di tenere calma la folla e successivamente ha provveduto, anche con l'uso della forza, al rimpatrio di tutti gli albanesi giunti.
L'aspetto più difficile era rappresentato dalla necessità di rendere concreto l'aiuto promesso; cosi la Comunità Internazionale approvò degli interventi di sostegno: estensione all'Albania del Programma PHARE (36), ammissione alla Banca Mondiale, a quella europea per la ricostruzione e lo sviluppo, all'OSCE (37), UNDP e ACNUR, ed al Fondo Monetario Internazionale. Per aiutare meglio il Paese a ricostruire se stesso dalle radici, la guida fu affidata all'Italia, con l'operazione "Pellicano" (38), che inizialmente avrebbe dovuto avere una durata di tre mesi, ma che fu successivamente prolungata fino al 1993: il governo italiano, consapevole che con le operazioni di polizia non sarebbe stato possibile fermare l'emigrazione clandestina inviò un cospicuo contigente dell'esercito impegnato nella distribuzione di generi alimentari e nel controllo delle coste. Solo nella prima fase dell'operazione i soldati italiani hanno consegnato 186 mila tonnellate di viveri e medicinali in 27 centri dislocati in ogni regione per essere poi distribuiti anche nei villaggi più sperduti. Si è cercato in questo modo di affrontare la crisi economica, causata sì da una gestione conservatrice della cosa pubblica ed ulteriormente aggravata dall'operato dei direttori delle aziende statali e collettive, che, per vendicarsi della perdita del potere, iniziarono a sabotare e distruggere il sistema economico.
Da sempre la sensazione degli albanesi è quella di essere da soli, senza la protezione di uno Stato, che dovrebbe avere come obiettivo principale la salvaguardia dell'incolumità dei propri cittadini. Alia ringraziò pubblicamente l'Italia per "la cura dimostrata verso gli emigranti albanesi, anche in occasione di questo esodo" (39), ma gli albanesi non dimenticano. Alle nuove consultazioni elettorali nel 1992 il Partito Democratico uscì vittorioso ed Alia fu costretto a cedere la presidenza della repubblica a Sali Berisha.
2. La crisi economica del 1997
Parlare di quello che è successo in Albania nel 1997 inizialmente mi aveva resa entusiasta, perché credevo di affrontare l'argomento basandomi sui ricordi di quei giorni che, nonostante fossi appena una bambina, sono rimasti scolpiti nella mia memoria così come in quella di tanti miei conterranei. Avevo però sbagliato a sottovalutare il quadro che ha costretto migliaia di albanesi a riprendere la via della fuga. Studiando il materiale storico, per quanto ogni autore possa talvolta lievemente difettare di obiettività, la realtà si presenta molto diversa da quello che agli albanesi era stato fatto credere (40). È vero che la crisi economica causata principalmente dal fallimento delle finanziarie è servita come pretesto per creare caos politico-istituzionale e la nascita di bande criminali, ma quanta verità si nasconde dietro centinaia di morti a causa di proiettili sparati a cassaccio per aria e dietro quei naufraghi ingoiati dal mare nel tentativo di scappare da un Paese in guerra? La sensazione è quella di essere stati strumentalizzati da forze politiche che combattevano per il potere. La rabbia è rivolta in primo luogo contro lo Stato che non ha saputo proteggersi, contro le organizzazioni internazionali che inizialmente hanno gridato al miracolo economico albanese e che poi con la stessa superficialità hanno proclamato, con la fine di Berisha, la fine dello Stato e dell'economia, ma anche contro gli stessi albanesi che, invece di rimboccarsi le maniche per costruire un nuovo futuro, sono caduti in preda al miraggio della ricchezza.
Dal 1992 fino al 1996 l'Albania ha vissuto grazie alle rimesse degli immigrati, mentre gli aiuti internazionali hanno consentito la tenuta del sistema economico. L'Albania è stata paragonata ad un "malinconico pensionato che vive di aiuti internazionali e rimesse di emigrati" (41): le rimesse degli emigrati e gli aiuti umanitari hanno permesso, infatti, la tenuta del sistema economico e lo sviluppo delle società finanziarie che, se da un lato avevano garantito un reddito integrativo alla maggior parte delle famiglie, dall'altro erano divenute, nel gennaio del 1997, la scintilla capace di causare lo scoppio di una guerra civile. La responsabilità dell'Occidente risiede proprio nel non aver capito che la democrazia non si ottiene solo con gli aiuti ma con la costruzione di un "uomo nuovo" (42).
Da un comunismo preistorico, l'Albania è passata improvvisamente al postcapitalismo "svizzero" saltando la fase del lavoro, cosa che comportò un impatto negativo sul sistema economico. L'economia postcomunista non era fondata sulla produzione di beni quanto piuttosto sull'importazione degli stessi da altri Stati, facevano eccezione solamentele attività agricole e quelle edili. Il forte impulso all'iniziativa privata si è risolto nel boom del piccolo commercio: leuniche attività imprenditoriali erano rappresentate dai caffè, i chioschi, i ristoranti e dalla compravendita di automobili. Nessuno si recava a cambiare denaro in banca perché il cambio di "mercato" era esattamente il doppio di quello ufficiale e lo si poteva effettuare in qualsiasi posto (43).
Il denaro in Albania entrava in grandi quantità ma non si fermava: non metteva radici e non produceva nuova ricchezza. Entrava dall'estero in varie forme (44), ma tornava all'estero sotto forma d'importazione poiché il Paese aveva ancora bisogno di tutto. Il capitale tedesco si era appropriato delle industrie chiave del cromo, quello italiano e greco del settore tessile e delle costruzioni mentre la maggior parte dell'industria statale era stata distrutta, con conseguente aumento dei livelli di disoccupazione. Le famiglie non cercavano di produrre lavoro nel loro Paese quanto piuttosto di mandare un giovane all'estero. Come ironia della sorte, fu proprio l'emigrazione a creare nuove forme di lavoro perché in simili circostanze iniziarono a fiorire i falsificatori di visti, gli strozzini, gli scafisti ed i cambi al mercato nero (45).
Le società "piramidali" (46) sorgono nel passaggio dal regime comunista al sistema multipartitico; tanti studiosi hanno rivelato che queste ultime furono finanziate e 'pilotate' dal presidente Sali Berisha e dai suoi collaboratori. L'affermazione deve essere smentita perché le finanziarie avevano cominciato ad esistere prima della salita al potere di Berisha: Iliria Holding, ad esempio, fu creata nel 1991 ai tempi di Alia da parte di Hajdin Sejdia (47). Quest'ultimo dopo aver convinto i proprietari di un enorme terreno vicino alla Biblioteca Nazionale a vendere è riuscito a trovare abbastanza creditori che gli affidassero i loro risparmi, contro una percentuale d'interesse o diventando azionisti della società per la realizzazione del più lussuoso albergo di Tirana, lo Sheraton. Nel 1993 Sejdia fu estradato in Svizzera a seguito di un processo per evasione fiscale, non assolvendo gli obblighi verso i creditori e lasciando per quasi 15 anni, nel posto in cui doveva essere costruito un grattacielo, un grande buco (48).
Nel frattempo altre società iniziano a difondersi rapidamente. Il finanziamento di queste società trovava radici nell'embargo che la comunità internazionale impose alla Serbia e al Montenegro (49), ma anche nel commercio triangolare armi-droga-manodopera clandestina, legato al contrabbando del petrolio (50). Fu così che le organizzazioni criminali straniere, principalmente italiane, cominciarono ad interessarsi all'Albania per le grandi quantità di armamenti di cui disponeva; il procuratore nazionale antimafia, Pier Luigi Vigna, affermava che gruppi del crimine organizzato italiano hanno investito nelle finanziarie albanesi per ottenere denaro necessario al fine di avviare nuove imprese (51). Il contrabbando, che inizialmente era limitato a piccoli traffici, presto si trasformò in una vera e propria organizzazione internazionale. La droga proveniente dall'Oriente attraversava i Balcani correndo nel territorio dell'ex-Repubblica Jugoslava. Per mettersi al riparo dai rischi che lo scoppio della guerra del 1991 (52) comportava, i trafficanti hanno cercato altri sentieri per svolgere i loro affari. La soluzione fu trovata individuando nell'Albania il percorso più vantaggioso dato che da poco aveva conquistato la libertà ed era ancora abbastanza fragile ed instabile economicamente. Il sostegno che un tempo era garantito dalle autorità jugoslave ora era assicurato dai funzionari albanesi. Agli albanesi fu affidata la gestione del trasporto sul loro territorio della droga e l'epicentro divenne Valona. Non a caso questa città (53) diventò il terreno fertile dove organizzazioni criminali di diversi Paesi, Serbia ed Italia in primis, operavano la 'ripulitura' del denaro sporco. Grazie ai traffici illeciti Valona divenne un paradiso per le società finanziarie che fondavano la propria struttura economica sulle rimesse degli emigranti e sul contrabbando verso la Serbia e l'Italia, senza effettuare nessun investimento (54).
Ma come si può spiegare l'entusiasmo dei politici ed economisti occidentali che fino al 1996 presentavano l'Albania come 'nuova California', 'Taiwan dell'Adriatico', 'piccola Svizzera dei Balcani'?
La responsabilità non deve essere cercata soltanto nella persona di Sali Berisha, il quale ha preso a dirigere uno Stato in cui l'intera economia si reggeva su tali strutture finanziare. Il popolo si stava appena riprendendo dalla crisi del vecchio regime ed eliminare le finanziarie sarebbe stata una catastrofe per il paese; l'errore più grave commesso dal governo fu quello di fondare la campagna elettorale del 1996 su slogan che appoggiavano e pubblicizzavano le 'piramidi' dipingendole come banche di fiducia.
Le finanziarie a schema piramidale non sono apparse per la prima volta in Albania (55) e gli albanesi non sono stati un popolo ingenuo: la loro fiducia era basata su un Governo che garantiva la solvibilità delle Finanziare senza ombre di dubbio. Non meno responsabile fu il Fondo Monetario Internazionale: nonostante le denunce dei propri esperti sul rapporto tra riciclaggio, finanziarie e governo, il FMI approvava il 'liberalismo selvaggio' deciso da Berisha ammettendo che la popolazione albanese era troppo arretrata per comprendere una politica di sacrifici e le truffe delle finanziarie e l'autoritarismo del Presidente dovevano contenere l'esasperazione fino a quando la situazione economica delle famiglie non fosse significativamente migliorata. Le truffe delle finanziare furono tollerate dal FMI perché considerate come 'effimeri ammortizzatori sociali', che svolgevano una funzione di integrazione del reddito per le categorie meno protette in una società in transizione (56). Solo nel settembre del 1996 il FMI chiese al governo di Tirana di dissociarsi dalle finanziarie, di metterle sotto inchiesta e di vietarne la proliferazione; stranamente ciò che lo preoccupava non erano tanto le famiglie che avevano investito tutto il loro patrimonio, quanto soprattutto il riciclaggio del denaro sporco.
Con i risparmiatori dovette fare i conti il governo che apertamente aveva appoggiato le piramidi, al contrario l'appoggio del FMI era stato dato in silenzio, tollerando la loro azione per tanti anni.
In questo clima il 18 gennaio del 1997 Sali Berisha dichiarò di essere intenzionato a bloccare il sistema di risparmio fraudolento; il popolo si oppose ritenendo la decisione un tradimento e scese nelle piazze a manifestare per la restituzione dei soldi. La situazione fu strumentalizzata dai partiti di sinistra i cui membri partecipavano alle manifestazioni insieme al popolo incoraggiando la folla a continuare le proteste fino a costringere il governo alle dimissioni ed invitandola ad armarsi al fine di ottenere quanto richiesto. Le manifestazioni furono manovrate e trasformate in vere rivolte mettendo il nord contro il sud (57), ma i disordini del 1997 non furono causati dal presunto conflitto fra nord e sud, come qualcuno ha voluto far credere: in Albania non sono stati mai evidenziati grandi conflitti etnici ed esiste una tolleranza religiosa che pochi altri Paesi conoscono; per gli albanesi la vera religione è l'albanesimo (58).
Il 2 marzo l'Albania temette una guerra civile in quanto la popolazione assaltò le caserme, anche se è opinione diffusa che tali azioni non siano state del tutto spontanee, ma almeno in parte indotte dalle forze politiche. Mentre il parlamento proclamava lo stato di emergenza, il presidente Sali Berisha decise di affidare all'esercito il controllo di molte città (59).
Nel Paese nacquero bande criminali, in particolare a Valona dove ce n'era una per quartiere. La città era in preda al terrore. Si poteva morire dentro la propria casa, colpiti da proiettili vaganti, o accidentalmente per strada nel corso di regolamenti di conti tra le bande. Ognuno teneva a casa un'arma che serviva a proteggere la propria famiglia.
Quello che spinse migliaia di albanesi di intraprendere la via dell'emigrazione fu il panico: si fuggiva da un Paese che non offriva prospettive e si cercava di iniziare una nuova vita.
Anche se il presidente Sali Berisha rassicurò l'Italia circa il fatto che non ci fosse pericolo di un esodo, la realtà dimostrò il contrario: l'esodo del marzo-aprile 1997 contò 9.000 persone; la storia si era ripetuta, anche se non prese le dimensioni dell'esodo del 1991. I mezzi di viaggio sovraccaricati non erano adatti ad affrontare il viaggio, ma per guadagnare si è disposti a tutto anche rischiare vite umane. L'esodo nel marzo-aprile del 1997 ha segnato una piaga inguaribile per la società albanese. Centinaia di persone sono morte e disperse nel tentativo di costruirsi una vita migliore e di ritrovare la tranquillità. Tranquillità che l'Italia del 1997 non era disposta ad offrire. L'Italia del 1997 è un'Italia incapace di generosità: gli albanesi rappresentano una minaccia al loro benessere, per altro già in crisi a causa dei sacrifici economici richiesti dalla Comunità Europea. Mentre coloro che sono giunti con il primo esodo sono ufficialmente chiamati "profughi" ed è loro concesso un "nulla osta" temporaneo per la permanenza sul territorio, gli albanesi arrivati successivamente sono per tutti "immigrati clandestini" e sono subito espulsi (60).
Il flusso dei profughi fu intenso per due settimane, finché la motovedetta "Kater i Rades", partita dal porto di Valona, con a bordo 120 persone (61), si scontrò nelle vicinanze dell canale di Otranto con la nave della marina "Sibilla" causando la morte di 108 albanesi; dopo l'accaduto il governo italiano decise lo stato di emergenza nazionale e dispose un blocco navale dinanzi all'Albania. La sensazione degli albanesi era che l'incidente fosse intenzionale; d'altronde, come dar loro torto se i media diffondevano la notizia che la dichiarazione di Irene Pivetti di rigettare gli albanesi in mare era condivisa da tanti italiani. Il 27 marzo 1997, alla vigilia della tragedia di Otranto, la parlamentare Irene Pivetti, sul Corriere della Sera, si espresse in tal senso: "I profughi albanesi andrebero ributtati al mare. E quando sparano alle nostre forze dell'ordine le loro navi anderebbero affondate" (62). D'altronde in diverse parti di Italia si ribadiva una netta contrarietà ad ospitare i profughi (63). Anche dopo l'accaduto la Pivetti non fa marcia indietro, continuando a ritenere che gli albanesi usano donne e bambini come scudi umani per farle poi prostituire in Italia, e quest'ultima sta favorendo i disonesti in quanto gli albanesi per bene rimangono nella loro patria (64).
Per gli italiani i profughi che giungevano in Italia erano gli stessi che sparavano al cielo con i kalashnikov, erano i prigionieri scappati dalle carceri (65), era la malavita albanese. Non so se qualcuno di loro si è informato su chi fossero le vittime della tragedia del 28 marzo, in cui la maggior parte dei morti erano donne e bambini: di certo non erano delinquenti!
Nella seconda metà del mese di marzo il governo di Tirana chiese l'intervento di una forza militare multinazionale per ripristinare l'ordine nel Paese in preda al banditismo e per impedire che l'immigrazione assumesse le dimensioni dell'esodo del 1991. Per evitare tutto ciò il Consiglio di Sicurezza dell'ONU affidò all'Italia il comando di una forza multinazionale, per un periodo di tre mesi, denominata Operazione Alba (66). Le nuove elezioni tenute in Albania il 29 giugno (67) ed i risultati conseguiti dall'Operazione Alba hanno portato progressivamente un po' di tranquillità al Paese.
3. L'ondata invisibile (1998-1999)
La terza ondata migratoria degli albanesi è avvenuta durante la guerra del Kosovo (1998-1999).
La regione kosovara, che negli ultimi anni del regime di Tito aveva goduto di ampie autonomie politiche ed amministrative, si trovò nel 1989 priva di ogni rappresentanza all'interno delle istituzioni e senza alcun potere decisionale. Nel 1987 Slobodam Miloscevic, Segretario della Lega dei Comunisti Serbi fin dal 1986, prende il potere a Belgrado iniziando un processo di cancellazione dell'autonomia del Kosovo e proclamando, nel febbraio del 1989, lo stato d'assedio (68). Ben presto sostituì la dirigenza del Partito Comunista del Kosovo con suoi uomini di giurata fedeltà. Di conseguenza i kosovari scesero in piazza in segno di protesta, ma le manifestazioni furono sciolte con la violenza dalla polizia serba e accompagnate da un'ondata di processi e pene durissime. Negli anni che seguiranno gli albanesi che lavorano nella pubblica amministrazione verranno licenziati perdendo così anche il diritto all'assistenza sanitaria pubblica: vengono licenziati anche i professori e gli insegnanti delle scuole pubbliche e dell'Università, quest ultime adotteranno nuovi programmi di insegnamento di lingua e cultura serbe. Il regime repressivo di Milosevič aveva infatti lo scopo di rendere impossibile ai kosovari la vita nel loro territorio in modo da costringerli ad emigrare verso altri Stati conseguendo in questo modo una vera e propria pulizia etnica. Per reazione i kosovari risposero alla repressione con una resistenza passiva organizzando una sorta di Stato alternativo e quello serbo, privo di sovranità ma forte di una economia totalmente privata, con scuole e ospedali autogestiti. I fondi per le strutture parallele provenivano dall'autotassazione degli albanesi del Kosovo e dai lavoratori al estero (69). In semi-clandestinità il 2 luglio 1990 i kosovari stabilirono plebiscitariamente di considerarsi indipendenti dalla Serbia proclamando la "Repubblica di Kosovo", status tra l'altro non riconosciuto da nessun altro Paese del mondo tranne che dall'Albania, eleggendo, il 22 maggio del 1992, un loro Parlamento che designò Ibrahim Rugova Presidente della Repubblica. Tuttavia, dal 1995, una parte degli albanesi scelsero la lotta armata per l'indipendenza del Kosovo costutuirono l'UCK (Ushtria Clirimtare e Kosoves trad. it. Esercito di Liberazione del Kosovo). Ebbe inizio cosi il genocidio di Miloscevic che causò migliaia di morti a seguito di massacri di massa. Durante gli attacchi contro i presunti "terrorristi albanesi" le truppe serbe non risparmiarono la popolazione civile.
La situazione degenerò nei mesi di febbraio-marzo del 1998 quando nel triangolo di Drenica furono uccisi 83 civili, in seguito la polizia e l'esercito attaccheranno numerosi villaggi nelle zone centrali, violentando le donne, ammazzando bambini, bruciando case e persone (70).
Solo due mesi dopo, l'esercito serbo fece allontanare dal Kosovo 13 mila anziani, donne e bambini che si rifugiano nel nord dell'Albania. Da quel momento iniziò "l'odissea" di migliaia di kosovari, all'interno ed all'esterno dei confini del Kosovo, che culminò con l'inizio dei bombardamenti della NATO il 24 marzo del 1999 (71): per tutto il 1998, mentre la guerriglia sul terreno si espandeva e la repressione delle forze di sicurezza serbe si faceva sempre più pesante e sanguinosa, la NATO adottò una politica di dissuasione e minaccia contro il governo della Repubblica federale jugoslava. Come risultato delle forti pressioni esercitati dall'Alleanza Atlantica il 29 gennaio ebbero inizio i negoziati di Rambouillet. La trattativa consisteva nel garantire formalmente un'autonomia al Kosovo, ma non la sua piena indipendenza. Una sessione non politica avrebbe dovuto occuparsi degli aspetti attuativi e organizzativi dell'accordo (72). Quest'ultimo fu firmato, anche se con esitazione, dalla parte kosovara mentre la delegazione serba, che si sentì presa in giro e provocata, abbandonò le trattative dichiarando che non era disposta ad accettare una indipendenza di fatto mascherata da autonomia.
Il 18 marzo 1999 in Francia fallisce un altro tentativo di pacificare i due Paesi. I rappresentanti albanesi firmano l'accordo che prevedeva l'autonomia del Kosovo sotto la protezione di 28 mila soldati della NATO stabilendo che il suo status definitivo sarebbe stato deciso a distanza di qualche anno. Si prevedeva, inoltre, completa liberta di movimento dei soldati Nato su tutto il territorio della Federazione jugoslava e completa immunità dalle autorità locali. I serbi non firmano e il negoziato venne sospeso. Dopo questo tentativo la NATO il 23 marzo autorizzò i raid aerei contro la Federezione Jugoslavia, la quale dichiarò lo stato di emergenza.
Fino ad allora in Italia del Kosovo si era parlato poco, mentre, nei tre mesi che seguirono, gli italiani, così come il resto del mondo, si resero testimoni di uno degli esodi più massicci e rapidi che l'Europa avesse vissuto; un esodo che molto presto si è tradotto in espulsione e deportazione sistematica di centinaia di migliaia di persone (73). Migliaia di kosovari sbarcano sulle coste Pugliesi, portati dagli scafisti di Valona, spesso diretti in Germania, Svizzera e Regno Unito.
Saranno oltre i novemila i kosovari giunti in Italia in soli quattro mesi. Altri diecimila profughi furono evacuati dalla Macedonia e trasportati in Italia con un ponte aereo (74). La decisione era stata presa il 4 maggio, nel corso di un vertice tra il presidente del consiglio Massimo D'Alema, il sottosegretario alla presidenza Marco Minniti e il ministro dell'Interno Rosa Russo Jervolino, per affrontare l'emergenza profughi che le autorità macedoni non erano più in grado di controllare. Successivamente i profughi furono sistemati principalmente a Comiso, Triestino e Crotone (75).
Il 12 maggio del 1999 il Presidente del Consiglio dei Ministri emanò un decreto che prevedeva una normativa speciale sulla protezione temporanea degli stranieri provenienti dalle zone di guerra dell'area balcanica e specificatamente dalla Repubblica Federale di Jugoslavia. Il decreto disponeva (art. 2, comma 4 e art. 4), a favore dei beneficiari il rilascio di un permesso di soggiorno valido per il solo terreritorio italiano fino il 31 dicembre con possibilità di rinnovo semestrale fino al persistere dello stato di emergenza conseguente al conflitto e, dunque, fino al venire meno di ogni impedimento ad un rimpatrio in condizioni di dignità e sicurezza.
In ogni caso non mancarono attegiamenti ostili da parte delle questure che in diversi casi non accoglievano le richieste di asilo dei kosovari che non avevano potuto accedere a suo tempo alle misure di protezione temporanea, in genere perché entrati in Italia prima del 26 marzo del 1999. La situazione si aggrava ulteriormente con l'emissione da parte di alcune questure di provvedimenti di espulsione contestualmente alla notifica del diniego del riconoscimento dello status di rifugiato e con la loro esecuzione senza attendere la scadenza di 60 giorni previsti per il ricorso al TAR. Di 33.364 richieste di asilo inoltrate nel 1999, da kossovari e cittadini di altre nazionalita, ne furono accolte solo 809 (76).
D'altra parte una circolare del Ministero dell'Interno del 5 agosto 1999, a seguito dello sbarco di nuovi profughi sulle coste pugliesi, dispose il divieto di applicazione a quest'ultimi delle misure di protezione temporanea. Una controrisposta a questa circolare è stata data da parte del Tribunale Civile di Brindisi (77) che accolse i ricorsi di una decina di kosovari affermando nel dispositivo che "se l'Esecutivo, in base ad una propria valutazione discrezionale e politica, ha ritenuto di individuare nel 31.12.1999 la data di presumibile cessazione degli eventi bellici o almeno di apparente normalizzazione, formalizzandola in un decreto avente forza di legge, non si comprende come tale valutazione possa essere posta nel nulla in base ad una circolare del Ministero dell'Interno, fonte normativa di valore secondario". (78)
Un sucessivo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 30/12/1999 ha disposto la proroga fino al 30 giugno 2000 delle misure di protezione temporanea per i rifiugiati del Kosovo, i qualli potevano continuare a godere delle stesse misure di accoglienza ed assistenza previste dal DPCM del 12/05/1999. Era ancora presto per mandare a casa i rifugiati, le condizioni in Kosovo non erano ancora adeguate per un rimpatrio, la gente era ancora costretta a vivere nelle tende o in abitazioni parzialmente ricostruite.
Spinta dalla difficile situazione che continuava a perdurare nel Kosovo e per non creare diparità di trattamento, la Commissione Centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato ha raccomandato il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di protezione temporanea valido fino al 30 giugno 2000 anche a favore dei richiedenti asilo che non avevano potuto accedere a suo tempo alle misure di protezione temporanea, in genere perché entrati in Italia prima del 26 marzo del 1999.
Il decreto di proroga della protezione umanitaria annunciava anche un programma di rimpatrio assistito dei profughi presenti in Italia che doveva svolgersi tra il 1 luglio ed il 31 agosto 2000 con l'assistenza e collaborazione del ACNUR e OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni).
I rifugiati kosovari, così come quelli delle altre aree della ex-Jugoslavia, che volontariamente volevano essere rimpatriati nei luoghi di origine, anche prima del 1 luglio 2000, potevano da subito accedere ad un progetto di rimpatrio assistito, gestito dall'OIM che assicurava il finanziamento delle spese di viaggio, nonché un contributo economico ed un'assistenza in loco per il reinserimento sociale nei luoghi di origine.
La crisi del Kosovo fu sfruttata dai cittadini albanesi che, fingendosi kosovari si allontanavano dall'Albania per chiedere asilo politico in diversi Stati dell'Unione Europea: nella maggioranza dei casi, infatti, la polizia serba aveva confiscato e distrutto i documenti dei kosovari, non potersi rendere identificabili diventò quindi per i cittadini albanesi un vantaggio per ottenere più facilmente lo status di rifugiato politico. Nel biennio 1998-1999 circa 100.000 cittadini albanesi si sono allontanati dal loro Paese. Questo esodo è stato chiamato "il movimento silenzioso" perché non suscitò particolare attenzione da parte delle autorità albanesi che erano più concentrate a riprendersi dagli eventi del 1997 (79). L'esodo del 1998-1999, pur non assumendo le dimensioni delle prime due ondate migratorie, dette dell'Albania l'immagine di uno Stato ancora instabile politicamente ed economicamente fragile e rese evidente che, se non fossero state introdotte riforme più concrete, l'immigrazione clandestina sarebbe stata destinata ad esistere ancora per molto.
4. L'organizzazione dell'immigrazione clandestina
Il vero esodo della popolazione albanese si è verificato tra la prima e la seconda ondata migratoria.
Le iniziative di singoli privati che nel 1991 costruivano delle zattere per attraversare l'Adriatico furono progressivamente sostituite da vere e proprie organizzazioni del traffico clandestino: a partire dal 1992, al desiderio degli albanesi di allontanarsi dal Paese hanno risposto organizzazioni che svolgevano questa attività illegalmente. Gli investimenti effettuati presso le finanziarie e le prime rimesse degli emigrati hanno reso possibile accumulare i fondi necessari per l'avviamento di tale attività (80). L'attività non fu mai limitata solo alla tratta clandestina di persone consenzienti ma fu accompagnata anche dal traffico di droga, di ragazze poi avviate alla prostituzione e di bambini che venivano sfruttati o venduti. È possibile affermare che il fenomeno della criminalità organizzata in Albania nasca in questo momento storico (81).
Fino al 1998 non esisteva alcuna normativa che prevedesse simili fatti come reati e che permettesse un efficace contrasto al fenomeno. Dal 1992-2002 il disinteresse dello Stato per la lotta contro il crimine organizzato e la corruzione delle istituzioni di polizia e della magistratura ha fatto sì che il fenomeno prendesse dimensioni sempre più allarmanti.
La posizione geografica dell'Albania, una porta dei Paesi dell'Est per accedere all'Occidente (82), fu utilizzata da cittadini di diverse aree in via di sviluppo per entrare clandestinamente in Europa. I canali dell'immigrazione erano principalmente tre:
- la frontiera greco-albanese: si trattava di una emigrazione spontanea, disorganizzata ed individuale, ma fortemente rischiosa: anche se ufficialmente non esiste nessuna traccia tanti sono i morti ammazzati dalla polizia greca.
- i "tassisti", che, procurandosi i visti presso le ambasciate greche di Tirana o Gjirokaster, percorrevano il tragitto che dalle maggiori città albanesi conduceva ad Atene con a bordo tre o quattro persone.
- gli altri canali portavano tutti verso l'Italia con una probabile destinazione verso altri Stati europei; il più consueto era il canale Valona-Otranto (in alternativa Brindisi o Lecce), oppure, in subordine, i profughi partivano da altri porticcioli albanesi "segreti" che erano attivati a seconda di come erano svolti i controlli delle aree costiere.
Altri passaggi adoperati erano quelli effettuati da Grykederdhja e Vjoses-poro per sbarcare poi a Brindisi e da Durazzo e Gjiri i Kavajes con destinazione la costa di Bari (83).
Sino al 1993 centro principale del traffico clandestino era la città di Durazzo la quale fu poi surclassata da Valona: è qui infatti che avevano sede le piramidi finanziarie e che si organizzava il traffico di clandestini, di droga e di armi. Gli scafisti di Valona si consideravano degli imprenditori tanto che affermavano che l'economia della città sopravviveva grazie al loro lavoro ("Vlora po mbijeton ne saje te punes sone") (84).
Non c'era uno standard da rispettare nell'organizzazione del traffico. Ogni proprietario di un gommone o di uno scaf gestiva la propria attività in modo discrezionale insieme ai suoi collaboratori.
Ma come veniva gestita l'organizzazione dell'immigrazione clandestina? Non esiste modo migliore per indicare le funzioni spettanti a ciascun soggetto all'interno di un'organizzazione e di rapporti con altri scafisti che intervistare un ex imprenditore che per quasi dieci anni ha esercitato questo tipo di impresa (85):
Un gommone o uno scafo aveva due o tre proprietari ed erano loro di solito a fare anche gli autisti del mezzo. Durante un viaggio erano sempre presenti due 'accompagnatori': uno per mettere il carburante e per tornare indietro con l'autista e l'altro per accompagnare i migranti. Quest'ultimo era munito di regolare permesso di soggiorno e, una volta sbarcati in Italia, accompagnava per un tratto i clandestini indicando loro poi la via per la stazione oppure dai 'tassisti' o altri cittadini italiani con cui collaboravano. In alcuni casi si stabiliva un luogo d'incontro con i parenti dei clandestini. Il tassista era anche colui che avvisava quando c'erano dei poliziotti nelle vicinanze e, se era possibile, si aspettava un po' finché la situazione non si fosse tranquillizzata, altrimenti si andava a sbarcare altrove.
Nei casi in cui oltre alle persone si trasportava anche droga c'era bisogno anche di accompagnatori per le borse, che venivano pagati apposta dal proprietario se la merce era sua, o da colui a cui apparteneva. Per le borse con stupefacenti la multa (86) era più alta che per le persone, perché si rischiava una pena maggiore nell'eventualità che qualcosa andasse male.
Un'altra persona aveva il compito di fare da guardia e sorvegliare lo scafo: era usanza dire che con un scafo si mantengono almeno 5 famiglie. Poi c'erano anche 'sekseret' (87), ma questi erano pagati, all'incirca 150-300 mila lire, o dalle persone che volevano passare clandestinamente il confine o dagli scafisti stessi e non facevano parte stabilmente dell'organizzazione, di solito si andava per conoscenze. Tutta Valona sapeva chi fossero gli scafisti. Dei privati cittadini di altre città si organizzavano con dei furgoncini o taxi e portavano la gente dagli scafisti.
Inizialmente, quando i controlli erano inesistenti, il punto di partenza era la zona di Skele o Plazhi i vjeter: in piena città. Gli scafi erano come dei taxi che partivano anche due volte al giorno, in condizioni meteorologiche ottime, senza orari precisi. Il viaggio durava normalmente all'incirca due ore e mezza, quando il mare non era calmo anche tre o quattro ore, e si sbarcava nella costa di Bari e di Lecce. Con il passare del tempo, quando la polizia ha iniziato ad effettuare controlli lungo la costa, gli scafisti si trasferirono in sentieri più nascosti nelle province di Radhime, Orikum e nella zona di Kalaja. Furono scelti questi posti perché la polizia era composta da contadini facilmente corruttibili. Si evitava di stare tutti nello stesso posto così anche se la polizia effettuava qualche operazione imprevista, eventualità improbabile, non venivano esposti tutti al rischio di essere presi. Negli ultimi tempi si preferiva partire con il 'brutto tempo' perché la Guardia di Finanza italiana effettuava meno controlli.
Si partiva anche dal fiume di Seman, ma le partenze venivano organizzate da coloro che abitavano nelle vicinanze.
In un viaggio si trasportavano più di quindici persone, ma c'erano scafi più grandi che potevano portare anche venticinque persone: tutto dipendeva dalla grandezza del mezzo. Si preferivano i clienti stranieri tra cui kurdi, cinesi, moldavi o montenegrini ma anche i 'montanari' albanesi perché da questi si poteva ottenere un prezzo migliore. Gli scafisti avevano i loro trucchi del mestiere per rassicurare i "futuri clandestini": a volte si prendeva qualche cittadino italiano (88) che rassicurava i passeggeri dicendo che sarebbe stato lui a portarli in Italia e che nessuno li avrebbe fermati perché collaborava con la Guardia di Finanza; quando si partiva i passeggeri non si accorgevano che a guidare lo scafo era un albanese con lo stesso berretto della persona che li aveva rassicurati. Se tutto andava bene i profughi avrebbero fatto pubblicità e più persone si sarebbero rivolte a loro, allargando cosi il loro mercato. Non mancavano i casi in cui la gente veniva ingannata, truffata e non portata a destinazione. Esiste una storia a Valona raccontata come barzelletta: alcuni scafisti che dovevano portare in Italia dei cittadini cinesi, dopo aver fatto fare loro un giro in mare li hanno sbarcarti nell'isola di Saseno dicendo loro di averli condotti in Italia. La veridicità di questa storia non si può verificare, ma alcuni scafisti affermano che si sono verificati anche episodi del genere.
I primi gommoni venivano acquistati in Grecia, Italia e Montenegro ed erano di buona qualità, successivamente a Valona fu aperta una fabbrica che produceva gommoni e tante volte la loro scarsa qualità, il fatto che i motori andavano spesso in panne durante il viaggio o che si bucava il gommone, causarono diversi incidenti che hanno comportato numerosi affogamenti.
Si sceglievano dei motori con una potenza di 225,250 e 300 cavalli. Chi disponeva di un mezzo abbastanza grande lo adattava con due motori o addirittura tre (89). Di solito questi venivano utilizzati per il contrabbando di sigarette, sostanze stupefacenti e del traffico di armi. Quando in Italia i controlli costieri furono intensificati, fu scelto di utilizzare i gommoni di scarsa qualità e con motori di 100 cavalli di potenza tenendo presente che il rischio era maggiore. Una volta sbarcati in Italia il mezzo veniva abbandonato, per questo si evitava di spendere tanto per comprare un gommone buono, con tutti gli svantaggi che questo comportava (90). Il valore della merce giustificava il sacrificio del gommone.
La mafia italiana ha influenzato tanto il traffico illegale di armi-droga-prostitute: i primi traffici, infatti, erano destinati proprio a loro.
Nel periodo che va dal 1994 al 1999 c'è stato un vero boom del fenomeno "scafisti": comprando una barca tutti si improvvisavano scafisti e con i primi guadagni cercavano di migliorare le prestazioni della propria attività.
L'organizzazione illegale dell'immigrazione clandestina è stata indisturbata per tanti anni anche grazie al sostegno che i politici davano agli scafisti: quelli meno importanti, infatti, facevano da prestanome per alcune organizzazioni dividendo poi con esse i guadagni in modo da svolgere l'attività indisturbati. Tutto il sistema delle forze dell'ordine era compromesso: i poliziotti informavano gli scafisti quando c'era in corso un'operazione, venivano date loro le radioricetrasmittenti della polizia per poter ascoltare tutto lo svolgimento dei controlli. Spesso e volentieri i ragazzi che facevano parte del "Grupi i Gatshem", una specie di vigili di primo intervento, davano una mano per mettere i gommoni in mare e venivano pagati con 100 mila leke (quasi 80 euro).
I veri problemi si potevano incontrare con la Guardia di Finanza italiana. "in questa circostanza un vero scafista dimostrava la sua bravura". Frequenti erano i casi in cui si poteva sfuggire agli inseguimenti in mare: gli scafisti erano agevolati dalle piccole dimensioni e dalla velocità dei mezzi che utilizzavano rendendo possibile delle manovre più svelte di quelle della motovedetta della guardia di finanza. Quest'ultima per fermarli si avvicinava molto agli scafi formando delle onde nel tentativo di travolgerli e successivamente di catturare i malviventi sacrificando la vita dei migranti. Frequenti erano i casi in cui la motovedetta veniva aiutata anche da un elicottero che dall'alto faceva luce e si cercava di immobilizzare il mezzo tramite reti o 'cime': se veniva bloccato solo un motore gli scafisti lo staccavano e proseguivano la fuga con l'altro. Nel corso dell'inseguimento poteva capitare che gli scafisti buttassero le persone in mare tornando, se era possibile, in un secondo momento per riprenderli: sempre che fossero ancora lì. Questo veniva fatto in particolar modo quando avevano con sé delle sostanze stupefacenti e si preferiva buttare giù le persone piuttosto che 'la merce' (91): si cercava in questo modo, oltre che di alleggerire il peso del gommone, per renderlo più veloce, anche di sfuggire alla cattura con la speranza che la guardia di finanza avrebbe smesso l'inseguimento per soccorrere i clandestini. Solo quando l'inseguimento proseguiva e non era possibile scappare si buttava anche la droga.
Gli scafisti avevano cura del proprio business e cercavano di evitare incidenti del genere che avrebbero potuto danneggiare la loro attività.
I rapporti con gli altri nuclei di organizzazione dell'immigrazione clandestina erano semplicemente amichevoli e a volte, quando le persone da trasportare erano tante, si portavano ad un altro e si divideva il guadagno. Si cercava di partire da posti diversi per evitare grandi confusioni. A volte si entrava in conflitto quando la 'merce' affidata ad un altro scafista non andava a destinazione per varie cause (92) o quando un passeggero che veniva affidato ad un altro scafista veniva maltrattato durante il viaggio. Frequenti erano anche i casi in cui un pezzo grosso (93) metteva delle multe agli scafisti più deboli.
A partire dal 2002 il governo albanese, in applicazione della Strategia Nazionale Antitraffico (Strategjia Kombetare Antitrafik), ha iniziato ad adottare delle misure per impedire i mezzi di trasporto illegale. L'iniziativa del governo ha avuto dei risvolti positivi che hanno avuto come conseguenza la diminuzione del numero dei clandestini che arrivavano via mare in Italia con l'intento di fermarvisi o di proseguire verso altri Paesi d'Europa. I controlli frequenti della costa hanno portato i trafficanti a non utilizzare più la via del mare, trovando nuovi percorsi dal nord al sud dell'Albania e cambiando spesso il tragitto a seconda delle misure prese dalle Autorità di Polizia.
Con la legge n. 9509 del 3/4/2006 "Moratoria per i mezzi a motore di navigazione marittima della Repubblica di Albania" (94), con una durata di tre anni, ulteriormente prorogati nel 2009, i viaggi clandestini via mare si verificano raramente.
Successivamente i canali adoperati per arrivare illegalmente in Italia furono quelli rappresentati dai tratti:
- Gjirokaster- Kakavije-Grecia-Italia e altri paesi dell'UE
- Korce-Kapshtice-Macedonia-Grecia-Italia e altri paesi dell'UE
- Aeroporto Madre Teresa-altri paesi dell'UE
- Permet-Tre urat- Grecia-altri paesi dell'unione europea
- Saranda-Qafe e Botit-Grecia-Italia e altri paesi del'UE
- Valona con il traghetto-Brindisi
- Durazzo con il traghetto-Bari.
Questo viaggio richiedeva maggior impegno e durava alcuni giorni, di conseguenza il prezzo chiesto agli immigranti variava da due a tremila euro.
Attualmente le persone organizzano autonomamente il loro viaggio verso l'Italia chiedendo visti per motivi turistici o il visto Schengen nelle Ambasciate Italiane oppure in quelle Greche, Francesi o Tedesche (95) con lo scopo di non fare ritorno in Albania dopo la scadenza.
Nell'ultimo decennio le forme della migrazione albanese sono cambiate così come l'idea che gli albanesi hanno dell'emigrazione. Ora si ha una immagine più realistica dell'Europa, la quale non attrae tanto quanto agli inizi degli anni '90 dopo il crollo del regime comunista. Le severe politiche adottate dalla maggior parte dei Paesi dell'Unione Europea, la stigmatizzazione degli immigrati da parte dei media, gli incidenti che hanno fatto perdere la vita a centinaia di persone (96) e le esperienze vissute dagli altri immigrati hanno fatto sì che gli albanesi fossero meno attratti rispetto al passato dalla prospettive di emigrare in questi Stati. Negli ultimi anni le nuove riforme attuate in Albania e l'intensificarsi della lotta contro le diverse forme di immigrazione clandestina hanno contribuito alla nascita di una tendenza degli albanesi a recarsi in luoghi più lontani come i Stati Uniti d'America e Canada dove esistono prospettive economiche (97) migliori e la possibilità di una immediata regolarizzazione suggerita dalla "lotteria americana" (98). Quest' ultima ha attirato in modo considerevole l'interesse degli albanesi, i quali chiedono ogni anno numerosi il visto con la speranza di essere scelti.
Note
1. K. Barjaba, Z. Dervishi, L. Perrone, L'emigrazione albanese: spazi, tempi e cause, in "Studi Emigrazione", XXIX (1992), nº 107, p. 525.
2. Ivi, pp. 526-527.
3. A. Biagini, Storia dell'Albania contemporanea, RCS Libri Spa, Milano 2005, pp. 145-146.
4. N. dell'Erba, Storia dell'Albania, Ten, Roma 1997, p. 49.
5. E. del Re, Albania punto al capo, Seam edizioni, Roma 1997, p. 19.
6. Perestrojka letteralmente dal russo "ricostruzione", identifica il complesso di riforme economiche in simbiosi con una maggiore trasparenza nella vita pubblica, definita glasnost (trasparenza), introdotte in Unione Sovietica nell'estate 1987 da Michail Gorbacev allo scopo di ristrutturare l'economia nazionale.
7. E. del Re, op. cit., p. 32.
8. L'energia elettrica era razionata, le importazioni di cibo erano diventate l'unico modo per sfuggire alla fame, la produzione era insignificante.
9. Come si è scoperto successivamente, la nomeclatura aveva contratto un debito estero pari a circa 400 milioni di dollari, spesi in generi di lusso come la costruzione del museo dedicato al «Padre della Patria», Enver Hoxha.
10. Gli alimenti principali venivano distribuiti razionati per famiglie.
11. Queste dovevano consistere nell'ascoltare i problemi dei cittadini e i motivi della richiesta del visto, lavoro eseguito fin a quel momento dal Ministero degli Interni.
12. "Shqip" del 15/07/2007, Racconto degli eventi delle ambasciate del luglio 1990. Fonte: Gazeta SHQIP.
13. "La Repubblica" del 7 marzo 1991, Il caos regna a Tirana assedio alle ambasciate, di Vicenzo Nigro, p. 8.
14. Testimonianza di un rappresentante del corpo diplomatico: "vedevo dai cancelli dell'Ambasciata Greca questa lotta e posso testimoniare che le persone venivano ferite dal fuoco della polizia o venivano colpite fisicamente con pugni e calci, poi caricate nelle macchine dell'esercito e non si sa dove fossero portate". Fonte: 2 Korrik - Hyrja ne ambasada, Forumi Shqiptar.
15. C. Muscardini, La democrazia lontana, il caso Albania, in Collana "Prometeo", 3 (2002), p. 6.
16. "Corriere della Sera" del 8 luglio 1990, Regolamenti di conti a Tirana, di Antonio Ferrari, p. 5.
17. "Corriere della Sera" del 10 luglio 1990, Verso la liberta con il Jet di Havel, p. 4.
18. "Corriere della Sera" del 12 luglio 1990, Ultime ore d'attesa nel bunker Albania, p. 5.
19. C. Muscardini, op. cit., p. 4.
20. Reintrodusse il Ministero della Giustizia che nel periodo di Hoxha era stato abolito. Il governo riaffermò che si apprestava a concedere le garanzie personali cancellate e che gli albanesi sarebbero stati tutelati dalle ingerenze della Sigurimi. La costituzione comunista del 1976 è stata sostituta da una nuova che, anche se manteneva l'ideologia popolar-socialista, affermava i principi della democrazia e del libero mercato.
21. F. Martelli, Capire l'Albania, il Mulino, Bologna 1998, p. 151.
22. La rivolta degli operai era considerata più pericolosa dal momento che era impossibile soddisfare le loro richieste economiche, invece per gli studenti si riteneva che potessero essere convinti dal comitato degli intellettuali.
23. F. Martelli, op. cit., p. 153.
24. Ivi, p. 153.
25. Sali Berisha fu uno degli intellettuali albanesi a cui Hoxha permise di completare la propria formazione in Francia e a cui il regime concesse di continuare ad intrattenere rapporti con i colleghi in Occidente.
26. Oltre la partecipazione al processo elettorale, gli albanesi sarebbero rimasti sostanzialmente estranei alla gestione della vita politica ed economica in conseguenza di una propaganda che prometteva il benessere economico con argomenti dogmatici ed indimostrati, sostenuta sia da Alia che da Berisha. Il primo prometteva la crescita dell'economia ed assicurava il mantenimento dell'assistenza statale anche in presenza del profondo deficit del bilancio statale, invece Berisha prospettava un modello liberista selvaggio in cui si sarebbe dovuto rinunciare al vecchio assistenzialismo in cambio di un'illimitata capacità di arricchimento, un'affermazione questa che lasciava ampi margini d'interpretazione, potendo essere intesa sia con riferimento ad attività lecite che illecite.
27. F. Martelli, op. cit., p. 162: Nel 1991 in conseguenza degli scioperi risultavano persi oltre sei milioni di ore di lavoro. I prezzi salivano di oltre il 300% su base annua, mentre il debito pubblico raggiungeva il 50% del Pil. Il governo stimava l'inflazione al 100%, ma si sosteneva che la cifra reale fosse ben più alta.
28. L. Perrone, Albania tra passato e presente alla ricerca di nuove identità, in "Sociologia urbana e rurale", n. 59 (1999), p. 81.
29. K. Barjaba, G. Lapassade, L. Perrone, Naufragi Albannesi, Sensibili alle foglie, Roma 1996, p. 6.
30. "La repubblica" del 7 marzo 1991, Verso la Puglia un popolo in fuga, di Claudio Gerino, p. 9.
31. G. Da Molin (a cura di), Immigrazione albanese in Puglia, Cacucci Editore, Bari 1999, p. 173.
32. A. Vehbiu, R. Devole, La scoperta dell'Albania. Gli albanesi secondo i mass media, Paoline, Milano1996, p. 34.
33. K. Barjaba, G. Lapassade, L. Perrone, op. cit., p. 31.
34. Negare l'ingresso avrebbe significato ributtare in mare una massa di disperati, cosa che la coscienza del mondo non avrebbe potuto accettare.
35. G. Canti, Il sole sorge a occidente, in "Rivista Militare", n. 3 (2000), p. 62.
36. PHARE: Programma Europeo di Assistenza alla Ricostrzione Economica, in origine destinato a Polonia e Ungheria.
37. OSCE: Organizzazione Europea per la Cooperazione e lo Sviluppo; UNDP: Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo; ACNUR: Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
38. L'operazione Pellicano, prende il nome dall'unico uccello che nutre anche piccoli non suoi quando sono abbandonati dai genitori. Ebbe inizio il 18 settembre del 1991 a seguito del Memorandum stipulato tra i governi di Roma e Tirana il 26 agosto 1991 ed aveva come obiettivi lo scambio di informazioni e uomini tra i due paesi, l'addestramento di una rinnovata polizia albanese da parte delle forze militari italiane e la lotta comune a fenomeni criminali quali traffico di droga, riciclaggio del denaro sporco e contrabbando.
39. "La Repubblica" del 14 agosto 1991, Cossiga a sorpresa vola a Tirana, di Maurizio Ricci, p 3.
40. La crisi economica del 1997 in Albania che porto il paese ad una guerra civile fu spiegata agli albanesi come conseguenza di malgovernamento e implicazione diretta del Presidente Berisha e dei suoi collaboratori nella nascita e successivamente nel fallimento delle societa finanziarie piramidali.
41. Morozzo della Rocca, Le radici della crisi, Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA, Milano 1997, p. 70.
42. E. del Re, op. cit., p. 189.
43. K. Barjaba, G. Lapassade, L. Perrone, op. cit., p. 67.
44. Il denaro proviene dalle rimesse degli emigrati ma anche dai traffici leciti e illeciti.
45. F. Martelli, op. cit., p. 146.
46. Le società finanziare a schema piramidale sorgono nel passaggio dal regime comunista al sistema pluralista. Esse traggono ingenti guadagni dal contrabbando di petrolio accompagnato dal traffico di uomini, armi e droga. La transizione all'economia di mercato, che coincide con l'arrivo dei flussi economici provenienti dal estero, favorisce lo sviluppo delle attività finanziarie rispetto a quelle industriali e alle iniziative imprenditoriali. Queste attività sono controllate da holding strutturate a "piramide", termine che indica un particolare forma di modello commerciale che implica lo scambio di denaro solitamente, ma non sempre, con lo scambio di beni e servizi. Il termine "piramidale" deriva dalla struttura formale in cui viene organizzata la vendita: la persona in cima alla piramide è la prima a vendere un bene o un servizio a un numero limitato di persone, le quali si incaricano di introdurre altre persone nella "piramide" a un livello successivo, con l'obiettivo di formare una nuova piramide sotto di sé e di ottenere i guadagni corrispondenti ai volumi di vendite prodotti dalla propria struttura. Assicurando agli investitori alti tassi di interesse questo sistema regge sino al momento in cui la massa monetaria apportata dai nuovi investitori consente di ripagare gli interessi per i depositi precedenti. Quando questo sistema salta sopravviene l'impossibilità per le società finanziarie di restituire le somme investite e di pagare gli interessi concordati. Il fatto che le "piramidi" albanesi non siano crollate dopo uno o due anni come è sucesso in Russia, Romania, Serbia, Bugaria etc, fa pensare che esse siano riuscite a pagare gli alti tassi di interesse promessi perché investivano il denaro raccolto nelle attività lucrose del contrabbando.
47. Sejdia, originario del Kosovo, è il primo businessman che ha introdotto le società finanziare a schema piramidale. Amico personale del presidente Alia, Sejdia avrebbe sfruttato le prime aperture del regime verso il mercato costruendo una fortunata carriera finanziaria, anche se rimane l'unico ad aver restituito i soldi ai propri creditori.
48. "Corriere della sera" del 4 giugno 1997, E dalla Svizzera arriva Mister Miliardo, di Nava Massimo, p. 11.
49. Con la proclamazione dell'embargo contro le forze belligeranti nell'ex Jugoslavia, armi e petrolio divennero merci vendute a caro prezzo ai serbi e trasferite illecitamente attraverso il territorio albanese.
50. N. dell'Erba, op. cit., p. 71.
51. "The indipendent" del 22 giugno 1997, Il regime di gangester che abbiamo finanziato, di A. Gumbel.
52. La guerra civile 1991-1995 nella ex Repubblica Jugoslava vede coinvolti sia le etnie sia le fedi religiose (Sloveni, croati, bosniaci, serbi e montenegrini, albanesi, macedoni, musulmani, ortodosi e cattolici).
53. Valona si affaccia sul mar Adriatico e Jonio ed è solo 60 miglia nautiche da Otranto e 70 da Brindisi facilitando il trasporto illegale di armi, droga e clandestini.
54. Valona diventò la capitale delle società finanziarie piramidali che comprarono tutta la città: i terreni, i magazzini, i negozi, le fabbriche, le attività artigianali senza effettuare investimenti per mettere in funzione le attività sospese. Non erano i beni e gli investimenti che rappresentavano segno di ricchezza e di benessere ma le fatture dei soldi depositati presso le finanziarie.
55. In altri paesi dell'est europeo (Belgrado e Skopje) si sono verificati dapo il 1989 casi analighi, seppur di minori dimensioni.
56. F. Martelli, op. cit., p. 209.
57. La crisi albanese del 1997 è stata interpretata anche come una contrapposizione del Sud socialista rispetto al Nord democratico. Valona è la città più rappresentativa del Sud, come Scutari per il Nord. Le provincie del Sud vedevano di mal occhio la popolazione settentrionale che da sempre era stata sostenitrice del Presidente Berisha, originario di Tropoja, città situata al nord del paese in confine con il Kosovo. Le ragioni di questo odio risiedevano nella preferenza che Berisha avrebbe dimostrato alle province del nord nell'erogazione di finanziamenti, anche internazionali. È vero che Scutari ha conosciuto un boom economico durante il Governo Berisha, ma questo benessere fu conseguenza delle sproporzionate quantità di carburante che si contrabbandava quotidianamente dopo l'emargo imposto alla Jugoslavia. D'altronde anche a Valona la situazione non era diversa, solamente che lì si trafficavano armi, uomini e droga. In realtà una vera contrapposizione non c'è mai stata. La gente fu ingannata da attori pubblici e politici che portavano avanti i loro piani strumentalizzando la popolazione del sud, convincendola, in ragione di un presunto odio che le due regioni provavano per l'un altro, a prendere le armi per proteggersi dagli settentrionali che, per evitare la caduta di Berisha dal potere, si stavano preparando ad attaccare Valona al fine di sopprimere le rivolte. Numerose sono le differenze fra Nord e Sud: il primo è caratterizzato da una società tradizionale che parla il dialetto gegerishte e con un alta presenza dei religiosi cattolici accanto a quelli musulmani; il secondo ha prodotto una società più aperta e moderna, il dialetto parlato è toskerishtja, accanto ai musulmani si trovano il 20% dei ortodossi. Come si vede le differenze esistono ma non sono cosi nette da causare una guerra civile, si prospettava di più una lunga rissa politica per il controllo del capitale e del potere. Una guerra tra Nord e Sud era improbabile anche a motivo del nazionalismo albanese. Gli albanesi sentono orgogliosamente di appartenere a una sola e gloriosa etnia.
58. Famosi versi del poeta cattolico albanese Vaso Pasha che diventarono il motto per l'indipendenza dell'Albania nel 1912: "Risvegliatevi albanesi dal sonno risvegliatevi, e in un'unica fede tutti raggruppatevi, e non guardate chiese e moschee, la fede degli albanesi è l'albanesimo".
59. "La repubblica" 3 marzo 1997, Albania, stato d'assedio, di R. Caprile, p. 4.
60. Morozzo della Rocca, op. cit., pp. 105-106.
61. La motovedetta Kater i Rades era costruita per un equipaggio di nove persone.
62. "Corriere della sera" del 28 marzo 1997, La Pivetti: Ributtiamoli a mare, I. R., p. 9.
63. Il presidente della Regione Veneto, Giancarlo Galan sabato 22 marzo mise un blocco stradale di protesta, in Lombardia il sindaco di Milano, Marco Formentini, dispose fermamente "qui non entrano". In provincia di Como il sindaco di Erba, Filippo Pozzoli, fece pressione sul governo, affermando che avrebbe dato le dimissioni se i profughi albanesi fossero stati mandati nel territorio. In Piemonte e Friuli-Venezia Giulia la Lega Nord minacciò "azioni" a sorpresa qualora arrivassero gli albanesi.
64. "Corriere della sera" del 29 marzo 1997, Ma non cambio idea: a mare i deliquenti, p. 7.
65. Nei primi giorni di marzo del 1997 le carceri vengono svuotate e restano incustodite. L'Albania diventa l'unico Paese al mondo senza carceri. Ma la maggior parte dei detenuti avevano commesso reati contro il patrimonio spinti dalle necessità, oppure erano anziani e oppositori politici.
66. F. Maria Puddu, La missione in Albania della marina militare, "Rivista marittima", gennaio 1998, p. 53.
67. Il partito socialista ottiene la maggioranza e il partito democratico viene sconfitto.
68. N. Motta, Otranto, Albania, Kosovo 1999-1992 un viaggio a ritroso, Argo, Lecce 2000, p. 53.
69. R. Morozzo della Rocca, op. cit., p. 79.
70. Il 28 febbraio del 1998 le forze della polizia serba attaccano due villaggi nell'area di Drenica. Furono utilizzati a tale scopo elicotteri e carri armati che spararono indistintamente sui civili. Il 5 marzo sucessivo le forze segrete serbe attaccarono i membri della famiglia di Adem Jashari, uno dei fondatori dell'UCK, nel villaggio di Prekazi i Poshtem, la battaglia durò 36 ore continue e nel corso di questa furono ucciso tutti i parenti di Jashari ad eccezione di una bambina di 11 anni. Questi due attacchi causarono 83 vittime albanesi. (United Nation, International Tribunale For the Prosecution of Persons Responsabile for Serious Violation of International Humanitarian Low Committed in the Territory of Former Jugoslavia since 1991, Case Nº IT-03-66-T, 30 novembre 2005).
71. L'intervento militare, che non fu autorizzato dal Consiglio di Sicurezza a causa del duplice veto di Russia e Cina, fu motivato dalla necesittà ed urgenza di agire dinanzi ad una grave emergenza umanitaria, gia constatata dal Consiglio di Sicurezza e qualificata come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale.
72. N. Motta, op. cit., p. 83.
73. N. Motta, op. cit., p. 53.
74. L'evacuazione dei diecimila profughi kosovari è stata gestita dall'Aeronautica militare italiana, la 46esima aerobrigata di stanza a Pisa, che per la missione ha messo a disposizione tre C-130 e cinque g-222.
75. "La nuova Sardegna" del 5 maggio 1999, Cinquelmila persone andrano a Comisio, nell'ex base missilistica siciliana, duemila nel Triestino e altre in Calabria. Ponte aereo per salvare diecimila profughi. L'Italia accoglie parte dei kosovari evacuati dall'inferno dei campi, N. A., p. 1.
76. Fonte: Commissione Centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato.
77. Senteza 1179/99 dd 21/12/1999 / Causa di illegitimità violazione della legge.
78. ASGI, Politiche legislative, "News Progetto Atlante", n. 4 (2000).
79. IOM, Return and Readmission "the case of Albania", IOM, Tirane 2006, p. 10.
80. Anche se inizialmente non era necessario un fondo consistente perché i primi mezzi utilizzati erano vecchie barche già esistenti.
81. Resoconto della direzione contro il crimine organizzato 2009.
82. In particolar modo Grecia e Italia.
83. Q.P.S. Vatra, Mbi trafikimin e qenieve njerezore, Tripik, Vlore 2007, p. 29.
84. K. Barjaba, G. Lapassade, L. Perrone, op. cit., p. 141.
85. Intevista ad un ex scafista, 2 febbraio 2010 a Valona.
86. È così che il prezzo di viaggio viene definito dallo scafista.
87. Le persone che trovavano i clienti.
88. L'intervistato diceva che era un pizzaiolo che lavorava a Valona.
89. I grandi gommoni venivano adattati con 2 motori con 250 cavalli di potenza oppure per renderlo più veloce mettevano 2 motori laterali da 250 cavalli e uno in mezzo da 300 cavalli o viceversa.
90. Frequenti erano i casi in cui il gomone veniva travolto dalle onde.
91. Perdere una grande quantità di droga poteva creare maggiori problemi sia con altri rami dell'organizzazione sia per la consistenza della perdita.
92. A causa dell'inseguimento della Guardia di Finanza la merce cadeva o veniva buttata in mare.
93. Cosi veniva chiamato lo scafista che godeva di grande autorevolezza per le sue capacità criminali.
94. La legge n. 9509 del 3/4/2006 "Per shpalljen e moratoriumit per mjetet motorike lundruese te Republikes se Shqiperise" prevede la sospensione dei movimenti dei mezzi di navigazione a motore albanesi nelle acque territoriali della Repubblica Albanese cosi come la sospensione dei loro trasporti per via terra. Vengono esclusi dalla moratoria a) i mezzi di navigazione a motore utilizzate dagli organi statali e dai servizi portuali, b) i mezzi di navigazione destinate alla pesca, c) i mezzi di navigazione che servono per il trasporto delle merci, d) le navi che dispongono una licenza per il trasporto di passageri e riconosciute dall'Albo della Marina Albanese come mezzi di trasposrto per viaggiatori. La non ottemperanza alla legge costituisce un illecito amministrativo che va punita con la multa 800.000 fino al 1.000.000 leke e con il sequestro del mezzo.
95. Una volta giunti in questo Paese è più facile prosseguire il viaggio verso ogni altro Paese dell'Unione Europea.
96. Fino al 1999 più di 340 persone sono affogate o risultate disperse nel Canale di Otranto.
97. Le persone che vengono scelte tramite la lotteria americana entro 2 settimane dall'entrata nell'USA ottengono la Green Card chiamata diversamente Permanent Rezidence, per una durata di 10 anni. Agli emigrati che hanno la permanent residence vengono riconosciuti la maggior parte dei diritti garantiti ai cittadini con esclusione del diritto al voto, di partecipazione al esercito e di partecipazione nel sistema giuridico. Dal primo giorno si può fare l'iscrizione all'ufficio per l'impiego per ottenere un numero di lavoro (social security number) senza il quale non è possibile lavorare. Per le famiglie senza redditto perché appena arrivate e che non hanno trovato ancora un impiego, viene garantito gratuitamente il servizio sanitario (madicare), e vieno loro offerta la possibilità una volta verificata la loro condizione economica di ottenere una carta prepagata per comprare cibo e vestiti (Food stamp). Quando una persona è disoccupata le scuole e le Università statali possono essere frequentati gratuitamente.
98. Ogni anno il "Diversity Immigrant Visa Program" mette a disposizione dei paesi di Africa, Azia, Europa, Nord America, Oceania, America del Sud, America Centrale e Caraibi 50.000 visti per migrare permanentemente negli USA. Le persone vengono scelte con sorteggio effettuato da un computer attribuendo più visti alle aree con basso tasso di migrazione e non asegnando alcuno a quelli che hanno potuto mandare negli USA più di 50.000 emigranti negli ultimi 5 anni. I pretendenti devono possedere alcuni requisiti: titolo di studio di scuola media superiore di almeno 12 anni di frequenza oppure un esprienza lavorativa di almeno 2 anni nei 5 anni precedenti in un lavoro che richieda almeno 2 anni di tirocinio. Le richieste di partecipazione alla lotteria vengono inoltrate via Internet e possono partecipare anche coloro che risiedono illegalmente sul territorio.