Introduzione
"Uomini e donne migranti, molto spesso sono soggetti impegnati a sopravvivere e, meno frequentemente, a far sopravvivere la loro cultura". Questa osservazione è il punto di partenza della mia riflessione sui diritti collettivi nella prospettiva multiculturalista.
Il fulcro concettuale del dibattito teorico multiculturalista verte sull'opportunità di prevedere accanto al catalogo liberale dei diritti riconosciuti al singolo individuo, diritti collettivi, attribuibili in funzione dell'appartenenza di gruppo e riconducibili alla titolarità di un'identità culturale. Il discorso sui diritti collettivi si riconduce, però, al multiculturalismo come "fatto", non come modello prescrittivo. La postulabilità e la teorizzabilità dei diritti collettivi, dunque, non si fonda su istanze "culturaliste" o su un generico e astratto comunitarismo ideologico, ma discende dalla circostanza che determinate situazioni giuridiche soggettive individuali possono essere effettivamente e compiutamente tutelate soltanto per il tramite di un paradigma di tutela collettiva.
Il tentativo di restituire la matrice empirica dei diritti collettivi, nella prima parte del lavoro, si è tradotto nella scelta di non ricorrere al paradigma di opposizione liberali/comunitari; dunque, si è inteso tracciare le coordinate teoriche del problema attraverso il riferimento ai contributi di Taylor e di Habermas. Nel corso dell'analisi il riconoscimento dei diritti al gruppo viene sostenuto nel quadro della dimensione di priorità logica dell'individuo: nella tematizzazione dei diritti collettivi, infatti, l'individuo si conferma un prius rispetto alla cultura, rispetto al gruppo di appartenenza, rispetto alla titolarità dei diritti. A tal proposito, la cultura deve essere intesa come un orizzonte nel quale il singolo può esercitare opzioni di senso. Le culture non sono ipostasi, né entità sclerotiche, impermeabili ed isolate che possano essere giustapposte all'individuo, o possano precederlo. Il multiculturalismo si riconduce all'idea di una pari dignità da riconoscersi alle espressioni culturali dei gruppi e delle comunità che convivono negli ordinamenti democratici. Come sostiene Taylor, ciò implica che i pubblici poteri, ed anche la società nel suo insieme, riconoscano l'eguale valore di culture diverse e ottemperino alla richiesta di non lasciarle solo sopravvivere, ma di prendere atto che sono preziose.
La portata normativa dei diritti collettivi, tuttavia, non può essere ridotta al diritto di salvaguardare la propria cultura, o tantomeno, alla pretesa di determinati gruppi di mantenere pratiche culturali oppressive e lesive nei confronti dei soggetti deboli. I diritti collettivi sono diritti riconducibili all'identità religiosa e linguistica, diritti materiali, diritti che si riconnettono a prestazioni dello stato sociale, diritti economici. Il discorso sui diritti collettivi sviluppato nel lavoro ha come referente empirico la società multiculturale, cioè una medesima unità socio-politica nella quale convivono un gruppo maggioritario e gruppi minoritari. Agli approcci teorici che tendono alla totale "culturalizzazione" delle problematiche riconducibili alla convivenza multiculturale si può opporre la considerazione che la diversità tra gruppi non si riconduce soltanto al fattore culturale. Negli stati liberali occidentali, infatti, alle differenze culturali tra gruppi si accompagna la condizione di disuguaglianza sociale ed economica tra il gruppo maggioritario egemone e i gruppi minoritari. Per tale motivo l'attribuzione di diritti connessi all'appartenenza culturale deve passare attraverso la radicale revisione del principio di eguaglianza inteso come identità di trattamento. Gli individui devono essere considerati in virtù, e non a dispetto, delle loro differenze culturali. Dunque, alla pretesa di neutralità del liberalismo proceduralista rispetto alle differenze, devono sostituirsi il rispetto e la promozione del principio di eguaglianza sostanziale. Tale principio ha una valenza euristica nelle problematiche che si riconnettono al multiculturalismo. Nel grado di tutela di tale principio può misurarsi la rispondenza di una società a presupposti di carattere multiculturale. Nella seconda parte del lavoro quest'ultimo aspetto sarà preso in considerazione con riguardo all'ordinamento giuridico italiano.
La revisione del concetto di eguaglianza come proprietà simmetrica si coniuga alla necessità di considerare congiuntamente i profili della diversità culturale e della discriminazione dei gruppi minoritari. In un dibattito teorico che si proietti sul terreno delle soluzioni normative, il fattore culturale non deve essere sovradimensionato rispetto a quello sociale ed economico. All'interno del nostro sistema giuridico, per esempio, la "sovraconnotazione culturale" del fenomeno religioso ha prodotto una pesante compressione della tutela dei gruppi religiosi minoritari, soprattutto con riferimento all'Islam. Nella disciplina normativa delle minoranze religiose il principio di eguaglianza sostanziale non è stato attuato. L'effettiva portata del principio di eguaglianza sostanziale consente di individuare le lacune che i modelli di tutela dei fenomeni minoritari hanno al loro interno. Alla violazione del principio di eguaglianza sostanziale si riconduce la mancata attribuzione di diritti religiosi ai gruppi minoritari. La libertà di religione viene riconosciuta al credente in quanto individuo, non in quanto appartenente alla confessione religiosa di riferimento. Il mancato riconoscimento del soggetto religioso collettivo determina, però, la totale neutralizzazione della bidimensionalità del diritto di libertà religiosa, sancita nella nostra Costituzione. Si vedrà come l'esclusione del carattere ultra-individuale del diritto di professare e di esercitare liberamente la propria religione operi soltanto nei confronti di alcune confessioni, e dunque, si traduca nella refrattarietà dell'ordinamento giuridico italiano ad attuare un'idea di pluralismo avanzato.
"Un pluralismo a corrente alternata" caratterizza anche il sistema di tutela delle minoranze linguistiche che non ruota univocamente attorno alla concezione della lingua come "bene culturale", secondo cui tutte le forme di espressione linguistica hanno pari dignità. Si evidenzierà come l'esclusione dalla tutela linguistica delle minoranze Rom e Sinti, impedisca di dare concretezza a quel "tutte". Questa disparità di trattamento sussiste malgrado la previsione del principio di eguaglianza sostanziale abbia introdotto l'elemento del rapporto tra singolo e gruppo sociale, prefigurando al contempo la possibilità di conseguenti formule di riconoscimento. Con il superamento di una concezione liberale-atomistica fondata sul paradigma individuale, la titolarità dei diritti linguistici ha cessato di essere esclusiva attribuzione del singolo individuo ed è divenuta nozione più complessa, variamente articolantesi tra quest'ultimo e il gruppo di appartenenza.
Un tema centrale nella trattazione dei diritti collettivi in una società multiculturale riguarda, poi, la tensione tra diritti individuali e diritti collettivi con riferimento al genere. I diritti umani vengono invocati come standard giuridico e assiologico nella soluzione del conflitto tra diritti dell'individuo e diritti del gruppo. Più ampiamente i diritti umani sono un mezzo di cui l'universalismo liberale si avvale per escludere la stessa postulabilità dei diritti collettivi. Diritti collettivi e diritti umani non possono essere concepiti secondo un rapporto di opposizione. I diritti umani, infatti, sono individuali e collettivi. Soltanto la reale apertura di un confronto interculturale sui diritti universali può condurre alla comprensione delle ragioni per le quali in una società multiculturale l'attribuzione dei diritti collettivi può diventare necessaria.
La revisione del tradizionale paradigma liberale dell'universalismo occidentale si coniuga alla disarticolazione della dicotomia diritti umani/diritti collettivi. In una concezione dei diritti umani ex parte populi, i diritti collettivi contribuiscono in modo determinante a rendere effettiva la tutela dei diritti fondamentali dell'individuo. I diritti devono essere disancorati dalla concettualizzazione dei fondamenti e del soggetto dei diritti per essere riconcettualizzati in senso multiculturale. Infatti, un discorso che oltrepassi la ricerca del fondamento non comporta, per ciò stesso, una visione attenuata dell'inderogabilità e dell'indisponibilità dei diritti fondamentali. Se, poi si evita di stereotipizzare il soggetto dei diritti, i diritti recuperano la loro valenza effettiva di strumenti di tutela.
Dunque, quale caratterizzazione dei diritti può avere una portata transculturale? Quale concezione del diritto occorre privilegiare per riuscire ad abbattere la compartimentazione tra universi giuridici, culturali, antropologici e, dunque, la loro gerarchizzazione? I diritti dovrebbero essere intesi, non tanto come qualità o proprietà degli individui ma come espressione dei "claims", qualificabili come processi collettivi. Una concezione rivendicativa dei diritti attenua la dicotomia tra diritti individuali e diritti collettivi e scioglie la contrapposizione tra diritti collettivi e diritti umani. Diritti essenzialmente 'politici' possono essere agiti, per esempio, dalla donna migrante contro il gruppo di appartenenza, ma anche con il gruppo di appartenenza contro la società di approdo. Inoltre, se si considerano i diritti come pratiche sociali, non si dà l'esigenza di ricorrere a categorie filosofiche fondative o di appellarsi a supposti 'universali' antropologici.
L'articolazione di un rapporto triangolare diritti/rivendicazioni/pratiche sociali offre maggiori possibilità di aderire al principale presupposto di una tutela compiuta ed effettiva: la necessità di guardare all'individuo "concreto", bisognoso. Uomini e donne migranti, in condizione di indigenza e di emarginazione, non possono essere 'trasformati' in neutri soggetti politici, in cittadini di uno stato democratico, per essere tutelati. Anche perché significherebbe subordinarne la tutela ad una condizione impossibile. Le loro culture - per citare Sachar - non possono essere rimosse "a colpi" di diritti. Il pluralismo normativo impone allora all'universalismo liberale il pluralismo culturale come orizzonte teorico e come fatto, e, prendendo in considerazione le appartenenze plurime dell'individuo, concorre a ristabilirne la centralità.
Il pluralismo normativo costituisce, poi, un importante strumento interpretativo nell'approccio al tema del conflitto tra diritti individuali e diritti collettivi, consentendo di inquadrarne la dinamica nei termini di una complessa dialettica e non attraverso la sterile polarizzazione tra istanze individuali e istanze collettive. Si evidenzierà come il riconoscimento di certi diritti al gruppo incida favorevolmente sul riconoscimento dei diritti individuali, essendone, in alcuni casi, una condizione imprescindibile. In una società multiculturale, la mancata attribuzione di diritti ai gruppi minoritari, spesso, rende 'flessibile' o evanescente la tutela dei migranti come singoli.
La trattazione dei temi affrontati nel corso dell'analisi cerca di respingere le categorie dell'"ideologia" e gli "ismi" che spesso nascono dall'esclusione aprioristica e aproblematica dell'alterità, sia essa un concetto, una cultura, o, soprattutto, un volto umano. Ma l'impresa è ardua dal momento che chi scrive fa parte di una cultura e vive nella parte di mondo che, all'occorrenza, può affrontare problemi teorici. L'auspicio è che il lavoro, almeno per una piccola parte, riporti la traccia della lezione di Gadamer: "è necessario sciogliere le categorie e i punti di riferimento precostituiti per riclassificare lo sfondo irriflesso delle proprie valutazioni come una delle diverse possibilità esistenti". Nel corso dell'analisi si è insistito sulla priorità dell'individuo "concreto" ma anche sulla rilevanza della dimensione fattuale nella problematizzazione dei temi: il multiculturalismo come "fatto", l'appartenenza del singolo ad un'entità sostanziale come quella di cultura e di etnia, la disuguaglianza come condizione concreta da cui non è possibile prescindere, la tutela giuridica come garanzia effettiva e non come corpo di previsioni normative, il femminismo come orientamento teso a promuovere l'eguaglianza di genere nei fatti e non come metafora del razzismo 'rispettabile'. Il discorso sui diritti collettivi sviluppato nel lavoro non vuole avere, dunque, alcuna attitudine fondazionalista, ma, piuttosto, intende ricondursi all'eminenza fattuale della problematica multiculturalista.
I diritti collettivi nascono per rendere possibile, attraverso un paradigma di tutela collettiva, la garanzia di diritti individuali altrimenti circoscritti nell'ambito del "law in books". Chi pone il condizionamento culturale a fondamento dell'antitesi autonomia individuale/diritti culturali dimentica che anche il diritto ha una forte capacità di incidenza sulla vita dei soggetti; dunque, non è in gioco soltanto l'influenza che le culture o i gruppi possono esercitare sui singoli. In una società multiculturale, questo dato priva di senso ogni atteggiamento che sovradimensiona la "cultura". Dal momento che il diritto incide significativamente sulla vita degli individui, condizione essenziale è che esso non funzioni soltanto come 'neutro'meccanismo di regolazione: il diritto deve tornare ad essere uno strumento di emancipazione. Il riconoscimento dei diritti collettivi, infatti, non si pone in contrasto con il linguaggio dei diritti. I gruppi minoritari chiedono forme di tutela giuridica, non la 'tutela ecologica' di culture inconciliabili con quelle delle società di approdo. Diventa superfluo dibattere sulle loro culture, quando il punto è garantire loro diritti. "To complicating western universalism": è necessario mettere in discussione l'universalizzabilità del nostro diritto e dei nostri diritti. La revisione del paradigma universalistico include passaggi di grande complessità: la riconcettualizzazione del soggetto dei diritti proprio del paradigma di tutela liberale, il superamento del formalismo giuridico, la necessità di mutare l'antropologia sottostante ai diritti umani. Dunque, anche l'universalità dei diritti deve essere "deculturalizzata" e posta al centro di un confronto interculturale. Si tratta di cambiamenti di enorme portata, ma la presa d'atto della necessità e della complessità che segna il tentativo di intraprenderli è forse il primo passo verso il riconoscimento dei diritti degli Altri.