Capitolo 2
La riforma della legge 354 del 26 luglio 1975
2.1 Il dibattito parlamentare
Il disegno di legge sulla riforma penitenziaria presentato dal guardasigilli Gonella nel giugno 1960, insisteva in primo luogo sull'osservazione del detenuto su basi scientifiche e sulla individualizzazione del trattamento. Era il periodo in cui era entrato in funzione l'Istituto Nazionale di osservazione di Rebibbia, dove con l'apporto di psicologi, psichiatri, medici internisti, un medico elettroencefalografista, educatori e assistenti sociali si coltivava l'illusione di risolvere i problemi dei detenuti attraverso la rilevazione e classificazione 'scientifica' delle loro anomalie biopsichiche. Le proposte contenute nel disegno di legge si limitavano ad un programma di ordinaria amministrazione per migliorare le condizioni di vita dei detenuti in tema di alimentazione, sanità, sviluppo del lavoro e dell'istruzione, attività educative, ricreative e sportive. Non una parola veniva spesa sul tema dei rapporti tra detenuti e il mondo esterno e non veniva affrontato il problema della smilitarizzazione degli agenti di custodia.
Questo progetto di legge del 1960 fu elaborato da un comitato di studio, composto esclusivamente da magistrati della DGPP (direzione generale degli istituti di prevenzione e pena), che lavorava sotto la personale direzione e col diretto intervento del Ministro Gonella. Questo metodo usato per impostare tale riforma, fa capire come si operò in mancanza di un collegamento con la realtà della paese, con le istanze politiche e sociali, al di fuori di ogni controllo democratico. (1)
In tema di principi generali l'articolo 27 Cost. veniva tradotto da un lato, come indicazione dei canoni di umanizzazione della pena universalmente accettati che "corrispondono in sostanza allo spirito della civiltà cristiana", (2) dall'altro attribuendo all'esecuzione penale un contenuto rieducativo. Le regole generali del trattamento si innestavano su un programma di osservazione dei detenuti, dettato dalla necessità di studiare, con atteggiamento clinico, gli autori dei reati, al fine di cogliere i fattori individuali e ambientali della criminalità attraverso l'indagine comportamentale, medica, psicologica, psichiatrica, sociologica. Tale trattamento incontrava però dei limiti nelle necessità di ordine e di custodia che assumevano un contenuto pedagogico e rieducativo.
Le proposte più significative erano il potenziamento degli interventi dell'autorità giudiziaria nell'esecuzione penale, attraverso l'istituzione degli uffici di sorveglianza, cui venivano adibiti magistrati esonerati da ogni altra funzione, e la timida introduzione del regime di semilibertà limitato ai condannati con particolari requisiti; delle licenze premio per gli ammessi al regime di semilibertà; dei permessi per visitare i prossimi congiunti in imminente pericolo di vita.
Finita la III legislatura nel febbraio 1963, la circostanza che durante la IV legislatura, dopo quasi la quinquennale egemonia di Gonella, fu il ministro repubblicano Reale ad assumere il dicastero della giustizia non incise sui metodi di lavoro e sull'identità delle persone fisiche chiamate a predisporre il testo di legge. Le sorti della Riforma continuavano a rimanere saldamente nelle mani della DGPP: la continuità con le precedenti impostazioni era garantita dalle coincidenze personali dei magistrati chiamati da Reale a far parte della stessa Direzione, cosicché la struttura della riforma rimaneva invariata.
Con la fine anticipata della V Legislatura si arrivò, nel 1973, ad un mutamento importante nel delicato equilibrio dei rapporti tra governo e parlamento. Un uomo di sinistra, il socialista Zagari, copriva la carica di ministro di grazia e giustizia. Per circa un anno le posizioni del governo risultarono più avanzate di quelle parlamentari e fu il ministro a proporre alcuni degli emendamenti più significativi. Se ne ha una prova nel suo intervento alla commissione giustizia del Senato il 7 novembre 1973, che si apriva con queste affermazioni: "bisogna considerare il carcere non più come una realtà separata" ma come "una delle tante formazioni sociali in cui vivono quei cittadini che, se pure hanno violato la legge penale, non devono per questo, sentirsi definitivamente esclusi dal contesto sociale" e che "bisogna spezzare in modo irreversibile quella spirale di incomunicabilità che aveva caratterizzato in passato i rapporti tra il carcere e il mondo esterno". (3)
Sulla base di queste premesse al testo dell'ordinamento penitenziario elaborato dalla sottocommissione del Senato veniva aggiunto l'affidamento in prova al servizio sociale ed erano potenziati gli istituti, già previsti dai precedenti progetti, della semilibertà, della liberazione anticipata, delle licenze e dei permessi. Sembrava emergere la volontà di affrontare il problema della diminuzione del numero dei detenuti, rimedio essenziale per concentrare gli sforzi in una reale opera di trattamento rieducativo nei confronti di quei condannati per i quali il ricorso alla pena detentiva costituiva un indispensabile rimedio di difesa sociale.
L'approvazione in aula del Senato del disegno di legge, nella seduta del 18 dicembre 1973, si svolse in un'atmosfera apparentemente serena. Il ministro Zagari insistette sulle principali innovazioni in tema di contatti con la società libera, di misure alternative alla detenzione; ma soprattutto si preoccupò di prevenire possibili accuse di arrendevolezza e di lassismo nei confronti dei detenuti e di dimostrare come il programma di sfoltimento della popolazione carceraria rispondeva ad esigenze di una più efficace e razionale difesa sociale. (4) Si avvertivano però le avvisaglie della offensiva di destra contro la riforma, offensiva che si sarebbe sviluppata nella primavera della 1974 durante il dibattito alla Camera: i primi sintomi si rinvenivano non tanto nell'ormai scontato voto contrario del MSI, quanto nella cautela con cui il senatore Coppola (DC) manifestava il suo consenso alla legge, tralasciando di menzionare le innovazioni più significative, quasi a dissociarsi dalle posizioni del ministro, ed insistendo invece sul carattere meramente programmatico di alcune norme, sulle difficoltà di applicazione dei nuovi istituti e sulle deficienze strutture organizzative dell'amministrazione penitenziaria.
I lavori della camera ebbero inizio nell'aprile 1974. Fu subito evidente che all'interno della DC le posizioni non erano compatte: l'onorevole Padula si dissociò infatti dal programma di procedere ad una rapida conclusione dell'iter legislativo, e chiese un ampio riesame della legge. Si può dire che da questo momento inizia l'ondata di riflusso che porterà all'approvazione di una legge svuotata dei principi più significativi votati solo alcuni mesi prima dal Senato. Nella seduta del 15 maggio, in cui ebbe inizio l'esame dei singoli articoli, più che i missini furono i democristiani ad ostacolare la riforma, attraverso una serie di interventi che misero finalmente allo scoperto la posizione frenante del partito di maggioranza relativa.
La DC non ebbe però il coraggio attraverso i suoi oratori di denunciare che il reale motivo di preoccupazione politica era la pressione esercitata dai settori più conservatori all'interno del partito e si sforzò di inventare temi di discussione in gran parte artificiosi. L'atmosfera era tale che l'onorevole Coccia (PCI) denunciò il mutamento di volontà politica della maggioranza. Infatti furono raccolte le firme necessarie per la richiesta di rimessione in assemblea del disegno di legge. Si dovette quindi tornare ad esaminare la legge in commissione in sede referente, con la certezza che sarebbero state apportate modifiche peggiorative al testo, e poi affrontare di nuovo il giudizio dell'assemblea. In sede referente, il 4 luglio, vennero soppresse le norme relative alla sospensione dell'esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza in quanto si riteneva si trattasse di materia attinente al codice penale, ma soprattutto venne approvata una modifica all'affidamento in prova al servizio sociale. (5) Si stabilì infatti che prima di procedere all'affidamento in prova il condannato fosse sottoposto per almeno tre mesi ad osservazione all'interno dell'istituto, contraddicendo così la ratio dell'affidamento che era di evitare che i condannati, ritenuti maturi per un immediato reinserimento sociale, subissero la negativa influenza dell'ambiente e carcerario.
Nell'ultima seduta della commissione il 7 agosto 1974 il testo approvato dal Senato subì il tocco finale: vennero eliminati i permessi previsti "anche al fine di mantenere le relazioni umane" e venne attribuito al ministro di grazia e giustizia il potere di sospendere, per gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza, le regole di trattamento e gli istituti previsti dalla legge. Si trattò di un congegno ai margini della legittimità costituzionale, che consentiva all'esecutivo di sospendere l'applicazione di una legge.
La discussione in aula ebbe inizio il 25 settembre e vide i sostenitori della riforma impegnati in una difficile difesa su due fronti: da un lato vi era l'esigenza di minimizzare la portata dei peggioramenti votati dalla commissione referente, dall'altro si cercava di prevenire gli attacchi della destra, dimostrando che la legge non poteva essere tacciata di lassismo o arrendevolezza. Con le sedute del 17 e 19 dicembre si chiuse l'iter della legge alla Camera, in un clima di rassegnazione che anticipava il tenore del dibattito che si sarebbe svolto al Senato a partire dal 22 maggio 1975. Al Senato fu comune la volontà di non presentare emendamenti al fine di evitare ulteriori ritardi: la discussione dei singoli articoli si risolse così in una sola seduta e l'approvazione definitiva in aula occupò poco più di due ore nella seduta del 17 luglio 1975.
2.2 Il passaggio ad un nuovo approccio metodologico di trattamento
La prima caratteristica della riforma penitenziaria è di essere nata nel chiuso degli ambienti ministeriali, per iniziativa di un apparato burocratico, la direzione generale degli istituti di prevenzione e pena, più propenso a conservare che a modificare la struttura organizzativa centralizzata e verticistica dell'amministrazione carceraria e le modalità di trattamento dei detenuti. Una riforma che dunque nasce isolata dall'opinione pubblica, senza il supporto di un dibattito dottrinario, incapace di inserirsi in una visione di riforma globale degli altri settori dell'ordinamento penale. Questo spiega le due anime della legge: quella delle innovazioni relativa al trattamento, e quella della conservazione delle tradizionali strutture dell'amministrazione penitenziaria. (6) Per cui pur sottolineando si può affermare che il legislatore non si è reso conto del divario tra il sistema prefigurato dalla nuova legge e la realtà, complessa e carente di risorse, del mondo carcerario nel quale la riforma era destinata ad incidere. (7)
Riguardo al trattamento, il testo della legge esprime fedeltà al comma 3º dell'art. 27 Cost. definendolo 'rieducativo', e rifiuta di conseguenza la tesi dell'irrecuperabilità di taluni condannati, attraverso la proclamata applicabilità del trattamento "a ciascun internato o condannato" (art. 13 comma 3º). Il trattamento deve anche essere conforme al parametro costituzionale del "senso di umanità" (3º comma art. 27 Cost.), e a quello del "rispetto della dignità della persona" (desumibile in varia misura dagli artt. 2, 3, 13, 36 Cost.). (8)
Il nodo centrale dal quale si sviluppa il concetto di trattamento riguarda la esistenza o meno di una reale possibilità da parte dell'istituzione penitenziaria di formulare e proporre ai detenuti dei programmi rieducativi. Secondo Breda (9) una prima serie di obiezioni porrebbero in evidenza la illegittimità di un'azione rieducativa esercitata dallo Stato che, in quanto pluralistico, dovrebbe rimanere neutrale sul piano pedagogico, evitando di scegliere i valori determinanti ai quali conformare il detenuto, soprattutto quando questi valori appartengono alla parte della società detentrice del potere. In realtà, sempre secondo l'autore, l'accettazione da parte di una società pluralistica di una vasta gamma di parametri ideologici, culturali e di condotta non comporta la possibilità da parte del cittadino di superare impunemente i principi di coesistenza sociale. In questa prospettiva gli obiettivi della rieducazione appaiono realizzabili con la promozione di quelle esperienze-valore che hanno un carattere generale (uguaglianza del cittadino di fronte alla legge; rifiuto delle discriminazioni ideologiche, razziali, religiose, solidarietà sociale..). In definitiva, la società non chiede al cittadino di conformarsi a modalità ideologiche standardizzate, ma gli chiede di autodeterminarsi nella gamma dei comportamenti legittimamente realizzabili. (10)
In questo senso pienamente conforme alla legge è il regolamento esecutivo n. 431 del 29 aprile 1976 che definisce il trattamento rieducativo come "diretto a promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale" (art. 1) e lega l'osservazione della personalità (art. 27) all'accertamento e alla rimozione delle carenze che sono state di pregiudizio ad una normale vita di relazione.
Importante è anche il comma quinto dell'art. 1 ord. pen laddove è stabilito che:
nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.
Il legislatore intende indicare che l'azione penitenziaria deve basarsi sulla considerazione della situazione e sui bisogni personali del soggetto, che deve avvenire anche quando si fa ricorso allo schema operativo proposto come fondamentalenegli istituti che è quello di lavorare in situazione di gruppo. L'individualizzazione viene poi ripresa specificatamente nell'art. 13 dell'ord. penit. che riguarda proprio le modalità del trattamento, nel primo comma di tale articolo si legge: "il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto". A tal fine nel secondo comma è disposto che: "nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l'osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale". L'osservazione è compiuta all'inizio dell'esecuzione e proseguita nel corso di essa. Nel terzo e nel quarto comma viene precisato che: per ciascun condannato o internato sono formulate indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare ed è compilato il relativo programma, che è integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell'esecuzione. Le indicazioni generali e particolari del trattamento sono inserite, unitamente ai dati giudiziari, biografici e sanitari, nella cartella personale, nella quale sono successivamente annotati gli sviluppi del trattamento praticato e i suoi risultati.
Infine non meno importante, perché statuisce il carattere non coercitivo delle attività di osservazione e trattamento, è l'indicazione effettuata nell'ultimo comma dove si afferma che: "deve essere favorita la collaborazione dei condannati e degli internati alle attività di osservazione e trattamento". Quest'ultima è svolta da un gruppo di osservazione che nella prassi e nella letteratura viene individuato con il termine di équipe non previsto dalla legge, ma introdotto dal regolamento. Tale organo procede quindi anche alla successiva attività di compilazione e aggiornamento del programma individualizzato di trattamento:
la compilazione del programma di trattamento è effettuata da un gruppo presieduto dal direttore e composto dal personale e dagli esperti che hanno svolto le attività di osservazione indicate nelprecedente articolo.
Il gruppo di osservazionetiene riunioni periodiche, nel corso delle quali esamina gli sviluppi del trattamento praticato e dei suoi risultati. (art. 29 reg. esec.).
Con il nuovo ordinamento penitenziario il legislatore ha inteso dare importanza alla funzione risocializzatrice della pena soprattutto nella fase esecutiva, considerando il carcere non più come luogo di segregazione e di separazione dalla società, ma come momento di intervento per offrire le strutture materiali e psicologiche necessarie al reinserimento. (11)
Tale legge venne varata nel momento in cui stava avvenendo il passaggio ad un nuovo approccio metodologico conseguente alla messa in crisi della concezione medico-clinica della rieducazione. Quest'ultima con l'osservazione scientifica della personalità del detenuto accertava, mediante l'acquisizione dei dati opportuni, le mancanze fisio-psichiche, affettive, educative e sociali, che erano state "da pregiudizio all'instaurazione di una normale vita di relazione", accertava in sostanza le cause del disadattamento sociale e di conseguenza i bisogni di ciascun soggetto. Curando le mancanze e assicurando un soddisfacente adattamento alla vita di relazione, l'esecuzione del programma di trattamento profilato per ciascun soggetto doveva trattenere il reo da nuovi crimini. (12)
Le procedure tipiche della psichiatria e della psicologia erano state trasferite nel settore penitenziario con l'idea di una loro assoluta validità per la diagnosi della personalità dell''uomo delinquente'.
Con il nuovo ordinamento penitenziario pur non rinunciando, quando necessario e opportuno, a ricorrere a strumenti 'scientifici di indagine', ci si muove però su schemi liberi. La concezione moderna della eziologia criminale è recuperata dalla previsione normativa che considera, allo stesso livello delle carenze fisio-psichiche, le "altre cause del disadattamento sociale". È abbandonato ormai l'orientamento deterministico, basato sul rapporto fra carenze fisiopsichiche e comportamento criminale e allo stesso tempo è bandito il determinismo sociologico e la pretesa che a cause simili corrispondano comportamenti simili. Nelle intenzioni del nuovo approccio metodologico, non si è più interessati ad un'attività di analisi storica degli avvenimenti eziologici, ma al modo in cui il soggetto ha vissuto e vive le sue esperienze e alla sua disponibilità ad usufruire delle opportunità del trattamento che gli vengono offerte.
Il punto è che il contenuto delle norme sul trattamento sopra descritte, è rimasto indenne al superamento del modello medico-clinico, e la causa di ciò è sicuramente da ricercare nella elasticità della struttura del linguaggio usato dal legislatore.
Quest'ultimo adoperando categorie extragiuridiche riprese dalle discipline socio-criminologiche ha lasciato comunque assumere al testo normativo caratteristiche di flessibilità e di voluta approssimazione. Così il trattamento non assume un significato univoco e rigoroso, infatti si può individuare in esso sia la scelta di una 'terapia di riadattamento sociale', collegata alla convinzione di derivazione lombrosiana secondo la quale era possibile individuare le cause del delitto e quindi rimuoverle, sia la rinuncia all'ipotesi che esistano specifici fattori della delinquenza orientandosi verso una generica offerta di interventi di sostegno. Anche riguardo all'individualizzazione del trattamento l'uso di termini diversi sta a dimostrare che il linguaggio è usato per sfumare i concetti e non per esprimerli. Nel regolamento poi, le espressioni sociologiche trionfano, ma allo stesso tempo danno l'impressione di nonvolere precludere alcuna strada anziché quella di imboccarne taluna. Si ipotizza, da alcuni che il legislatore, consapevole di quanto il tema della rieducazione sia complesso e non inquadrabile giuridicamente, abbia adoperato un linguaggio possibilista per offrire uno strumento flessibile alle tecniche penitenziarie che le varie discipline venissero via via escogitando. Risulta invece più plausibile, come da più parti affermato, l'ipotesi che questa vaghezza di linguaggio segnasse non soltanto uno dei ciclici riflussi delle scienze penalistiche a favore di quelle socio-criminologiche, ma riflettesse anche il peso di una mancata chiarificazione sui modelli rieducativi ai quali tendere al momento della riforma. (13)
2.3 Gli operatori penitenziari e l'introduzione delle nuove figure di educatore, assistente sociale e psicologo
Privilegiando però il versante delle grandi enunciazioni di principio, e la pur necessaria disciplina dei nuovi istituti legati alla logica del trattamento individualizzato, la riforma non ha posto sufficiente attenzione ai problemi dell'attuazione pratica di tali principi e di tali istituti. Uno dei punti maggiormente trascurati è stato senza dubbio quello riguardante lo statuto e le attività degli operatori penitenziari, intendendo questa nozione con riguardo ad una dimensione amministrativa delle competenze, e quindi escludendo dalla stessa qualunque riferimento agli organi della magistratura di sorveglianza. Quest'ultima, mentre nella precedente legislazione riassumeva in sé la funzione di organo garante e quella di osservatore della personalità del detenuto, ora subisce lo sdoppiamento di quest'unico ruolo in due ruoli distinti e specializzati in due settori: l'osservazione e il trattamento viene concesso agli operatori penitenziari, mentre il Magistrato di sorveglianza, in funzione di garanzia, approva l'attuazione del programma di trattamento formulato dall'équipe, riscontrando eventuali violazioni ai diritti del condannato e dell'internato. (14)
Il settore degli operatori penitenziari risulta trascurato o trattato solo di scorcio, sia nella legge di riforma, sia in altri corpi normativi ad essa collegati, e non gli è riservato lo spazio che avrebbe meritato in rapporto alle innovazioni contenute nel nuovo ordinamento. Basta scorrere la legge penitenziaria e il relativo regolamento di esecuzione n. 431 del 29 aprile 1976, per rendersi conto del rilievo piuttosto marginale attribuito alle varie figure degli operatori amministrativi chiamati a concorrere al conseguimento delle finalità volute dalla legge. E questo è vero psoprattutto in relazione agli operatori 'tradizionali', quelli cioè preesistenti all'entrata in vigore della riforma.
Ad esempio, nella legge di riforma viene dedicato soltanto qualche rapido accenno al personale di custodia, quello che più di ogni altro vive all'interno del carcere, condividendo in gran parte le stesse condizioni di vita del detenuto, mentre nel regolamento le relative attribuzioni sono individuate semplicemente "in conformità delle leggi e dei regolamenti vigenti".
Ugualmente, anche per quanto concerne i direttori degli istituti penitenziari la legge è assai avara di indicazioni. Certamente non mancano in varie disposizioni i richiami al ruolo e alle competenze del direttore, talora anche in rapporto ad aspetti molto particolari, ma manca una norma generale che disciplini in modo articolato le attività e i correlativi poteri. Questi ultimi sono stati genericamente indicati in sede di regolamento ma senza alcuna preoccupazione di coordinamento con le previgenti disposizioni, il che definisce un quadro complesso e talora contraddittorio in cui si colloca questa importante figura. (15)
Accanto a queste categorie di operatori, cui l'art. 80 comma 1º ord. penit. si riferisce parlando genericamente di "personale previsto dalle leggi vigenti", il medesimo art. 80 annovera, sotto la rubrica "personale dell'amministrazione degli istituti di prevenzione e di pena", due nuove figure di operatori: gli educatori per adulti e gli assistenti sociali, questi ultimi dipendenti dai centri di servizio sociale istituiti nelle sedi degli uffici di sorveglianza. A queste figure, proprio per la loro novità nel seno dell'ordinamento penitenziario, la legge dedica maggiore spazio, preoccupandosi non solo di definire le attribuzioni, ma altresì di disciplinare i ruoli organici e le correlative modalità di accesso. È evidente in proposito come il legislatore abbia inteso porre l'attenzione soprattutto sulle figure degli assistenti sociali e degli educatori, quasi trascurando le altre, per assumere le medesime quale elemento qualificante della nuova 'filosofia' penitenziaria cui si è ispirata la legge di riforma. Se è vero in effetti, che la principale novità dell'intervento legislativo del 1975 è stata rappresentata dall'introduzione del "trattamento individualizzato" come strategia di fondo per la rieducazione del condannato, non c'è dubbio che le nuove figure di operatori rivestano una funzione necessaria e determinante, in vista dell'attuazione delle finalità del trattamento, per cui si comprende la preminenza a loro attribuita all'interno del corpus penitenziario. (16)
La stessa logica è seguita dalla norma contenuta nel 4º comma del suddetto art. 80, la quale consente all'amministrazione penitenziaria di avvalersi di "professionisti esperti" in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento". Inoltre l'art. 78 ord. penit. prevede la figura degli "assistenti volontari" configurando come tali le "persone idonee all'assistenza e all'educazione" appositamente autorizzate a "frequentare gli istituti penitenziari allo scopo di partecipare all'opera rivolta a sostegno morale dei detenuti e degli internati ed al futuro reinserimento nella vita sociale". Sia nel caso dell'art. 80 che degli artt. 78 e 17 si tratta di disposizioni dirette a porre l'amministrazione penitenziaria nelle condizioni di potersi giovare di risorse, competenze e collaborazioni esterne ai propri organici; allo scopo di supplire ad eventuali deficienze degli stessi, o per venire incontro ad esigenze particolari che non possono venire soddisfatte attraverso l'intervento degli abituali operatori.
2.4 Il direttore penitenziario
L'ordinamento penitenziario del 1975 non disciplina l'attività del direttore penitenziario, se non per alcuni aspetti, attribuzioni o compiti particolari. Al direttore compete l'attuazione di tali compiti nell'ambito dell'istituto e gli sono attribuiti tutti i poteri conseguenti. Ciò emerge chiaramente dall'art. 3 del regolamento di esecuzione, il quale sancisce che:
i direttori degli istituti... esercitano i poteri attinenti all'organizzazione, al coordinamento e allo svolgimento delle attività relative al funzionamento dell'istituto...; adottano tutte le iniziative per lo svolgimento dei programmi di trattamento e impartiscono disposizioni e istruzioni agli operatori penitenziari anche non appartenenti al personale dell'amministrazione; inoltre il direttore dell'istituto provvede al mantenimento della sicurezza, dell'ordine e della disciplina, avvalendosi della collaborazione del personale civile e militare secondo le rispettive competenze.
Il direttore pertanto risponde dell'organizzazione e del coordinamento di tutte le varie attività che si svolgono nell'istituto cui è preposto, e ha delle responsabilità di cui deve dar ragione in via gerarchica al provveditore regionale e al ministero.
Nell'attività del direttore di un istituto si possono individuare tre settori distinti ma strettamente connessi: il governo della popolazione detenuta o internata, il governo del personale civile e militare, la gestione amministrativo contabile dei servizi dell'istituto. In quanto capo dell'istituto, egli è il superiore gerarchico di tutto il personale civile e militare. Conseguentemente esercita nei confronti del personale civile le attribuzioni che gli competono a norma dello statuto degli impiegati civili dello Stato. Esercita inoltre, la funzione di propulsione, coordinamento e controllo di tutti gli altri operatori dell'istituto, siano essi legati al medesimo da un particolare rapporto di lavoro: medici incaricati o altri incaricati giornalieri ai sensi del 2º c. dell'art. 80 ord. penit., o da un rapporto professionale, quali i sanitari specializzati e gli esperti per le attività di osservazione e trattamento (art. 80 4º c.), ovvero prestino la loro attività a titolo volontario (art. 17 e 78 ord. penit.).
In ordine al personale militare, la posizione del direttore è particolare: egli, impiegato civile dello Stato, si trova a governare un Corpo militarmente organizzato che fa parte delle forze armate, i cui componenti in servizio nell'istituto sono alle sue immediate dipendenze e ai suoi ordini. In questo ambito il direttore ha di fatto poteri superiori agli stessi ufficiali del Corpo. Deve gestire le licenze ordinarie e straordinarie, instaurare e concludere i procedimenti disciplinari, ed infine inoltrare alla competente procura denunce di eventuali reati militari. (17)
Riguardo alla gestione amministrativo-contabile, il direttore utilizzando i fondi che gli vengono accreditati dall'amministrazione centrale all'inizio dell'esercizio finanziario, provvede, secondo le esigenze, a far fronte a tutte le spese necessarie per il funzionamento dell'istituto. Egli ordina quindi il pagamento delle spese più varie: gli stipendi al personale militare e operaio, le parcelle degli specialisti ed esperti, le spese per l'acquisto per di qualsiasi bene o servizio per l'istituto, per il vitto e sopravvitto dei detenuti e per la mensa agenti, il materiale per le attività scolastiche, culturali, ricreative e sportive. (18) Da queste attività emerge chiaramente come il direttore assuma la figura di funzionario delegato, e quindi di ordinatore della spesa, e come tale sia chiamato a rispondere in prima persona delle irregolarità e dei fatti illeciti che eventualmente si verificassero nel corso della gestione ed è quindi soggetto a gravi responsabilità che possono essere patrimoniali, penali, civili e disciplinari. Inoltre negli istituti dove esistono lavorazioni industriali o appezzamenti agricoli, il direttore svolge una vera e propria attività imprenditoriale. Deve infatti procedere ad analisi di mercato, per individuare le attività produttive più adatte ai caratteri particolari della popolazione reclusa nell'istituto con riferimento all'economia del territorio, per facilitare la collocazione sia della manodopera che dei prodotti. Deve procedere ad analisi dei costi e dei prezzi, per contenere i primi e rendere competitivi i secondi ed incrementare la produttività delle lavorazioni, tenendo presente che il lavoro penitenziario è un elemento del trattamento ed ha quindi una funzione pedagogica. (19)
Infine la funzione preminente ed esclusiva del direttore penitenziario: il governo della popolazione detenuta o internata. Alla luce del dettato costituzionale dell'art. 27, il sistema penitenziario è caratterizzato da due esigenze contraddittorie: quelle custodialistiche e quelle trattamentali. Si comprende allora come nel direttore la veste di garante della sicurezza dell'istituto si pone talora in antitesi con quella di promotore del processo di risocializzazione. Tuttavia l'affermazione che l'ordine e la disciplina devono essere mantenuti negli istituti è stata inserita nel comma terzo dell'articolo 1 con la finalità di contrastare l'equivoco che vi sia una incompatibilità fra trattamento e disciplinato svolgimento della vita penitenziaria. Tale articolo chiarisce la relazione strumentale fra il mantenimento dell'ordine e della disciplina e la realizzazione delle finalità del trattamento. (20) In questo ambito, il direttore promuove e realizza "una positiva atmosfera di relazioni umane in una prospettiva di integrazione e collaborazione" (art. 4 regol. esec.), nella quale si inquadrino gli interventi di ciascun operatore professionale o volontario.
Ai fini del nostro discorso al direttore penitenziario è stato conferito il compito di presiedere e coordinare l'equipe per l'osservazione scientifica della personalità del condannato, per la redazione del programma di trattamento e per la verifica del medesimo. Tale attività comporta che egli acquisisca le conoscenze ed abbia le qualità umane necessarie per utilizzare l'apporto professionale specifico di ciascun componente dell'equipe e l'attitudine a fornire il proprio. (21) L'attività in questione assume una particolare importanza quando è destinata all'eventuale concessione di una misura alternativa alla pena detentiva, sia quella dell'affidamento in prova al servizio sociale, sia quella della semilibertà, nonché nella particolare modalità di esecuzione della pena detentiva costituita dal lavoro all'esterno. Compete infatti al direttore la responsabilità del trattamento del semilibero, ma per la vigilanza e l'assistenza del soggetto nell'ambiente libero può avvalersi del centro di servizio sociale. Compete poi esclusivamente al direttore l'assegnazione di un detenuto o internato al lavoro esterno. (22)
Per l'ammissione alla carriera direttiva penitenziaria, dalla seconda metà dell'800, si esigeva una cultura universitaria, normalmente la laurea in giurisprudenza. Prima della seconda guerra mondiale si tenevano corsi di carattere teorico-pratico in cui si insegnavano: diritto e procedura penale, diritto penitenziario, antropologia criminale, contabilità generale dello Stato. (23) Tali corsi vennero sospesi durante la guerra, e si dovette attendere l'istituzione della scuola superiore della pubblica amministrazione perché si cominciassero a tenere regolarmente a Caserta corsi semestrali residenziali, destinati ai giovani direttori penitenziari vincitori dei concorsi. Negli anni della riforma le attività anzidette erano troppo scarse in confronto alle nuove esigenze. L'entrata in vigore del nuovo ordinamento si calava in una realtà penitenziaria costituita da uomini, mezzi e strutture impreparati e inadeguati alle funzioni assegnategli. Si sarebbe dovuto attuare un programma di ristrutturazione dei mezzi e di sensibilizzazione degli uomini, dato che ben si conosceva l'indirizzo del legislatore. (24) Negli anni successivi alla riforma l'amministrazione penitenziaria si impegnò ad organizzare, prima nel settore dei minorenni, poi anche in quello degli adulti, cicli di incontri professionali tra tutti gli operatori penitenziari; tali incontri, seppure non esaustivi, consentivano comunque interessanti e proficui scambi di opinione e di esperienze.
La carriera direttiva penitenziaria è stata aperta alle donne con la legge n. 66 del 9 febbraio 1963. Nei primi anni esse incontrarono difficoltà di accettazione, che furono di ordine generazionale, ma anche intrinseche al carattere maschilista del sistema. Queste difficoltà vennero sia dall'amministrazione, che inizialmente le destinò in prevalenza alle direzioni amministrative negli istituti di pena, sia soprattutto, dal personale militare. Gli agenti di custodia tendevano ad assumere verso di loro una posizione di rifiuto, ostentando l'atteggiamento di chi è costretto dalle circostanze a tollerare un'ingiustizia. A loro volta i detenuti cercavano di gestire il rapporto con la donna direttore facendo appello ai tratti tipici della cultura popolare, e assumevano un atteggiamento gentile ed ossequioso, dal quale però trapelava l'intima convinzione di poter facilmente condurre la situazione avvantaggiandosi di una presunta superiorità maschile. Tale stato di cose non era diverso con le donne detenute, la maggioranza delle quali era da sempre abituata a pensare che le capacità direzionali fossero appannaggio degli uomini. (25)
L'evoluzione della figura e del ruolo del direttore ha seguito di pari passo il mutare delle concezioni sulla funzione del carcere e più precisamente della pena. Infatti inizialmente il direttore era ancorato a saldi principi etici, severo ma giusto, di fatto posto come gli altri operatori su un piano superiore al detenuto, quest'ultimo considerato un individuo da correggere tramite processi coattivi di espiazione.
Successivamente l'ideale dell'emenda ha richiesto un direttore che fosse contemporaneamente autorità giusta e modello da introiettare, in un quadro di rieducazione tesa al recupero di valori tra i quali la disciplina, il dovere, il lavoro, nel quale il rieducando era ancora oggetto, più che soggetto, di azione.
Infine, i concetti, fatti propri dalla riforma, di emarginazione e devianza che hanno come corollario la risocializzazione, postulano un direttore coordinatore, un tecnico delle relazioni umane, capace di sollecitare la partecipazione consapevole dei soggetti su un piano di pari dignità, in modo da ripristinare nel detenuto comportamenti compatibili con il contesto sociale. Alla luce del nuovo ordinamento penitenziario, il direttore è contestualmente sia un amministratore, per molti versi assimilabile al manager, sia uno degli educatori dell'istituto, e precisamente il più importante, perché i reclusi cercano prioritariamente il rapporto con chi è depositario dell'autorità, e soprattutto perché da lui dipende il tono e lo stile dell'istituto medesimo. (26)
2.5 L'educatore
L'ingresso della nuova figura dell'educatore per adulti, intervenuto con la legge di riforma, coincide con il verificarsi di alcuni eventi importanti che caratterizzano la cultura del settore in quegli anni. Da un lato, matura la crisi che aveva investito il concetto di trattamento penitenziario basato su un "modello medico". Non si ha più fiducia nella improbabile ricerca, da parte dello psichiatra, delle cause criminogenetiche collegate al comportamento delittuoso nonché delle relative prescrizioni terapeutiche. Se la legge continua ad usare termini quali: "osservazione scientifica della personalità", "carenze fisiopsichiche e altre cause di adattamento", è dovuto in gran parte alla forza d'inerzia con la quale si giunge faticosamente all'approvazione della legge. Dall'altro lato si assiste ad un processo di revisione dei modelli criminologici sino ad allora seguiti grazie agli apporti di settori culturali e movimenti di opinione, che si pronunciano in favore di una riconsiderazione dell'intera questione penitenziaria secondo un'ottica più aperta alla componente sociologica e ai temi della partecipazione. (27)
In rapporto a soggetti sempre meno percepiti come 'malati' da diagnosticare e da curare, e sempre più invece come persone da comprendere e responsabilizzare, la figura e il ruolo dell'educatore assumono di fatto un'importanza determinante. L'educatore informa i detenuti sulle possibilità presenti nell'istituzione, li sostiene nelle scelte compiute, facilita le forme di espressione e partecipazione ecc. La sua figura viene configurata dalla legge come elemento di raccordo tra la realtà dell'istituto e la problematica personale del detenuto, e in questa prospettiva viene svincolata da quelle responsabilità che, attraverso il gioco del concedere e del negare, appaiono inevitabilmente legate all'esercizio del potere. L'educatore infatti è sì identificato con l'istituto e con l'autorità che lo dirige, ma il non essere chiamato in prima persona a un esercizio di autorità sui detenuti, gli consente di sviluppare un rapporto ispirato alla comprensione delle difficoltà e alla offerta di un aiuto che non chiede in cambio alcun atto di obbedienza e di sottomissione. (28)
Molteplici sono le competenze operative affidate all'educatore dalla normativa e dalle disposizioni attuative impartite dall'Amministrazione penitenziaria. Tra queste il colloquio di primo ingresso espressamente previsto dall'art. 23 reg. esec. Il colloquio risponde a diverse finalità:
in primo luogo esso serve a raccogliere alcune informazioni per la prima organizzazione dei dati a livello di documentazione personale; in secondo luogo esso è volto a fornire le informazioni concernenti le disposizioni generali e particolari attinenti ai diritti e ai doveri dei detenuti e degli internati, alla disciplina e al trattamento (art. 32 ord. penit.) e a consegnare un estratto delle principali norme contenute nella legge, nel regolamento di esecuzione e nel regolamento interno, con la indicazione del luogo dov'è possibile consultare i testi integrali (art. 64 reg.); infine, nel corso del colloquio, il soggetto è invitato a segnalare gli eventuali problemi personali e familiari che richiedono interventi immediati. (29)
L'importanza di tale intervento va colta soprattutto nei confronti dei soggetti che per la prima volta sono coinvolti in una vicenda penale e sostengono l'impatto con una struttura per molti aspetti traumatizzante, per cui l'incontro con un operatore professionalmente preparato e capace di porsi in un rapporto umano rappresenta indubbiamente un intervento di sostegno.
Nel caso del condannato invece la perdita della presunzione di non colpevolezza ha delle conseguenze sia in senso soggettivo, per la diversa percezione che il soggetto ha di sé in senso relazionale, sia in senso oggettivo per le richieste di adeguamento agli impegni e alle norme disciplinari. Vi è dunque un problema di adattamento alla condizione di condannato, che il primo colloquio può contribuire a valutare e affrontare in maniera costruttiva. (30)
Il passaggio in esecuzione di pena segna, secondo la normativa, l'inizio delle attività di osservazione scientifica della personalità che dovrebbe condurre, nel termine di tre mesi, alla formulazione di un programma di trattamento individualizzato. In questo ambito, il colloquio di primo ingresso rappresenta per l'educatore un momento importante per impostare un rapporto destinato a svilupparsi nel corso della detenzione, il cui valore sarà determinato anche dalla volontà del condannato di partecipare ai programmi. Nel primo colloquio vengono rilevati alcuni dati che entrano a far parte della cartella personale, la quale raccoglie gli elementi di informazione e valutazione per il trattamento rieducativo di ciascun soggetto. Per delega del direttore la cartella personale viene compilata dall'educatore. Essa costituisce l'elemento principale di documentazione tecnica sulla posizione giuridica, biografica, sanitaria e di trattamento di ogni singolo condannato. La cartella segue il soggetto in ogni eventuale trasferimento e serve come punto di riferimento per gli operatori che intervengono sul caso, per poter assicurare una certa continuità all'azione rieducativa.
In seguito al colloquio di primo ingresso se vengono rilevati problemi personali e familiari che richiedono interventi immediati, l'educatore li segnala al Centro di servizio sociale, ferma restando la competenza della direzione per il perfezionamento dei relativi atti formali. Ma al di là della segnalazione di tali eventuali casi, l'educatore dovrebbe stabilire un collegamento con il servizio sociale sin dall'ingresso di un soggetto in esecuzione di pena, allo scopo di concordare un'intesa per l'avvio delle attività di osservazione.
Molte sono le difficoltà che, fin dall'inizio, hanno ostacolato la realizzazione delle procedure di osservazione per tutti i definitivi, comunque l'indicazione metodologica che viene data è che tale avvio dovrebbe avvenire automaticamente, come parte delle attività di routine che sono affidate agli operatori penitenziari dall'art. 28 reg., sotto la responsabilità e il coordinamento del direttore dell'istituto. (31) Ferma restando dunque la competenza della direzione per il perfezionamento degli atti formali concernenti la richiesta di intervento del servizio sociale, sul piano sostanziale l'intesa viene raggiunta tra educatore e assistente sociale incaricato del caso. Questi due operatori piuttosto che procedere parallelamente, ciascuno nel proprio ambito di indagine per confrontare alla fine i dati raccolti in maniera autonoma, integrano reciprocamente gli elementi raccolti. Tale forma di collegamento che comprende anche il coinvolgimento delle altre figure operanti in equipe, appare particolarmente significativo per il binomio educatore-assistente sociale, perché di fatto queste due figure sono chiamate dalla normativa a ristabilire una unità di visione nelle relazioni del detenuto con la sua famiglia e il suo ambiente.
In merito all'attività di gruppo per l'osservazione della personalità del condannato, i criteri metodologici seguiti sono ben esplicati da una circolare del 1979:
Le attività di osservazione sono ordinariamente svolte: dall'educatore, in funzione dell'osservazione comportamentale (...), nonché della sua (del condannato) disponibilità nei confronti della vita in istituto e dei possibili programmi alternativi; nell'ambito di tale sua competenza l'educatore raccoglierà e utilizzerà i dati di conoscenza e di esperienza che altre persone a contatto con i soggetti in osservazione (insegnanti, assistenti volontari, personale di custodia, ecc.) avranno avuto modo di rilevare; dall'assistente sociale (...) per la comprensione dei collegamenti esistenti e di quelli realizzabili in futuro tra la condizione personale attuale del soggetto e i suoi problemi familiari e sociali; dallo psicologo di cui all'art. 80 per l'accertamento degli aspetti salienti attinenti alla struttura e al funzionamento psichico del soggetto, sotto il profilo intellettuale, affettivo, caratteriologico e attitudinale. (32)
Tale suddivisione delle competenze non deve essere intesa in senso rigido poiché l'osservazione è un metodo di indagine teso alla conoscenza unitaria dei problemi personali e sociali del condannato. Nell'ambito del gruppo di osservazione, mentre il direttore assume la leadership, cioè svolge un ruolo prevalentemente di organizzazione e di coordinamento del gruppo, l'educatore assume di regola la responsabilità della segreteria tecnica (art. 29 reg.). Anche le responsabilità del segretario tecnico sono di tipo organizzativo-funzionale e riguardano il mantenimento dei collegamenti fra i vari membri dell'equipe per lo scambio di informazioni e per la preparazione della documentazione comune, nonché l'aggiornamento dei casi attraverso una periodica revisione dei programmi sulla base degli sviluppi intervenuti. Tutto questo avviene nel corso delle periodiche riunioni di cui tratta il secondo comma dell'art. 29 reg. di esecuzione. (33) Uno dei compiti più importanti del segretario tecnico è quello di assicurare che venga formulato, nei tempi e secondo le linee concordate in equipe, il documento che conclude l'osservazione chiamato "rapporto di sintesi". Questo è l'atto conclusivo dell'osservazione, nel quale viene delineata una valutazione globale del detenuto e viene indicato il tipo d'intervento educativo ritenuto più adatto ai suoi problemi e alle sue attitudini. (34) Questo programma comprende le varie attività lavorative, scolastiche, formative, ricreative, culturali, sportive, nelle quali il detenuto è disposto ad impegnarsi. Il rapporto di sintesi, una volta approvato dal magistrato di sorveglianza, costituisce il riferimento comune per gli operatori impegnati nel trattamento, e rappresenta la base di documentazione per gli aggiornamenti futuri e per la comunicazione alla sezione di sorveglianza in caso di eventuale procedimento per la concessione di una misura alternativa, di un permesso premio, o dell'ammissione al lavoro esterno.
Oltre all'attività di gruppo per l'osservazione scientifica della personalità, l'art. 82 prevede altre attribuzioni per gli educatori:
Gli educatori partecipano all'attività di gruppo per l'osservazione scientifica della personalità dei detenuti e degli internati e attendono al trattamento rieducativo individuale o di gruppo, coordinando la loro azione con quella di tutto il personale addetto alle attività concernenti la rieducazione. Essi svolgono, quando sia consentito, attività educative anche nei confronti degli imputati. Collaborano, inoltre, nella tenuta della biblioteca e nella distribuzione dei libri, delle riviste e dei giornali.
Secondo Gennaro, Bonomo e Breda la partecipazione al trattamento rieducativo individuale e di gruppo:
va intesa come rivolta soprattutto a obiettivi di consolidamento motivazionale, di sostegno e di rilancio delle energie personali positive, di incoraggiamento dei sentimenti di responsabilità, e impegno, che possono condurre gradualmente i detenuti ad assumere un atteggiamento costruttivo nei confronti della realtà del carcere e dei suoi programmi. Quello che conta è che, nei confronti del soggetto al centro della sua considerazione, l'educatore riesca a stabilire un rapporto di accettazione, di rispetto, di fiducia nelle potenzialità personali, non condizionato al tipo di scelte comportamentali che il soggetto fa, né al consenso che egli esprime o meno in ordine agli orientamenti di cui si discute. (35)
Criterio fondamentale della riforma penitenziaria è dunque che la partecipazione al trattamento rieducativo sia facoltativa, come specifica lo stesso Renato Breda:
la riforma penitenziaria non ha mai ritenuto di poter coinvolgere tutti i detenuti in un processo rieducativo nel quale è fin troppo evidente l'essenzialità della condizione rappresentata dalla disponibilità personale e dalla volontà di partecipazione del detenuto stesso all'azione risocializzante. Ciò che appare doveroso è che lo Stato offra a tutti i detenuti adeguate opportunità sul piano rieducativo. Dipende poi dai singoli soggetti interessati sfruttare compiutamente le opportunità offerte, inoltrandosi sulla via dell'impegno e della collaborazione o arrestarsi ai livelli minimi di utenza del sistema in una posizione che è sostanzialmente di indifferenza o di rifiuto. (36)
In base all'art. 27 e all'art. 16 dell'ordinamento l'educatore partecipa alla commissione per le attività culturali, ricreative e sportive e alla commissione per il regolamento interno. Nella prima delle due commissioni, l'educatore è chiamato a proporre iniziative ed a coordinare le varie attività pratiche per la relativa attuazione. Per quanto riguarda invece la commissione per il regolamento interno, che è la stessa incaricata della selezione dei libri e dei periodici per la biblioteca, il contributo dell'educatore può risultare particolarmente utile per le dirette esperienze di vita realizzate all'interno dell'istituto.
L'ulteriore funzione della partecipazione al consiglio di disciplina può essere contrastante con il profilo che la normativa ha delineato per l'educatore. Infatti il consiglio di disciplina è un organo che indubbiamente esercita nella vita dell'istituto una funzione di potere, per questo motivo alcuni autori hanno suggerito di escludere da esso la presenza dell'educatore. (37) Tuttavia l'inclusione dell'educatore in tale organo è importante dato che gli altri membri del consiglio non sono in grado di garantire una conoscenza diretta del comportamento del detenuto, e dei suoi problemi personali e di relazione con i compagni. Spetta al consiglio di disciplina la eventuale iniziativa per la concessione dei benefici indicati negli artt. 47, 50, 52, 53, 54 e 56 ord. pen., per la proposta di liberazione condizionale e di revoca anticipata della misura di sicurezza, provvedimenti questi, di rilevante portata nel quadro del trattamento rieducativo.
L'educatore inoltre cura il coordinamento dei collaboratori esterni in base agli art. 17 e 78 ord. pen.; può intervenire nel trattamento dei condannati ammessi al regime di semilibertà; e soprattutto può essere interpellato dal magistrato di sorveglianza per integrare i dati della documentazione tecnica fornita dall'istituto sulla base delle risultanze del lavoro d'equipe.
L'ingresso in ruolo degli educatori, vincitori del primo concorso, è avvenuto solo nel gennaio 1979 a quattro anni di distanza dal varo della riforma. Questa prima immissione di educatori interessò solo 200 persone circa su un organico originario di 410 unità, poi ampliato a 610 unità dal d.l. 14.4.1978 n. 111. L'indicazione seguita dall'amministrazione penitenziaria fu quella di distribuire il personale educativo in proporzione alla consistenza della popolazione di ciascun istituto. Avvenne così una notevole dispersione ossia poche unità di personale furono assegnate ad un gran numero di istituti, e i gruppi più numerosi vennero costituiti non nelle case di reclusione ma nelle case circondariali, dove le difficoltà strutturali e la fluttuazione della popolazione penitenziaria erano più pronunciate. Dunque fin dall'entrata in vigore della legge non vi fu una sufficiente attuazione né dell'art. 14 né tanto meno dell'art. 64:
i singoli istituti devono essere organizzati con caratteristiche differenziate in relazione alla posizione giuridica dei detenuti e degli internatati e alle necessità di trattamento individuale di gruppo e degli stessi.
All'inizio della loro esperienza gli educatori hanno dovuto scontrarsi anche con le strutture dell'amministrazione penitenziaria. Spesso si trattava di insediamenti in vecchi castelli o ex conventi, di costruzioni architettonicamente superate e concepite sul modello di grosse concentrazioni di detenuti in spazi ristretti. All'interno di tali strutture la disponibilità di locali e spazi idonei per svolgere attività culturali, ricreative, sportive o anche attività di lavoro o scolastiche era molto ridotta e le possibilità dell'educatore risultavano limitate.
A queste difficoltà di carattere interno si dovevano aggiungere quelle costituite dal tipo di atteggiamento incontrato dagli educatori negli altri operatori penitenziari. L'entusiasmo dissacratore che sostiene sempre l'azione dei neofiti era destinato ad essere percepito come indisponente dagli operatori già presenti nell'istituto. (38) In particolare il personale di custodia, già lontano nella motivazione dalla posizione professionale dell'educatore, aveva un maggior numero di ragioni per sentirsi attaccato. Alcune incertezze nell'organizzazione del servizio degli educatori, la difficoltà con cui essi venivano ammessi a frequentare le sezioni in cui vivevano i detenuti, il dirottamento degli educatori su attività di tipo cartolare come preparazione di rapporti, pratiche, compilazione di registrazione ecc.., certamente importanti ma non tali da essere considerate esclusive hanno rappresentato in taluni casi una delle conseguenze della cattiva impostazione del rapporto iniziale. L'inserimento operativo degli operatori infine ha conciso con il verificarsi di alcuni avvenimenti storici importanti: innanzitutto l'ingresso in carcere di gruppi numerosi di soggetti implicati in attività terroristiche, che risultavano di fatto poco assimilabili alle altre categorie di detenuti; e inoltre l'appesantimento quantitativo della popolazione penitenziaria giunta, all'epoca dell'amnistia-indulto del 1981, a livelli di sovraffollamento intollerabili.
Sotto questo profilo si può dunque affermare che l'inserimento degli educatori nel sistema penitenziario è avvenuto in un periodo decisamente sfavorevole in cui le maggiori difficoltà oggettive sono state accompagnate a livello di opinione pubblica da una sorta di "riflusso" ideologico che tendeva a privilegiare nuovamente i temi di tipo meramente custodiale rispetto a quelli di tipo socio-pedagogico.
2.6 L'assistente sociale
L'introduzione del servizio sociale nel sistema penitenziario, formalmente avvenuta con la legge n. 354, era stata preceduta da varie realizzazioni sperimentali nel campo degli adulti e da una consolidata realizzazione in ambito minorile. Lo sviluppo delle scienze sociali e criminologiche nonché la prassi penitenziaria, avevano da tempo evidenziato la insufficienza di programmi la cui intenzione rieducativa non era sostenuta da una visione globale della situazione personale e relazionale del detenuto. Nei confronti del detenuto l'istituto agiva ignorando le realtà affettive, culturali e sociali alle quali la sua vicenda umana e la sua evoluzione erano legate.
Con la legge di riforma del '75, l'istituzione del servizio sociale venne ritenuta necessaria per due motivi strettamente connessi: accertare le "eventuali carenze fisiopsichiche, affettive, educative e sociali, che erano di pregiudizio all'instaurazione nel detenuto di una normale vita di relazione" (39); fare in modo che il programma di interventi del trattamento rieducativo comprendesse il mantenimento dei rapporti affettivi e sociali del detenuto con l'esterno, nonché i collegamenti che occorrevano per preparare concretamente la sua dismissione. Si può affermare che il servizio sociale è stato considerato dal legislatore come un'altra di quelle componenti operative destinate a portare un contributo di risorse professionali e culturali eterogenee rispetto all'esperienza dell'istituzione carceraria classica. (40)
Nelle prime esperienze presso il Centro sperimentale di Rebibbia e presso alcuni istituti di pena, gli assistenti sociali che operavano nel settore degli adulti in certi casi erano stati tratti dal settore minorile, in altri, dai consigli di patronato e operavano di fatto su un piano di quasi volontariato. Al momento dell'entrata in vigore della legge gli assistenti sociali non avevano altro riferimento che l'Ufficio VII della Direzione generale per gli orientamenti tecnici di carattere generale. Con la nuova normativa la situazione cambia completamente anche sotto il profilo dell'assetto strutturale amministrativo. In base all'art. 72 ord. pen. i Centri di servizio sociale per adulti vengono costituiti come delle unità amministrative autonome rispetto agli istituti penitenziari e alle strutture giudiziarie, sono dirette dallo stesso personale di servizio sociale, poste alle immediate dipendenze dell'amministrazione penitenziaria e con una competenza territoriale che coincide con quella degli uffici di sorveglianza.
Con questo assetto, si voleva evitare da un lato che il servizio sociale perdesse le sue caratteristiche originali finendo assorbito dal mondo istituzionale, dall'altro che il collegamento esistente fra servizio sociale e magistratura di sorveglianza si trasformasse in una dipendenza del primo dalla seconda, come sarebbe avvenuto collocando il servizio sociale alle dipendenze delle sezioni o degli uffici di sorveglianza. (41) Inoltre si voleva sottolineare l'esigenza che i centri venissero ad organizzarsi essi stessi come servizi alternativi al carcere, radicati sul territorio, e perciò posti in grado di realizzare una stretta integrazione con gli enti e i servizi locali, capaci di sviluppare una metodologia di intervento secondo i criteri e gli standards propri dei modelli operativi non detentivi. (42)
Per quanto riguarda il rapporto che intercorre tra un servizio sociale specializzato, come quello operante nel settore penitenziario, e i servizi sociali di base propri degli enti locali, secondo alcuni non dovrebbe esistere alcun rapporto in quanto non dovrebbe esistere un servizio sociale a competenza settoriale. Le esigenze assistenziali-curative dei cittadini dovrebbero infatti essere corrisposte unitariamente dai servizi territoriali, comprese le esigenze dei soggetti detenuti presenti negli istituti della zona. Secondo altri, tra cui Renato Breda, questa impostazione trascura il fatto che gli interventi del servizio sociale penitenziario previsto dalla normativa, non si limitano a considerare i problemi di tipo meramente assistenziale, ma si sostanziano di contenuti che sono finalizzati all'esecuzione penale, e ciò appare particolarmente evidente nelle attività di indagine preliminare alle decisioni sul trattamento e nella applicazione delle misure alternative. (43)
Per comprendere il ruolo dell'assistente sociale nell'azione rieducativa penitenziaria può essere utile richiamare alcuni concetti sul profilo professionale di questa categoria di operatori. Se si considerano i modi fondamentali di intervento a cui si può fare ricorso per aiutare un persona a risolvere o superare i problemi che l'hanno condotta a un comportamento antisociale, essi possono essere così definiti:
- un modo educativo, intendendo con questa espressione tutte quelle forme di aiuto che consentono alla persona di trovare una risposta alle esigenze ancora irrisolte di rapporto affettivo, di introiezione di modelli, di acquisizione culturale, di interessi, di formazione sociale ecc.. in modo da permettere ad ognuno di porsi in maniera costruttiva nei confronti della propria vita e della comunità di appartenenza.
- un modo riabilitativo, che comprende gli interventi volti a risolvere o a far superare i conflitti personali e di relazione sociale che ostacolano il soggetto nel rapporto con le varie sedi formative in cui si articola la vita di ognuno: la famiglia, la scuola, il mondo del lavoro, la cultura del gruppo di appartenenza, la comunità più vasta ecc.. Si può dire che questi interventi non si caratterizzano in senso strutturale, ma piuttosto in senso infrastrutturale, non puntano alla qualificazione del soggetto sul piano dei valori, bensì ma alla sua riabilitazione al dialogo.
Non bisogna comunque tracciare una demarcazione troppo rigida tra le due categorie di interventi, e si può sostenere che ogni intervento risocializzante in ambito penitenziario dovrebbe portare con sé significati educativi e significati riabilitativi. In generale ciò che viene richiesto ad un assistente sociale, così come ad un educatore, è un atteggiamento calmo, una disponibilità all'ascolto, una manifestazione di fiducia nelle potenzialità personali del soggetto dell'intervento non condizionata dall'intervento che il soggetto stesso mantiene.
Facendo un parallelo tra le figure dell'assistente sociale e dello psicologo ciò che le distingue è che, mentre l'intervento dello psicologo è volto al trattamento di quelle difficoltà interiori che riguardano il modo di essere del soggetto, e che vengono elaborate a partire dalle percezioni soggettive del Sé, quello dell'assistente sociale si rivolge al "soggetto in situazione" e cioè riguarda il funzionamento sociale, le difficoltà che nascono da problemi di status e di ruolo che il soggetto incontra nell'ambiente in cui vive. (44)
Per quanto riguarda le competenze operative degli assistenti sociali il quarto e quinto comma dell'art. 72 forniscono indicazioni adeguatamente dettagliate solo per alcune attività, mentre per il resto sono generiche in quanto "(gli assistenti sociali) svolgono ogni altra attività prevista dalla presente legge che comporti interventi di servizio sociale". In realtà le competenze si ricavano da un insieme di riferimenti sparsi nel testo di legge dall'art. 81, agli artt. 47 e 55.
L'inchiesta sociale può essere definita come una raccolta e un'organizzazione di dati che riguardano la vita del detenuto sia nelle relazioni con la famiglia che con l'ambiente sociale di appartenenza. Tale inchiesta offre la possibilità agli operatori che si occupano del trattamento, o alla magistratura di sorveglianza che deve assumere una decisione, di orientare la propria attività sulla base di una valutazione complessiva che includa questi aspetti esterni alla vita in istituto. In passato era ritenuto necessario esporre minuziosamente nell'inchiesta una serie di dati di carattere descrittivo, sia sul detenuto che sul nucleo familiare, quasi nel tentativo di ricostruire i vari passaggi psico-socio-pedagogici che avevano caratterizzato il processo evolutivo della persona. Il motivo di tale procedura va ricercato nel concetto particolare di 'diagnosi' che accompagnava in quel tempo l'attività di osservazione in campo criminologico. Con l'entrata in vigore della legge di riforma, si è fatto strada l'orientamento secondo cui l'inchiesta sociale, senza trascurare di dare un quadro significativo della storia del caso, deve tuttavia considerare soprattutto la vita attuale del detenuto e della sua famiglia e il modo con cui queste persone percepiscono la condizione in cui si trovano e le relative prospettive di evoluzione.
Dal punto di vista giuridico, le inchieste sociali possono essere richieste dalla magistratura di sorveglianza ai sensi dell'art. 72 ord. pen. per "l'applicazione, la modificazione, la proroga e la revoca delle misure di sicurezza" e per il "trattamento dei condannati". Nel primo caso sono comprese non solo le ipotesi concernenti le misure di sicurezza detentive, ma anche quelle non detentive, mentre nel secondo caso si tratta di inchieste che servono nella fase istruttoria dei provvedimenti per i quali il magistrato di sorveglianza è chiamato a decidere con ordinanza. Da tali casi si devono intendere esclusi quelli per i quali l'istituto al momento dell'esecuzione della condanna definitiva, procede all'osservazione per la formulazione del programma di trattamento, il quale comprende anche l'eventuale concessione di una misura alternativa. In tali occasioni infatti l'inchiesta sociale non viene fornita alla magistratura di sorveglianza, ma alla direzione dell'istituto che ha la responsabilità di svolgere il procedimento di osservazione, e alla quale il Centro di servizio sociale presta la propria collaborazione nell'ambito di quella "opera di consulenza per favorire il buon esito del trattamento penitenziario", di cui parla l'art. 72. La distinzione è importante, in questo caso infatti più che di una vera e propria inchiesta sociale, si tratta di una serie di dati e di valutazioni che l'assistente di sociale riporta nell'équipe incaricata di compiere l'osservazione, come un contributo professionale alla discussione comune, destinato a contribuire alla relazione di sintesi insieme agli apporti forniti dagli altri operatori. Il rapporto inoltrato direttamente dal servizio sociale alla magistratura di sorveglianza costituisce invece un documento che ha una sua propria autonomia e che di regola entra a far parte degli atti istruttori.
Sul piano sostanziale, si deve osservare che la validità di una inchiesta sociale resta comunque legata alla disponibilità del soggetto e dei suoi familiari a collaborare con l'assistente sociale nell'esame della situazione che li riguarda. In questa prospettiva esiste il problema della conciliabilità tra le esigenze di confidenzialità, proprie di un rapporto di servizio sociale, e quelle connesse a una attività di indagine. L'utente viene chiaramente informato delle conseguenze che avrà la sua collaborazione all'indagine e così fin dall'inizio potrà essere in grado di distinguere gli elementi della comunicazione che riguardano fatti oggettivi (come l'esistenza di un posto di lavoro per ottenere la misura alternativa), dagli elementi che riguardano il suo atteggiamento interiore nei confronti dell'aiuto offerto. (45)
L'assistente sociale partecipa anche all'equipe di osservazione e di trattamento degli internati, e la ricordata circolare dell'amministrazione penitenziaria n. 2598/ 5051 del 13.4.1979 prevede che gli venga assegnato il compito di contribuire soprattutto alla "comprensione dei collegamenti esistenti e di quelli realizzabili in futuro tra la condizione personale attuale del soggetto e i suoi problemi familiari e sociali".
Gli artt. 43 e 46 ord. pen. prevedono che nell'imminenza della dismissione venga realizzato un intervento capace di facilitare il reinserimento sociale del liberando anche con la collaborazione di enti pubblici e privati qualificati; però per ciò che riguarda l'assistenza post-penitenziaria il D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 ha trasferito le competenze alle Regioni e agli enti locali, lasciando ai servizi penitenziari competenza di aspetti residuali. L'assistente sociale partecipa inoltre a due commissioni all'interno dell'istituto, si tratta della commissione per il regolamento interno (art. 16), alla quale spetta anche il compito di selezionare i libri e i periodici della biblioteca, e della commissione che cura l'organizzazione delle attività culturali, ricreative e sportive (art. 27).
Una novità assoluta della riforma sono le due misure alternative dell'affidamento in prova e della semilibertà. Con l'affidamento in prova al servizio sociale si intendeva concedere la possibilità al condannato di sottrarsi alla detenzione dimostrando, attraverso un comportamento in libertà rispettoso delle prescrizioni dettate dal giudice, di meritare la fiducia accordatagli e di essere capace di reintegrarsi nella società utilizzando l'aiuto offerto. Durante il periodo di prova il soggetto era affidato al servizio sociale che era incaricato di "controllarne la condotta" e di aiutare il soggetto stesso a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale. Un problema tecnico dell'affidamento in prova era costituito dalla concorrenza delle funzioni di 'controllo' e di 'aiuto' che potevano apparire difficilmente conciliabili tra loro. Una circolare dell'amministrazione penitenziaria del 1977 n. 2475/4928 risolveva così il problema:
Per quanto riguarda i riscontri obiettivi sulla condotta dell'affidato in ordine a prescrizioni come quelle attinenti alla dimora assegnata, alla libertà di locomozione, a divieti di frequentare determinati locali, si deve escludere che il servizio sociale effettui il controllo a mezzo di ispezioni sui luoghi fatte direttamente o, su richiesta, dalla polizia.
Il controllo sulla condotta, di competenza del servizio sociale, si realizza nell'ambito del rapporto professionale stabilito con l'affidato ed è la risultante di un insieme di conoscenze e di valutazioni a cui l'assistente sociale perviene sulla base dei contatti avuti con l'affidato stesso, la sua famiglia e degli altri ambienti di vita significativi.
La convivenza delle funzioni di aiuto e controllo ha però prodotto dei risultati, opposti a quelli che vedremo per gli agenti di custodia, altra figura che vive tale ambivalenza. Nell'affidamento in prova la possibilità per gli assistenti di instaurare con il condannato un rapporto genuino e costruttivo, è misurata dalla facoltà di dissociarsi ai suoi occhi dall'istituzione carceraria, di presentarsi a lui in funzione esclusiva di sostegno, e di essere "dalla sua parte". Ma poiché i Centri di servizio sociale sono investiti per legge anche di un compito di sorveglianza, di controllo e di relazione all'autorità giudiziaria, è inevitabile che questo compito, se rigorosamente esercitato, faccia affondare il rapporto di fiducia con l'affidato. Così per evitare la perdita di quella che l'assistente interpreta come l'essenza del suo ruolo, esce vanificato il compito inteso come subalterno, e cioè la funzione di controllo. (46)
Per quanto riguarda la semilibertà, il servizio sociale è chiamato a interventi "di vigilanza e di assistenza" sul soggetto nell'ambiente libero, mentre la responsabilità del trattamento rieducativo resta affidata agli operatori dell'istituto. Poiché la vita del semilibero si svolge di fatto quasi completamente all'esterno, l'assistente sociale è impegnato in una azione che si avvicina nella sostanza a quella svolta nei confronti dell'affidato. Le variazioni più significative sono rappresentate dalla condizione detentiva che ancora pesa sul semilibero e dal rapporto di collaborazione con gli altri operatori penitenziari.
2.7 Lo psicologo e il criminologo
Per lo svolgimento dell'attività di osservazione e trattamento l'art. 80 ord. pen. indica la possibilità di utilizzare "professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica". La legge richiama diverse specializzazioni professionali, differenti tra di loro per il tipo di studi e di esperienze e per le implicite diversità di prospettive sotto le quali si guarda al fenomeno criminale. In precedenza da parte di alcuni studiosi si era identificato solamente nel criminologo lo specialista ideale per le attività di osservazione e trattamento, proprio sulla base del tipo e della completezza della preparazione posseduta. (47)
Al momento dell'entrata in vigore della legge qualche perplessità suscita la dizione 'criminologia clinica' che, per motivi storici, riporta alla vecchia figura del medico-criminologo studioso di anomalie organiche, protagonista del codice Rocco. (48) Comunque la presenza dello stesso criminologo, e anche dello psicologo, rappresentano senza dubbio una novità, mentre il medico psichiatra ha fatto parte fin dall'800 del personale sanitario degli istitutiper adulti.
Gli esperti svolgono un'opera che si rivolge al trattamento 'individualizzato' cioè basato sulla valutazione delle problematiche caratteristiche del soggetto. In questa prospettiva di individualizzazione, è previsto che venga compiuta nei confronti dei detenuti condannati "l'osservazione scientifica della personalità, per rilevare le carenze fisio-psichiche e le altre cause del disadattamento sociale". (49) Tale osservazione è compiuta all'inizio e nel corso dell'esecuzione della pena. Per ogni soggetto "in base ai risultati dell'osservazione, sono formulante indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare ed è compilato il relativo programma, che è integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell'esecuzione". (50) Il compimento dell'osservazione è competenza, sotto il profilo operativo, dell'equipe di cui fanno parte il direttore dell'istituto con compito di presidenza, l'educatore con compito di segreteria, l'assistente sociale, e l'esperto ex art. 80, più talvolta altre figure non espressamente indicate dalla legge, come il medico e un rappresentante del personale di custodia.
Nelle prime osservazioni fatte dalla dottrina giuridica il contributo dell'esperto era richiesto solo quando occorreva, in base alla lettera della legge "l'amministrazione penitenziaria può avvalersi di esperti". (51)
Molta parte della dottrina scientifica riteneva invece che questa interpretazione fosse riduttiva e svuotasse completamente di senso il contenuto innovativo dell'art. 80, lasciando l'intervento dell'esperto ad un atto di mera volontà del direttore. (52) La presenza dell'esperto doveva essere necessaria, ma in sede di dibattito parlamentare la richiesta di emendamento, e cioè la proposta di modificare il "può" del 4º comma dell'art. 80 dell'ord. pen. in "deve", venne respinta sia dal relatore del disegno di legge sia dallo stesso governo.
L'esperto entra a far parte di coloro che operano nel campo penitenziario con il compito di fornire contributi professionali sul tema generale della rieducazione, e non su aspetti frammentari di questa. Gli si chiede di rispondere a quesiti allargati (come trattare il condannato) che hanno lo stesso contenuto del problema finale, quello del reinserimento del condannato. Nell'osservazione, l'esperto tende in un periodo di almeno tre mesi, ad acquisire tutti quei dati di ordine biologico, psicologico e sociale, utili a comprendere la personalità del soggetto e le sue esigenze. Si ritiene che l'atto commesso dal detenuto possa essere compreso solo in un quadro relazionale d'insieme e l'osservazione della personalità debba esser tesa non solo all'esame di alcune caratteristiche individuali, ma soprattutto alla ricerca e all'individuazione di quei meccanismi messi in atto dal soggetto attraverso i quali egli interagisce con gli altri e con l'ambiente. In altri termini il compito dell'esperto è quello di cogliere la problematica dell'individuo e le strategie comportamentali che questi ha messo in atto nel passato e che normalmente usa nel presente, per sviluppare "un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale". (53)
In quanto facenti parte dell'equipe deputata all'osservazione della personalità, gli esperti possono essere sentiti al fine di una applicazione delle misure alternative alla detenzione, cioè affidamento in prova al servizio sociale e semilibertà nonché liberazione anticipata. I provvedimenti in materia sono presi dalla sezione di Sorveglianza ma per quanto sia previsto che la sezione debba adottare il provvedimento "sulla base dei risultati dell'osservazione della personalità", (54) fondando quindi la sua decisione direttamente sui dati forniti dalla equipe, vi sono dei casi di contraddizione tra i risultati del lavoro dell'equipe e le decisioni della sezione. Queste contraddizioni si verificano anche perché la figura particolare del criminologo clinico raramente ritieneche un soggetto, condannato ad una pena breve, possa beneficiare maggiormente della prigione che della libertà, e quindi nella maggior parte dei casi compila relazioni di osservazione che sono del tutto favorevoli al detenuto, ripetendo anche, alcune frasi di rito, utilizzabili in tutte le occasioni, ed eliminando ogni discrezionalità. Di conseguenza il magistrato di sorveglianza è portato a non attribuire valore a queste proposte rendendo inutile l'utilizzazione del criminologo clinico nelle carceri. (55)
Gli esperti devono anche affrontare una serie di problemi pratici di importanza non secondaria. In primo luogo la massa di soggetti da trattare. La previsione del rapporto di 1:250 tra numero degli esperti e numero dei detenuti non permette certamente una corretta applicazione delle previsioni di legge, né serve come giustificazione ricordare che gran parte dei detenuti è costituita da persone in attesa di giudizio, perché ciò non è sinonimo di minor carico di lavoro per l'esperto.
Mancano spazi agibili con il problema concreto di dove collocare fisicamente gli esperti, con soluzioni arrangiate che non soddisfano le necessità di tranquillità e riservatezza di una attività così delicata.
Il quadro delle difficoltà con cui si devono confrontare gli esperti riguarda anche la contraddizione tra detenzione nel carcere e trattamento rieducativo, infatti tutta una serie di privazioni sostanziali sono inseparabili dalla pena detentiva: la perdita di status, di indipendenza, di libertà di scelta, di responsabilità, di possesso di beni, di relazioni sociali (familiari, amicali, sessuali), e ancora, la perdita di interessi, la regressione culturale e psicologica, la crescita della frustrazione, congiurano tutte contro il successo del tentativo di rieducazione cui deve dare il suo contributo essenziale l'esperto. (56) Compito di quest'ultimo è comunque quello di introdurre nuove tecniche di trattamento al fine di migliorare l'efficienza del sistema. Naturalmente è difficile portare avanti innovazioni riuscendo contemporaneamente a tenere tutto tranquillo e sotto controllo, anzi è facile che avvenga il contrario: un colloquio tra esperto e detenuto può essere l'occasione per quest'ultimo di manifestare in modo esplicito il suo risentimento verso l'istituzione; il mettere in dubbio, ad esempio, da parte dell'esperto, l'opportunità dell'uso della forza fisica da parte del personale di custodia, per sedare comportamenti che avrebbero potuto benissimo essere controllati con l'uso delle sanzioni disciplinari o penali, può apparire ad una parte del personale un inaccettabile tentativo di "castrazione" dei necessari strumenti di controllo all'interno del carcere, con conseguente ostilità verso l'esperto e la rieducazione che questo impersona. Secondo Solivetti (57) l'esperto può essere facilmente percepito dal personale di custodia come un "alleato" del detenuto e contemporaneamente, quasi ogni rapporto di collaborazione tra esperto e personale di custodia viene percepito dalla maggioranza dei detenuti "sottoculturali" come la prova della sua sempre sospettata attività di spia e "servo del sistema", mentre i più benevoli dei detenuti si limitano invece, nel dubbio, a tentare di utilizzarlo come un utile idiota adatto a procurare favori personali e a rompere comunque la pressione della disciplina del carcere.
L'insicurezza nella struttura detentiva, dovuta alle innovazioni della legge, porta inevitabilmente ad una burocratizzazione del ruolo perturbatore degli esperti. Tale mezzo di controllo si esplica attraverso una ritualizzazione delle loro attività, ottenuta ponendo una enfasi straordinaria sulle norme procedurali e trascurando contemporaneamente il problema del raggiungimento delle finalità. Di conseguenza tutta l'attività dell'esperto nella prospettiva della rieducazione tende ad essere paralizzata dal sistema delle domandine, delle autorizzazioni formali, delle verbalizzazioni degli interventi, della registrazione cronologica dei medesimi. In questo oblio del senso del recupero sociale, i due aspetti osservazione-trattamento risultano, nella realtà dei fatti, scissi, lasciando lo spazio per una osservazione burocratizzata che si esaurisce in sé, dando luogo ad un trattamento di carta, rappresentato da indicazioni e ipotesi di trattamento a cui segue assai poco, se non addirittura il silenzio. (58).
2.8 Gli agenti di custodia
Gli agenti di custodia si differenziano dagli altri operatori penitenziari essenzialmente perché sono rimasti estranei all'evoluzione della struttura penitenziaria avvenuta con la riforma del '75. Secondo Fassone mentre si invocava una migliore attuazione della riforma sul piano della rieducazione, si taceva che un ruolo frenante su questo punto era esercitato dal personale di custodia, poco benevolo verso quelle figure (educatore e assistente sociale) cui la riforma aveva attribuito una modernizzazione del ruolo che gli agenti auspicavano per se stessi. (59)
Sul piano operativo e funzionale, il regolamento vigente era ancora quello fascista del 1937, caratterizzato da una concezione della pena totalmente indifferente alle eventuali evoluzioni della personalità del detenuto. Agli agenti di custodia si richiedeva solo la quinta elementare, lo svolgimento di compiti di punizione e segregazione nei confronti dei detenuti e un atteggiamento di soggezione totale ai superiori. Da allora molte norme erano state ammodernate, (60) ma l'agente non poteva non portare con sé "l'incultura atavica della sua estrazione, esaltata dalla rozzezza di una preparazione esclusivamente militare, spoglia anche delle più rudimentali nozioni di psicologia e criminologia." (61)
Il corso di addestramento militare e di formazione professionale previsto per gli allievi agenti di custodia aveva la durata di 6 mesi (62) e aveva ad oggetto le seguenti materie: nozioni di cultura generale; regolamento del Corpo; regolamento degli istituti di prevenzione e pena; elementi di diritto e procedura penale; nozioni di igiene e pronto soccorso; educazione fisica e istruzione alle armi.
Il motivo per cui il legislatore del '75 non si preoccupò di dare una nuova disciplina al ruolo degli agenti penitenziari fu probabilmente la sua indifferenza ad un rapporto tra agente e detenuto che fosse diverso dalla contrapposizione custodialistica. In realtà così come nell'essenza della pena, e nei propositi della riforma penitenziaria, anche negli agenti di custodia convivevano due anime: quella educativa e quella custodiale. La compresenza di queste "funzioni bilanciate" era sottolineata dal fatto che la legge inserì un sottufficiale degli agenti di custodia nell'equipe per l'osservazione e il trattamento dei detenuti (63), e l'art. 2 reg. la codificò implicitamente stabilendo che "La sicurezza, l'ordine e la disciplina negli istituti penitenziari costituiscono la condizione per la realizzazione delle finalità del trattamento dei detenuti e degli internati".
Uno dei caposaldi del processo di maturazione avvenuto nel Corpo degli agenti di custodia è l'aver avvertito che nella loro figura convivevano questi due aspetti, e corollario di questa presa di coscienza è l'aver cercato di esaltare la funzione repressa, quella educativa, nella prospettiva di una convivenza di entrambe nello stesso ruolo. Tra le varie piattaforme rivendicative elaborate negli anni immediatamente successivi alla riforma, può essere assunta come punto di riferimento quella proposta dal Comitato di coordinamento degli agenti di custodia del 1981, il cui programma conteneva anche: l'istituzione del Corpo nazionale civile di polizia penitenziaria; l'unificazione di tutto il personale degli istituti di prevenzione e pena nel ruolo di operatori sociali; il riconoscimento delle libertà sindacali; la riforma e la riorganizzazione delle scuole per la formazione professionale del personale coerente al ruolo sociale dell'istituto penitenziario; la ridefinizione delle funzioni degli operatori penitenziari con particolare riguardo al servizio di sicurezza e custodia ed alle modalità di collaborazione nei trattamenti rieducativi, in linea con i criteri direttivi fissati dal 3º comma dell'art. 27 Cost. e dalla legge 26.7.1975 n. 354.
Tuttavia la letteratura sociologica sull'esperienza penitenziaria di quegli anni, aveva ampiamente rilevato che il rapporto tra i detenuti e l'istituzione aveva un carattere inevitabilmente conflittuale e antagonista. Se il carcere è la fonte di una sofferenza o di una restrizione, colui che la infligge o anche solo la gestisce, non può essere sentito se non in termini di opposizione, e tale opposizione non può essere sanata cumulando funzioni diverse nello stesso organo che la crea. L'agente di custodia è strutturalmente funzionale alla custodia stessa, è colui che vigila, che sospetta e che all'occorrenza usa la forza e fa rapporto. (64) Così, come nel caso degli assistenti sociali, una funzione prevale sull'altra e in questo caso è quella di controllo.
Inoltre l'innovativa previsione delle figure dell'educatore e dell'assistente sociale nel quadro della riforma, abbinata al silenzio sugli agenti di custodia, aveva rilanciato implicitamente questi ultimi verso il polo della funzione custodialistica, mortificandone l'ambizione a farsi co-protagonisti del trattamento rieducativo. (65)
Molte voci dunque condividevano la necessità di distinguere i due ruoli, considerando la sicurezza un elemento importante non solo come vigilanza esterna (intesa come impedimento alle evasioni, e quindi come garanzia dell'esecuzione della pena), ma anche sotto l'accezione della sicurezza interna. La sicurezza interna infatti traduce la salvaguardia costituzionale dei diritti della persona in qualsiasi "formazione sociale" l'individuo si trovi a vivere, e quindi anche nel carcere, e nei confronti di qualsiasi potenziale aggressore, e perciò anche verso i condetenuti. (66) Tale sicurezza interna inoltre funge da assicurazione dell'opera stessa degli educatori, poiché è noto che la popolazione penitenziaria tende non solo a rifiutare le proposte dell'istituzione, ma anche ad esercitare forti pressioni su coloro che siano disposti ad accettare tali occasioni. (67) Sembra pertanto inevitabile configurare un rapporto "forte" accanto al momento rieducativo, e questo non tanto come previsione di un operatore armato accanto a quello disarmato, quanto come istituzione di un presidio di riserva del tutto estraneo al momento rieducativo, ma garante del suo funzionamento oltre che della normale convivenza. Sono proprio le dinamiche del rapporto educativo che esigono di depurare il rapporto pedagogico da ogni valenza autoritaria, sia pure occasionale.
Note
1. G. Neppi Modona, Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria, in La questione criminale, 1976, n. 2-3, pp. 319.
2. Relazione del direttore generale al Ministro di grazia e giustizia sull'attività della direzione generale per gli istituti di prevenzione e pena nel periodo novembre 1956-agosto 1960, in "Rassegna Studi penitenziari", 1960, n.4, pp.13-14.
3. Atti parlamentari, Senato, VI legislatura, commissione giustizia, seduta del 7 novembre 1973.
4. G. Neppi Modona, op. cit., p. 340.
5. Ivi, pp. 341-371.
6. G. Neppi Modona, op. cit., p. 366.
7. F. Saverio Fortuna (a cura di), Gli operatori penitenziari e legge di riforma, Franco Angeli, Milano 1985.
8. E. Fassone, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, Il Mulino, Bologna, 1980, p.158.
9. R. Breda, L'educatore per adulti nel sistema penitenziario, in F. S. Fortuna (a cura di), Operatori penitenziari e legge di riforma, Franco Angeli, Milano, 1985, pp.127.
10. Ivi, p. 128 e Gennaro, Bonomo, Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, 1980, p. 33.
11. M. Castaldo, La rieducazione tra realtà penitenziaria e misure alternative, Jovene, Napoli, 2001, p. 6.
12. N. Amato, Diritto delitto e carcere, Giuffrè, Milano 1987, pp. 175-176.
13. E. Fassone, op. cit., p. 105.
14. M. Belviso - C. Ferrigno - F. Scapati, Il ruolo dell'esperto in criminologia clinica ex art. 80 comma 4 Legge 26-7-1975, in "Rassegna di criminologia clinica", vol. XII, 1981, p. 205.
15. F. Saverio Fortuna, op. cit., p. 12.
16. Ivi, p. 14.
17. D. Cortellessa, G. Vaccaro, Il direttore penitenziario, in F. Saverio Fortuna (a cura di), Operatori penitenziari e legge di riforma, Franco Angeli, Milano, 1985, P. 87.
18. Del Curatolo, La contabilità degli istituti penitenziari, Tipografia delle Mantellate, Roma, 1962.
19. D. Cortellessa, G. Vaccaro, op. cit., p. 90.
20. G. di Gennaro, M. Bonomo, R. Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffré, Milano, 1976, p.34.
21. D. Cortellessa, G. Vaccaro, op. cit., p. 96.
22. Art. 21, ord. penit.; artt. 46 e 92, reg. esec.
23. D. Grandi, Bonifica umana. Decennale delle leggi penali e della riforma penitenziaria, Ministero di grazia e giustizia, Roma, 1941.
24. R. Ciccotti, Uomini e strutture nella realtà carceraria, relazione svolta al convegno di studi organizzato da Critica giudiziaria in Roma 25-27 marzo 1977, pubblicata in fascicolo, p. 16.
25. M. P. Frangeamore, L. Culla, A. M. Niccolai, La donna nell'amministrazione penitenziaria, in "Rassegna studi penitenziari", 1977, vol.I, pp.37-47.
26. D. Cortellessa, G. Vaccaro, op. cit., p. 113.
27. R. Breda, L'educatore per adulti nel sistema penitenziario, in F. Saverio Fortuna, op. cit., pp.122-131.
28. R. Breda, op. cit., p. 128.
29. Circolare dell'Amministrazione penitenziaria 2625/5078 dell'1.1.1979.
30. R. Breda, op. cit., p. 135.
31. G. di Gennaro, M. Bonomo, R. Breda, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, 1980, p.94.
32. Circolare dell'amministrazione penitenziaria 2598/5051 del 13.4.1979.
33. Circolare dell'amministrazione penitenziaria 2598/5051 del 13.4.1979.
34. G. Concato, Educatori in carcere, Unicopli, Milano, 2002, p. 22.
35. Gennaro, Bonomo, Breda, op. cit., p.385.
36. R. Breda, L'educatore per adulti nel sistema penitenziario, in op. cit., p. 150.
37. Di Gennaro, Bonomo, Breda, Ordinamento penitenziario, p. 363.
38. R. Breda, op. cit., p. 161.
39. Art. 27 ordin. penit.
40. R. Breda, L'assistente sociale per adulti nel sistema penitenziario, in F. Saverio Fortuna (a cura di), op. cit., p. 197.
41. R. Breda, op. cit., p. 199.
42. G. di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffré, 1997, p.338.
43. R. Breda, op. cit., pp.200-201.
44. R. Breda, op. cit., p. 205.
45. R. Breda, op. cit., pp. 206-209.
46. E. Fassone, Gli agenti di custodia, in F. S. Fortuna, op. cit., p. 42.
47. G. Vassalli, "Criminologia e giustizia penale", in Quaderni di criminologia clinica, 1959, n. 1, pp.79-80.
48. L. M. Solvetti, Società e risocializzazione: il ruolo degli esperti nelle attività di trattamento rieducativi, in "Rassegna penitenziaria e criminologia", n.1, 1983, p. 270.
49. Art. 13 ord. penit.
50. Ibidem.
51. G. Di Gennaro, Il trattamento penitenziario, in V. Grevi (a cura di), Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna, Zanichelli, 1981, p. 117.
52. L. M. Solvetti, op. cit., p. 272.
53. Art. 1 reg. esec.
54. Art. 47 ord. penit.
55. T. Bandini, U. Gatti, Limiti e contraddizioni dell'opera del criminologo clinico nell'attuale sistema penitenziario italiano, Rassegna penitenziaria e criminologica, 1980, fasc. 1-2, pp. 165-173.
56. L. M. Solivetti, op. cit., p. 275.
57. Ivi, p. 276.
58. T. Bandini, U. Gatti, La crisi dell'ideologia del trattamento, in Rassegna di criminologia, 1979, n. 1, p. 6.
59. E. Fassone, Gli agenti di custodia, in F. S. Fortuna (a cura di), op. cit., pp. 24-25.
60. La prima fondamentale modificazione si è avuta con il d.lgs.lgt 21.8 45 n. 508, che sancì la dipendenza del Corpo dal Ministero di grazia e giustizia, l'organizzazione militare e l'appartenenza alle forze armate dello Stato ed a quelle in servizio di pubblica sicurezza. Seguirono il d.lgs.c.p.s. 5.5.47 n. 381, che innovò soprattutto in tema di reclutamento. Altre leggi si sono occupate della revisione degli organici (leggi 4.8.1971 n. 607; 2.12.1975 n. 603). Interventi settoriali hanno variamente migliorato il trattamento economico o normativo (leggi 2.12.1975 n. 614; 26.4.1976 n.353; d.l. 19.5.1976 n. 266; legge 8.8.1977 n. 548).
61. E. Fassone, op. cit., p. 32.
62. Durata riconducibile a 3 mesi per effetto della modifica introdotta dall'art. 129 della legge18.2 1963 n.173.
63. G. Nespoli, voce Agenti di custodia, in Noviss. dig. It, App. I, 1980, p. 138.
64. M. Buonamano, Da secondini a operatori penitenziari, in Nuova polizia e riforma dello Stato, 1979.
65. A. Margara, Carceri: riflessioni sulle possibilità della riforma fra le esigenze di sicurezza e quelle di progresso, in Questione giustizia, 1982, n. 1, p. 39.
66. E. Fassone, op. cit., p. 45.
67. A. Margara, La magistratura di sorveglianza tra un carcere da rifiutare e una riforma da attuare, in Il carcere dopo le riforme, Milano, 1979, p. 62.