Capitolo II
La disciplina delle espulsioni nell'ordinamento italiano
2.1. La condizione giuridica dello straniero
L'art. 10 della Costituzione al secondo comma dispone che "la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali". Il costituente ha voluto sottrarre alla discrezionalità dell'azione amministrativa la disciplina della condizione giuridica dello straniero, stabilendo per questa materia una riserva di legge (1) 'rinforzata'. La norma costituzionale, oltre a prevedere che la materia sia regolata da una legge emanata dal Parlamento e non da un atto normativo secondario, 'rinforza' la riserva disponendo che il contenuto delle norme sul trattamento dello straniero sia conforme alle regole e ai principi dettati in questo ambito dal diritto internazionale.
Fino al 1998 questa riserva è rimasta disattesa e il trattamento degli stranieri è stato caratterizzato, per quanto riguarda il contenuto, da lacune e disorganicità e, per quanto riguarda la forma, dall'uso di fonti non legislative. Il 6 marzo del 1998 la materia è stata disciplinata organicamente dalla legge n. 40, nota anche come 'legge Turco-Napolitano' dal nome dei suoi promotori, contenente la "Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero". Successivamente questa è stata trasfusa nel decreto legislativo del 25 luglio 1998 n. 286, intitolato "Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero". In data 31 agosto con Decreto del Presidente della Repubblica n. 394 è stato infine emanato il "Regolamento recante norme di attuazione del Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell'art. 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286".
La nuova disciplina, conformemente alla previsione contenuta nel secondo comma dell'articolo 10 della Costituzione, si uniforma alle norme di diritto internazionale e, in sintonia con gli Accordi di Schengen, ridefinisce il termine 'straniero' che non indica più la distinzione tra i propri cittadini nazionali e i cittadini di qualsiasi altro paese, ma si riferisce soltanto a "chi non è cittadino di uno Stato membro delle Comunità europee" (art. 1 Convenzione di applicazione degli Accordi di Schengen). Le disposizioni contenute in queste leggi si applicano infatti ai cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea e agli apolidi (art. 1 della legge 40/98) (2).
Lo 'straniero' della legge 40, "comunque (3) presente alla frontiera o nel territorio dello Stato", è soggetto di diritto al quale sono riconosciuti i "diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle Convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti" (art. 2). Nella nuova legge, accanto ad un ampio riconoscimento giuridico e socio economico per gli stranieri regolari, vi è un inasprimento del trattamento degli stranieri irregolari. Improntata ad una sorta di doppio binario, questa legge da una parte inquadra lo status sociale dell'immigrato, ponendo le basi per una sua reale integrazione, dall'altra regola rigidamente i profili di 'polizia' (ingresso, soggiorno, espulsione). "Resta aperto se quello a cui si tende è l'Europa fortezza, di cui l'Italia andrebbe a costituire la frontiera sud, o l'Europa delle persone" (4).
2.1.1. Le misure per contrastare le migrazioni irregolari: cenni storici
La condizione giuridica dello straniero in Italia è stata regolata fino agli anni novanta da una disciplina legislativa lacunosa, cui corrispondeva un'ampia discrezionalità amministrativa. La disciplina dell'allontanamento, in particolare, è contenuta in alcune disposizioni del Testo unico di pubblica sicurezza (TULPS), che contemplano istituti dai confini non ben delineati ed affidati alla competenza di diverse autorità statali.
L'art. 152, primo comma del Testo unico di pubblica sicurezza attribuisce ai prefetti delle province di frontiera il potere di respingere, per motivi di ordine pubblico, gli stranieri che non sono in grado di dimostrare la propria identità o che sono sprovvisti di mezzi, e quindi, potenzialmente pericolosi per l'ordine pubblico. L'art. 271 del Regolamento precisa che devono essere in ogni caso respinti gli stranieri "indigenti, dediti alla prostituzione o che svolgono mestieri dissimulanti l'ozio, il vagabondaggio o la questua". Queste norme non si occupano delle modalità di allontanamento, ma disciplinano il potere dei prefetti di operare una forma di espulsione semplificata: il respingimento degli stranieri con caratteristiche tali da essere inclusi tra le 'classi pericolose'. Per quanto riguarda l'espulsione il Testo unico di pubblica sicurezza prevede:
- un'ipotesi di espulsione amministrativa, disposta dal prefetto nei confronti dello straniero clandestino che ha violato le norme sul soggiorno;
- un'ipotesi di espulsione disposta dal Ministro dell'Interno di concerto con il Ministro degli Esteri per motivi di ordine pubblico;
- un'ipotesi di espulsione giurisdizionale nei confronti dello straniero condannato per delitti (5).
Il Testo unico di pubblica sicurezza disciplina infine la misura, nella pratica assai più utilizzata dell'espulsione, dell'avvio alla frontiera con foglio di via obbligatorio nei confronti degli stranieri "che non sappiano dare contezza di sé, di quelli privi di mezzi, o di quelli che esercitino la prostituzione o mestieri dissimulanti l'ozio, il vagabondaggio o la questua" (art. 152, secondo comma del Testo unico di pubblica sicurezza).
La progressiva trasformazione dell'Italia (a partire dagli anni '70) da paese di emigrazione in paese di immigrazione, impone un complessivo rimodellamento della normativa sulla condizione giuridica dello straniero. Nel 1990 con legge n. 39, nota anche come legge Martelli, viene formulata la prima regolamentazione organica della disciplina dell'immigrazione. Questa legge "nasce con profonde ambiguità, compressa tra le spinte verso la chiusura ermetica delle frontiere e l'ambizione a governare, nel segno dell'integrazione, un processo storico che si sapeva inarrestabile" (6). La stessa disciplina dell'espulsione risente di questa ambivalenza. Da una parte vengono ampliate le ipotesi che danno luogo ad espulsione, "quasi a credere che l'immigrazione clandestina possa essere governata con questa misura" (7), dall'altra vengono aumentate le garanzie e le tutele per gli stranieri destinatari del provvedimento di espulsione.
La legge Martelli distingue i provvedimenti di espulsione da quelli di respingimento. Questi ultimi cessano di costituire una misura applicabile a stranieri già presenti nel territorio, divenendo conseguenza soltanto dell'accertamento negativo del possesso dei requisiti necessari per l'ingresso, richiesti allo straniero dalle disposizioni normative ed amministrative. Il potere di respingimento passa dai prefetti agli uffici di frontiera, viene vincolato nei presupposti e impone l'adozione di provvedimenti motivati per iscritto. L'espulsione diviene l'unico mezzo di allontanamento dello straniero presente sul territorio e può essere disposta nei confronti:
- degli stranieri condannati con sentenza passata in giudicato per uno dei delitti previsti dall'art. 380, commi 1 e 2 del codice di procedura penale, ossia per i delitti ritenuti più gravi, per i quali è previsto l'arresto obbligatorio in caso di flagranza;
- degli stranieri ritenuti responsabili, direttamente o per interposta persona, anche se non ancora condannati, di violazioni gravi, in Italia e all'estero, di norme valutarie, doganali, di norme sulla tutela del patrimonio artistico, di disposizioni in materia di intermediazione di manodopera, di sfruttamento della prostituzione o di delitti contro la libertà sessuale (8);
- degli stranieri che hanno violato le disposizioni in materia di ingresso e soggiorno;
- degli stranieri che costituiscono una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato;
- degli stranieri appartenenti ad una delle categorie dei cosiddetti soggetti pericolosi nei confronti dei quali esistono gli estremi per l'adozione di una misura di prevenzione;
- degli stranieri che non dimostrino la sufficienza e la liceità delle fonti del loro sostentamento.
Sul terreno delle garanzie riconosciute agli stranieri destinatari di un provvedimento di espulsione, la legge Martelli prevede l'obbligo di motivazione e di indicazione dei modi di impugnazione di tutti i provvedimenti di espulsione. È inoltre prevista la sospensione ex lege del provvedimento amministrativo che intima l'allontanamento a seguito del semplice ricorso giurisdizionale dell'interessato.
La disciplina dell'esecuzione dell'espulsione è imperniata sull'istituto dell'intimazione del questore ad abbandonare il territorio dello Stato entro il termine di 15 giorni. Solo in caso di inottemperanza è previsto l'accompagnamento coatto alla frontiera. A salvaguardia delle eventuali esigenze pubbliche di controllo dello straniero colpito da una misura espulsiva, è stabilita la possibilità di disporre la sorveglianza speciale.
Durante la sua vigenza la legge Martelli viene da più parti additata come inadeguata a provvedere alla concreta esecuzione dei provvedimenti di allontanamento. Le cause della ineffettività delle espulsioni non sono individuate nell'ampiezza dei presupposti e nell'inefficienza della pubblica amministrazione, bensì nella eccessiva 'liberalità' delle misure esecutive.
La storia successiva della disciplina dell'allontanamento dello straniero si muove verso la creazione di nuove tipologie di espulsione e di respingimento e verso la 'stretta' esecuzione dei provvedimenti.
Nel 1993 viene convertito in legge n. 296 il cosiddetto decreto Conso (9). Il decreto introduce una nuova forma di espulsione 'a richiesta' dello straniero sottoposto a custodia cautelare per delitti diversi da quelli indicati nell'art. 407, secondo comma lett. a, numeri da 1 a 6 codice di procedura penale, o condannato ad una pena non superiore a tre anni (anche se costituente parte residua di maggior pena). La Corte costituzionale con sentenza n. 62 del 1994, qualificando questa figura di espulsione quale ipotesi di sospensione della detenzione, ne riconosce la legittimità, attribuendo notevole rilievo alla volontà dell'interessato, la cui richiesta rappresenta un requisito essenziale ed ineliminabile della fattispecie.
Nel novembre del 1995, a poco più di due anni dal decreto Conso, il governo Dini adotta, sull'onda dell'ennesima emergenza immigrazione, il decreto legge n. 489 che, reiterato ben cinque volte, alla fine non viene convertito. Per quanto concerne la disciplina dell'espulsione il decreto Dini presenta due significative novità. Da una parte, viene introdotta una nuova figura di espulsione quale misura di prevenzione, disposta dal pretore su richiesta del pubblico ministero. Dall'altra, viene stabilita l'applicabilità della misura cautelare dell'obbligo di dimora da parte dell'autorità giudiziaria per i casi in cui sussista pericolo di fuga o risulti necessario procedere ad accertamenti sulla identità della persona da espellere. In conformità all'art. 283, comma 4 codice di procedura penale, il provvedimento applicativo dell'obbligo di dimora può contenere la prescrizione "di non allontanarsi dall'edificio o struttura indicati nel provvedimento e scelti tra quelli individuati con uno o più decreti del Ministro dell'Interno": con questa norma, fanno la prima timida apparizione i centri di permanenza temporanea e assistenza che costituiscono oggi uno dei punti di forza della normativa vigente.
La vera 'svolta' nell'esecuzione dei provvedimenti di espulsione si ha soltanto nel '98 con la creazione, da parte della legge Turco-Napolitano, dei centri di permanenza temporanea e assistenza.
2.2. Il respingimento
Conformemente agli Accordi di Schengen che impongono maggiori controlli alle frontiere esterne e adeguate misure per contrastare l'immigrazione irregolare, il legislatore del 1998, con il T.U. n. 286, disciplina misure sia per prevenire l'ingresso irregolare, che per reprimere la presenza ed il lavoro irregolari, ridisegnando tutta la materia delle espulsioni e del respingimento.
A differenza della legge Martelli, che all'art. 7, comma secondo, prevedeva che ogni irregolarità riguardante l'ingresso o il soggiorno dello straniero comportasse l'espulsione, nel T.U. sull'immigrazione non tutte le irregolarità comportano l'espulsione o il respingimento (10).
Per quanto riguarda il respingimento, l'art 10 del T.U. prevede due diverse tipologie:
- il respingimento della polizia di frontiera, adottato nei confronti dei cittadini stranieri che si presentano agli uffici di frontiera senza avere i requisiti per l'ingresso;
- il respingimento disposto dal questore nei confronti degli stranieri fermati all'atto di entrare clandestinamente nel territorio o subito dopo l'ingresso, e di quelli che, privi dei requisiti necessari per l'ammissione, sono ammessi nel territorio italiano per motivi di soccorso.
In base alla prima ipotesi, la polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano al valico di confine (11) senza avere i requisiti richiesti dalla legge per l'ingresso nello Stato. L'art. 10, comma 1, individua tali requisiti nel non essere lo straniero persona pericolosa né soggetto a precedente provvedimento di espulsione o segnalato nel SIS ai fini della non ammissione e nell'essere in possesso di un passaporto, di un visto (quando richiesto), di idonea documentazione a conferma dello scopo e delle condizioni del viaggio e di sufficienti mezzi finanziari (12). Tra gli stranieri che si presentano ai valichi di frontiera per far ingresso nel territorio italiano devono quindi essere respinti:
- quelli che, pur in possesso di idonea documentazione, non dimostrano la disponibilità dei mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno e, fatta eccezione per il permesso di soggiorno per motivi di lavoro, anche per il ritorno nel paese di provenienza;
- quelli considerati una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato italiano o di uno dei paesi con i quali l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere e la libera circolazione delle persone;
- quelli già espulsi, (salvo che abbiano ottenuto autorizzazione al rientro o che sia trascorso il periodo di divieto di ingresso);
- quelli che, in base alla legislazione vigente, rientrano tra coloro che devono essere espulsi;
- quelli segnalati, anche in base ad Accordi o Convenzioni internazionali in vigore in Italia, ai fini del respingimento o della non ammissione per gravi motivi di ordine pubblico, di sicurezza nazionale e di tutela delle relazioni internazionali.
Nella seconda ipotesi, l'istituto del respingimento viene consentito anche oltre la linea di frontiera: il potere attribuito alla questura permette di inseguire e di allontanare, in forma coattiva, stranieri entrati nel territorio italiano sottraendosi ai controlli di frontiera. Questo ampliamento dell'ambito operativo del respingimento rappresenta una novità della legge del '98 finalizzata ad utilizzare questo strumento (e non l'espulsione) nei casi di rintraccio immediatamente successivo, in termini spaziali e temporali (13), all'ingresso clandestino dello straniero. Questo nuovo tipo di respingimento è inoltre adottato dal questore (art. 10, comma 2) quando vengono a cessare le esigenze di pubblico soccorso nei confronti degli stranieri che, entrati clandestinamente sul territorio nazionale e non in possesso dei requisiti per l'ingresso, sono stati ammessi temporaneamente nel territorio (nei centri di accoglienza (14) o nei luoghi di cura). Per espressa disposizione dell'art. 14, comma 1 del T.U., lo straniero colpito da provvedimento di respingimento, per il quale non è stato possibile procedere ad immediata esecuzione (15), può essere trattenuto presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino.
Entrambi i tipi di respingimento previsti dall'art. 10 sono soggetti, in quanto provvedimenti amministrativi, al generale obbligo di motivazione (16), e devono essere notificati all'interessato e tradotti in una lingua a lui comprensibile, ovvero, quando ciò non sia possibile, nella lingua francese, inglese o spagnola, con preferenza per quella indicata dall'interessato.
Le disposizioni relative al respingimento "non si applicano nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l'asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero l'adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari" ex art. 20 T.U. (art. 10, comma 4). In nessun caso è permesso il respingimento dello straniero verso un paese dove "possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere inviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione" (art. 19 T.U.).
Verso i provvedimenti di respingimento, tramite la rappresentanza diplomatica o consolare italiana del paese di appartenenza (o di quello in cui lo straniero è stato respinto), è ammesso ricorso (17) al TAR della regione ove ha sede il valico di frontiera o la questura che ha emesso il provvedipento entro 60 giorni dalla notifica. Malgrado opinioni contrarie, si ritiene ammissibile anche il ricorso gerarchico (18) e, in caso di rigetto o di silenzio sul ricorso gerarchico, il ricorso straordianrio, per soli motivi di legittimità, al Capo dello Stato.
2.3. L'espulsione
Lo straniero può uscire dal territorio volontariamente oppure in conseguenza di un provvedimento di espulsione, di estradizione e di respingimento. L'espulsione non va confusa con l'estradizione che è il procedimento di collaborazione giudiziaria mediante il quale uno straniero presente sul territorio, condannato o perseguito penalmente da uno Stato estero, viene consegnato a quest'ultimo da uno Stato territoriale. Pur trattandosi, in entrambi i casi, di allontanare con forza lo straniero, l'estradizione si differenzia dall'espulsione in quanto presuppone la richiesta di uno Stato estero configurandosi come rapporto bilaterale regolato da convenzioni internazionali. L'espulsione va distinto anche dal respingimento. Come questo, rientra nella categoria degli ordini di polizia, ossia degli atti con i quali l'autorità di pubblica sicurezza comanda o vieta al destinatario un determinato comportamento, ma se ne differenzia poiché l'ordine di espulsione, sempre disposto sul presupposto della presenza dello straniero sul territorio, viene eseguito a cura di una autorità diversa (il questore) da quella che l'ha emanato (il Ministro o il prefetto), e comporta il divieto di reingresso (19).
La nuova legge, "non sostituendo alla logica dell'esclusione della fortezza assediata quella dell'integrazione" (20), non assegna all'espulsione una logica residuale dimostrando di non volersi distaccare dalla tradizionale filosofia del fenomeno migratorio come questione di ordine pubblico.
Con il termine espulsione si indicano in realtà provvedimenti diversi per presupposti e per natura. In particolare il T.U. sull'immigrazione n. 286 prevede tre diversi tipi di espulsione, di cui il primo di competenza dell'autorità amministrativa (Ministro dell'Interno o prefetto) e gli altri dell'autorità giudiziaria:
- l'espulsione amministrativa;
- l'espulsione a titolo di misura di sicurezza;
- l'espulsione a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione.
2.3.1. L'espulsione amministrativa
L'art. 13 del T. U. prevede quattro diverse ipotesi di espulsione amministrativa:
- espulsione amministrativa nei confronti dello straniero per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato (art. 13, primo comma T.U.). Questo tipo di espulsione è disposta dal Ministro dell'Interno, previa comunicazione (21) al presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro degli Affari esteri nei casi in cui la condotta dello straniero, "anche non residente nel territorio dello Stato", sia tale da porre concretamente e gravemente in pericolo la sicurezza della collettività, l'ordinamento politico dello Stato od il prestigio delle autorità;
- espulsione amministrativa disposta dal prefetto nei confronti dello straniero 'clandestino' (22) che, entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera, non è stato respinto (espulsione per ingresso clandestino, art. 13, secondo comma lett. a);
- espulsione amministrativa disposta dal prefetto nei confronti dello straniero 'irregolare' che si trova sul territorio privo del permesso di soggiorno (espulsione per soggiorno irregolare, art. 13 secondo comma lett. b). Questa ipotesi di espulsione colpisce:
- lo straniero che al suo ingresso non abbia richiesto il permesso di soggiorno al questore nel termine degli 8 giorni lavorativi previsti dalla legge (a meno che il ritardo sia dipeso da forza maggiore);
- lo straniero al quale sia stato annullato o revocato il permesso di soggiorno;
- lo straniero in possesso di permesso di soggiorno scaduto da più di 60 giorni durante i quali non abbia richiesto il rinnovo dello stesso.
Riguardo all'ipotesi di espulsione nei confronti dello straniero che non abbia richiesto il permesso di soggiorno entro 8 giorni dal suo ingresso, il Consiglio di stato, con sentenza n. 820 del 30 marzo /20 maggio 1999 (23), ha precisato he la mancata richiesta del permesso di soggiorno non legittima di per sé l'allontanamento dello straniero dal territorio nazionale. In presenza dell'inadempimento alla richiesta del permesso di soggiorno nel termine prescritto dalla legge, l'autorità di pubblica sicurezza deve valutare le ragioni di ordine pubblico che consigliano l'eventuale allontanamento dello straniero. Allorché questi abbia instaurato una normale condizione di vita e ciò sia noto all'autorità amministrativa, ad avviso del Consiglio di stato, l'interesse ad un ordinato vivere civile non può ritenersi compromesso dal solo comportamento omissivo di oneri previsti dalla legge e l'espulsione dello straniero deve ritenersi irragionevole. Pertanto, anche se allo straniero irregolare non è riconosciuto un diritto all'ingresso e alla permanenza nel territorio italiano, la discrezionalità dell'amministrazione deve trovare giustificazione nella manifesta ragionevolezza delle sue scelte (24).
Nel caso dell'espulsione dello straniero in possesso di permesso di soggiorno scaduto da più di 60 giorni durante i quali non abbia richiesto il rinnovo, la Corte di Cassazione, Sez. I, con sentenza n. 6374 del 28 maggio/ 23 giugno 1999, è giunta a conclusioni analoghe a quelle del Consiglio di stato sopra riportate: la scadenza del termine per il rinnovo del permesso di soggiorno non comporta automaticamente l'espulsione dello straniero. In questa sentenza la Corte ha rilevato come la fattispecie dell'espulsione per soggiorno irregolare si presta a due plausibili interpretazioni. In base alla prima, l'espulsione scaturisce automaticamente dal decorso dei 60 giorni senza che sia stato richiesto il rinnovo del permesso di soggiorno; in base alla seconda, per disporre l'espulsione occorre, unitamente alla condizione positiva della scadenza del permesso, la sussistenza di un'altra condizione, di tipo negativo, consistente nella mancata presentazione dell'istanza di rinnovo fuori termini, ovvero oltre i 60 giorni dalla scadenza ma precedente al provvedimento di espulsione. Optando per la seconda interpretazione la Corte ha ritenuto che la persona in passato regolarmente soggiornante abbia diritto, prima di essere espulsa ad un esame della sua domanda. Secondo la suprema Corte "il superamento dell'automatismo dell'espulsione, a fronte di meri ritardi nella presentazione della domanda di rinnovo del permesso di soggiorno, consente di evitare l'ingresso in clandestinità di quei soggetti che - per avere, per ignoranza, errore o dimenticanza, fatto scadere il termine per il rinnovo - potrebbero altrimenti vedersi costretti a una tale scelta, per non avere più un valido permesso di soggiorno e non poterne domandare tardivamente il rinnovo senza andare incontro ad una espulsione automatica". Ne consegue che il ritardo per il rinnovo, così come (ai sensi della sentenza del Consiglio di stato n. 820) il ritardo per la richiesta del permesso di soggiorno non possono essere da soli motivo di espulsione.
- espulsione amministrativa disposta dal prefetto, per sospetta pericolosità sociale dello straniero (art. 13, secondo comma lett. c). Questa espulsione può essere disposta, ove ricorrano i presupposti per l'applicazione di una misura di prevenzione (in base all'art. 1, della legge n. 1423 del 27 dicembre 1956, come sostituito dall'art. 2 della legge 3 agosto 1988, n. 327 o all'art. 1 della legge antimafia n. 575 del 31 maggio 1965, come sostituito dall'art. 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646), nei confronti:
- dello straniero ritenuto abitualmente dedito a traffici delittuosi;
- dello straniero che, per condotta o tenore di vita, si ritenga vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose;
- dello straniero ritenuto, a causa del suo comportamento, dedito alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica;
- dello straniero indiziato di appartenere ad associazione di stampo mafioso.
In questi casi il prefetto, nel disporre la misura, non necessita di un controllo preventivo da parte del giudice sulla qualificazione da lui operata dell'espellendo come persona socialmente pericolosa e sospetta. È solo il prefetto che accerta 'in concreto' la pericolosità dello straniero.
L'art. 13 al terzo comma disciplina il caso in cui lo straniero, soggetto al provvedimento di espulsione amministrativa, sia sottoposto ad un procedimento penale. In questo caso, per procedere all'espulsione, è necessario (25) il nulla osta dell'autorità giudiziaria (26). Il legislatore ha ritienuto preminente l'interesse all'allontanamento dello straniero, rispetto a quello di giudicarlo, prevedendo che la pendenza di un procedimento penale a suo carico non costituisca di per sé un impedimento. L'art. 13 dispone infatti che l'autorità giudiziaria rilasci nulla osta all'espulsione tranne i casi in cui sussistano "inderogabili esigenze processuali" (27) e, all'arresto in flagranza, venga applicata dal giudice di convalida una misura cautelare detentiva (custodia in carcere o in luogo di cura, arresti domiciliari) (28). Il nulla osta, in quanto atto preparatorio del provvedimento amministrativo d'espulsione, pur rilasciato da un organo giudiziario, non è soggetto alle normali impugnazioni degli atti giurisdizionali e i suoi vizi possono essere fatti valere solo con l'impugnazione dell'espulsione davanti al giudice ordinario o amministrativo (in caso di espulsione disposta dal Ministro dell'Interno per motivi di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato).
Lo straniero espulso e sottoposto a procedimento penale può comunque rientrare in Italia per esercitare il diritto di difesa. A prevederlo è l'art. 17 del T.U. dove è disposto che "lo straniero sottoposto a procedimento penale (29), è autorizzato a rientrare in Italia per il tempo strettamente necessario per l'esercizio del diritto di difesa, al solo fine di partecipare al giudizio o al compimento di atti per i quali è necessaria la sua presenza. L'autorizzazione è rilasciata dal questore anche per il tramite di una rappresentanza diplomatica o consolare su documentata richiesta dell'imputato" (30). Dal disposto dell'articolo 13 e dell'articolo 17 deriva quindi che lo straniero, sottoposto a procedimento penale, può essere legittimamente allontanato dallo Stato in quanto la previsione dell'autorizzazione al rientro temporaneo in Italia, prevista dall'art. 17, è idonea ad assicurare l'esercizio del diritto di difesa dello straniero, garantito anche nei suoi confronti dall'art. 24, comma secondo della Costituzione.
2.3.2. L'espulsione a titolo di misura di sicurezza
Accanto ai provvedimenti di espulsione amministrativa, il T.U. disciplina, all'art. 15, l'espulsione a titolo di misura di sicurezza. Tale misura è disposta dal giudice nei confronti dello straniero condannato per taluno dei reati per i quali è previsto l'arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza (artt. 380-381 codice di procedura penale), qualora sia ritenuto socialmente pericoloso. Il giudice penale può inoltre ordinare l'espulsione, in sede di condanna (31), a seguito di una pronuncia, anche non definitiva, nei confronti:
- dello straniero condannato per un delitto contro la personalità dello Stato;
- dello straniero condannato alla reclusione per un periodo non inferiore a 10 anni (artt. 235 e 312 codice penale);
- dello straniero condannato per uno dei reati che prevedono l'espulsione in sentenza (come ad esempio quelli in materia di stupefacenti e di contrabbando di tabacchi lavorati).
Questo tipo di espulsione è prevista in caso di condanna per numerose fattispecie di reati, siano essi anche solo tentati, dolosi, colposi, o 'ritenuti non gravi' (32), con il solo temperamento rappresentato dalla necessaria previa valutazione della pericolosità sociale dello straniero, propria di ogni misura di sicurezza (33).
Ai sensi dell'art. 211 del codice penale, come per ogni altra misura di sicurezza, l'espulsione si esegue dopo l'esecuzione della pena detentiva o, se è irrogata una sanzione non detentiva, dopo che la condanna è divenuta irrevocabile. L'accertamento della pericolosità, oltre a sussistere al momento della decisione della sentenza, deve essere ripetuto, ai sensi dell'art. 203 del codice penale, anche al momento dell'esecuzione della misura dell'espulsione. L'esistenza della pericolosità è quindi riaccertata in concreto dal magistrato di sorveglianza al momento dell'esecuzione dell'espulsione su richiesta del pubblico ministero o d'ufficio. L'espulsione come misura di sicurezza viene perciò eseguita solo se il magistrato, in corso di riesame della pericolosità, ritenga che lo straniero sia ancora persona socialmente pericolosa, altrimenti, in caso di valutazione contraria, il provvedimento di espulsione è revocato (art. 679 del codice di procedura penale).
Lo straniero può sempre chiedere la revoca della misura di sicurezza a seguito di riesame della pericolosità sociale fino a quando non è stata eseguita l'espulsione (art. 208 codice penale).
2.3.3. L'espulsione a titolo di sanzione sostitutiva
Il Testo unico all'articolo 16 prevede una forma di espulsione a titolo di sanzione sostitutiva della pena. Questa può essere disposta dal giudice quando questi debba pronunciare sentenza di condanna o patteggiamento (34), per un reato non colposo, a una pena detentiva che non superi il limite di due anni e non ricorrano le condizioni per concedere la sospensione condizionale della pena. In tali casi, se lo straniero si trova in una delle condizioni per cui sarebbe espellibile in via amministrativa, il giudice può sostituire la pena non superiore a due anni con l'espulsione per un periodo non inferiore a 5 anni (35), sempre che non siano necessari, né accertamenti in ordine alla identità o alla nazionalità dello straniero, né il soccorso di questo per motivi umanitari o problemi di salute.
Questa espulsione presenta alcune analogie con l'espulsione 'a richiesta di parte' introdotta dall'art. 8 del decreto Conso n. 296 del 1993 nell'art. 7, comma 12 della legge Martelli. L'espulsione prevista dal decreto Conso consentiva allo straniero che scontasse una pena detentiva non superiore a tre anni, anche se parte residua di maggior pena, o che fosse sottoposto a custodia cautelare per delitti tentati o consumati di ridotto allarme sociale, la facoltà di chiedere (36) di essere espulso, così da ottenere la sospensione della detenzione o della custodia cautelare. Questa espulsione, alternativa all'espiazione delle pene detentive di ridotta entità o alla persecuzione penale dei reati minori, offriva allo straniero detenuto, o in attesa di giudizio in custodia cautelare, la possibilità di scambiare il riacquisto della libertà e la sospensione del procedimento giudiziario con l'accettazione di una misura, quale l'espulsione, anch'essa "intrinsecamente lesiva della libertà personale" (Corte costituzionale, sentenza n. 62 del 1994).
L'espulsione a titolo di sanzione sostitutiva prevista dal legislatore del '98 differisce dal decreto Conso solo in quanto da un lato, non contempla la possibilità di disporre la misura su richiesta di parte (37) e dall'altro, prevede che questa venga disposta dal giudice (38) nel corso del processo e non anche nella fase della esecuzione della pena.
Muovendo dalla premessa che l'espulsione a titolo di sanzione sostitutiva ha natura di istituto penale riconducibile alla categoria delle sanzioni sostitutive (quali la pena pecuniaria, la semidetenzione e la libertà controllata), il pretore di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 16 del T.U. osservando che:
- la disciplina dell'espulsione, che prevede l'esecuzione anche se la sentenza non è irrevocabile, non sarebbe conforme al principio dell'art. 27, comma secondo della Costituzione, secondo il quale l'imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva;
- gli effetti estintivi, che l'art. 445 del codice di procedura penale ricollega alla sentenza di patteggiamento, a causa dell'esecuzione dell'espulsione anche prima dell'irrevocabilità della sentenza, sarebbero vanificati per l'imputato straniero, il quale, non potendone beneficiare, sarebbe discriminato rispetto ad altri imputati indotti al patteggiamento anche dalla previsione di quell'ulteriore possibilità;
- la previsione di una sanzione sostitutiva, determinata nel minimo ma non nel massimo, sarebbe in contrasto con il principio di tassatività sancito dall'art. 25, comma secondo della Costituzione. L'eventuale interpretazione della norma, che fissasse la sostituzione della detenzione con la sospensione della misura fissa di 5 anni, apparirebbe incompatibile con il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione e con quello della funzione di prevenzione generale e di difesa sociale della pena, affermato dall'art. 27, comma terzo Costituzione, giacché in questo modo finirebbero per essere sanzionate in maniera identica condotte concretamente diverse;
- la mancata predeterminazione delle condizioni soggettive ed oggettive (39) nonché di parametri di ragguaglio al fine della sostituzione giudiziale della pena detentiva con l'espulsione, presenterebbe dubbi di costituzionalità oltre che dal punto di vista del già richiamato principio di tassatività anche sul fronte del principio della garanzia della difesa consacrato nell'art. 24, comma secondo della Costituzione, il cui esercizio ne sarebbe ostacolato a causa della mancanza di un quadro certo di riferimento;
- il regime delle espulsione sostitutiva, così come articolato, si rileverebbe incostituzionale rispetto allo scopo rieducativo che comunque il sistema sanzionatorio penale deve perseguire;
- l'irrogabilità della sanzione, sulla base di una sentenza non definitiva, sarebbe in contrasto con la presunzione di non colpevolezza.
In sostanza, secondo il pretore di Roma, non sarebbe chiaro se l'espulsione in questione "corrisponda ad una logica di personalizzazione della pena o a mere esigenze di politica penitenziaria" (40). Da una parte, infatti, al pretore l'espulsione sembra annoverarsi tra gli istituti ispirati al favor rei, e in particolare ispirati alla rieducazione, attraverso la sottrazione al carcere degli imputati per i quali le condizioni soggettive nonché il titolo del reato facciano presumere la non necessità; dall'altra, applicandosi prima che la sentenza divenga irrevocabile, sembra costituire il rimedio al problema del sovraffollamento delle carceri e configurare una rinuncia dello Stato all'esecuzione della pena.
La Corte costituzionale, con ordinanza interpretativa di rigetto n. 369 del 14/28 luglio 1999, ha specificato che l'espulsione prevista dall'art. 16 non è una sanzione criminale e, conseguentemente, a questa non è richiesto di essere compatibile con i principi costituzionali riguardanti quel tipo di sanzione. Ad avviso della Corte l'espulsione come sanzione sostitutiva della pena è una misura amministrativa in quanto, nonostante la rubrica della norma reciti "espulsione a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione", l'uso del termine 'misura', contenuto nell'articolo 16, riconduce l'istituto nel sistema amministrativo. Inoltre, la previsione dell'esecuzione affidata al questore, anziché al pubblico ministero, nonché il richiamo alle condizioni per l'espulsione amministrativa, portano ad escludere la natura penale della misura. Alla luce dell'ordinanza interpretativa di rigetto della Corte, la norma in esame deve essere letta nel senso di prevedere che il giudice penale sia eccezionalmente chiamato, nell'ambito di un giudizio in cui lo straniero è imputato di un reato e solo nel caso in cui il processo si debba concludere con una pronuncia di condanna o con sentenza di patteggiamento (art. 444 c.p.p.), a sostituire la sanzione criminale con una misura amministrativa. Si ha così un processo penale che pur concludendosi con una sentenza di condanna o di patteggiamento prevede una sanzione appellabile, ma concretamente priva di quel contenuto tipico che fonda l'interesse all'impugnazione: la sanzione criminale.
Al riguardo, Annamaria Casadonte scrive:
sarebbe stato importante spiegare in sede interpretativa qual è il bene costituzionalemte tutelato e ritenuto prevalente tanto da giustificare, nel caso dello straniero, la rinuncia alle garanzie del sistema penale, e spiegare nel caso che tale bene sia da identificarsi con l'interesse pubblico a risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri ovvero con quello della sicurezza pubblica, perché esso sia tutelato dalla nostra Costituzione più del diritto di ogni persona, accusata di un reato, ad un processo che accerti la sua responsabilità o innocenza e che nel primo caso si concluda con una sanzione tipica senza invece trasformarsi inspiegabilmente in qualcos'altro (41).
2.4. I limiti al potere di espulsione
La configurazione dei poteri di espulsione e di respingimento come fattispecie rigorosamente tipizzate, se per un verso implica un profilo di garanzia, per l'altro comporta il rischio di applicazioni meccaniche confliggenti con la salvaguardia di fondamentali diritti umani e con i principi comuni di solidarietà. Consapevole di ciò, il legislatore del 1998 ha espressamente previsto alcuni limiti al potere di espulsione che vanno ad aggiungersi a quelli descritti nelle Convenzioni internazionali, operativi in Italia in virtù della riserva di legge 'rinforzata' dell'art. 10 della Costituzione.
A tutela di un corretto uso del potere di allontanamento, dalle Convenzioni internazionali derivano le seguenti garanzie:
- sono vietate le espulsioni collettive, ossia disposte indistintamente nei confronti degli appartenenti ad un gruppo o ad una categoria di persone (art. 4 del protocollo addizionale n. 4 del 1963 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, ratificato e reso esecutivo in Italia con decreto del Presidente della Repubblica 14 aprile 1982, n. 217);
- non è consentita l'espulsione o il respingimento di un rifugiato "verso le frontiere e luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche" (42) (art. 33 della Convenzione relativa allo status di rifugiato, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 24 giugno 1995, n. 722). Si noti che l'art. 32 della suddetta Convenzione precisa che la tutela di cui all'art. 33 non opera verso il rifugiato nei confronti del quale l'espulsione sia disposta per motivi di sicurezza nazionale e di ordine pubblico (43);
- è vietato allontanare, espellere o estradare uno straniero "verso uno Stato in cui esista un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti" (art. 19 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 26 settembre 2000). La Corte europea dei diritti dell'uomo ha precisato che il rischio di subire torture, pene o trattamenti inumani o degradanti nel paese di destinazione può provenire sia dalle autorità dello Stato di destinazione (44), sia da privati che operano nello Stato senza che l'autorità possa proteggere il soggetto (45), che da situazioni oggettive (46);
- il lavoratore straniero regolarmente occupato non può essere allontanato né per aver perso il posto di lavoro (art. 8 paragrafo 1 della Convenzione O.I.L. n. 143 del 1975), né perché incapace di ottenere un'occupazione a causa di malattia o infortunio (invalidità) contratti successivamente all'ammissione nel paese di immigrazione (art. 8 paragrafo 1 Convenzione O.I.L. n. 97 del 1949, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge n. 1035 del 2 agosto 1952);
- ai sensi dell'art. 13 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, (ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881), "uno straniero che si trovi legalmente (47) nel territorio di uno Stato parte del presente Patto" non può essere espulso "se non in base ad una decisone presa in conformità della legge e, salvo che vi si impongano imperiosi motivi di sicurezza nazionale". Questo articolo detta inoltre alcune garanzie procedurali a favore dello straniero soggetto ad un provvedimento di espulsione disponendo che questi debba avere "la possibilità di far valere le proprie ragioni contro la sua espulsione, di sottoporre il proprio caso all'esame dell'autorità competente o di una o più persone specificatamente designate da detta autorità e di farsi rappresentare dinnanzi ad essa a tal fine" (48) (nello stesso senso si esprime l'art. 1 del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Strasburgo il 22 novembre 1984 e ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 9 aprile, n. 98).
Per quanto riguarda i limiti al potere di espulsione disposti invece dal legislatore del '98, l'art: 19 del T.U., intitolato "Divieti di espulsione e di respingimento", prevede, al primo comma, un divieto di carattere generale alla facoltà di adottare provvedimenti di espulsione e di respingimento e, al secondo comma, la descrizione di categorie protette di soggetti non suscettibili di provvedimento di espulsione.
Riprendendo il divieto già contenuto dalla Convenzione di Ginevra, il primo comma dell'art. 19 vieta l'espulsione e il respingimento verso paesi ove lo straniero "possa essere soggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione" (49). Salvo i casi nei quali l'espulsione venga disposta per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, dal Ministro dell'Interno ai sensi dell'art. 13, comma 1 del T.U., l'espulsione (50), ai sensi del secondo comma dell'art. 19, non può essere adottata nei confronti:
- dello straniero minore di anni diciotto, salvo che venga allontanato insieme ai genitori o all'affidatario espulsi (51);
- del titolare di carta di soggiorno. In questo caso oltre a poter essere disposta l'espulsione per gravi motivi di ordine pubblico o sicurezza nazionale, lo straniero può essere espulso se persona indiziate di appartenere ad associazioni di stampo mafioso, sempre che sia applicata, anche in via cautelare, una delle misure di prevenzione di cui all'art. 14 della legge 19 marzo 1990, n. 55 che detta "nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e dia altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale".
- dello straniero convivente con parenti entro il quarto grado o con il coniuge di nazionalità italiana;
- della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvede (52).
Prevedendo in questo elenco il titolare di carta di soggiorno, il legislatore ha voluto tutelare lo straniero "la cui prolungata permanenza sul territorio ha inevitabilmente creato dei legami, quanto meno sociali, che non possono essere recisi autoritativamente" (53), mentre, per quanto riguarda le altre categorie, ha voluto prevedere la preminenza del valore dell'unità della famiglia immigrata (54) contro i provvedimenti di espulsione diversi da quelli disposti dal Ministro dell'Interno per le esigenze di ordine pubblico e di sicurezza nazionale. I principi di protezione dell'unità familiare trovano d'altronde riconoscimento negli articoli 29 e 30 della Costituzione e nell'art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950 (ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848) dove è disposto che "ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare" e "non può esservi ingerenza di un'autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto, a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui" (55).
Occorre puntualizzare che l'art. 19 non contempla un'ipotesi generica di tutela dell'unità familiare, poiché prevede, alla lettera c, il divieto di espulsione solo per lo straniero che sia familiare di cittadini italiani entro il quarto grado e al contempo convivente con questi (56) e per lo straniero coniugato nonché convivente con cittadino italiano.
L'art. 19 non prevede, ad esempio, il divieto di espulsione nei confronti degli stranieri conviventi more uxorio con cittadini italiani e per questa mancanza è stato oggetto di questione di legittimità costituzionale sollevata dal Pretore di Vibo Valentia nel marzo 1999 (57). Precisando come il divieto di espulsione disposto dal'art. 19 secondo comma lettera c sia riservato agli stranieri che oltre ad essere conviventi con cittadini italiani siano a questi legati da vincolo matrimoniale, la Corte costituzionale con sentenza interpretativa di rigetto n. 313 del 2000 (confermata poi dalla successiva sentenza n. 481 del 2000) ha affermato "l'impossibilità di estendere, attraverso un mero giudizio di equivalenza tra le due situazioni, la disciplina prevista per la famiglia legittima alla convivenza di fatto". Secondo la Corte, essendo la convivenza "un rapporto privo dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri dei coniugi, propri della sola famiglia legittima" [...] "è giustificato il trattamento normativo diversificato tra la famiglia di fatto e quella fondata sul matrimonio". Ad avviso della Corte inoltre "coloro che hanno inteso instaurare un rapporto di mero fatto dimostrano di non volere assumere i diritti ed i doveri che nascono dal matrimonio" (58).
La lettera d dell'art. 19 del T.U. è stata invece dichiarata parzialmente incostituzionale, con sentenza n. 376 del 12 luglio 2000, nella parte in cui non estende il divieto di espulsione al marito convivente della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi al parto (59). Affermando che "alla famiglia deve essere riconosciuta la più ampia protezione ed assistenza, in particolare nel momento della sua formazione ed in vista della responsabilità che entrambi i genitori hanno per il mantenimento e l'educazione dei figli minori, la Corte ha esteso, con questa sentenza, la protezione, accordata dal T.U. alla madre, anche al padre sulla base dell'acquisito principio di parità tra uomo e donna in relazione alla cura e all'educazione dei figli. La Corte ha precisato che la ratio della lettera d dell'art. 19 non tende a proteggere la salute della donna, per quanto questo aspetto non sia giuridicamente secondario, ma ad "assicurare una speciale protezione alla famiglia in generale, ed ai figli minori in particolare [...] protezione che deve ritenersi estesa anche agli stranieri che si trovino" a qualunque titolo "sul territorio dello Stato". In altri termini il diritto e dovere di mantenere, istruire ed educare i figli e il diritto, di genitori e figli, di avere una vita in comune sono diritti fondamentali incomprimibili della persona, che spettano senza eccezione anche agli stranieri (in questo passaggio la Corte ha richiamato le sue precedenti sentenze del 1995 n. 28 e del 1997 n. 203).
Si noti che nei confronti dello straniero a favore del quale sia previsto un divieto di espulsione, è disposto, dalla circolare n. 11 del Ministero dell'Interno del 1998, che il questore rilasci:
- un permesso di soggiorno per minore età nei confronti di stranieri non appartenenti all'Unione europea minori di anni 18 con genitori esercenti la patria potestà regolarmente presenti sul territorio nazionale (60);
- un permesso di soggiorno per cure mediche per le donne in stato di gravidanza, con una durata pari a quella attestata dalla certificazione sanitaria (61);
- un permesso di soggiorno per motivi familiari per i conviventi con parenti entro il quarto grado o con il coniuge;
- un permesso di soggiorno per motivi umanitari per gli stranieri soggetti al rischio di persecuzioni, richiedenti asilo (62) o rifugio o per quelli nei confronti dei quali sono disposte misure di protezione temporanea.
Oltre ai limiti al potere di espulsione elencati nell'art. 19, il legislatore ha previsto il divieto di espulsione nei confronti degli stranieri a favore dei quali sono predisposte "misure di protezione temporanea, a fini umanitari" ai sensi dall'art. 20 del TU (63). Terminato il periodo di accoglienza temporanea, lo straniero che non abbia diritto ad un permesso di soggiorno per altro titolo deve lasciare il territorio dello Stato e viene a tal fine disposto a suo carico un provvedimento di 'rimpatrio' che, a differenza dell'espulsione, non dà luogo al divieto di reingresso.
L'art. 5, comma 6 del T.U prevede inoltre che il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno, applicabili nei confronti di stranieri che non soddisfino le condizioni di permanenza sul territorio, non possano comportare l'allontanamento dello straniero in caso di sussistenza di seri motivi di carattere umanitario o nel caso in cui ciò sia ostacolato dagli obblighi derivanti dal diritto internazionale o dalla Costituzione italiana.
Nell'elencare i limiti al potere di espulsione non vanno tralasciate alcune limitazioni derivanti da fonti giurisprudenziali.
Per quanto riguarda l'applicabilità dei provvedimenti di espulsione nei confronti degli stranieri che possono vantare una legittima aspettativa di regolarizzazione (avendo già presentato la domanda o essendo comunque nei termini per farlo), la giurisprudenza sembra orientata a ritenere che non sono soggetti al provvedimento di espulsione gli stranieri che possano vantare un'aspettativa qualificata di regolarizzazione derivante da una concreta prospettiva di inserimento sociale e lavorativo (64). Tale questione si è posta a seguito dell'emanazione del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 16 ottobre 1998 (65) con il quale è stata avviata una procedura di regolarizzazione per gli immigrati presenti in Italia prima del 27 marzo 1998.
La pretura di Trieste, con ordinanza del 22 agosto 1998, (pubblicata in "Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 1 del 1999 a pagina 143), ha ritenuto non potersi procedere ad espulsione nei confronti di chi ha manifestato la volontà di chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato.
È significativo segnalare inoltre l'ordinanza del 9 dicembre 1998 del Pretore di Parma (66) che annulla un decreto di espulsione di una cittadina nigeriana irregolarmente presente in Italia, considerato che la ricorrente ha ottenuto un lavoro come collaboratrice domestica ed è madre di due bambine integrate nel tessuto scolastico ed ambientale cittadino. Il pretore, visto l'art. 28 del T.U. n. 286 che impone di prendere in considerazione con carattere di priorità il superiore interesse del fanciullo conformemente a quanto previsto dall'art. 3, comma 1 della Convenzione sui diritti del fanciullo, ha considerato i preminenti interessi delle figlie minori della ricorrente a non essere sradicate dall'ambiente in cui sono stabilmente inserite. Analogamente il Tribunale di Udine, con ordinanza del 9 settembre 1999 (67) che rileva l'illegittimità di un provvedimento di espulsione nei confronti di un cittadino albanese coniugato con una connazionale regolarmente soggiornante e madre di una bambina, ha ritenuto, in base all'art. 2 del T.U., prevalenti i principi costituzionali in tema di minori e di tutela dell'integrità familiare sulle norme in tema di espulsione (68).
Il tema dei limiti all'espulsione degli stranieri resta una materia aperta e a tal proposito Siriani osserva che:
sarà necessario nel futuro chiarire, nell'evoluzione giurisprudenziale e legislativa, questioni che non sono nemmeno sfiorate dalla attuale legge, e cioè se i limiti si applicano solo all'espulsione e non anche ad altre misure che producono lo stesso effetto di allontanamento, e cioè il respingimento; se è possibile espellere chi nel proprio paese non potrebbe trovare cure mediche necessarie per consentirgli di sopravvivere, o chi pur non avendo una carta di soggiorno, abbia comunque perso ogni radicamento con il paese di origine. ancora più complessa sarà prima o poi la soluzione del conflitto tra il carattere strettamente individuale dell'espulsione e la sua capacità di colpire gravemente, sebbene in misura indiretta, valori collettivi come il diritto all'unità del nucleo familiare (69).
2.5. Gli effetti dell'espulsione
A seguito del provvedimento di espulsione lo straniero viene condotto nello Stato di appartenenza o in quello di provenienza (art. 13, comma 12), a meno che in tali paesi possa essere oggetto di persecuzione.
L'espulsione comporta un divieto di reingresso nel territorio per un periodo di cinque anni (70) (art. 13, comma 14). Tale termine può essere ridotto ad un minimo di tre anni sulla base di motivi legittimi addotti dall'interessato e tenuto conto della complessiva condotta da lui tenuta sul territorio dello Stato. Competente a decidere su tale riduzione non è il prefetto al momento dell'emanazione del provvedimento di espulsione, bensì l'autorità giudiziaria (ovvero giudice ordinario o amministrativo a seconda delle ipotesi di espulsione prefettizia o ministeriale) in sede di ricorso proposto dallo straniero avverso l'espulsione. La Corte Costituzionale ha precisato, con sentenza interpretativa di rigetto del 21 febbraio/28 maggio 2001 n. 165 (71), che l'art. 13, comma 13, non prevede alcuna preclusione ad un'impugnazione dell'espulsione limitata alla durata del divieto di reingresso, affermando che "è sbagliato ritenere che ci sia una preclusione per lo straniero espulso di ricorrere al giudice per ottenere esclusivamente la rideterminazione della durata del divieto di reingresso".
Il periodo di divieto di rientro può inoltre essere ridotto da un autonomo giudizio amministrativo, di competenza del Ministro dell'Interno, che può accordare una speciale autorizzazione al rientro dello straniero, in possesso dei requisiti necessari, in epoca anteriore allo spirare del periodo di divieto previsto a suo carico. Se lo straniero non ha ricevuto dal Ministro dell'Interno questa speciale autorizzazione ad entrare nel territorio dello Stato, non può farvi rientro prima della scadenza del termine disposto nel provvedimento di espulsione o modificato dal giudice in sede di ricorso. In caso di trasgressione, lo straniero è punito con l'arresto da due a sei mesi ed è nuovamente espulso con accompagnamento immediato alla frontiera (art. 13, commi 13 e 14 T.U.).
Ai sensi dell'art. 19 del regolamento di attuazione, il divieto di rientro opera "a decorrere dalla data di esecuzione dell'espulsione, attestata dal timbro d'uscita di cui all'art. 8, comma 1, ovvero da ogni altro documento comprovante l'assenza dello straniero dal territorio dello Stato".
Un altro effetto del provvedimento di espulsione deriva dall'inserimento nel Sistema informativo Schengen del nome dello straniero 'segnalato ai fini della non ammissione' in attuazione dell'art. 96 della Convenzione di applicazione degli Accordi di Schengen del 1990. In base a questo articolo, ciascun paese aderente agli Accordi inserisce nel SIS i dati relativi agli stranieri che, in base alla legislazione e alle procedure nazionali in vigore, sono considerati "una minaccia per l'ordine e la sicurezza pubblica o per la sicurezza nazionale", ovvero che sono stati oggetto di una misura di allontanamento, di respingimento o di espulsione, fondata sulle norme nazionali che disciplinano l'ingresso o il soggiorno degli stranieri, e che "comporti o sia accompagnata da un divieto di ingresso o eventualmente di soggiorno" (72). L'inserimento delle norme dello straniero nel SIS, a norma dell'art. 96, comporta per tutte le altre parti contraenti una serie di conseguenze, che vanno dall'obbligo di non rilasciare ai 'segnalati' visti d'ingresso, a quello di revocare o non rinnovare il permesso di soggiorno, qualora la segnalazione avvenga successivamente alla concessione di tali autorizzazioni. Lo straniero 'positivo Schengen' può dunque trovarsi privato del suo permesso di soggiorno pur non avendo violato in alcun modo le norme del paese in cui risiede, bensì a seguito della segnalazione effettuata da un altro paese Schengen derivante dall'adozione di un provvedimento di allontanamento o di espulsione. In questo caso, qualora la questura responsabile del permesso di soggiorno non ritenga di revocarlo o non rinnovarlo immediatamente, lo straniero ottiene un permesso di soggiorno provvisorio, valido soltanto per il territorio nazionale in cui risiede e rinnovabile fino alla conclusione della procedura. Dopo aver richiesto alle autorità del paese responsabile della segnalazione i motivi dell'inserimento nell'elenco degli 'indesiderabili', le autorità che hanno rilasciato il permesso di soggiorno provvisorio devono decidere se ricorrere alla possibilità di deroga prevista dall'art. 25 della Convenzione, o se dar seguito alla segnalazione revocando il permesso di soggiorno. La decisione di rinnovare il permesso di soggiorno comporta, per la parte che ha effettuato la segnalazione, l'obbligo di ritirarla mantenendola, se del caso, solo a livello nazionale. Se è revocato il permeso di soggiorno provvisorio la segnalazione viene mantenuta e il provvedimento di revoca costituisce il presupposto per l'adozione di un decreto di espulsione anche dal territorio nazionale in cui lo straniero risiede.
Per quanto la Convenzione preveda la possibilità di deroga fondata sull'esistenza di "motivi seri, in particolare di carattere umanitario o in conseguenza di obblighi internazionali" (art. 25), il sistema di segnalazione disciplinato dall'art. 96 comporta l'estensione, all'interno dello Spazio Schengen, dell'efficacia delle decisioni di allontanamento adottate da ciascuno Stato firmatario e, conseguentemente, il divieto per lo straniero di soggiornare legalmente in un altro Stato dello Spazio Schengen (73).
2.6. Le modalità esecutive delle espulsioni
Il legislatore del 1998, mosso dalla volontà di assicurare efficacia ai provvedimenti di espulsione, modifica notevolmente la disciplina dell'esecuzione dei provvedimanti di allontanamento.
L'esecuzione del provvedimento espulsivo è stata sempre effettuata tramite due distinte modalità: accompagnamento immediato alla frontiera a mezzo della forza pubblica e intimazione a lasciare il territorio. Nel precedente sistema disciplinato dalla legge Martelli, l'intimazione era la normale modalità di esecuzione dell'espulsione e consisteva nell'invito del questore, comunicato allo straniero contestualmente alla notifica dell'espulsione, ad allontanarsi dal territorio entro il termine di 15 giorni. Tale invito conteneva prescrizioni circa le modalità del viaggio e della presentazione alla frontiera, nonché l'avvertimento che, in caso di inottemperanza, si sarebbe proceduto mediante traduzione forzata. L'esecuzione con accompagnamento immediato alla frontiera era prevista solo per l'ipotesi di espulsione per motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato e nel caso in cui si constatasse la presenza sul territorio dello straniero espulso con intimazione, oltre i 15 giorni previsti per lasciare il territorio. Il sistema previgente era però poco capace di allontanare effettivamente gli stranieri soggetti a provvedimenti espulsivi: le espulsioni con intimazione erano frequentemente disattese e, nei confronti di quegli stessi stranieri che non avevano lasciato il territorio entro i 15 giorni, veniva raramente eseguita l'espulsione tramite accompagnamento alla frontiera.
Il legislatore del 1998 aumenta le ipotesi di esecuzione mediante accompagnamento immediato alla frontiera, riduce quelle con intimazione a lasciare il territorio e introduce la possibilità del trattenimento dello straniero, destinatario di un provvedimento di espulsione o di respingimento, presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino, 'per il tempo strettamente necessario' per rendere eseguibile l'espulsione (art. 14 T.U.).
In particolare, nel T.U. è previsto che si esegua il provvedimento di allontanamento, con accompagnamento immediato alla frontiera a mezzo della forza pubblica, nei seguenti casi:
- quando l'espulsione è disposta dal Ministro dell'Interno (o dal Tribunale per i minorenni se il soggetto da espellere è minore di anni 18) per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato (art. 13, comma 4, lettera a);
- quando lo straniero si trattiene indebitamente sul territorio oltre il termine fissato con intimazione (art. 13, comma 4, lettera a);
- quando lo straniero, sospettato di essere socialmente pericoloso, è espulso ai sensi del secondo comma, lettera c, dell'art. 13 purché il prefetto che ha disposto l'espulsione rilevi, sulla base delle circostanze obbiettive, il concreto pericolo che il soggetto si sottragga all'esecuzione del provvedimento (art. 13, comma 4, lettera b);
- quando lo straniero è soggetto all'espulsione a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione disposta dal giudice ai sensi dell'art 16 (art. 16, comma 1);
- quando lo straniero, espulso per ingresso clandestino ai sensi della lettera a dell'art. 13 secondo comma, è privo di valido documento attestante la sua identità e nazionalità (74), e il prefetto rilevi, tenendo conto delle circostanze obbiettive riguardanti il suo inserimento sociale, familiare e lavorativo, un concreto pericolo che il soggetto si sottragga all'esecuzione del provvedimento (art. 13, comma 5). Non appare chiaro nel T.U. se il riferimento alle circostanze obiettive riguardanti l'inserimento sociale, familiare e lavorativo dello straniero come parametri di valutazione del pericolo che lo straniero si sottragga all'esecuzione del provvedimento sia da ritenersi nel senso che un tale inserimento costituisca elemento da valutare positivamente ai fini della esclusione del summenzionato pericolo o viceversa. "A stretto rigore sembrerebbe doversi propendere per la seconda ipotesi, giacché, posto che l'eventuale avvenuto inserimento sociale, familiare e lavorativo dello straniero non è comunque assunto dal legislatore come ostativo all'adozione del provvedimento di espulsione, nei casi normativamente previsti, se ne dovrebbe dedurre che esso non potrebbe che riguardarsi, nell'ottica del legislatore stesso, più come una remora che come un incentivo all'osservanza del suddetto provvedimento" (75).
Come emerge da questo elenco, a seguito della riforma del 1998, l'esecuzione forzata del provvedimento espulsivo (76) si è trasformata da eccezionale in ordinaria. L'espulsione con intimazione (77) a lasciare il territorio dello Stato entro il termine di 15 giorni diventa una figura quasi residuale e viene applicata:
- quando l'espulsione è disposta per ingresso clandestino, sempre che lo straniero non sia privo dei documenti attestanti la sua identità e nazionalità e il prefetto non rilevi un concreto pericolo che questi si sottragga all'esecuzione dell'espulsione, poiché, in quel caso, si procede ad accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica;
- quando lo straniero entrato irregolarmente "dimostri sulla base di elementi obbiettivi di essere giunto sul territorio dello Stato prima dell'entrata in vigore della legge 6 marzo 1998 n. 40 (art. 13, comma 15);
- quando l'espulsione è disposta per soggiorno irregolare, ai sensi dell'art. 13 comma 2, lettera b, nei confronti dello straniero che non ha chiesto il permesso di soggiorno o il suo rinnovo nel termine prescritto, o al quale il permesso è stato revocato o annullato;
- quando l'espulsione è disposta per sospetta pericolosità, ai sensi dell'art. 13, comma 2, lettera c, e non vi sia pericolo che il soggetto si sottragga all'esecuzione del provvedimento.
Nei casi di espulsione con intimazione, le questure, contestualmente al provvedimento di espulsione, devono comunicare agli uffici di frontiera i nominativi degli stranieri che devono lasciare il territorio nazionale, segnalando la data entro la quale deve avvenire l'esodo volontario. Gli uffici di frontiera verificano l'avvenuto (o il mancato) allontanamento e ne danno comunicazione alle questure. Nel caso in cui l'esodo volontario non avvenga, le questure provvedono a segnalare lo straniero affinché venga eseguita nei suoi confronti espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera (competente a disporre l'espulsione con accompagnamento alla frontiera è il prefetto del luogo in cui lo straniero viene rintracciato) (78).
Al fine di assicurare l'effettività della normativa in tema di allontanamento, la legge Turco-Napolitano ha introdotto la misura, fino ad allora sconosciuta al nostro ordinamento, del trattenimento dello straniero presso un centro di permanenza temporanea e assistenza. Lo straniero espellendo può essere trattenuto presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino, per il tempo strattamente necessario a rimuovere gli ostacoli che non consentono l'immediata espulsione, quando:
- disposta l'espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera o il respingimento (79), non si possa procedere con immediatezza all'allontanamento dello straniero, poiché occorre procedere al soccorso dello stesso, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero all'acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero per l'indisponibilità di un vettore o altro mezzo di trasporto idoneo.
- disposta l'espulsione per soggiorno irregolare ai sensi della lettera b dell'art. 13, comma secondo, da eseguirsi con intimazione a lasciare il territorio, il prefetto rilevi, in base a circostanze obiettive riguardanti l'inserimento sociale, familiare e lavorativo dello straniero, il concreto pericolo che lo straniero si sottragga all'esecuzione del provvedimento (80).
Il trattenimento temporaneo nei centri di permanenza, che mutua esperienze già realizzate in altri paesi europei "nell'intento di innalzare una nuova diga legale per proteggere le frontiere europee dai flussi indisciplinati (o indisciplinabili) di immigrazione" (81), prende il posto dell'assai meno efficace e poco utilizzata misura della sorveglianza speciale, con o senza obbligo di soggiorno in una determinata località, già prevista dalla legge Martelli all'art. 7 undicesimo comma. Il trattenimento nei centri, a differenza della vecchia sorveglianza speciale, non è un provvedimento giurisdizionale proposto dall'autorità amministrativa, bensì un provvedimento dell'amministrazione soggetto a successiva convalida giurisdizionale. L'obbligo di permanenza, disposto dal questore, è infatti trasmesso entro 48 ore al giudice unico il quale, se ricorrono i presupposti per l'espulsione e quelli per la misura del trattenimento, sentito l'interessato in camera di consiglio, nei modi di cui agli artt. 737 e seguenti del codice di procedura civile, provvede alla convalida del trattenimento, entro le 48 ore successive, pena l'inefficacia dello stesso. La convalida comporta la permanenza nel centro per un periodo complessivo di 20 giorni. Su richiesta del questore il giudice può prorogare il termine sino a un massimo di ulteriori 10 giorni, qualora sia imminente l'eliminazione dell'impedimento all'espulsione o al respingimento. Anche prima di tale termine il questore esegue l'espulsione o il respingimento non appena è possibile, dandone comunicazione senza ritardo al giudice (art. 14, comma 5).
Comunque avvenga, l'esecuzione del provvedimento di espulsione "non può provocare ingiuste sofferenze o maltrattamenti, non può recare ingiusta offesa alla dignità o reputazione dello straniero, sottoporlo a privazioni non giustificate, o a un trattamento vessatorio ed inumano"; inoltre, salvo motivi di urgenza, "deve essere concesso allo straniero un tempo sufficiente al fine di organizzare la propria partenza in relazione agli affari e ai legami esistenti nel paese espellente" (82).
2.7. Le garanzie procedurali e giurisdizionali del decreto di espulsione
Il Testo Unico sull'immigrazione configura l'espulsione come ordine di polizia di competenza, a seconda dei casi, del prefetto o del Ministro dell'Interno, e non contempla alcuna forma di partecipazione, anche solo consultiva, da parte di altre amministrazioni pubbliche, né riconosce allo straniero il diritto di essere informato del procedimento o di essere sentito. Scegliendo di discostarsi da indirizzi accolti in altre legislazioni (83) e seguendo il solco tracciato dalla tradizione, il legislatore del 1998 non ha in alcun modo reso partecipe lo straniero al procedimento di adozione del decreto di espulsione a suo carico. In particolare, la giurisprudenza ha escluso la possibilità di applicare al procedimento di espulsione gli artt. 7 e ss. della legge 241 del 1990 (riguardanti la partecipazione al procedimento amministrativo), sia in ragione del fatto che l'istituto della comunicazione dell'avvio di procedimento non va inteso come uno strumento volto ad instaurare un contraddittorio, ma come una forma di partecipazione collaborativa volta a comporre interessi contrapposti, sia per il carattere vincolato che contraddistingue le ipotesi di espulsione (84). Lo stesso art. 7 della legge 241 esclude espressamente la necessità di inviare la comunicazione di avvio del procedimento nei casi in cui sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità: ragioni ritenute dalla giurisprudenza presenti nel caso di procedimento di espulsione di cittadini extracomunitari (85). In realtà, la mancata partecipazione dello straniero costituisce "una lacuna che non può essere giustificata dal suo carattere vincolato, dal momento che i dati di fatto che comportano la sua adozione richiedono spesso un apprezzamento che non può prescindere da un confronto con l'interessato" (86).
Data la mancanza delle garanzie di carattere procedurale, la tutela dei diritti dello straniero si sposta tutta nella fase successiva all'adozione del provvedimento di espulsione, in sede di contenzioso giurisdizionale. In particolare le garanzie previste a favore dello straniero soggetto a un provvedimento di espulsione si concentrano:
- nell'obbligo di motivare l'espulsione (87);
- nell'obbligo di notificarla all'interessato (88);
- nell'indicazione delle modalità e dei termini di impugnazione;
- nella traduzione del provvedimento di espulsione in una lingua conosciuta allo straniero espulso, ovvero, ove non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola, con preferenza per quella indicata dall'interessato.
Stante la natura amministrativa dei provvedimenti di espulsione, la tutela giurisdizionale, trovava, in passato, il suo ambito naturale nella giurisdizione amministrativa. Verso il provvedimento di espulsione l'art. 5 della legge Martelli ammetteva il ricorso al Tribunale amministrativo regionale (TAR) del luogo ove l'interessato aveva il domicilio (89). Salvo i casi in cui l'espulsione era disposta dal Ministro dell'Interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, l'art. 5 al quarto comma prevedeva inoltre la possibilità della proposizione, entro 15 giorni dalla notifica del provvedimento di espulsione, di un'istanza cautelare davanti al TAR con effetto sospensivo dell'esecuzione del provvedimento, fintanto che il ricorso non fosse deciso in via definitiva.
Rispetto alla previgente disciplina la legge di riforma del 1998 sposta la competenza dell'esame dei ricorsi avverso i provvedimenti prefettizi di espulsione dal TAR al pretore civile (90), mantenendo nella competenza del giudice amministrativo (TAR del Lazio, sede di Roma) solo le espulsioni disposte dal Ministro dell'Interno per motivi di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato (91).
La competenza dei TAR viene mantenuta per i ricorsi avverso i provvedimenti amministrativi di diniego, revoca, o mancato rinnovo del permesso o della carta di soggiorno dello straniero, che molto spesso costituiscono il presupposto per l'adozione del decreto di espulsione. Ciò da vita ad una sfasatura tra i due rimedi giurisdizionali, concernente sia la competenza del giudice, sia i tempi processuali. Non risulta improbabile perciò che allo straniero regolarmente soggiornante in Italia possano venire notificati contemporaneamente sia il provvedimento con cui il questore revoca il soggiorno o rigetta la domanda di rinnovo, sia il decreto di espulsione per irregolarità del soggiorno. I tempi per il ricorso contro il provvedimento di espulsione, stabiliti dal T.U. in 5 giorni, rendono in tal caso praticamente impossibile ottenere una pronuncia preliminare del TAR sul provvedimento che, negando la concessione o il rinnovo del titolo di soggiorno comporta l'espulsione.
Una soluzione alla sfasatura tra i due giudizi si ricava da due pronunce della Corte di Cassazione, la sentenza n. 7867 del 21 gennaio/ 9 giugno 2000 e la sentenza n. 8381 del 4 aprile/ 20 giugno 2000 (92). In entrambi i casi trattati dalla Corte lo straniero era stato destinatario dapprima di un diniego di rilascio del permesso di soggiorno per regolarizzazione (ex d.p.c.m. 16 ottobre 1998) e successivamente, ed in conseguenza di esso, di un decreto di espulsione ad opera del prefetto, impugnato, senza successo, davanti al Tribunale competente. Nel caso deciso con la sentenza n. 7867 l'interessato aveva proposto, prima dell'impugnazione del decreto di espulsione, ricorso al TAR avverso il diniego del permesso di soggiorno e aveva chiesto in sede di ricorso avverso l'espulsione la sospensione del procedimento ex art. 295 del codice di procedura civile per la pregiudizialità della definizione del giudizio amministrativo. Nel caso deciso con la sentenza n. 8381, invece, vi era stata contestualità della notifica dei due provvedimenti amministrativi e lo straniero lamentava l'illegittimità del decreto di espulsione assunto nelle more del decorso del termine di impugnazione del diniego del permesso di soggiorno, ovvero prima che potesse esercitare il diritto di difesa in merito all'atto sul cui presupposto era stata emessa l'espulsione. Poiché il giudice, nel primo dei casi descritti, non si era pronunciato sulla richiesta di sospensione del giudizio ex art. 295 del codice di procedura civile, la Corte di cassazione ha risolto la prima questione rinviando a nuovo giudice l'ordinanza di ricorso avverso l'espulsione. Nel secondo caso, invece, la Cassazione ha confermato il provvedimento di rigetto del ricorso avverso il decreto di espulsione, affermando l'insussistenza del rapporto di pregiudizialità tra i due atti e ritenendo decisivo al fine di non poter accogliere le richieste del ricorrente, il fatto che lo straniero non avesse comprovato la pendenza del giudizio davanti al TAR, atto che gli avrebbe consentito di chiedere la sospensione del giudizio sull'espulsione ai sensi dell'art. 295 codice di procedura civile. La Corte di cassazione in quest'ultima sentenza (n. 8381) nega la pregiudizialità tra i due provvedimenti in quanto "non esiste pregiudizialità tra provvedimenti amministrativi, ma anche, e soprattutto, perché la vigente normativa offre adeguate garanzie di difesa allo straniero sia nei confronti del provvedimento di espulsione, sia nei confronti del diniego del permesso di soggiorno, e ciò senza che l'eventuale contestualità dei due provvedimenti possa comportare pregiudizio per l'esercizio del diritto di impugnazione previsto dalla legge (93). Va considerato, infatti, che lo straniero che sia raggiunto da entrambi i provvedimenti può impugnarli dinanzi ai giudici rispettivamente competenti e chiedere al Tribunale ordinario la soppressione necessaria del procedimento fino alla definizione di quello instaurato dinanzi al giudice amministrativo contro il diniego del permesso di soggiorno".
In mancanza del riconoscimento di una vera e propria pregiudizialità tra provvedimenti amministrativi, la Corte di cassazione apre però la strada all'utilizzo della sospensione ex art. 295 del giudizio ordinario sull'espulsione in pendenza, davanti al giudice amministrativo, del ricorso contro il provvedimento di diniego, di mancato rinnovo o di revoca del permesso di soggiorno. "È questo il meccanismo con il quale tentare una sorta di reductio ad unitatem dei due giudizi a differente giurisdizione" (94).
Nonostante la Corte di cassazione nella sentenza n. 8381 abbia limitato questa soluzione all'ipotesi in cui il ricorso avverso l'espulsione intervenga quando è già stato proposto quello avverso il diniego di permesso di soggiorno, e non anche quando (ipotesi più frequente) il termine per presentare impugnazione davanti al TAR non sia ancora decorso, nella prassi si ha la sospensione del giudizio ordinario anche in pendenza del termine per proporre ricorso al giudice amministrativo (95).
La misura della sospensione del giudizio ordinario tuttavia non può da sola garantire l'effettività del diritto di difesa se non è accompagnata anche dalla necessaria sospensione, da parte del giudice ordinario, dell'efficacia del decreto di espulsione. Poiché infatti la proposizione del ricorso espulsivo non ha un effetto sospensivo ex lege, l'allontanamento dello straniero può essere disposto coattivamente se questi non esegue spontaneamente l'intimazione a lasciare il territorio nazionale entro 15 giorni dalla notifica del decreto. Con la sospensione della decisione ex art. 295 il giudice difficilmente potrà pronunciarsi sul ricorso entro i 15 giorni intimati allo straniero, per cui anche a giudizio sospeso potrebbe disporsi l'espulsione con accompagnamento coattivo nei confronti dello stesso straniero. È pertanto necessario accompagnare alla sospensione del giudizio anche la sospensione dell'esecutività dell'espulsione ricorrendo ai provvedimenti cautelari ex art. 700 del codice di procedura civile.
Si noti infine che l'orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene che la sospensione dell'efficacia del decreto di espulsione debba essere disposta a prescindere dalla circostanza che il giudice amministrativo si sia o meno pronunciato sull'istanza cautelare di sospensione del diniego o della revoca del permesso di soggiorno.
2.7.1. I termini per ricorrere contro i provvedimenti di espulsione
Nel caso di espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera, la legge prevede la possibilità di ricorrere contro il provvedimento solo dopo la sua esecuzione. In questo caso, il ricorso deve essere presentato fuori dal territorio italiano, per il tramite della rappresentanza diplomatica o consolare italiana dello Stato di destinazione (96), entro 30 giorni dalla notifica o dalla conoscenza del provvedimento di espulsione da parte dello straniero (art. 13, comma 10 T.U.). Se l'espulsione, eseguita con accompagnamento immediato alla frontiera è emanata dal Ministro dell'Interno per motivi di ordine pubblico o sicurezza dello Stato, lo straniero ha 60 giorni di tempo per presentare ricorso al TAR del Lazio, tramite la rappresentanza diplomatica e consolare.
Per usufruire del termine di 30 o di 60 giorni si discute in giurisprudenza (97) se sia sufficiente che l'espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera venga disposta o sia, invece, necessario che venga anche eseguita. Il problema si è posto, in particolar modo, nell'ipotesi di espulsione con accompagnamento immediato con contestuale decreto di trattenimento presso un centro di permanenza temporanea e assistenza. In tale ipotesi, secondo detta giurisprudenza, lo straniero non disporrebbe del termine di 30 giorni per impugnare il provvedimento espulsivo, poiché la concessione di questo termine deve ritenersi limitata al caso in cui l'espulsione sia materialmente eseguita con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica.
Contro l'espulsione con intimazione a lasciare il territorio, e contro l'espulsione con trattenimento in un centro di permanenza temporanea, lo straniero deve invece presentare ricorso entro 5 giorni dalla data di comunicazione del provvedimento (art. 13, comma 8). In tal caso, il giudice è tenuto a pronunciarsi entro 10 giorni dalla data di deposito del ricorso (art. 13, comma 9).
L'impugnazione presentata fuori i termini, è inammissibile, a meno che il soggetto non sia rimesso in termini da parte del giudice di merito. Al riguardo, la Corte costituzionale, con sentenza 8-16 giugno 2000 n. 198 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale, del 21 giugno 2000, n. 26) ha ravvisato, nel caso di ricorso tardivo, un'ipotesi di rimessione in termini nel caso in cui il provvedimento di espulsione sia stato notificato allo straniero omettendo la traduzione nella lingua a lui nota. Secondo la Corte, in mancanza della traduzione, lo "strumento di conoscibilità dell'atto espulsivo viene messo in discussione" e, conseguentemente, anche il termine perentorio per la sua ricorribilità può essere disapplicato. Il giudice di merito, accertata di volta in volta che l'omessa traduzione abbia effettivamente influito sull'esercizio del diritto di difesa dello straniero, non consentendogli di presentare il ricorso nei termini prescritti, può perciò rimettere in termini il ricorrente (98).
L'art. 13, nella parte in cui prevede il termine di 5 giorni per impugnare il decreto di espulsione e quello di 10 per decidere sul ricorso è stato oggetto di questione di legittimità costituzionale sollevata dal Pretore di Padova (11 giugno 1998) e da quello di Palermo (17 ottobre 1998). Secondo i giudici rimettenti, detti termini non sarebbero conformi al diritto di difesa, garantito dall'art. 24 della Costituzione anche allo straniero espulso, poiché il termine per l'impugnativa non consentirebbe l'articolazione di un'ampia e completa difesa e quello per la decisione impedirebbe al giudice di svolgere un'adeguata istruttoria.
La Corte costituzionale, con sentenza n. 161 del 25/31 maggio 2000 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 7 giugno 2000, n. 24), ha ritenuto entrambe le questioni non fondate per difetto di rilevanza in quanto, da una parte, entrambi i ricorsi sono stati proposti tempestivamente e, dall'altra, i giudici rimettenti non hanno né indicato sotto quali aspetti la brevità del termine avrebbe potuto compromettere la difesa dei ricorrenti, né le attività istruttorie che sarebbero state loro impedite in ragione del breve termine di definizione imposto dal legislatore. Dunque, la mancata indicazione concreta delle sospette lesioni al diritto di difesa, ha impedito alla Corte di entrare nel merito di una valutazione di ragionevolezza e conformità costituzionale dei brevi termini processuali previsti dalla legge nel procedimento relativo alle espulsioni.
La Corte non ha però del tutto disatteso la richiesta di valutazione della congruità costituzionale del termine per proporre ricorso avverso le espulsioni. Il TAR Toscana ha sollevato questione di legittimità costituzionale del termine breve per impugnare previsto dalla legislazione previgente alla legge n. 40. Detto giudice amministrativo, al quale dopo l'entrata in vigore della legge n. 40 del 1998 la Corte aveva rinviato la questione alla luce dello jus superveniens, ha indotto nuovamente il giudizio di costituzionalità, dubitando della legittimità del termine di 7 giorni (art. 7, comma 3 decreto legge 269 del 1996, non convertito in legge ma con salvezza dei diritti maturati) per la proposizione del ricorso contro il provvedimento di espulsione (all'epoca di competenza dei TAR) ritenendolo eccessivamente ridotto per l'esercizio effettivo del diritto di difesa. La Corte, che ha affrontato la questione sempre con la sentenza n. 161 del 2000, ha ritenuto il termine di 7 giorni conforme all'art. 24 della Costituzione, osservando come, nel caso in specie, "la necessità di una sollecita definizione del procedimento di impugnazione", rispondente senza dubbio "all'interesse generale di un razionale ed efficiente controllo dell'immigrazione da paesi extracomunitari" sia tale da rendere ragionevole il breve termine di sette giorni in oggetto (99).
Poiché i tempi per il ricorso (5+10) dovrebbero coincidere con quelli assegnati dall'intimazione a lasciare il territorio contenuta nel provvedimento di espulsione (100), la Corte, ancora una volta nella sentenza in esame, ha ritenuto non sussistente la necessità dei meccanismi di sospensiva automatica dell'espulsione, (previsti, invece, nella previgente normativa) a favore della possibilità di una sospensione caso per caso rimessa al giudice procedente. La questione è stata sollevata ancora una volta dai pretori di Padova e di Palermo, i quali, portando all'attenzione della Corte i loro dubbi di legittimità sui termini, hanno altresì dubitato della legittimità costituzionale della mancata previsione, nel sistema processuale inerente le espulsioni, di una norma che consenta la sospensione cautelare dell'efficacia del provvedimento di espulsione qualora non sia possibile per il giudice definire il giudizio nel termini di 10 giorni (101). Secondo la Corte la disciplina sui ricorsi contro i provvedimenti espulsivi "non è mutila nella parte in cui non prevede strumenti di sospensione cautelare: semplicemente, non li prevede essendo superflui, se e in quanto il procedimento segua il suo iter normale". Così facendo la Corte traccia una divisione tra giudizio 'normale' e giudizio 'patologico', escludendo solo per il primo la possibilità (perché non necessaria) della sospensione. La Corte lascia all'interprete e ai giudici di merito il compito di definire in concreto quale sia la normalità dell'iter indicando soltanto, come cause possibili di sospensione del provvedimento, il ritardo o l'impedimento del giudice (102) e lasciando così un ampio margine di discrezionalità nell'individuazione della possibilità di fare applicazione dello strumento cautelare da parte del giudice di merito. La mancata previsione di strumenti cautelari non comporta quindi alcuna lesione del diritto di difesa dello straniero quando la decisione del giudice perviene nel termine di 10 giorni indicato dal legislatore, poiché la congruità temporale tra il provvedimento di espulsione ed il provvedimento giurisdizionale esclude ogni esigenza cautelare. Qualora invece il ritardo o l'impedimento del giudice "non consentano di garantire siffatta congruità la tutela cautelare, a detta della Corte, "non sarebbe superflua", in quanto la disciplina vigente non prevede, quale conseguenza della mancata definizione del giudizio nel termine di legge, la decadenza del provvedimento impugnato, bensì la sua piena esecutività. Se ne deduce che, mancando una sanzione in caso di inosservanza del termine di 10 giorni, questo termine deve intendersi ordinatorio.
2.7.2. Gli aspetti procedurali del ricorso
L'art. 13 comma 9, così come modificato dal decreto legislativo del 13 aprile 1999 n. 113, prevede che il ricorso avverso l'espulsione venga presentato al giudice del Tribunale del luogo ove ha sede l'autorità che ha disposto l'espulsione. Il T.U., nel caso in cui il giudizio venga presentato davanti ad un giudice territorialmente incompetente, non affronta né la possibilità di sospendere l'esecutività dell'espulsione, né la legittimità del ricorso presentato, fuori termini, al giudice competente, successivamente adito (103).
Copia del ricorso deve essere fatta pervenire all'autorità che ha adottato il provvedimento espulsivo, così da permette alla prefettura di depositare le proprie osservazioni entro 5 giorni dalla data di notifica del ricorso presso i propri uffici (art. 18, comma 2, regolamento di attuazione) e di presenziare al giudizio personalmente o a mezzo di propri funzionari specificamente delegati (art. 13 bis secondo comma, inserito dall'art. 4 decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 113) (104).
Il ricorso può essere presentato personalmente dallo straniero, il quale può riservarsi di precisare i motivi dello stesso successivamente, ma non oltre l'udienza fissata dal Tribunale ai sensi dell'art. 737 del codice di procedura civile. Durante il giudizio lo straniero deve essere assistito da un difensore e, ove necessario, da un interprete (art. 13 del T.U.). In mancanza di un avvocato di fiducia, il giudice designa un difensore di ufficio nell'ambito dei soggetti iscritti nella tabella di cui all'art. 29 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989 n. 271 e successive modificazioni). Lo straniero, "qualora ne sussistano i presupposti", è ammesso al gratuito patrocinio a spese dello Stato ai sensi della legge 30 luglio 1990, n. 217 (art. 3 regolamento di attuazione) (105).
Il giudice, ricevuto il ricorso, fissa l'udienza con decreto steso in calce allo stesso e decide, "con unico provvedimento" in camera di consiglio ex artt. 737 e seguenti del codice di procedura civile, entro il termine di 10 giorni dalla data di deposito del ricorso presso la cancelleria (art. 13, comma 9 T.U.). La procedura in camera di consiglio, prevista qui con le varianti dell'audizione dell'interessato e della sua assistenza da parte di un difensore, non deve trarre in inganno circa la natura della giurisdizione in oggetto. Il ricorso avverso il provvedimento di espulsione non è infatti un procedimento di giurisdizione volontaria, come sono per lo più i procedimenti camerali, bensì è un giudizio di natura contenziosa (106).
La decisione deve essere assunta nella forma del decreto motivato, e può essere di accoglimento (107) o di rigetto del ricorso. Il giudice accoglie il ricorso, quando ritiene che l'espulsione sia stata emessa in difetto dei presupposti di legge. In tal caso il giudice, in deroga al divieto di cui all'art. 4, comma 2 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E (108), revoca il provvedimento impugnato. Il ricorso è rigettato qualora il giudice ritenga che l'espulsione sia stata disposta in presenza dei presupposti di legge.
L'art. 13 bis comma 4 (introdotto dall'art. 4 del Decreto legislativo 13 aprile 1999 n. 113), prevede infine che la decisione del giudice non sia reclamabile (109) al Tribunale entro 10 giorni dalla comunicazione o dalla notifica, bensì impugnabile per Cassazione.
Note
1. Si ha una riserva di legge quando, in una determinata materia, la Costituzione esclude (riserva assoluta) o limita entro ambiti circoscritti (riserva relativa) la produzione di regolamenti da parte del potere esecutivo. In tali casi la materia riservata deve necessariamente trovare nella legge una sufficiente disciplina. Si ritiene che nel caso disciplinato dall'art. 10 della Costituzione si sia in presenza di una riserva di legge relativa: l'obiettivo della tutela dello straniero contro atti discriminatori da parte dell'esecutivo non richiede che venga precluso all'esecutivo l'esercizio di qualsiasi attività normativa nella materia oggetto della riserva (si pensi che è il Governo a programmare i flussi di ingresso).
2. I cittadini dell'Unione europea restano esclusi dalla legislazione in esame, salvo il caso in cui questa contenga norme più favorevoli.
3. Ciò significa che i diritti fondamentali sono riconosciuti a tutti gli stranieri che si trovano in Italia a prescindere dalla loro condizione di irregolarità o meno.
4. P. L. Di Bari, Non passa lo straniero, in "Questione giustizia", 1998, 1, pag. 235.
5. L'ampiezza dei poteri di espulsione è, di fatto, ulteriormente accresciuta dalla esclusione di ogni obbligo di motivazione e dall'assenza di garanzie di carattere cautelare che consentano allo straniero di ottenere una tutela satisfattiva delle sue pretese in sede di impugnazione giurisdizionale dei provvedimenti.
6. A. Caputo, Espulsione e detenzione amministrativa degli stranieri, "Questione Giustizia", 1999, 3, p. 425.
7. A. Caputo, op. cit., "Questione Giustizia", 1999, 3, p. 425.
8. La legge Martelli, nel riformulare le ipotesi di espulsione, ha eliminato la fattispecie dell'espulsione a seguito di condanna per delitti, prevista nel Testo unico di pubblica sicurezza, sostituendola con due distinte previsioni, riguardanti l'una, gli stranieri che "abbiano riportato condanna con sentenza passata in giudicato per uno dei delitti previsti dall'art. 380 primo e secondo comma, codice di procedura penale" (art. 7, primo comma) e l'altra, gli stranieri "che si siano resi responsabili, direttamente o per interposta persona, in Italia e all'estero di violazioni gravi di norme valutarie, doganali, o in genere, delle norme sulla tutela del patrimonio artistico, o in materia di intermediazione di manodopera nonché di sfruttamento della prostituzione o del reato di violenza carnale e comunque dei delitti contro la libertà sessuale" (art. 7, secondo comma).
9. Questo decreto proclama l'intenzione di ridurre il sovraffollamento delle carceri, ma allo stesso tempo prevede da una parte, una norma che sanziona penalmente lo straniero che si sottrae volontariamente ai controlli di frontiera, dall'altra, una nuova figura di reato che criminalizza la condotta di chi non si adopera per ottenere, dalla competente autorità diplomatica o consolare, il rilascio di documenti di viaggio occorrenti per l'ingresso in Italia.
10. L'omissione degli adempimenti e delle formalità prescritte dal regolamento di attuazione in materia di ingresso non è sanzionata né con il respingimento alla frontiera, né con l'espulsione. Tra le formalità previste dal regolamento di attuazione si veda per esempio quella relativa al timbro di ingresso che il personale addetto ai controlli di frontiera ha l'obbligo di apporre sul passaporto (art. 7, comma 2 regolamento). Il timbro attesta la data d'ingresso e la non elusione dei controlli di frontiera da parte dello straniero. La mancata apposizione del timbro, assai frequente nella pratica, non rende in sé irregolare l'ingresso, né comporta il successivo rifiuto del permesso di soggiorno. Non sussiste infatti, al riguardo, uno specifico obbligo dello straniero (esso semmai è a carico della polizia di frontiera), né il timbro costituisce l'unico mezzo per dimostrare la data o la regolarità dell'ingresso: entrambe possono essere provate con il timbro di uscita dell'autorità di frontiera straniera apposto ad un valico di confine con l'Italia.
11. Lo straniero che intende entrare nel territorio italiano ha l'onere di passare attraverso i valichi di frontiera appositamente istituiti, salvo i casi di forza maggiore previsti dall'art. 7, commi 3, 4 e 5 del regolamento. L'obbligo dello straniero è strumentale all'effettuazione dei controlli da parte della polizia di frontiera "compresi quelli richiesti in attuazione della Convenzione di applicazione degli Accordi di Schengen" (art. 7, comma 1 Regolamento).
12. Secondo la circolare del Ministero degli Affari Esteri n. 8 del 1997 su "Il sistema dei visti e dell'ingresso degli stranieri in Italia e nello Spazio Schengen", il personale preposto ai controlli, ai fini dell'eventuale respingimento deve valutare "con ponderata discrezionalità la sufficienza dei mezzi finanziari di cui dispone lo straniero, basandosi in particolare sulla durata e sul motivo del soggiorno, sulla cittadinanza dell'interessato (in relazione alla sua possibile appartenenza a Stati che presentino elevati rischi di immigrazione illegale), sulle condizioni socio economiche dello straniero, sulle circostanze del viaggio e del soggiorno e sul tipo del mezzo di trasporto utilizzato. La disponibilità di mezzi finanziari può essere dimostrata non solo mediante esibizione di denaro contante, ma anche con carte di credito o altri titoli quali traveller's cheques, etc. [...] Lo straniero deve disporre sempre di un biglietto di viaggio di ritorno o, comunque, di mezzi finanziari idonei a procurarselo in aggiunta a quelli ritenuti necessari per il soggiorno".
13. Per poter adottare questa misura occorre provare caso per caso la relazione temporale e causale rispetto all'ingresso del clandestino.
14. I centri di accoglienza, nati per fronteggiare il fenomeno dell'immigrazione clandestina in Puglia, sono centri di temporaneo soccorso istituiti dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563 e disciplinati dal regolamento di attuazione n. 233 del 1996.
15. Non è possibile eseguire con immediatezza il respingimento quando occorre procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità nazionale, o all'acquisizione di documenti per il viaggio, o non vi è la disponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo.
16. Art. 3, comma 1 legge 7 agosto 1990, n. 241; si veda anche l'art. 3, comma 3 regolamento.
17. In quanto provvedimento amministrativo potenzialmente lesivo di interessi legittimi, il provvedimento di respingimento è impugnabile con i mezzi di tutela ordinari della giustizia amministrativa. Si noti che nel T.U. manca un'esplicita indicazione al riguardo e che la tutela giurisdizionale si ricava dall'art. 2 comma 1 del T.U., secondo cui i diritti fondamentali della persona, e quindi anche quello alla difesa e ad agire in giudizio, sono garantiti allo straniero "comunque presente alla frontiera".
18. Nel caso di respingimento immediato disposto dalla polizia di frontiera, il ricorso gerarchico deve essere presentato al questore; mentre nel caso di respingimento differito disposto dal questore, deve essere presentato al Ministro dell'Interno.
19. Lo straniero respinto può successivamente fare ingresso regolare nel territorio se si presenta a un valico di frontiera in possesso dei requisiti di legge.
20. A. Caputo, Espulsione e detenzione amministrativa degli stranieri, "Questione Giustizia", 1999, 3, p. 428.
21. La legge Martelli prevedeva che il provvedimento di espulsione fosse preso dal Ministro dell'Interno di concerto con il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministero degli Affari esteri; la legge del '98 prevede invece la sola comunicazione ai predetti organi.
22. Non rientra in questa previsione 'ogni ingresso irregolare' ma solo quello 'clandestino', ossia l'ingresso dello straniero avvenuto sottraendosi ai controlli di frontiera, circostanza che dovrà in ogni caso essere provata anche presuntivamente dalla pubblica amministrazione.
23. Pubblicata in "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 1999, 3, pp. 141 ss.
24. Sulla necessità che l'allontanamento dal territorio debba essere giustificato da serie trasgressioni e non da violazioni solo formali si veda anche P. L. Di Bari, Irregolarità del soggiorno:non basta il superamento dei termini per essere espulsi, "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 1999, 3, pp. 90 ss.
25. La mancata concessione del nulla osta dell'autorità giudiziaria comporta l'illegittimità del provvedimento di espulsione.
26. Con autorità giudiziaria si intende sia la figura del giudice che quella del pubblico ministero.
27. Il concetto di inderogabili esigenze processuali è molto generico, sia in riferimento alla tipologia, sia per quanto riguarda l'individuazione dei soggetti processuali a cui si riferisce l'inderogabilità: difesa e accusa possono valutare in maniera diversa l'inderogabilità delle esigenze processuali. Si ritiene che il legislatore abbia inteso escludere "la concedibilità del nulla osta nei casi in cui la presenza del cittadino straniero sia funzionale, per un verso, alla raccolta degli elementi necessari alle determinazioni del pubblico ministero in ordine all'azione penale (nella fase delle indagini preliminari) e, per altro verso, alla formazione della prova in giudizio (nelle fasi successive)", A. Caputo, Espulsione amministrativa e nulla osta dell'autorità giudiziaria, "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 1999, 3, p.96.
28. È pertanto da escludere la possibilità di procedere ad espulsione amministrativa dello straniero sottoposto a misura cautelare detentiva: in questa ipotesi, l'allontanamento può essere disposto, previo nulla osta del giudice delle indagini preliminari, solo alla cessazione della misura cautelare.
29. Manca nella legge un'analoga tutela del diritto alla difesa dello straniero nel giudizio civile o amministrativo. Vige comunque la prassi di concedere un 'visto per invito' allo straniero che esibisca un atto di convocazione di un'autorità giudiziaria italiana, in relazione ad un procedimento in corso in Italia, e un 'visto per lavoro autonomo di breve durata' all'avvocato di fiducia che eventualmente lo accompagna. Si noti che è del tutto privo di tutela lo straniero coinvolto nel procedimento penale in qualità di persona offesa o di parte civile e cioé in posizione processuale diversa da quella dello straniero indagato o imputato.
30. Si noti che l'art. 17 introduce una norma di portata generale applicabile allo straniero al quale, per qualsiasi ragione (respingimento alla frontiera, espulsione amministrativa, espulsione giudiziaria), sia giuridicamente precluso l'ingresso in Italia.
31. Si noti che ai sensi dell'art. 445, primo comma del codice di procedura penale, la misura di sicurezza dell'espulsione non può essere disposta in caso di condanna su patteggiamento.
32. L'espulsione a titolo di misura di sicurezza può essere disposta in caso di condanna per reati di basso allarme sociale come ad esempio lesioni personali, furto semplice, minaccia a pubblico ufficiale, appropriazione indebita.
33. La legge n. 663 del 1986 ha riformato la disciplina delle misure di sicurezza, eliminando la cosiddetta pericolosità sociale presunta che giustificava in determinati casi l'automatismo dell'espulsione come misura di sicurezza e che aveva caratterizzato il Teso unico di pubblica sicurezza. Questa legge riformulando l'art. 204 del codice penale, prescrive all'art. 31, secondo comma, che l'applicazione delle misure di sicurezza deve essere preceduta in ogni caso, e quindi anche nell'ipotesi dell'espulsione, da una concreta valutazione, da parte del giudice, della pericolosità sociale del condannato sulla base dei parametri stabiliti dall'art. 113 del codice penale. L'esclusione di ogni automatismo non rappresenta peraltro una mera scelta legislativa, ma costituisce la necessaria applicazione di un principio generale dell'ordinamento penale espresso nel 1995 dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 58: "la condizione di straniero non può legittimare una presunzione legislativa di pericolosità dalla quale consegue una misura di sicurezza" (l'espulsione appunto) "incidente sulla libertà personale garantita dall'art. 13 della Costituzione". Le misure di sicurezza, possono essere oggi disposte nei confronti solo delle persone socialmente pericolose (art. 202 codice penale), cioé quando si ravvisi la possibilità che il condannato commetta nuovi reati (art. 203 codice penale) e non conseguono mai automaticamente alla condanna.
34. La previsione dell'applicabilità di detto istituto anche per sentenza di condanna con pena a richiesta delle parti ex 444 codice di procedura penale ne estende notevolmente l'ambito di applicazione.
35. Tale termine non inferiore a 5 anni decorre dalla data di esecuzione dell'espulsione che viene eseguita dal questore anche se la sentenza non è definitiva. Niente è detto nel T.U. sul caso dello straniero che rientri prima della scadenza del termine nel territorio italiano: nel silenzio della legge, si ritiene che lo straniero rientrato debba scontare la sentenza di condanna o di patteggiamneto disposta nei suoi confronti alla cui esecuzione era stata sostituita l'espulsione.
36. Solo l'assenso preventivo dell'interessato consentiva, in assenza di una condizione di pericolosità accertata, di adottare la misura dell'espulsione. Il carattere di volontarietà dell'espulsione, unito al fatto che il giudice non era tenuto a compiere alcuna valutazione di pericolosità, non consentiva di qualificare il provvedimento come una espulsione in senso proprio, ma piuttosto come un 'allontanamento patteggiato', che non estingueva la pena o il procedimento penale, ma aveva solo l'effetto di sospendere i termini della custodia cautelare o della esecuzione della pena: l'obbligatorietà dell'azione penale e la soggezione alla potestà punitiva erano così formalmente salvate, G. Siriani, La polizia degli stranieri, Giappichelli, Torino 1999, p. 89.
37. Con la legge del 1998 si perde la preventiva richiesta dell'interessato, che la giurisprudenza costituzionale aveva valutato, con sentenza n. 62 del 1994, come "requisito diretto ad armonizzare la condizione dello straniero ai valori costituzionali cui il legislatore deve riferirsi nel prevedere una misura incidente sulla libertà personale".
38. Si noti che il giudice non ha l'onere di motivare la sua decisione di irrogare l'espulsione in luogo della detenzione o viceversa; il giudice deve tuttavia motivare la propria scelta circa la durata dell'espulsione.
39. Il pretore di Roma ha sottolineato l'enorme dilatazione dei presupposti applicativi della misura.
40. G. Siriani, La polizia degli stranieri, Giappichelli, Torino 1999, p.91.
41. A. Casadonte, La Corte costituzionale e l'espulsione dello straniero: un'ordinanza che non convince, "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 1999, 3, p.87.
42. Questo articolo esprime, in parte, il principio consuetudinario di diritto internazionale del non refoulement (ovvero del non respingimento). Detto principio comprende anche il divieto di espellere o allontanare uno straniero verso un paese nel quale corra il pericolo di persecuzione a causa della sua 'condizione personale'. La tutela contro questo rischio deve ritenersi operante a livello internazionale sebbene non espressamente inserito tra i divieti riportati nell'art. 33 della Convenzione di Ginevra. Deve ritenersi quindi vigente il divieto di allontanamento, (almeno verso il paese in cui sussistesse il rischio di persecuzione) della prostituta che tornando in patria possa essere perseguitata dalla malavita per non aver pagato il suo 'debito'.
43. In questo caso il rifugiato, a meno che imperiosi motivi di sicurezza nazionale lo impediscano, dovrà però essere messo in condizione di fornire prove a suo discarico e di presentare ricorso (art. 32 Convenzione relativa allo status di rifugiato).
44. Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza 20 marzo 1991 caso Cruz Varas et autres contro Svezia; sentenza 15 novembre 1996 caso Chahal contro Regno Unito.
45. Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza 17 dicembre 1996 caso Ahmed contro Austria.
46. Corte europea dei diriti dell'uomo, sentenza 2 maggio 1997 caso D. contro Regno Unito. La Corte ha ritenuto che l'espulsione del soggetto in questione, verso il suo paese (St. Kitts, isola delle Antille) avrebbe comportato un rischio di violazione dell'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in base al quale "nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti", essendo lo straniero, condannato per traffico di stupefacenti, gravemente malato di AIDS. L'improvviso arresto delle cura mediche, che il soggetto stava ricevendo in Inghilterra, nonché le carenze sanitarie dell'isola di St. Kitts, lo avrebbero esposto a rischio reale di morte in circostanze particolarmente dolorose e inumane.
47. L'applicabilità delle garanzie fissate è riferita solo agli stranieri legalmente presenti nel territorio dello Stato, escludendo in questo modo le ipotesi più frequenti di espulsione dovute alla violazione delle norme sul soggiorno.
48. Non è specificato se l'interessato debba essere messo in condizione di far valere le proprie ragioni prima dell'adozione del provvedimento, o sia sufficiente un riesame dopo che il provvedimento è stato eseguito.
49. Si noti che la norma non specifica le modalità di accertamento dei presupposti indicati.
50. Il secondo comma dell'art. 19 del T.U. si riferisce solo a casi di espulsione e non anche alle ipotesi del respingimento alla frontiera.
51. Nel caso in cui il Ministro dell'Interno intenda procedere ex art. 13 primo comma all'espulsione di un minore straniero "il provvedimento è adottato su richiesta del questore dal Tribunale per i minorenni" (art. 31, comma quarto, del T.U.).
52. Lo stato di gravidanza deve essere attestato da una struttura pubblica e la nascita del figlio dimostrata con certificato di nascita. Si noti che questa ipotesi più che un divieto assoluto di espulsione contempla una temporanea sospensione di questo potere fondata sulla particolare tutela che l'ordinamento appresta alla donna in gravidanza e al figlio minore nato o nascituro.
53. M. Bouchard, Corte costituzionale, immigrazione e protezione dell'unità familiare, "Questione Giustizia", 2000, 5, p. 1004.
54. Il rispetto dell'unità familiare per gli immigrati era in passato disciplinato dall'art 4 della legge 30 dicembre 1986 n. 943 e dalle circolari interpretative del Ministero dell'Interno sul ricongiungimento familiare. Questa normativa disciplinava l'ingresso nel paese del lavoratore di sesso maschile e il successivo arrivo, al seguito, dei familiari 'improduttivi', subordinato all'inserimento consolidato del primo, sia dal punto di vista economico che da quello sociale e non prevedeva l'inespellibilità del minore straniero irregolare. "Non meno paradossale, e ricorrente, era la situazione familiare di quei bambini le cui madri ancorché regolarmente presenti sul territorio o, addirittura, coniugate con un cittadino italiano (diverso dal padre del bambino) non riuscivano a soddisfare le condizioni di legge per il ricongiungimento familiare: "per questi bambini (e per quelle madri) la legge italiana consacrava il principio della divisone familiare", M. Bouchard, Corte costituzionale, immigrazione e protezione dell'unità familiare, "Questione Giustizia", 2000, 5, p. 1003.
55. Nello stesso senso si esprimono l'art. 10 del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, l'art. 23 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966, (ratificati e resi esecutivi dalla legge 25 ottobre 1977, n. 881) e gli artt. 8 e 9 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui diritti del fanciullo, (ratificata e resa esecutiva dalla legge 27 maggio 1991, n. 176). Il giusto contemperamento tra l'interesse del soggetto a condurre una vita familiare e l'interesse generale alla difesa dell'ordine pubblico, è ribadito anche dalla Corte europea (sentenza 21 giugno 1988 caso Berrehab contro Paesi Bassi; sentenza 8 febbraio 1991 caso Moustquim contro Belgio; sentenza 26 marzo 1992 caso Beldjoudi contro Francia;sentenza 26 settembre 1997 caso Mehemi contro Francia).
56. Il rapporto di parentela deve essere dimostrato dallo straniero tramite documentazione autenticata e legalizzata dalla rappresentanza diplomatica o consolare italiana presso il paese di appartenenza. L'accertamento della convivenza è requisito essenziale per l'efficacia del divieto. Sulla nozione di 'convivenza' ai fini della norma in questione si veda il Tribunale di Torino decisione 12 marzo 1999, in "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 1999, 3, pp. 128 ss.
57. Secondo il rimettente l'art. 19 nella parte in cui non ricomprende tra i divieti di espulsione quello nei confronti degli stranieri conviventi more uxorio con cittadini italiani violerebbe l'art. 3 della Costituzione in quanto determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra lo straniero convivente more uxorio con un cittadino, da una parte e lo straniero convivente con un parente entro il quarto grado o con il coniuge italiano dall'altra, essendo le situazioni di fatto assimilabili in base alla ratio della norma volta ad evitare lo sradicamento dello straniero dal nucleo familiare in cui vive.
58. La Corte costituzionale si era già pronunciata in tal senso nel 1980 con la sentenze n. 45, nel 1986 con sentenza n. 237 e nel 1997 con sentenza n. 127.
59. Il pretore di Termini Imerese, sollevando questione di legittimità ha osservato come l'art. 19, secondo comma, alla lettera d, non ricomprendendo il divieto di espulsione del marito convivente con donna incinta o puerpera, e omettendo di considerare le esigenze del minore ad essere educato, tutte le volte che ciò sia possibile, in un nucleo familiare composto da entrambi i genitori, si porrebbe in contrasto con gli articoli 29 e 30 della Costituzione che tutelano il diritto del figlio ad usufruire delle cure e dell'affetto di entrambi i genitori (principio di paritetica partecipazione di entrambi i coniugi alla cura ed alla educazione della prole).
60. Il minore di quattordici anni può altresì essere iscritto nel permesso di soggiorno del genitore o dell'affidatario straniero regolarmente soggiornante. Se si tratta di minore abbandonato è immediatamente informato il Tribunale per i minorenni per i provvedimenti di competenza (art. 28 lettera a, regolamento di attuazione, n. 394) ed il comitato per i minori stranieri.
61. La certificazione sanitaria deve attestare lo stato di gravidanza ed il permesso ha durata per i sei mesi successivi alla nascita del figlio.
62. Al richiedente asilo viene rilasciato un permesso di soggiorno temporaneo recante la dicitura" Convenzione di Dublino 15-6-90" che lo autorizza alla permanenza sul territorio per un mese e che può essere prorogato fino a quando non viene accertata la competenza dell'Italia all'esame della domanda di riconoscimento.
63. A seguito del Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 12 maggio 1999 ("misure di protezione temporanea, a fini umanitari, da assicurarsi nel territorio dello Stato a favore delle persone provenienti dalle zone di guerra dell'area balcanica") i cittadini Kosovari, nonché tutti gli appartenenti alla Repubblica Federale di Jugoslavia entrati in Italia dopo il 26 marzo 1999 (data della dichiarazione dello stato di emergenza), sono stati protetti dal pericolo di espulsione verso i paesi dell'area Balcanica in guerra. Per costoro è stato autorizzato il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione temporanea con validità limitata (inizialmente il permesso concedeva il soggiorno fino al 31 dicembre 1999, in seguito la protezione è stata estesa fino al settembre del 2000).
64. Così Pretura di Pisa, 18 aprile 1998; Pretura di Udine, 19 giugno 1998 in "Guida al Diritto, 1998, 28, p. 48; pretura di Padova, 7 settembre 1998, "Diritto immigrazione e cittadinanza", 1998, 2, p. 93.
65. Si noti che il decreto, noto come decreto Prodi, non contiene alcuna previsione in merito alla possibilità di adottare o eseguire espulsioni nei confronti dei candidati alla regolarizzazione, e ciò sia nel periodo intercorrente tra la pubblicazione del decreto e la data ultima stabilita per la presentazione delle istanze (15.12.98), sia successivamente alla presentazione della domanda, per chi abbia rispettato il temine. "Non è dunque stabilita alcuna garanzia esplcita né di poter presentare la domanda né di poterne concludere l'esame. Non è nemmeno espressamente previsto che il rilascio del permesso di soggiorno ai sensi della regolarizzazione abbia un effetto di 'sanatoria' delle violazioni pregresse e dei provvedimenti amministrativi eventualmente adottati a carico dello straniero" (M. Pastore, Espulsioni e procedura di regolarizzazione, "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 1999, 1, p. 67 e ss).
66. Pretore di Parma, ordinanza 9 dicembre 1998, "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 1999, 1, p. 135.
67. Tribunale di Udine, ordinanza 9 settembre 1999, "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 1999, 4, pp. 113 ss.
68. Queste sentenze, sebbene non si occupino di fattispece rientranti tra i divieti di espulsione ex art. 19 T.U., tutelano lo straniero ricorrente da applicazioni meccaniche della disciplina delle espulsioni.
69. G. Siriani, La polizia degli stranieri, Giappichelli, Torino 1999, pp.105 e 106.
70. Prima della riforma del 1998, il divieto di rientrare nel territorio dello Stato, disciplinato dall'art. 151 del TULPS, aveva carattere permanente e poteva essere superato solo a seguito di rilascio di una speciale autorizzazione del Ministero dell'Interno, (da richiedersi tramite l'autorità diplomatica o consolare italiana nel paese di residenza dello straniero), finalizzata, secondo la Corte Costituzionale (sentenza n. 109 del 1974) "a valutare i motivi per cui lo straniero espulso chiede di rientrare in Italia e a predisporre, eventualmente, controlli onde impedire che egli continui a tenere quella condotta che ha dato luogo al provvedimento di espulsione". "La Corte in sostanza veniva ad avvallare la possibilità di una valutazione di pericolosità a tempo indeterminato, superabile a seguito di una eventuale successiva diversa determinazione" (G. Siriani, La polizia degli stranieri, Giappichelli, Torino 1999, p.94, nota 25). La circolare n. 11 del 1998 del Ministero dell'Interno ha precisato che le nuove disposizioni si applicano anche alle espulsioni adottate prima dell'entrata in vigore del T.U. Di conseguenza se uno straniero è stato espulso secondo le norme anteriormente vigenti ed ha trascorso più di cinque anni fuori dall'Italia, può farvi rientro se in possesso dei requisiti senza dover richiedere alcuna speciale autorizzazione da parte del Ministro dell'Interno.
71. Nel corso di un procedimento civile promosso da uno straniero che aveva impugnato il provvedimento di divieto di reingresso nel territorio dello Stato italiano, emesso nei suoi confronti dal Prefetto di Padova contestualmente al decreto di espulsione, il Tribunale di Padova, con ordinanza del 1º agosto 2000 n. 674, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 13, commi 13 e 14, del T.U., nella parte in cui riconosce il potere al giudice di rideterminare la durata del divieto di reingresso dello straniero espulso solo nel caso in cui lo stesso giudice decida sul ricorso avverso il provvedimento di espulsione, escludendo il caso di impugnazione del solo provvedimento relativo alla entità della durata del divieto. Secondo il giudice rimettente questa previsione sarebbe stata in contrasto con gli artt. 24 e 113 della Costituzione, poiché avrebbe leso il diritto di difesa escludendo la tutela giurisdizionale contro l'atto amministrativo prefettizio che determina in 5 anni la durata del divieto di reingresso.
72. L'ampia discrezionalità che di fatto le polizie nazionali finiscono per avere nell'inserimento dei dati nel SIS rende possibile, "qualora non vengano rigorosamente stabilite e controllate le procedure di inserimento dei dati, che provvedimenti che secondo la legislazione nazionale della parte che effettua la segnalazione non comportano per lo straniero il divieto di rientro (per l'Italia, ad esempio, i respingimenti alla frontiera; per la Francia, i provvedimenti di réconduite à la frontière, ecc.), finiscano per assumere tale effetto nei confronti di tutti i paesi Schengen, tramite l'inserimento della segnalazione nel SIS" (M. Pastore, L'Italia e gli Accordi di Schengen, "Critica marxiata", 1998, 6, p.77).
73. Le decisioni preliminari all'inserimento della segnalazione restano infatti basate su disposizioni normative e procedurali che sono di stretta competenza dei rispettivi ordinamenti nazionali. Gli effetti dei provvedimenti vengono invece estesi, tramite il SIS, a tutta l'area Schengen pervenendo all'armonizzazione degli effetti dei provvedimenti nazionali.
74. La non previsione dell'accompagnamento alla frontiera per il clandestino che sia in grado di dimostrare la propria identità evita che questi possa essere indotto a distruggere i suoi documenti allo scopo di trattenersi nel territorio. Si noti che l'obbligo, previsto all'art. 6, comma 3 del T.U., di esibire a richiesta degli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza il passaporto o altro documento di identificazione, ovvero il permesso o la carta di soggiorno, sanzionato, in caso di rifiuto senza giustificato motivo con l'arresto sino a sei mesi e l'ammenda fino ad 800000 £ non opera nei confronti degli stranieri che sono presenti sul territorio in condizione di irregolarità. Nonostante la norma in oggetto non chiarisca se destinatari di tale obbligo siano tutti gli stranieri in quanto tali o solo coloro che, in possesso di permesso o carta di soggiorno, per un motivo non giustificato si rifiutino di esibire i documenti richiesti dalla legge, la giurisprudenza prevalente ha abbracciato quest'ultima interpretazione, notando come altrimenti si dovrebbe supporre che il legislatore abbia voluto prevedere la punibilità dello stato di clandestinità qualora lo straniero non esibisca i documenti di identità. Si veda sul punto I. Fusiello, I destinatari dell'obbligo di esibizione dei documenti di identificazione. Brevi note in materia di art. 6, comma 3, d. lgs. 286/98, "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 1999, 2, pagina 76 ss.
75. C. Corsi, Lo stato e lo Stranier, Cedam, 2001, p.195, nota 177. "Resta da sottolineare l'ambiguità ed anche l'illogicità del legislatore nell'indicare l'inserimento sociale, familiare e lavorativo per valutare il pericolo di non rispetto del provvedimento di espulsione", C. Corsi, op. cit., p. 195.
76. Si noti che la misura dell'accompagnamento immediato alla frontiera a mezzo della forza pubblica, oltre a limitare la libertà di circolazione e soggiorno dello straniero, dato il suo carattere coercitivo, incide sulla libertà personale dello stesso. Questa misura, che in alcuni casi è lasciata alla valutazione discrezionale del prefetto, non è però soggetta ad alcun controllo dell'autorità giudiziaria. Si consideri come esempio di discerzionalità l'ipotesi in cui il prefetto, sulla base alle circostanze 'obiettive' riguardanti l'inserimento sociale, familiare e lavorativo dello straniero, è chiamato a rilevare la sussistenza o meno del pericolo che lo staniero clandestino, privo di documenti, si sottragga all'esecuzone del provvedimento.
77. L'intimazione è accompagnata da prescrizioni per il viaggio e per la presentazione all'ufficio di polizia di frontiera.
78. Circolare del Ministero dell'Interno del 28 ottobre 1999, n. 300.
79. L'adozione del provvedimento di trattenimento riguarda stranieri raggiunti sia da un provvedimento di espulsione che di respingimento, ai quali (a differenza di altre esperienze, come ad esempio quella francese) si applica un regime comune di 'internamento'.
80. "Tra i casi di espulsione con intimazione il legislatore sembra aver previsto il trattenimento presso un centro di permanenza solo dello straniero entrato regolarmente e divenuto in seguito irregolare e non anche di quello entrato irregolarmente ma in possesso di documenti validi attestanti la sua identità", C. Corsi, Lo stato e lo straniero, Cedam, 2001, p. 195, nota 176. Riguardo alla possibilità di trattenere lo straniero espulso per soggiorno irregolare, C. Corsi, op. cit., pp. 197-198 osserva che "il senso di questa disposizione non è del tutto chiaro dato che l'internamento in questi centri è strumentale ad una esecuzione in via coattiva del provvedimento espulsivo, modalità che parrebbe esclusa per questa modalità di espulsione". Non si capisce inoltre come debba essere valutato dal prefetto l'inserimento sociale, familiare e lavorativo dello straniero ai fini della valutazione del pericolo di non rispetto del provvedimento di espulsione.
81. C. Corsi, op. cit., p. 197, nota 180.
82. C. Corsi, op. cit., p. 142.
83. Secondo la normativa francese (art. 24, ordinanza 2 novembre 1945, e decreto 26 maggio 1982, n. 82-440) lo straniero deve essere informato degli addebiti che gli sono mossi, può accedere alla documentazione che lo riguarda e ha facoltà di partecipare, anche facendosi assistere, alla riunione della commissione speciale delle espulsioni, (composta dal presidente del Tribunale di grande istanza del capoluogo del dipartimento, o un suo delegato, da un magistrato nominato dall'assemblea generale dello stesso Tribunale e da un consigliere del Tribunale amministrativo). Ai lavori della commissione, che sono pubblici, interviene il Direttore dipartimentale degli affari sociali e sanitari, esponendo circa le condizioni familiari e sociali dello straniero e la possibilità del mutamento della condotta. Solo in casi di urgenza assoluta, o di necessità imperativa per la sicurezza dello Stato o la sicurezza pubblica, l'espulsione può essere deliberata senza il rispetto di questa procedura.
84. Essendo l'espulsione un atto vincolato nei presupposti si ritiene che l'interessato non possa apportare alcun contributo all'azione amministrativa. La Pretura di Piacenza con ordinanza 16 aprile 1998, ("Archivio civile", 1998, p. 836), ha ritenuto che l'espulsione non presuppone un iter amministrativo, ma si forma nel momento stesso in cui appare sussistere una delle fattispecie previste dalla legge e che la necessità di una sollecita esecuzione del provvedimento impedisce il rispetto degli artt. 7 e ss. della legge 241/90. Sul punto si veda anche l'ordinanza della Pretura di Firenze del 11 agosto 1998, in "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 1999, 1, p. 121.
85. Prteura di Genova, ordinanza 15 dicembre 1998, in "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 1999, 1, p. 123; Tribunale di Genova, decisione 19 luglio 1998, in "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 2000, 1, p. 118. Riguardo all'applicazione delle disposizioni sulla comunicazione dell'avvio del procedimento è controverso, in giurisprudenza, se le esigenze di celerità del procedimento debbano essere accertate volta per volta, o se possano riferirsi a tutta la tipologia di procedimenti. Sul punto si segnalano alcune sentenze che hanno rilevato l'illegittimità del provvedimento di espulsione non preceduto da comunicazione di avvio del procedimento nel caso in cui si sono verificate non sussistenti le particolari esigenze di celerità del procedimento espulsivo: Pretura di Genova, sezione di Recco, 7 maggio 1998, in "Diritto, immigrazione e cittadinanza" 1999, 1, p. 129; Pretura di Roma, decisione 19 febbraio 1999, in "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 1999, 2, p. 124.
86. G. Siriani, La polizia degli stranieri, Giappichelli, Torino 1999, p. 101. L'autore riflette sulla necessità che lo straniero possa spiegare se la mancata richiesta tempestiva del permesso di soggiorno, o del suo rinnovo, sia dipesa da cause di forza maggiore e osserva come sia impensabile che la valutazione della pericolosità dello straniero possa costituirsi in assenza di un contatto tra questo e l'amministrazione. La stessa decisione di dare, o meno, carattere esecutorio all'espulsione in ragione del suo maggiore o minore radicamento sociale, non pare all'autore poter ragionevolmente prescindere da un confronto con l'immigrato.
87. L'obbligo di motivazione, oltre che rappresentare l'applicazione di un principio generale, posto dalla legge n. 241 del 1990, risponde ad una indicazione della giurisprudenza costituzionale (sent. n. 244 del 1974) specificatamente rivolta alla disciplina dell'espulsione, secondo la quale la motivazione costituisce lo strumento necessario per "stabilire se l'attività amministrativa abbia fatto o meno buon uso del riconosciutogli potere discrezionale, ossia se l'atto emanato sia conforme alla legge".
88. I provvedimenti di espulsione sono comunicati allo straniero mediante consegna a mani proprie, a mezzo di ufficiali o di agenti di pubblica sicurezza o, quando la persona è irreperibile, mediane notificazione effettuata nell'ultimo domicilio conosciuto.
89. La norma derogando ai normali criteri di competenza territoriale per agevolare l'accesso alla giustizia dello straniero.
90. Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge sull'immigrazione n. 3240 si legge che la scelta a favore del giudice ordinario quale autorità giurisdizionale competente sul ricorso contro il provvedimento amministrativo dell'espulsione "risponde a criteri funzionali e sistematici". Viene infatti osservato nella relazione come "solo il giudice ordinario, per struttura ed organizzazione diffuse sul territorio, appare in grado di operare entro i brevi termini previsti dalla legge" e come la scelta operata "non trovi particolari ostacoli neppure dal punto di vista sistematico" visto che la rigida ripartizione di competenza tra giudice ordinario e giudice amministrativo, in presenza di ricorsi contro provvedimenti della pubblica amministrazione, appare più volte derogata da varie disposizioni (si pensi per tutte al ricorso al pretore avverso sanzioni amministrative). Oggi, in base all'entrata in vigore, con il decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, della riforma del giudice unico, che ha accorpato le Preture nei Tribunali, i procedimenti pretorili sono devoluti al Tribunale in composizione monocratica (art. 244, comma 2 legge n. 51 del 1998).
91. Nei casi in cui provvede all'espulsione il giudice nelle forme ordinarie del processo penale (espulsione come misura di sicurezza e come sanzione sostitutiva), allo straniero è garantito il diritto di difesa attraverso i mezzi di impugnazione ordinari.
92. Entrambe le sentenze sono pubblicate in "Diritto, immigrazione e cittadinanza" n. 1 del 2000, pp. 104 e ss.
93. "Le affermazioni della Corte lasciano perplessi, essendo difficile aderire alla tesi secondo cui tra provvedimento di diniego del permesso di soggiorno e decreto di espulsione non sussiste rapporto di pregiudizialità, in quanto il primo è il presupposto in fatto ed in diritto del secondo", così N. Zorzella, Il diritto di difesa dello straniero nel rapporto tra giudizio amministrativo e giudizio ordinario. Commento alle recenti pronunce della Corte di cassazione, "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 2001, 1, p.72.
94. L. Gili, Ancora sul diritto alla difesa dello straniero, nel rapporto tra il giudizio ordinario e quello amministrativo, "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 2001, 2, p. 30.
95. Tribunale di Siena 10 marzo 2000, est. Chini, in "Diritto, imigrazione e cittadinanza", 2000,2, p.121, Tribunale di Bologna 13 gennaio 2001, est. Scaramuzzino, seguita da decreto 24 gennaio 2001 del medesimo giudice che ha disposto la sospensione dell'efficacia dell'espulsione a seguito di sospensione del giudizio, in "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 2001, 1, p. 138; Tribunale di Alessandria 2 febbraio 2001, est. Camaiori, "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 2001, 1, p.138. Diversamente Gili sostiene che "la prospettiva necessariamente cambia se non si è riusciti ad instaurare il giudizio amministrativo entro l'udienza di discussione avanti al giudice ordinario adito per il ricorso contro il provvedimento di espulsione. In tal caso non vi sono i presupposti per la sospensione del giudizio, al che è doverosa l'attenta valutazione del giudice ordinario, in via incidentale, circa la legittimità o meno del diniego di permesso di soggiorno", L. Gili, Ancora sul diritto alla difesa dello straniero, nel rapporto tra il giudizio ordinario e quello amministrativo, "Dirotto Immigrazione e cittadinanza", 2001, 2, p. 33.
96. In particolare, i funzionari delle rappresentanze consolari o diplomatiche certificano l'autenticità del ricorso sottoscritto personalmente dall'interessato, ne curano l'inoltro all'autorità giudiziaria competente e provvedono ad inviarne copia alla autorità che ha emanato il provvedimento.
97. Si veda Tribunale di Lecce 30 ottobre 1999 in "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 2000, 2, p. 104 e Tribunale di Milano 23 settembre 1999, in "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 2000, 1, p. 107.
98. Questa sentenza a mio avviso apre la strada alla rimessione in termini per i destinatari dei provvedimenti di espulsione capaci di dimostrare di non aver potuto rispettare il termine di impugnazione senza che sia loro imputabile colpa alcuna.
99. Dovendo compiere un giudizio di ragionevolezza su un termine processuale, fissato dal legislatore in conformità del suo potere discrezionale, la Corte, ha comparato "non soltanto l'interesse di chi è onerato al rispetto di esso, ma anche il generale interesse dell'ordinamento al celere compimento dell'attività processuale soggetta al termine di decadenza", e ha ritenuto che, trattandosi di impugnazione di un provvedimento amministrativo ad attività vincolata e non discrezionale (e pertanto semplice sia da impugnare che da valutare), il termine in questione fosse ragionevole.
100. "Nelle intenzioni del legislatore i serrati termini previsti per la decisione coincidenti con quelli dell'intimazione a lasciare il territorio dello Stato, dovrebbero rendere inutile l'istituto della sospensiva", B. Nascimbene, La condizione giuridica dello straniero, Cedam, Padova 1997, p.46.
101. Secondo entrambi i pretori la norma così formulata conterrebbe il pericolo che lo straniero possa essere accompagnato alla frontiera allo scadere dei 15 giorni assegnatigli per lasciare il territorio, indipendentemente dal fatto che abbia ricevuto o meno una pronuncia sul suo ricorso.
102. Ad esempio, possono configurare motivi di ritardo la verifica della sussistenza di cause ostative all'espulsione e la necessità di compiere attività istruttorie, non espletabili nel breve termine imposto dal legislatore; mentre rientrano tra le cause di impedimento l'astensione, la ricusazione e il legittimo impedimento del giudice.
103. Il pretore di Padova ha, al riguardo, sollevato questione di legittimità dell'art. 13 del T.U. nella parte in cui prevede solo l'accoglimento o il rigetto del ricorso e non prevede la possibilità a seguito della dichiarazione di incompetenza dell'applicazione della traslatio iudici, di cui all'art. 50 del codice di procedura civile, ovvero della riassunzione della causa davanti al giudice competente, con la conservazione dell'efficacia degli atti compiuti. Secondo il pretore di Padova la non previsione della possibilità di dichiarare l'incompetenza comporterebbe l'obbligo di rigettare il ricorso e, dato il breve termine di 5 giorni per proporre ricorso, contrasterebbe con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, impedendo allo straniero di ripresentare impugnativa davanti al giudice competente in tempo utile. La Corte costituzionale, con sentenza 161 del 25/31 maggio 2000, ha dichiarato inammissibile la predetta questione per difetto di rilevanza, osservando che il giudice rimettente poteva solo dichiarare l'incompetenza per territorio e che la prospettata questione di costituzionalità doveva essere rilevata dal giudice competente successivamente adito. Solo quest'ultimo, secondo la Corte, può stabilire se il ricorso tempestivamente presentato davanti a giudice incompetente abbia o meno prodotto l'effetto di impedire la decadenza del potere di impugnativa, decidendo, nel secondo caso, se rigettare la domanda proposta fuori termine o eccepire la questione di costituzionalità. La giurisprudenza prevalente, in attesa che il caso venga nuovamente sollevato e che la Corte vi si pronunci, ritiene ammissibile il ricorso tardivo presentato al giudice competente successivamente adito.
104. Il fatto che, con l'art 13 bis, l'amministrazione che ha emesso il provvedimento sia messa nella condizione di partecipare al ricorso è espressione del principio del contraddittorio.
105. Prima dell'emanazione del regolamento l'art. 13, comma 10 del T.U. si limitava ad affermare che "lo straniero è ammesso al gratuito patrocinio" senza alcun richiamo alla disciplina vigente per tale istituto né al possesso dei requisiti previsti per l'ammissione. Si era affermata in molti uffici giudiziari la convinzione che il Testo Unico, quanto meno in materia di ricorso avverso il provvedimento di espulsione, avesse inteso ammettere automaticamente lo straniero al patrocinio gratuito a spese dello Stato, a prescindere da una formale richiesta in tal senso e dalla verifica dell'esistenza di condizioni personali. Tale opinione è mutata con l'emanazione del regolamento di attuazione con n. 394 del 31 agosto 1999 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 3 novembre 1999). In senso contrario, ordinanza del Tribunale di Milano del 29 febbraio 2000, dove è disposta l'ammissione automatica al gratuito patrocinio sull'assunto che la disposizione regolamentare sia in contrasto con il T.U. e debba essere disapplicata in quanto norma di grado secondario. Per una dettagliata rassegna delle posizioni a riguardo si veda M. Massenz, Il patrocinio a spese dello Stato per gli stranieri espulsi nella disciplina del Testo Unico d. lgs. 286/98, "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 2000, 1, p. 93 ss.
106. Nei procedimenti camerali contenziosi si discute di diritti soggettivi o di status fra parti portatrici di interessi in contrasto, mentre nei procedimenti camerali non contenziosi non è in gioco la tutela giurisdizionale di diritti soggettivi o status e al giudice viene affidata solo la gestione di interessi, normalmente non mirante alla composizione di conflitti tra parti contrapposte. L'effetto dell'annullamento dell'espulsione, derivante dall'accoglimento della decisione del ricorso, la ricorribilità per Cassazione del provvedimento giudiziario che definisce l'impugnazione, la previsione dell'obbligatoria instaurazione del contraddittorio nei confronti dell'autorità che ha emanato il provvedimento impugnato, sono tutti elementi normativi univoci per la qualificazione del procedimento in questione in termini contenziosi. Sul punto è inoltre intervenuta la suprema Corte, con sentenza n. 1082 del 1999, confermando che il procedimento in esame esula dalla giurisdizione volontaria "in quanto il Tribunale giudica con provvedimento sostanzialmente decisorio e tendenzialmente definitivo". Il richiamo alle norme di cui agli artt. 737 e ss. del codice di procedura civile contenuto nel T.U. si deve quindi intendere con la precisazione 'in quanto applicabili'. In particolar modo si deve ritenere non applicabile al giudizio in questione l'art. 742 del codice di procedura civile che permette la revoca del provvedimento emanato dal giudice, poiché trovandoci in un caso di giurisdizione contenziosa, la decisione ha gli effetti della irrevocabilità sanciti dall'art. 2909. Sul punto si veda N. Zorzella, Il diritto di difesa dello straniero nel rapporto tra giudizio amministrativo e giudizio ordinario. Commento alle recenti pronunce della Corte di Cassazione, "Diritto, immigrazione e cittadinanza", 2001, 1, p. 57 ss. dove si legge che "il processo contro l'espulsione è un procedimento effettivamente giurisdizionale e non di mera amministrazione pubblica di diritto privato affidata ad organi giurisdizionali, dove trovano applicazione le garanzie processuali previste per tutti quei giudizi nei quali si controverte di diritti soggettivi".
107. L'accoglimento può essere parziale qualora il giudice non revochi l'espulsione, ma riduca la durata del divieto di rientro dello straniero espulso.
108. L'art. 4, comma 2 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E dispone che "L'atto amministrativo non può essere revocato o modificato se non a seguito di ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei tribunali per quanto riguarda il caso deciso" Pur trattandosi sostanzialmente dell'impugnazione di un provvedimento amministrativo si ritiene che l'indagine del giudice possa andar oltre agli eventuali vizi di legittimità (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere), estendendosi fino all'accertamento dei fatti ed al merito dell'atto.
109. La questione dell'impugnabilità attraverso il reclamo ai sensi dell'art. 739 del codice di procedura civile del provvedimento con il quale il giudice decide sul ricorso avverso il decreto di espulsione amministrativa è stata affrontata per la prima volta dal Tribunale di Bologna, I sezione civile con decreto del 23 aprile 1998. In quella sede è stato ritenuto che "lo specifico mezzo del reclamo non sia ammissibile avverso i decreti pronunciati dal pretore ai sensi dell'art. 11, comma 9 della legge n. 40 del 1998, in quanto non richiamato espressamente da quest'ultima norma". Sul punto si veda M. Civinini, Sulla reclamabilità del decreto di espulsione dello straniero, "Questione giustizia", 1998, 3, p. 751 e ss.