Conclusioni
Le norme dell'ordinamento penitenziario del 1975 che hanno esteso ai lavoratori detenuti la comune disciplina protettiva del lavoro, stabilendo una generale equiparabilità tra questi e i lavoratori liberi, hanno spesso, come abbiamo visto nel corso di questa ricerca, valenza prettamente teorica e non corrispondono affatto alla realtà degli istituti di pena e del lavoro carcerario.
Il problema è da ricondurre, più che al ricorso a normative differenziate per detenuti e soggetti liberi (come ad esempio si riscontra nell'istituto della Social card), a differenze strutturali tra il lavoro penitenziario e quello comune e alla specificità delle caratteristiche sociali, contributive e di reddito dei detenuti.
I caratteri del lavoro carcerario, specie di quello alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, risultano essere ben diversi da quelli propri del lavoro libero. Il cosiddetto 'lavoro domestico', il più diffuso all'interno della realtà penitenziaria, consiste infatti in attività dal carattere arcaico, di natura saltuaria, e soggette ad un trattamento economico diverso da quello comune. L'art. 22 o.p. stabilisce infatti che la mercede del detenuto lavorante alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria sia fissata in misura non inferiore ai 2/3 dei contratti collettivi nazionali del lavoro previsti per ogni categoria. I lavoranti alle dipendenze di datori terzi possono invece fruire delle stesse retribuzioni previste per i lavoratori liberi. Questa differenza di trattamento dà vita, in punto di tutele previdenziali, ad una vera e propria discriminazione strutturale del detenuto lavoratore alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria. La previsione di cui all'art. 20 c. XVII viene quindi a ridursi ad una sterile enunciazione teorica, capace di istituire solo una formale equiparazione tra lavoratori liberi e lavoratori carcerari. Alla previsione dell'art. 22 o.p. si deve inoltre aggiungere il mancato aggiornamento delle mercedi dei soggetti detenuti i quali continuano a percepire la stessa retribuzione dal 1993. Tale elemento accresce ancor di più il divario tra le due tipologie di attività lavorative e, conseguentemente, tra le relative tutele previdenziali.
L'esiguità delle mercedi, che si attestano ad esempio per i lavoranti di Sollicciano sulla media dei 1.109 euro annui, e la saltuarietà delle attività lavorative impediscono al detenuto di poter formare una valida posizione contributiva. Da ciò discende che i soggetti reclusi riescono a fruire quasi esclusivamente di prestazioni di natura assistenziale (quali quelle di invalidità civile), dal momento che queste non comportano la necessità di alcuna posizione contributiva, mentre gli sono spesso precluse le prestazioni previdenziali (1), in particolar modo quelle pensionistiche. Riguardo a quest'ultime abbiamo infatti visto come il problema non sia solo quello di non avere al momento della scarcerazione una valida posizione pensionistica, ma anche quello di perdere la possibilità di costituirne una perfino nel caso di un nuovo impiego da libero. Il deficit contributivo creato dal lavoro carcerario è infatti talmente incisivo da non permetterne un recupero nemmeno tramite un successivo lavoro. Tale situazione contrasta, come è facile comprendere, con ogni tipo di istanza rieducativa e di reinserimento del soggetto ed aggiunge una nuova causa di esclusione sociale degli ex detenuti.
Abbiamo visto come i soggetti detenuti siano spesso costretti ad indirizzare le loro richieste verso tutele dalla natura assistenziale, e come questo tipo di prestazioni crei però alcune problematiche. Con l'approvazione della Social card si è, ad esempio, dato vita ad un nuovo approccio che finora non era mai stato seguito. È stato previsto (2) che non possano fruire di questa tutela, nella modalità destinata a persone con più di 65 anni, i soggetti che si trovino in stato di detenzione. Mentre fino ad oggi i requisiti richiesti per le tutele assistenziali riguardavano esclusivamente i redditi del soggetto, la nazionalità, la residenza o la presenza di validi titoli di soggiorno, con la normativa sulla Social card si è deciso per la prima volta di escludere esplicitamente i detenuti. Dobbiamo sperare che tale previsione non sia indice di un mutamento di politica ma rimanga piuttosto un unicum nel panorama delle tutele sociali poiché, altrimenti, i detenuti si vedrebbero privati, oltre che delle prestazioni previdenziali, come già accade, anche di quelle assistenziali.
Vi sono poi elementi di criticità legati alla condizione dello straniero extracomunitario detenuto. Il soggetto privo di ogni titolo di soggiorno in virtù della regolarizzazione imposta dallo stato di detenzione, che costituisce una forma di soggiorno obbligatorio, può svolgere le attività lavorative carcerarie e fruire, salvi tutti i problemi finora illustrati, delle relative prestazioni previdenziali. Non potrà invece accedere alle tutele di natura assistenziale a causa della mancanza del permesso di soggiorno. Questa persona si troverà a beneficiare all'interno del carcere di tutele (quali, ad esempio quelle di natura previdenziale e sanitaria) che all'esterno gli erano negate e che lo saranno anche a seguito della scarcerazione, quando non vi sarà più la copertura di questa particolare 'regolarizzazione'. Quella della detenzione è quindi una parentesi nella quale il soggetto irregolare può fruire di alcune prestazioni di natura previdenziale. D'altro canto la disciplina del reato ostativo (ex art. 5 T.U. immigrazione) fa in modo che a seguito della condanna penale il soggetto extracomunitario, anche qualora prima della carcerazione fosse titolare di un valido permesso di soggiorno, non possa più rinnovarlo, perdendo così la possibilità di permanere regolarmente sul territorio italiano a fine carcerazione e di fruire delle prestazioni di carattere assistenziale e previdenziale. Diversa la situazione del soggetto che prima della detenzione fosse titolare di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo. In questo caso la commissione di un reato ostativo può portare, sempre che non debba essere disposta l'espulsione, ad un 'declassamento' del permesso CE in un comune permesso di soggiorno. La persona una volta scarcerata, pur vedendosi negati alcuni diritti di natura assistenziale (quali ad esempio l'assegno sociale o l'assegno di invalidità civile) per assenza del permesso di soggiorno CE, potrà comunque svolgere regolare attività lavorativa e godere delle relative tutele previdenziali.
Guardando al quadro finora illustrato è facile comprendere come l'effettività delle tutele sociali all'interno della realtà penitenziaria risulti ad oggi tutt'altro che garantita. Oltre alle varie problematiche di natura 'strutturale' derivanti dalla disciplina del lavoro carcerario, infatti, abbiamo visto che, anche qualora il soggetto recluso possegga i requisiti richiesti, spesso l'accessibilità materiale alle prestazioni sociali risulta estremamente difficoltosa.
Il soggetto detenuto è sottoposto infatti, in virtù del regime carcerario, ad una serie di limitazioni che ne riducono fortemente la capacità di agire a difesa dei propri interessi. Qualunque tipo di adempimento necessario per ottenere una certa prestazione (dalla compilazione della modulistica all'invio della stessa) richiede un enorme sforzo in un contesto come quello carcerario. Da ciò la necessità di creare figure capaci di interporsi tra le richieste di tutela della persona reclusa e i vari referenti istituzionali affinché queste vengano esaudite.
L'amministrazione penitenziaria ha da sempre mostrato grandi difficoltà a garantire ai soggetti reclusi la fruizione delle tutele sociali, al punto che la gamma delle prestazioni alle quali questi possono accedere cambia spesso da istituto ad istituto. Al riguardo sarebbe senz'altro auspicabile l'organizzazione, sull'esempio di quanto abbiamo visto avvenire con lo Sportello documenti e tutele del carcere di Sollicciano, di servizi stabili, capaci di rispondere in via definitiva a queste esigenze. Le prestazioni previdenziali e assistenziali non sono infatti un favor che le direzioni dei vari istituti concedono al soggetto recluso ma suoi diritti che, come tali, devono essere necessariamente garantiti.
L'esclusione dei detenuti dalla fruizione delle tutele sociali porta a creare loro danni sul piano economico e a compromettere l'efficacia del trattamento penitenziario facendo sì che la realtà carceraria continui impunemente ad essere 'altro' rispetto alla società libera.
Affinché le previsioni dell'ordinamento penitenziario in tema di lavoro e di diritti sociali diventino effettive è necessario, de iure condendo, che il lavoro carcerario perda definitivamente i suoi caratteri di specialità per rientrare all'interno della comune disciplina giuslavoristica. Il primo di questi mutamenti dovrà senz'altro riguardare il trattamento economico corrisposto ai detenuti lavoranti per far sì che la loro base contributiva venga ad essere analoga a quella dei lavoratori liberi. In tal senso un primo passo dovrà essere l'impegno ad un costante aggiornamento delle mercedi. Il concetto stesso di mercede dovrebbe essere abolito, come già aveva proposto il progetto di riforma dell'ordinamento penitenziario del 2005, permettendo di sopprimere così definitivamente la differenziazione (quella dei 2/3) rispetto al trattamento economico dei lavoratori liberi.
Altro problema da affrontare è inoltre quello della saltuarietà del lavoro carcerario, dovuta ai serrati ritmi di turnazione lavorativa. Proprio questa condizione infatti resterebbe capace, anche qualora venisse abolito l'istituto della mercede, di danneggiare profondamente la possibilità del soggetto di accedere alle prestazioni di carattere previdenziale. Le serrate turnazioni, dovute alla necessità di garantire al maggior numero possibile di soggetti accesso all'attività lavorativa, seppur per brevi periodi, sembrano però destinate ad accentuarsi. I fondi destinati alle attività lavorative dei detenuti alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria sono infatti estremamente ridotti e ciò, assieme ad un sempre maggior affollamento degli istituti di pena, porta a sempre più frequenti turn-over negli impieghi. Il lavoro domestico viene spesso concepito dalle direzioni degli istituti come un metodo di controllo della popolazione carceraria, uno strumento per fornire ai detenuti una occasione di distrazione e una piccola fonte di reddito. Conseguenza di tale impostazione, a metà tra il caritatevole e l'emergenziale, è l'aumento delle turnazioni in maniera proporzionale all'affollamento degli istituti. La soluzione sarebbe quindi da ricercarsi in un minor sovraffollamento delle strutture penitenziarie, in una migliore organizzazione delle stesse e in un maggior numero di fondi destinati alle attività lavorative, tutte condizioni capaci di garantire una maggiore stabilità degli incarichi.
Purtroppo le recenti impostazioni legislative, con l'approvazione del cosiddetto Piano carceri, che ha come scopo la creazione di ulteriori 17.000 posti all'interno degli istituti di pena della penisola, sembrano essere indirizzate in senso totalmente contrario. L'aumento della capacità degli istituti di pena non potrà infatti che portare, qualora non venga aumentato in maniera sostanziale l'organico del personale penitenziario e non vengano destinati nuovi fondi alle attività lavorative carcerarie, ad impieghi sempre più saltuari e, conseguentemente, ad una sempre più disastrata situazione contributiva dei lavoranti.
Tale nuovo progetto, assieme alla esplicita esclusione dei soggetti detenuti dalla fruizione della Social card e alla generale noncuranza dimostrata spesso dal legislatore e dall'amministrazione penitenziaria verso le problematiche che affliggono il lavoro carcerario sono il prodotto di una politica penale e penitenziaria che ha come obbiettivo più che il reinserimento dei criminali la loro 'neutralizzazione'. Sembra infatti ancora operante, sebbene spesso in maniera tacita, una ottusa mentalità che concepisce il carcere come un'istituzione retta da regole speciali, totalmente estranee a quelle operanti nella società civile, tese a bandire definitivamente il reo dalla comunità 'degli onesti e retti cittadini'.
Note
1. Tra le prestazioni previdenziali delle quali la popolazione beneficia maggiormente abbiamo visto l'indennità di disoccupazione a requisiti ridotti e gli assegni per il nucleo familiare.
2. Decreto interdipartimentale 16 settembre 2008 n. 89030, art. 5 c. I lett. f).