ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 4
Il mantenimento delle relazioni familiari all'interno della Casa Circondariale di Prato

Carlotta Bargiacchi, 2002

Dopo aver visto le conseguenze delle privazioni dalle relazioni affettive che ricadono sul soggetto detenuto e sulla sua famiglia in conseguenza della detenzione, abbiamo voluto provare a realizzare un piccolo studio su di un campione di situazioni concrete rilevate presso la Casa Circondariale di Prato. In prima analisi ci è sembrato opportuno rivolgere l'attenzione agli spazi dedicati agli incontri con i familiari, per vedere se e in che modo questi luoghi, con la rigidità delle loro forme, e la squallidezza dei loro allestimenti, influenzano il mantenimento delle relazioni, in considerazione del fatto che le sale colloqui sono gli unici spazi in cui si permette ai familiari di aver accesso al segreto mondo del carcere.

4.1. Analisi degli spazi destinati all'incontro con i familiari

4.1.1. La struttura architettonica del carcere di Prato

Il carcere di Prato è entrato in funzione nel 1986, e appartiene alla tipologia dei "carceri speciali", costruiti nel periodo della "post-riforma", per far fronte all'emergenza del terrorismo. (1) I criteri a cui questa edilizia risulta ispirata sono dettati esclusivamente da esigenze di elevata sicurezza e di economia gestionale, che non tengono in alcun conto le finalità rieducative. (2)

Il carcere La Dogaia di Prato è stato edificato a Maliseti, una piccola frazione collocata all'estrema periferia di Prato, e dista dal centro della città alcuni chilometri. Il collegamento stradale è quasi inesistente, fino a pochi mesi fa la strada per arrivare al carcere non era nemmeno asfaltata, e la rete dei mezzi pubblici è notevolmente distante dall'ingresso. La più vicina fermata dell'autobus dista dal cancello d'entrata almeno un chilometro: i familiari che si recano ai colloqui servendosi dei mezzi pubblici devono quindi affrontare una lunga camminata a piedi su una strada assolata, che diviene interminabile quando si è carichi di pacchi.

Nella zona circostante, a parte un condominio adiacente alla caserma degli agenti di Polizia Penitenziaria, e una casetta posta proprio di fronte al cancello e alla palazzina dove sono ubicati i semiliberi, ci sono solo terreni agricoli.

Le mura esterne circondano tutto l'istituto, comprese le palazzine di residenza degli agenti, l'edificio della direzione, e il padiglione destinato ai semiliberi. Le mura interne delimitano l'area penitenziaria, entro la quale si trovano le sezioni, distribuite in due palazzine, una destinata all'Alta Sicurezza, e l'altra alla Media Sicurezza, tutti i locali destinati alle attività rieducative, l'infermeria, la cucina e le sale colloqui.

La pianta del carcere ha un modesto sviluppo orizzontale: le due strutture detentive, si sviluppano in un corpo edilizio alto quattro piani, dove sono ubicate le sezioni di Media Sicurezza, e in un altro corpo alto solo due piani, che ospita i detenuti sottoposti al regime di Alta Sicurezza. Questi due edifici sono collegati tra loro da un corridoio, posto su di un unico livello, sul quale si affacciano i locali destinati alle attività di trattamento, il reparto di isolamento, l'infermeria e la cucina. All'ingresso di tale percorso è posta una palazzina a due piani in cui sono collocati, al piano terra gli uffici della matricola e il casellario, e al primo piano le sale colloqui. L'accesso alle sale risiede però sul lato esterno della struttura, proprio di fronte alla porta blindata che permette l'ingresso all'interno dell'area penitenziaria, in modo che il percorso per arrivare ai colloqui sia il più breve possibile. I familiari che si recano a far visita ai detenuti non possono vedere niente o quasi della struttura penitenziaria nel suo complesso, il che aumenta il senso di distanza e di isolamento della famiglia rispetto al mondo in cui vive il familiare detenuto. (3)

4.1.2. L'accesso ai colloqui

I parenti che vengono a visitare i familiari detenuti hanno un lungo e tormentato percorso da affrontare, in cui sono costretti ad un continuo esercizio di pazienza per far fronte alle lunghe attese, e talvolta alle umiliazioni a cui certi agenti li sottopongono.

I familiari che arrivano al carcere di Prato, dopo aver oltrepassato il cancello della recinzione esterna, hanno una prima sosta d'attesa per la verifica dei documenti davanti al "blockhouse", dove è stata allestita una piccola pensilina, del tipo usato per le fermate dell'autobus, che dovrebbe servire a proteggere dalle intemperie i pochi fortunati familiari che riescono a ripararvisi. Dopo aver oltrepassato altri due cancelli, vengono poi accompagnati in una palazzina interna, ma sempre esterna alla cinta muraria, in cui si trova la sala d'attesa per il controllo dei pacchi, e le eventuali perquisizioni personali. In questa sala, dove di solito si consuma una lunga attesa vi sono delle panchine, dei distributori automatici di cibi confezionati, un telefono pubblico, e una toilette spesso malconcia. I familiari vengono chiamati dall'agente che sta allo sportello per la consegna dei pacchi, che dopo il controllo verranno inoltrati ai detenuti, e per il deposito degli effetti personali che non possono essere introdotti all'interno. L'elencazione dei cibi e degli oggetti ammessi è a discrezione della direzione del carcere, tanto che in ogni istituto vi è una lista diversa che regolamenta ciò che è consentito. Questo provoca non poco disorientamento nei familiari che seguono i trasferimenti del parente detenuto, e che si vedono ogni volta rifiutare cose diverse.

Una volta ultimati i controlli, i familiari vengono accompagnati alle sale colloqui, dove nell'atrio, devono sopportare l'ultima attesa prima della chiamata.

Come è chiaro dalla pur sommaria descrizione, parenti e visitatori subiscono un susseguirsi sgradevole di attese, controlli personali, ispezioni di pacchi, luoghi angusti e inospitali, che aumentano la tensione, e il senso di disagio che certo influenzeranno anche l'incontro.

4.1.3. Le sale colloquio

L'organizzazione degli spazi destinati ai colloqui è incentrata su di un lungo e stretto corridoio su cui si affacciano le sale.

Gli ambienti dei colloqui sono stanze di circa 20 mq, mal areate, e mal illuminate in quanto sprovviste di finestre esterne, divise da un bancone di cemento, a cui da un alto accedono i parenti, e dall'altro i detenuti, che vengono fatti entrare da un corridoio posteriore. Nel carcere di Prato non sono stati ancora realizzati gli adeguamenti all'art. 37 comma 5º del nuovo reg. esec. che prevede che i colloqui debbano avvenire in "locali interni senza mezzi divisori". Anche fonicamente la situazione risulta essere assai sgradevole, considerato che per ogni saletta si svolgono fino a 8/9 colloqui, e che per ogni detenuto possono partecipare al colloquio fino a tre persone (art. 37 comma 10º nuovo reg. esec.).

Tramite lo spioncino della porta blindata sul lato della stanza adiacente al corridoio avviene il controllo visivo del personale di Polizia Penitenziaria, in ottemperanza alle previsioni dell'art. 18 dell'Ord. Penit.

È facile immaginare come incontrarsi in questi spazi, che non permettono nessuna intimità, rende terribilmente difficile poter instaurare un dialogo autentico e spontaneo, che permetta di ristabilire relazioni già tanto provate da tutte le altre conseguenze che si accompagnano alla detenzione.

Molti detenuti e familiari hanno espresso le loro difficoltà a ritrovarsi nello spazio angusto, e nel tempo ristretto del colloquio, tanto da dover rimandare alla formula epistolare gli scambi più autentici. È viva e forte l'esigenza che si possano creare spazi più vivibili per gli incontri fra i detenuti e i loro familiari, spazi che non mortifichino, come quelli esistenti, quelle relazioni, ma che possano favorire "l'esprimersi di sentimenti, di affetti, di attenzioni, che naturalmente si dovrebbero accompagnare a quei rapporti". (4)

Nel tentativo di creare le migliori condizioni possibili per un sereno mantenimento delle relazioni familiari, si è cercato soprattutto di tutelare particolari situazioni, quali ad esempio la tenera età dei figli, o l'anzianità dei genitori, cercando di reperire apposite sale, o spazi anche aperti (spazi verdi o giardini) nei quali far svolgere i colloqui in maniera più confortevole di quanto non fosse possibile nelle ordinarie sale colloqui. Attenendosi alle numerose raccomandazioni contenute a questo proposito in molte circolari D.A.P. (Circolare D.A.P. 26 novembre 1984 n. 70588/5-3-A-4; Circolare D.A.P. 12 dicembre 1988, n. 3257/5707; Circolare D.A.P. 8 luglio 1998 n. 3478/5928), il carcere di Prato ha istituito un'area all'aperto, detta "area verde", e una ludoteca denominata "saletta bambini".

4.1.4. L'area verde

L'area verde dell'istituto di Prato è disposta sul lato esterno della palazzina destinata all'Alta Sicurezza, costretta in uno spazio racchiuso tra il muro dell'edificio, e il muro di cinta.

Essa è costituita da un giardinetto non troppo ampio, delimitato da un'alta recisione di rete, dove sono disposti in ordine sparso, panchine e tavoli di cemento, alcune figure di gesso raffiguranti personaggi di fantasia, e alcuni giochi per bambini. Lo spazio è completamente scoperto, e quindi la sua fruizione rimane limitata ai giorni di bel tempo, quando non fa troppo caldo, in quanto non esistono elementi ombreggianti che possano riparare dal sole cocente, dato che i pochi alberi presenti nel giardino sono stati piantati recentemente, e al momento attuale sono poco più che ramoscelli.

L'introduzione di uno spazio nel quale i familiari potessero vedersi "tutti interi", e si potessero abbracciare senza doversi toccare solo le mani, come accade nelle sale colloqui munite di divisori, era sembrata subito una buona iniziativa. Purtroppo le condizioni concrete in cui si può usufruire di questi spazi ha notevolmente ridotto l'entusiasmo, tanto che la Commissione Detenuti ha preferito utilizzare una consistente somma di denaro, offerta da un'associazione pratese per allestire nuovi giochi per bambini dentro l'area verde, per la realizzazione di uno spazio interno destinato all'incontro con i figli, che possa essere fruito nonostante le variazioni atmosferiche.

4.1.5. La "saletta bambini"

La saletta bambini è stata inaugurata lo scorso anno ad opera del gruppo di volontari del Telefono Azzurro di Prato. L'amministrazione penitenziaria ha infatti concesso lo spazio, ma gli allestimenti sono stati interamente realizzati grazie alla solidarietà di enti privati. Il progetto di realizzare una ludoteca all'interno dell'istituzioni penitenziarie, si inserisce in un disegno più ampio, denominato "Progetto Bambini e Carcere" che nasce dal desiderio del Telefono Azzurro di affrontare il problema dei bambini costretti a vivere in carcere con la madre detenuta, e dei bambini, che pur essendo fuori, convivono con questa realtà per un periodo della loro vita, avendo un genitore detenuto, se non talvolta entrambi.

All'interno del carcere di Prato, come precedentemente accennato, la realizzazione della ludoteca è avvenuta in seguito all'esigenza espressa dalla Commissione Detenuti di avere uno spazio a misura umana, e soprattutto a "misura di bambino" dove fosse possibile allentare le tensioni che spesso si verificano durante il colloquio con il parente recluso. L'esigenza è stata raccolta dall'amministrazione penitenziaria, che ha permesso così la realizzazione del "Progetto ludoteca", che prevede l'allestimento di un ambiente appositamente attrezzato e curato per far fronte alle esigenze fisiche e relazionali dei bambini che vengono a far visita ai loro parenti reclusi.

Alla "saletta bambini", così come viene chiamata dall'amministrazione, è stata riservata una piccola stanza collocata in fondo al corridoio dove si affacciano le sale colloqui, in modo che sia possibile usufruirne non solo durante il tempo dell'incontro con il parente detenuto, ma anche durante l'attesa della chiamata. La struttura è stata adeguata in maniera da essere fruibile da utenti di diverse fasce di età, compresa quella adolescenziale; l'utilizzo è infatti riservato ai detenuti che hanno figli minori di 16 anni.

L'ambiente è stato allestito in modo da essere il più accogliente possibile: le pareti sono decorate con personaggi tratti da fumetti o cartoni animati familiari sia ai piccoli che ai più grandi, gli arredi sono tutti colorati e facili da spostare, in modo da permettere la creazione di ambienti ideali alle varie fasce di età che usufruiranno di volta in volta della ludoteca. Pur nella ristrettezza degli spazi, si possono individuare quattro aree: un "angolo morbido", destinato alla prima infanzia, dove è disposto anche un fasciatoio, che permette ai padri detenuti di poter fare la "fantastica esperienza", così come definita da un detenuto, di cambiare il pannolino ai propri figli; uno spazio dedicato ai bimbi da 1 a 3 anni, allestito con piccoli sedie e tavoli; e uno spazio dotato di sedie e tavoli di misura normale dove possono giocare, disegnare, leggere i bambini e gli adolescenti. La ludoteca è dotata di una piccola biblioteca, che concede i libri in prestito ai bambini, che possono portarsi a casa qualcosa che viene dal carcere, diminuendo il senso di estraneità che questo luogo comporta. La ludoteca è inoltre dotata di giochi da tavolo, che vengono invece prestati ai genitori detenuti, che possono portarli in cella, impararne il funzionamento ed insegnarlo poi ai propri figli durante il colloquio. Questo permette ai padri di ristabilire un rapporto autentico con i propri figli, attraverso il meccanismo del gioco e la condivisione di esperienze positive.

L'esperienza della ludoteca è quindi un'esperienza molto positiva che arricchisce il momento del colloquio, e rappresenta forse l'unico elemento concreto capace di realizzare quella "particolare cura", raccomandata dall'art. 28 dell'Ord. Penit. che deve essere dedicata a "mantenere, migliorare e ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie". Un'osservazione negativa deve essere fatta però in merito all'autorizzazione alla fruizione di tale spazio, così come dell'area verde, che viene subordinata alla "buona condotta intramuraria", riportando in un'ottica di premialità quello che dovrebbe essere invece l'esercizio di un diritto insopprimibile, come il mantenimento delle relazioni familiari.

4.1.6. La casa di accoglienza di Don Leonardo

Don Leonardo, cappellano del carcere e parroco di Narnali, una piccola frazione del Comune di Prato limitrofa alla Casa Circondariale, ha trasformato la canonica della sua chiesa in una struttura di accoglienza per detenuti in permesso, ma offre spesso ospitalità anche ai familiari dei detenuti, che per motivi di distanza non possono compiere il viaggio di andata e ritorno nell'arco di una stessa giornata.

La casa mette a disposizione dei detenuti e delle famiglie alcune camere, e alcuni locali in comune, dove è possibile godere di momenti di convivialità.

La struttura offre un importante supporto in tutte quelle situazioni in cui la lontananza impedisce, o comunque ostacola il mantenimento delle relazioni familiari. Talvolta, quando le combinazioni tra l'arrivo dei familiari e la concessione del permesso premio riescono a coincidere la casa di accoglienza offre la prima occasione di convivenza, se pur nello spazio limitato di qualche giorno, e nella limitata intimità di una comunità, tra il detenuto e la sua famiglia, che all'interno della struttura possono rivivere la gioia di piccoli gesti quotidiani, quali il preparare dei cibi insieme e consumarli alla stessa tavola, gesti che diventano preziosi per chi ne è stato privato per lungo tempo.

L'opportunità offerta dalla casa si colloca quindi come un tassello importantissimo nel complesso percorso del reinserimento, che sappiamo essere grandemente influenzato dalle concrete possibilità di poter ritornare nel nucleo familiare, che deve essere adeguatamente preparato al rientro.

4.2. Studio su di un campione di detenuti

4.2.1. Presentazione della ricerca

La ricerca è stata svolta all'interno della Casa Circondariale di Prato, istituto maschile dell'area fiorentina che ospita circa 500 detenuti, suddivisi in Media Sicurezza, Alta Sicurezza, e Sezione Collaboratori. L'analisi si basa sull'osservazione di 20 detenuti delle sezioni di Media Sicurezza, che si sono resi disponibili a raccontare la loro situazione familiare.

La scelta di effettuare la ricerca tra i detenuti della Sezione di Media Sicurezza della Casa Circondariale di Prato è stata dettata dal fatto che io svolgo dal 1999 presso tale istituto attività di volontariato con l'associazione L'Altro Diritto, che presta un servizio di consulenza extragiudiziale ai detenuti che ne fanno richiesta. Nel corso di questo ultimo anno ho inoltre partecipato ad un progetto sperimentale di mediazione culturale all'interno dello stesso carcere, svolgendo un servizio di consulenza ai detenuti stranieri. La quasi totalità dei ristretti che si rivolgono a questi servizi sono ubicati in Media Sicurezza. I destinatari delle interviste sono stati scelti tra i detenuti incontrati durante le attività, che hanno acconsentito a collaborare, descrivendo la loro storia familiare. Data la delicatezza del tema trattato, è stato possibile realizzare le interviste solamente con quei detenuti con cui si era già stabilito un rapporto di fiducia e di rispetto reciproco.

I colloqui personali sono avvenuti nelle salette all'interno delle sezioni, e con alcuni detenuti sono stati ripetuti nel corso del tempo per verificare l'evolversi delle situazioni. Le interviste sono state "free-ranging" (5), cioè a schema libero, senza l'utilizzo di nessun questionario, nell'intenzione di valorizzare il vissuto emotivo delle relazioni e raccogliere informazioni più profonde. Il tentativo è stato quello di stabilire un buon rapporto con gli intervistati, che permettesse di conquistare la loro fiducia, perché fossero più liberi nel raccontare le loro vicende e acconsentissero a farmi incontrare i familiari. Alla fine è stato possibile mettersi in contatto soltanto con i familiari di 6 detenuti del campione. Per i familiari stranieri è stato utilizzato il supporto di una mediatrice culturale. La rilevazione dei dati si è svolta nel periodo ottobre 2001- luglio 2002.

Questo studio si prefigge l'obiettivo di fornire solo un'analisi descrittiva delle problematiche vissute dai soggetti detenuti e dalle loro famiglie, sulla base delle osservazioni compiute sui casi concreti.

4.2.2. Caratteristiche sociali degli intervistati

a) Età

I soggetti intervistati hanno un'età compresa tra i 23 e i 47 anni. La fascia maggiormente rappresentata è quella dai 30 ai 40 anni, cui appartengono la metà dei casi analizzati.

Tale fascia di età risulta essere comunque quella numericamente più consistente tra i detenuti presenti negli istituti italiani e toscani al 1 gennaio 2001, secondo quanto risulta dai dati statistici sulla distribuzione per età e per Regione di detenzione della popolazione detenuta, rilevati dal Servizio per l'informatica e la statistica del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Grazia e Giustizia, riportati in appendice A, Tabella 1.

Tabella 4.1. Distribuzione per fasce di età dei casi analizzati
Età Numero casi
20-25 anni 3
25-30 anni 4
30-35 anni 6
35-40 anni 5
40-45 anni 1
45-50 anni 1
Totale 20

b) Stato civile e situazione abitativa

Il dato in esame vuol descrivere la situazione familiare e abitativa al momento dell'arresto.

Riguardo allo stato coniugale si è operata una distinzione tra conviventi e coniugati, per differenziare le unioni ufficiali, da quelle "di fatto", intendendo in questo senso solo quelle che presuppongono una reale e continuativa coabitazione. In carcere talvolta, alcuni legami sentimentali vengono definiti "di convivenza", e come tali certificati, al fine di ottenere l'autorizzazioni ai colloqui, ma nella realtà non corrispondono a situazioni familiari, quanto piuttosto a fidanzamenti. Agli intervistati è stato chiesto di specificare se la convivenza fosse realmente coabitativa.

Tabella 4.2. Stato civile
Stato civile Numero di casi
celibe 7
coniugato 9
convivente 3
Separato/ Divorziato 1
Totale 20
Tabella 4.3. Situazione abitativa al momento dell'arresto
Situazione abitativa Numero di casi
Da solo, o con altri soggetti 6
Genitori 5
Famiglia (sposati o conviventi) 9
Totale 20

Dei 7 detenuti celibi, 5 sono italiani, uno è tunisino, e uno ha la doppia cittadinanza italiana e brasiliana, essendo stato adottato da una famiglia italiana.

Tra i detenuti che hanno dichiarato di vivere con la famiglia di origine (5), 2 hanno subito la perdita di un genitore in età adolescenziale, ed entrambi sono tossicodipendenti.

Il totale dei detenuti coniugati e conviventi non coincide con il totale dei detenuti che abitano con la famiglia, rimangono infatti esclusi tre casi, in cui i soggetti sono immigrati in Italia lasciando il nucleo familiare nel paese di origine. In uno di questi casi, la moglie e il figlio sono sopraggiunti dopo l'arresto, ultimando le pratiche per il ricongiungimento familiare. In uno dei casi che è stato invece ricompreso tra quelli indicati come convivente con la famiglia, la coabitazione esisteva solo con il coniuge, mentre i figli si trovano con i genitori del detenuto nel paese d'origine.

I matrimoni ufficiali sono tutti tra connazionali, tranne uno, in cui il marito è colombiano e la moglie italiana; nei casi di convivenza invece la maggioranza è rappresentata da unioni con donne italiane.

c) Numero di figli

Tutti i detenuti coniugati, conviventi o separati intervistati hanno figli di minore età.

In due di questi casi, in cui i figli sono stati concepiti all'interno di unioni di fatto, è dubbio se sia stato ufficializzato il riconoscimento di paternità. Entrambi questi detenuti sono privi di permesso di soggiorno, e quindi non si sono mai presentati presso nessun ufficio pubblico, per paura di essere individuati ed espulsi.

Tabella 4.4. Numero di figli
Numero di figli Numero di casi
0 7
1 8
2 2
3 1
4 1
5 1
Totale 20

Anche se la comparazione è sicuramente falsata dalla poca rappresentatività numerica dei casi analizzati, la proporzione dei dati, rispecchia i risultati statistici relativi alla regione Toscana forniti dal Ministero di Grazia e Giustizia riguardo al numero di figli della popolazione detenuta (vedi tabella 2 in appendice A), confermando la grande prevalenza di detenuti che hanno solo un figlio.

d) Condizione occupazionale e tipo di lavoro svolto

La maggior parte dei detenuti ha una situazione occupazionale instabile (lavoro nero, disoccupazione), a causa della mancanza di documenti per il soggiorno, oppure dello stato di tossicodipendenza.

I lavori svolti da coloro che prima dell'arresto avevano una situazione occupazionale stabile, sono nella quasi totalità dei casi lavori dipendenti con mansioni da operaio. Fanno eccezione solamente tre detenuti: uno era proprietario di una confezione di abbigliamento a conduzione familiare, il secondo faceva l'autotrasportatore, e il terzo il commerciante, pur ammettendo quest'ultimo che l'attività economica ufficiale non era la sua vera fonte di sussistenza.

In tutte le famiglie ufficialmente costituite, il lavoro svolto dal marito rappresentava, al momento dell'arresto, l'unica fonte di reddito del nucleo. Considerando la numerosità dei figli, si può facilmente immaginare lo stato di povertà, o comunque di precarietà economica in cui si ritrovano le famiglie in conseguenza della detenzione dell'unico membro produttore di reddito.

Tabella 4.5. Condizione occupazionale
Condizione occupazionale Numero di casi
Disoccupato 12
Operaio 5
Commerciante 1
Lavoratore autonomo 1
Imprenditore 1
Totale 20

e) Nazionalità

Dei 20 detenuti intervistati, 15 sono stranieri, di cui 14 provenienti da Paesi non appartenenti alla Comunità Europea.

Tra i detenuti italiani, uno ha acquistato la cittadinanza italiana in seguito all'adozione da parte di una famiglia italiana, ma è nato in Brasile.

Gli stranieri che vivono in Italia con la famiglia, sono arrivati da soli e poi si sono ricongiunti al nucleo familiare in un secondo momento: le mogli sono della stessa nazionalità del marito, e il loro matrimonio si è svolto nel paese di provenienza. In un solo caso i coniugi, pur essendo connazionali si sono conosciuti e sposati in Italia.

In due dei casi esaminati i soggetti intervistati hanno compiuto il loro viaggio migratorio insieme ad un genitore: uno con il padre all'età di quattordici anni, in cerca di occupazione; e l'altro con la madre, all'età di quindici anni, per il matrimonio della madre con un italiano. Quest'ultimo è sposato con una donna italiana.

Tabella 4.6. Nazione di provenienza
Nazione Numero di casi
Italia 5
Marocco 4
Tunisia 3
Nigeria 2
Cina 2
Iran 1
Albania 1
Olanda 1
Colombia 1
Totale 20

4.3. Analisi delle storie familiari

Nel terzo capitolo abbiamo illustrato gli effetti che lo stato di privazione delle relazioni affettive ha sul detenuto e sui suoi familiari sulla base di alcuni studi sociologici effettuati in questo campo in Italia e all'estero.

In questa parte del lavoro riportiamo le situazioni concrete sulla base della suddivisione usata nel capitolo precedente, ovvero analizzando i diversi aspetti relazionali della famiglia, e osservando le specifiche dinamiche che conseguono all'evento detenzione. La suddivisione proposta sarà la seguente:

  • analisi delle dinamiche relazionali con la famiglia di origine
  • analisi dei rapporti con il partner
  • analisi dei rapporti con i figli.

4.3.1. Le relazioni con i genitori

GRUPPO A - Detenuti che hanno subito traumi durante l'età evolutiva

Caso 1

A. R., italiano, 33 anni, tossicodipendente, definitivo, plurirecidivo per rapina impropria, furto ed altri reati legati allo stato di tossicodipendenza.

Ha fatto due anni di comunità, ma senza ultimare il percorso di recupero, è tornato a drogarsi ed a delinquere.

Il padre è morto quando aveva quattordici anni.

Fino all'età di 27 anni ha condotto una vita regolare con un buon tenore economico. Faceva l'operaio in un'industria tessile, viveva con la madre e la sorella in un piccolo paese di provincia, in una villetta di proprietà. Aveva anche la fidanzata.

Poi ha abbandonato tutto a causa della tossicodipendenza.

Al momento non ha alcun contatto con i familiari, che cita continuamente mentre parla, con un tono di sommesso rispetto e timore. Sua sorella ha promesso di liquidargli l'eredità appena possibile, per non doverci avere più niente a che fare. "Comunque", dice lui, "dopo tutto quello che gli ho fatto, almeno non mi buttano in mezzo ad una strada".

Caso 2

D. D., italiano, 23 anni, definitivo, plurirecidivo, alcoldipendente.

Da quando aveva 18 anni è entrato e uscito dal carcere diverse volte. Ha provato ad inserirsi in comunità, ma dopo qualche mese ha trovato lavoro in una palestra come istruttore di fitness, ed ha lasciato il percorso di disintossicazione, convinto di farcela da solo.

Al momento dell'arresto viveva in casa con la madre, con la quale dichiara di essere in ottimi rapporti, anche se ammette di averle creato qualche problema. Non fa colloqui con nessuno.

I genitori sono separati da diversi anni.

Ha richiesto l'affidamento presso una comunità di recupero per alcolisti, o in alternativa, la detenzione domiciliare presso l'abitazione della madre.

Contatti con la madre

Ho contattato la madre di D. D. telefonicamente, in questo caso è stato il detenuto stesso ha chiedermi di telefonare alla madre, per avere la conferma della disponibilità ad accoglierlo qualora gli concedessero la detenzione domiciliare.

La signora si è dimostrata turbata nel sentire il nome del figlio, ed ha avuto qualche resistenza nel raccontare il loro vissuto. Ha assolutamente negato di volerlo ospitare, ed anzi, di volerlo vedere. Avrebbe preferito non avere notizie di lui per un po' di tempo, "tanto non sono mai buone", dice. Si dice contenta se il figlio riuscirà ad ottenere l'affidamento, e sarebbe anche disposta a fornirgli eventualmente un sostegno economico per pagare l'affitto di un appartamento, se gli può essere utile per avere la detenzione domiciliare. Ma per il momento non vuole assolutamente vederlo. Ha sofferto troppo e non gli crede più. Spera che un giorno si potrà riprendere, ma per ora non vuole essere coinvolta.

Caso 3

E. A., marocchino, 24 anni, in attesa di definitivo, reato: tentata violenza.

È venuto in Italia quando aveva 14 anni a seguito del padre, in cerca di un lavoro. Ma il padre era alcolizzato, e molto violento, e poco dopo l'arrivo in Italia è scomparso (sembra sia stato arrestato, ma l'intervistato rimane un po' vago). Rimasto solo E. A. ha trovato lavoro in un'altra città e ha perso completamente le tracce del genitore.

"Lui beveva, beveva molto. Beveva anche quando eravamo in Marocco, ma mia madre non voleva era contro la religione... Poi noi siamo venuti in Italia, e lui era sempre ubriaco. Io ho sofferto tanto, con un padre così. Ora non so più neanche se sia vivo o morto. Io ho avuto una vita difficile, senza figure di riferimento, senza nessuno che mi aiuta, sempre senza soldi in tasca".

Prima dell'arresto aveva il permesso di soggiorno, e lavorava come pavimentatore in un'impresa edile, aveva anche una fidanzata, ma il rapporto con questa era un po' violento, anche se "per amore", dice lui.

(Racconta una storia un po' confusa). Lui la tradiva con un'altra che è rimasta incinta. La fidanzata ufficiale, un giorno, dopo una delle solite litigate, l'ha denunciato per tentata violenza. E lui è stato arrestato.

L'altra nel frattempo ha perso il bambino, (non si capisce se per aborto volontario), ma lui sembra molto costernato perché gli sarebbe piaciuto diventare padre. La fidanzata continua a scrivergli lettere d'amore, dicendo che non voleva denunciarlo, ma che è dispiaciuta perché non può più ritirare la denuncia. (6)

Caso 4

G. R., Colombiano, 24 anni.

È in carcere da due anni e quattro mesi; ha una condanna di 8 anni per traffico di stupefacenti.

Il padre se n'è andato quando era molto piccolo, quasi non se lo ricorda, è cresciuto con la madre, e lo zio, che ha assunto il ruolo di capofamiglia, aiutandoli anche economicamente. È venuto in Italia all'età di quindici anni perché la madre ha sposato un italiano.

Della sua infanzia racconta:

"Sono cresciuto con mia madre e mio zio, poi mia madre è venuta qui... e io l'ho seguita, avevo quindici anni. Sono cresciuto a suon di sberle e cazzotti, a casa mia in Colombia mio zio era così...schiaffi e botte... lo devo anche ringraziare, ma io la violenza sulle altre persone non l'ho mai sopportata. Mio padre è scappato non si sa dove, non ne so nulla".

Al momento ha un bellissimo rapporto con la madre, che non riesce a superare il trauma della detenzione del figlio. Viene sempre ai colloqui, portando spesso anche la sorellina di G. R., che ha appena 4 anni, ma ogni volta si ripete la stessa straziante situazione:

"Mia mamma, la vecchietta è uno strazio, sono passati due anni e mezzo e ogni volta (che viene al colloquio) piange dall'inizio alla fine. Sono io che devo fare il burlone, la devo tirare su, le dico: "mamma ma come mi sei ingrassata, sembravi una modella e adesso sei una vecchietta!".

Si, mia mamma ha quarantaquattro anni, ed era bella, Dio Bono se era bella, sembrava una modella, e io poveretta l'ho fatta diventare nonna così giovane... ma è stato il carcere, che lei non può sopportare, non fa altro che piangere...".

Ha un buon rapporto anche con l'attuale marito della madre, che lo ha aiutato molto, soprattutto finanziariamente, preoccupandosi di pagare tutte le spese per la difesa.

Ha una sorella di quattro anni, quasi coetanea di sua figlia, ma la conosce poco, visto che aveva soltanto un anno e mezzo quando è stato arrestato.

Incontro con la madre

Ho avuto diverse conversazioni telefoniche con la madre di G. R., ed è nata tra noi anche una sorta di amicizia. È vivo infatti in questa donna il desiderio di conoscere qualcuno che possa fare da tramite tra lei e il figlio. Il loro rapporto è molto buono, ma lei si accorge che il figlio la protegge, rapportandosi a lei come se fosse quella che soffre di più per la detenzione. Le pesa non conoscere il mondo in cui il figlio vive, non poter vedere gli spazi in cui si muove, ed ha paura di non essere informata dei suoi problemi. Per questo si dimostra molto interessata al dialogo con me, sperando di ricevere delle informazioni a lei nascoste. Si reca ai colloqui tutte le settimane, portando sempre pacchi con generi alimentari e vestiti puliti, perché la sua unica preoccupazione è che il figlio non si senta solo o abbandonato dalla famiglia, soltanto perché ha fatto un errore. Il suo atteggiamento nei confronti della condotta deviante del figlio è molto giustificativo, anche perché si dice sicura che non succederà più.

"G. R. è solo un ragazzino che si è trovato ad affrontare delle cose più grandi di lui: l'arrivo della bambina, la ricerca del lavoro, il matrimonio con una donna, che era una bambina anche lei. No, non faccio per giustificarlo, lo so che ha sbagliato, ma insomma è un ragazzino e gli hanno dato un sacco di anni. Non può neanche veder crescere la sua bambina. Poi, sa, lui è cresciuto là in Colombia, che è tutto un altro mondo; non voglio giustificarlo, ma là è diverso, si dà meno importanza a certe cose...".

L'incontro con il figlio nelle sale colloquio è per lei motivo di grande sofferenza, perché in quel luogo squallido si sente contagiata dalla tristezza del carcere, e dice: "...se sono così brutti i posti che ci fanno visitare a noi familiari, chissà come sono brutti quelli in cui stanno i nostri ragazzi...".

Quando può porta con sé la figlia di quattro anni, sorella di G. R., dato che lei era molto piccola quando G. R. è stato arrestato, vuole che la conoscenza tra i due fratelli si approfondisca, in preparazione del ritorno:

"... Ma appena esce saremo tutti lì ad accoglierlo, io spero tanto che Laura (7) lo aspetti, ma se anche così non sarà ci saremo sempre io e la sua sorellina che lo riprendiamo a braccia aperte! Io glielo dico sempre che gli vogliamo tutti bene, che lui non si deve sentire solo.... Si, io a lui glielo dico, ma a me mi sembra un "topolino in gabbia"...".

Valutazione dei casi

Le relazioni con i genitori sono elementi fondanti nel processo evolutivo della personalità. Durante la trattazione dei legami con la famiglia di origine nel corso del precedente capitolo, abbiamo sostenuto, sulla base dei risultati di alcune ricerche pubblicate, (8) la prevalenza di situazioni di disagio nel vissuto infantile o adolescenziale delle persone che pongono in essere condotte devianti, e la percentuale rilevante di detenuti che avevano subito la perdita di un genitore. In tutte le storie sopra riportate si è avuta la perdita per morte, o per abbandono di un genitore, sempre il padre.

Due casi, oltre alla perdita del padre, hanno in comune l'esperienza della tossicodipendenza e questa, in entrambe le situazioni, ha pesantemente influenzato il rapporto con la famiglia. In entrambi i casi la detenzione ha determinato una profonda frattura nelle relazioni familiari, che erano comunque già molto compromesse anche precedentemente all'evento detentivo. Le famiglie di origine dei due soggetti non hanno saputo far fronte alla situazione di crisi causata dalla condotta delinquenziale del figlio, che è avvertita come una seria minaccia per lo status sociale della famiglia. Il rifiuto del soggetto deviante, che si spinge fino all'allontanamento e all'esclusione dello stesso dal nucleo è un atteggiamento abbastanza ricorrente nelle famiglie segnate dalla tossicodipendenza, che a causa del ripetersi della condotta criminosa che a questa si accompagna, conduce spesso alla perdita di fiducia nelle capacità di recupero del soggetto, ritenuto dannoso anche per la famiglia stessa.

Nel caso 3, oltre alla perdita di rapporti con il padre, si può notare un totale sfaldamento di tutto il contesto familiare, che ha portato il soggetto ad un disadattamento affettivo, dimostrato anche nelle relazioni sentimentali da adulto, che sono caratterizzate da atteggiamenti violenti e morbosi.

Si avverte nell'esposizione di questo detenuto una sorta di risentimento nei confronti del genitore, che non ha saputo, o forse non ha potuto fornirgli alcun supporto nella vita. Pur professandosi innocente riguardo al reato imputatogli, il soggetto manifesta comunque uno stato di disagio, e il disperato bisogno di un aiuto. Non ha colloqui con nessuna persona esterna, e nemmeno con gli operatori penitenziari.

È interessante vedere come in un saggio dedicato al servizio sociale nel sistema penitenziario (9) si trovino delle precise indicazione su quali debbano essere gli interventi destinati ai detenuti extra comunitari, in considerazione della loro particolare condizione di svantaggio all'interno del carcere, dovuta all'esasperazione di tutti i meccanismi di emarginazione che operano nei confronti di questi detenuti. Teoricamente si riconoscono le particolari difficoltà che affliggono questi soggetti privi di punti di riferimento, e si individua la necessità di trovare forme d'intervento dirette a fronteggiare la solitudine e lo sbandamento che caratterizza questi detenuti, attraverso il tentativo di stabilire rapporti con eventuali riferimenti forniti dall'interessato, o nella ricerca di eventuali supporti. La realizzazione di questi interventi, o quantomeno il tentativo di realizzarli potrebbe favorire il processo di reinserimento sociale che si dice il fine del trattamento penitenziario, e che altrimenti può risultare altamente improbabile per quei soggetti, che già in difficoltà nella società libera, siano stati fortemente provati dall'isolamento che la dimensione detentiva comporta. Nella realtà di questo caso purtroppo il tentativo da parte del servizio sociale non è stato ancora posto in essere.

Nel caso 4, la perdita del padre, pur avendo sicuramente provocato un trauma nel vissuto infantile del soggetto, sembra abbia contribuito a rafforzare il rapporto con la madre, che viene quasi venerata dal soggetto. In questo caso la figura paterna è stata sostituita dallo zio, che ha rappresentato una figura maschile di riferimento, colmando il vuoto lasciato dal padre. Il vissuto travagliato che il soggetto ha condiviso con la madre (l'abbandono del padre, la difficile situazione economica e familiare in Colombia, il nuovo matrimonio della madre), ha favorito un buon adattamento del nucleo alle varie situazioni di crisi, per cui anche l'evento detenzione, se pur non privo di conseguenze, non ha influito sul buon andamento delle relazioni. La detenzione, pur comportando un trauma nel vissuto personale dei soggetti coinvolti, non viene percepita come una minaccia alla stabilità della famiglia, in quanto è presente sia nel figlio che nella madre la convinzione che l'esperienza delinquenziale sia stata solo occasionale, e che non tenderà a ripetersi. Inoltre la famiglia ha potuto contare sul supporto di persone esterne al nucleo che hanno dato il loro contributo per far fronte alle difficoltà economiche (spese legali sostenute dal marito della madre) e sociali (sostegno psicologico e affettivo di parenti e amici) derivanti dalla detenzione.

Se, secondo la definizione di Hill (10) riguardo alla capacità di adattamento del nucleo alla separazione imposta dalla detenzione, la maggior possibilità di un buon adattamento si realizza quando le famiglie mantengono intatte le relazioni attraverso le visite e la corrispondenza e portando avanti un progetto di riunione, questa famiglia sembra avere tutti i requisiti perché questo si realizzi.

GRUPPO B - Detenuti che avevano buone relazioni con i genitori prima della detenzione

Caso 1

B. N., Tunisino, 29 anni, definitivo, condanna per spaccio. Aveva il permesso di soggiorno, che è scaduto durante la detenzione. Prima dell'arresto non lavorava.

Ha un legame molto forte con la madre. Il padre esiste e vive con la famiglia, ma non viene mai nominato dal detenuto. Il padre non accetta la detenzione del figlio e preferisce ignorarlo, sentimento che trova rispondenza nel figlio, il quale per non sentirsi rifiutato mantiene rapporti solo con la madre.

Lei vive in Tunisia e gestisce una catena di negozi di abbigliamento, non ha problemi economici, e gli manda spesso dei soldi. È venuta a trovarlo due volte dalla Tunisia. Degli incontri racconta:

"La prima volta la mamma è venuta a trovarmi ad aprile, ha fatto il viaggio dalla Tunisia ed è stata qui solo tre giorni, per vedermi due ore. L'ha accompagnata l'avvocato, ma gli ha chiesto un sacco di soldi.

È tornata anche di giugno, ma questa volta è stata da Don Leonardo. È rimasta tre giorni, mi hanno concesso di fare i colloqui per tre giorni consecutivi, così ho potuto stare con lei sei ore: due ore ogni giorno. Alla casa di Don Leonardo hanno la cucina, così la mamma ha preparato delle cose per me, e me le ha portate. Mi sono sentito un po' a casa!

Ho chiesto di andare in permesso premio, così la prossima volta che viene possiamo stare un po' insieme da Don Leonardo. La mamma ha ottenuto il visto Schengen per la Francia, così può venire tutte le volte che vuole.

La prima volta che mi ha visto in carcere mi si è spezzato il cuore. Incontrarla in quella stanza così fredda. Noi in Tunisia abbiamo una casa bella, stiamo bene. Io lo vedevo che le veniva da piangere, ma lei faceva finta di niente e mi parlava del viaggio, dei suoi affari...".

Incontro con la madre

Ho incontrato la signora all'uscita del colloquio quando è venuta per la prima volta in Italia ad aprile. È una signora molto distinta, veste abiti occidentali.

Mi sono fermata a parlare con lei, con l'aiuto di una mediatrice di lingua araba. Si è messa subito a piangere.

"Non gli mancava niente. Aveva tutto quello che voleva in Tunisia, ma è voluto venire in Italia. Guarda qui come si è ridotto. Sta male, io lo vedo che sta male. Io faccio quel che posso. Quando esce lui vorrebbe rimanere ancora qui. Ma si vedrà...".

"È la prima volta che vengo in Italia, però sono stata altre volte in Europa, soprattutto in Francia, per lavoro. Mio marito è rimasto a casa, Non ne vuol sapere, lui. Gli vuole bene, si, ma le mamme si sa per i figli sono disposte a tutto".

Caso 2

M. B., italiano, 31 anni, definitivo.

Ha legami molto forti con i suoi genitori, che abitano a Sanremo e ogni settimana vengono a fargli visita. La madre faceva la parrucchiera, ma dopo la detenzione del figlio ha lasciato il negozio alla figlia, e lei lavora saltuariamente per venire ai colloqui, che spesso sono in giorni lavorativi. M. B. si sente molto in colpa per aver sconvolto la vita dei suoi genitori, che secondo lui hanno pagato più di lui il prezzo di quello che lui ha commesso.

Del rapporto con i genitori racconta:

"Qualche mese fa sono stato molto male, così la direzione mi ha autorizzato ad avere dei colloqui supplementari. La mamma veniva da Sanremo in treno per incontrarmi anche due volte a settimana, ci impiegava tutto il giorno per stare con me un'ora. Qualche volta l'accompagna mio padre, ma quando viene lui è uno strazio. Lui soffre a vedermi qui, non se ne fa una ragione, e allora parla, parla, parla... con tutti quelli che incontra. Mia madre a volte si vergogna perché nella sala d'aspetto si mette a raccontare della nostra famiglia a tutti, e poi fa domande, domande a tutti, e afferma continuamente: "Ah siamo tutti disgraziati noialtri che si viene qui!".

Nonostante il buon rapporto con i genitori, M. B. è molto depresso perché non intravede possibilità per il futuro, non avendo nessun legame sentimentale, e avendo paura di non aver la possibilità di istaurarne alcuno dopo la detenzione a causa della sua condizione di ex-detenuto e dell'età (M. B. ha solo 31 anni).

Incontro con i genitori

Ho incontrato i genitori di M. B., nella sala d'aspetto della sala colloqui. Non è stato difficile individuarli seguendo le descrizioni del figlio, il padre, un signore di grossa corporatura sulla sessantina cerca di istaurare un dialogo con tutti i familiari della sala d'aspetto.

La madre è sicuramente più disposta a parlare della situazione del figlio e delle conseguenze apportate dalla detenzione di questo.

Dice che la detenzione del figlio ha cambiato tutta la sua vita, e la definisce come la peggiore disgrazia che possa capitare ad una famiglia, che deve sopportare, oltre al danno economico per le spese sostenute per mantenere il figlio detenuto, i costi dei viaggi per i colloqui, eccetera..., anche la vergogna di aver fallito come genitori.

Il padre è molto agitato, tanto che la moglie dice di preferire il viaggio in treno, anche se ci impiega molte ore, piuttosto che sopportare lo strazio di vedere suo marito ai colloqui. Lui proprio non accetta la detenzione del figlio, e non vuol sentir dire che loro non sono stati buoni genitori.

Caso 3

L. O., italiano, 29 anni, definitivo, condannato a 8 anni per tentato omicidio. Detenuto da due anni.

Abita a Milano con i genitori. Prima dell'arresto lavorava come operaio. È un tipo molto sportivo e anche in carcere pratica molta attività fisica, perché, dice che è l'unica cosa che gli dà un po' di sollievo.

I suoi genitori vengono ai colloqui ogni tanto, perché abitano lontano, e i colloqui a Prato si fanno quasi sempre di giorni lavorativi, così non possono sempre lasciare il lavoro. Nei mesi in cui si fanno i colloqui di sabato, vengono più spesso. Ma incontrarli non gli dà un gran sollievo, li vede stanchi e tristi, a vederlo in carcere.

Si sente privo di aspettative. L'unica speranza per il futuro è rappresentata dalla sua fidanzata, che vorrebbe sposarlo al più presto, anche in carcere. Lui non è d'accordo perché ha paura che lei si stanchi di aspettarlo, e quindi il matrimonio sarebbe un fallimento.

"Se io fossi in lei non ce la farei! Non potrei aspettare di stare con una ragazza per tanti anni, ma se lei lo farà gliene sarò infinitamente grato. È una cosa bella che si fa per una persona, è mantenere in vita la sua speranza nel futuro. Ma se non ce la farà, è uguale, perché io lo dico onestamente: se fossi in lei non ce la farei!".

Caso 4

J. B., italiano, 26 anni, definitivo, condannato per reato di omicidio.

Originario del Brasile, è stato adottato con la sorella all'età di nove anni da una famiglia italiana altolocata. I suoi genitori sono professionisti affermati.

Si dice disperato pensando a loro, perché loro gli hanno salvato la vita togliendolo dalla strada, in Brasile, e lui li ha ricompensati provocandogli solo enormi sofferenze.

Quando vengono ai colloqui lui non vorrebbe neanche vederli, sua madre piange tutto il tempo, anche se sono passati ormai diversi anni. Sono infatti quattro anni che è detenuto.

Suo padre ha pagato i migliori avvocati, e quando viene a trovarlo parla spesso della sua vicenda giudiziaria.

Sua sorella invece ce l'ha con lui perché ha fatto soffrire tanto i suoi genitori, che certamente non lo meritavano.

Valutazione dei casi

Nei casi descritti in questo gruppo le relazioni con la famiglia di origine si presentano buone, sia prima che durante la detenzione, svolgendo il loro importante ruolo di supporto nell'alleviare il peso della detenzione. In tutte le situazioni descritte non vengono rispettate le previsioni dell'art. 30 comma 1º del Nuovo Reg. Esec. riguardo all'assegnazione dei detenuti in istituti situati entro la regione di residenza, o in località prossima. Questo comporta gravi conseguenze sul piano pratico ed economico, in quanto rende più gravosi i viaggi per i colloqui, e in alcuni casi incide addirittura sulla condizione lavorativa dei familiari, che pur di visitare il figlio detenuto sono disposti a rinunciare ad una situazione lavorativa stabile (caso 2).

Nei casi di pessimi rapporti con i genitori si trovano sentimenti di risentimento nei loro confronti quasi ad imputargli la colpa della propria condotta, o del mancato successo nella vita, nei casi in cui i rapporti siano sempre stati buoni, e i genitori si siano dimostrati comprensivi e affidabili anche durante la detenzione, è frequente riscontrare nei soggetti detenuti sentimenti auto colpevolizzanti per essere stati la causa di tanta sofferenza nei confronti di chi non se la sarebbe meritata. È presente in tutti i detenuti di questo gruppo il riconoscimento che la detenzione ha più effetti negativi per i genitori che per i reclusi stessi, facendo pagare ai loro cari la fatica e il costo dei disagi che essa comporta: i lunghi viaggi per arrivare ai colloqui, il costo dei pacchi alimentari, le giornate di lavoro perse. Lo stigma che colpisce le famiglie dei soggetti detenuti, la vergogna, il senso di fallimento, affliggono questi genitori, che sentono di aver mancato il loro ruolo educativo. Questa messa in discussione del ruolo genitoriale, più frequente nei padri a causa del processo identificativo su cui si fonda la relazione padre-figlio, (11) porta spesso a sentimenti di rifiuto e di mancata accettazione della detenzione del figlio (caso 1, caso 2), che fa ricadere sulla madre, non solo l'incombenza pratica di accudire da sola il figlio, e di affrontare da sola lunghi viaggi, ma le attribuisce anche un ruolo centrale nel mantenimento dei delicati equilibri relazionali. Molte sono state le ricerche che evidenziano la prevalenza delle figure familiari femminili, in special modo le madri, nell'assistenza ai detenuti. (12)

È possibile notare che la risorsa dei genitori si dimostra un valido supporto sia materiale che affettivo durante la detenzione, ma che non è sufficiente a costruire delle aspettative per il futuro. Fra i soggetti intervistati nessuno ha dimostrato il desiderio, una volta uscito dal carcere di tornare in famiglia. Le fantasie sul futuro sono spesso rivolte ad una compagna con la quale crearsi una nuova vita, ma nei casi in cui questo legame non sia già esistente il carcere rappresenta l'estrema frustrazione di questo desiderio, dato che non concede alcuna possibilità di incontro. Questo dimostra come sia necessario investire sulla famiglia e sulle relazioni con le persone appartenenti alla società libera, affinché questi elementi mantengano vivi gli interessi e le motivazioni che non appartengono al carcere, e alla cultura deviante, e alimentino elementi concreti su cui fondare la speranza di una vita futura.

4.3.2. Le relazioni coniugali

GRUPPO C - Gli effetti della detenzione sul rapporto coniugale

Caso 1

G. R., 24 anni, cittadino colombiano, vive a Lucca dal 1993 (caso 4, gruppo A, paragrafo 4.3.1.).

È sposato con una ragazza italiana, sua coetanea, e ha una figlia di due anni e 7 mesi (al momento della prima intervista).

È in carcere da due anni e quattro mesi e ha una condanna di 8 anni per traffico di stupefacenti.

Riporto quasi integralmente il suo racconto, perché è espresso con estrema chiarezza, e contiene una descrizione precisa ed incisiva su molte delle problematiche causate dalla detenzione:

"Con mia moglie il rapporto è un po' "burrascoso", ma è perché mi sono innamorato.

A volte ci siamo presi per i capelli, ma niente di più.

Mi dispiaceva, perché come ti ho detto la violenza sugli altri non la sopporto, quindi mi dava noia quando si arrivava a mettersi le mani addosso, ma perdevo il controllo.

Le altre volte, con le altre ragazze quando c'erano da fare delle discussioni io me ne andavo, non era per me, mi levavo di torno e chi s'è visto s'è visto...

Con Laura (13) non è così, all'inizio era così, si discuteva e io me ne andavo, poi mi ha incastrato, ogni volta che rimanevo lì a litigare capivo che l'aveva vinta lei.

E così mi sono innamorato... (...)

Con mia moglie è strano perché nei momenti peggiori siamo stati molto uniti, subito dopo l'arresto, quando ero a Trani, veniva a trovarmi tutte le settimane, mi era più vicina lei di mia madre; adesso, da che ha cambiato lavoro va tutto peggio. Forse si è abituata alla mia assenza.

Bisogna aspettare che esco per vedere come andranno le cose tra me e lei.

Lo so che per lei è difficile, tutte le responsabilità sono a carico suo.

Lei si sente sola, abbandonata, con tutta la famiglia contro, ed ha ragione ma io non so come aiutarla.(...)

Non c'è lavoro, adesso mi hanno messo a fare il porta vitto la domenica, lavoro 8 ore al mese per trenta o quarantamila lire, è una presa in giro, Laura dice che non ci paga neanche la benzina per venirmi a trovare. Quando mia moglie mi doveva prestare i soldi io mi sentivo male. Sarò anche un maschilista, ma se non riesco a mantenere la mia famiglia non mi sento nulla, mi sento inutile!

Lei adesso ha cambiato lavoro, non viene tutte le settimane ai colloqui, così faccio i colloqui una settimana con mia madre e la mia sorellina che ha quattro anni, e una settimana con Laura e mia figlia. (...)

Ma non so come andrà a finire con Laura.(...) L'anno scorso abbiamo avuto un periodo di crisi. Lei me l'ha scritto per lettera, ma sono io che me ne sono accorto. Ormai io e Laura ci conosciamo troppo bene, io mi ero accorto che lei era stanca, indifferente ai colloqui.

Così ci siamo scritti, si, ci siamo accorti che comunichiamo meglio per lettera. Al colloquio non ci riesce, non c'è il tempo di portar in fondo un discorso, così le cose importanti le discutiamo per lettera.

Lei me l'ha scritto, "non ti amo più", ma è stato peggio quando me l'ha detto di persona.

Dio come ho sofferto, è stato peggio di quando mi hanno dato quindici anni!

Quando al primo processo mi hanno dato 15 anni, (il p.m. prima ne aveva chiesti 22, e io ne avevo 21, erano di più di quanto avevo vissuto!), non me li potevo neanche immaginare, mi son sentito morire... ma quando Laura mi ha detto che tra noi era finita mi son sentito peggio, molto peggio.

L'unica cosa che mi fa stare meglio è pensare che quando uscirò troverò loro, lei e mia figlia, se non ci sono loro, non me lo posso neanche immaginare che cosa farò!

Anche dal punto di vista umano è difficile...

In Colombia, ma anche in altri paesi europei sono ammessi i colloqui coniugali, sembra solo un'esigenza fisica ma non è così.

Dal punto di vista umano sei troppo tagliato fuori... Anche per mia moglie, ha ventiquattro anni ed è costretta a stare da sola, le manca l'affetto, le coccole, tutto!

Io lo so che lei vede altra gente, infatti la crisi è dovuta anche da quello, lei esce e vede gente della nostra età con una vita diversa, studiano, vanno all'università, sono liberi, non hanno una bambina e un marito in carcere come lei.

Forse ha perso un po' la carica, se potessi uscire un mese, e stare con lei e la bambina forse la ritroverebbe.

Ma devo aspettare ancora un anno per avere i benefici, ma un anno è tanto ed è poco, dipende da che succede.

Spero di poter andare in permesso per poter ristabilire un po' questa relazione.

Non so se lei mi aspetterà, è difficile.

A volte mi chiede se io fossi in lei se potrei aspettare per dieci anni una persona in carcere.

Io non posso essere ipocrita e dirgli quello che mi fa più comodo, non so se l'aspetterei... Però si, invece, essendoci passato so che aspetterei anche dieci anni perché ora capisco quello che prova uno che ha provato il carcere. Ma se uno non l'ha provato non lo può capire!".

Valutazione del caso

Il racconto sopra riportato offre un interessante spaccato sulle varie problematiche che hanno caratterizzato la storia della relazione coniugale tra il detenuto e la coniuge, nel suo percorso evolutivo durante la detenzione.

Nel periodo immediatamente successivo all'arresto, la moglie ha dimostrato un grande attaccamento al marito, affrontando con determinazione la situazione nel suo primo stadio d'emergenza, forte anche del giovane ed intenso legame che li univa. Con il passare del tempo, e l'aumentare delle difficoltà pratiche legate sia ai bisogni materiali, che alla privazione affettiva il legame si è pian pian affievolito, fino a rasentare il pericolo di una frattura. Complice della situazione è sicuramente l'inadeguatezza dei colloqui, come unici strumenti di mantenimento delle relazioni familiari. L'introduzione della possibilità dei cosiddetti "permessi coniugali" è auspicata dai detenuti come una possibile soluzione al problema. Nella situazione attuale la completa mancanza di intimità in cui si volgono gli incontri, la limitata durata di questi, e la dispersiva frequenza, mortificano i sentimenti rendendo impossibile qualsiasi scambio di effusioni, di affetti, ed anche di parole sensate, tanto che i soggetti sono costretti a rifugiarsi nella forma epistolare, come ricordato anche nel caso sopra indicato.

Alle difficoltà psicologiche e sentimentali, si affiancano le difficoltà di ordine pratico-economico: nel caso in questione la giovane coniuge si è trovata da sola, con una figlia di pochi mesi da allevare e da mantenere, senza un lavoro.

La Costituzione Italiana prevede all'art. 30 il dovere e il diritto dei genitori a mantenere, istruire ed educare i propri figli, affermando che in caso di incapacità dei genitori, sia la legge stessa a provvedere ai loro compiti. In carcere i genitori detenuti sono resi incapaci ad esercitare questo dovere, che è anche un diritto costituzionalmente garantito. La legge penitenziaria prevede all'art. 20 che nell'assegnazione al lavoro si tenga conto dei carichi familiari, ma la condizione è preceduta dalla previsione dell'anzianità di disoccupazione durante lo stato detentivo, che nella pratica risulta essere il criterio maggiormente applicato. La mancanza di lavoro, e la conseguente parcellizzazione delle mansioni, rende comunque privo di efficacia ai fini del mantenimento familiare l'assegnazione al lavoro, facendo si che i detenuti con famiglia a carico, come quello qui intervistato, percepiscano una paga mensile di ottantamila lire. (14)

Nel corso della detenzione la moglie è riuscita a trovare un'occupazione, riuscendo a migliorare la situazione economica del nucleo, ma comportando un netto peggioramento della situazione relazionale. Il nuovo lavoro le ha infuso maggior sicurezza nelle proprie capacità, facendola sentire più autonoma ed indipendente dal marito, inoltre gli impegni lavorativi hanno ridotto la frequenza dei colloqui, rendendo più rarefatto il rapporto. Il marito ha sentito che il suo ruolo di capofamiglia è stato messo in discussione, con un conseguente crollo della sua autostima.

Il nucleo sta vivendo un delicato momento, le cui uniche probabilità di superamento sono rappresentate dalla possibilità di accedere a misure alternative o premiali che interrompano il senso di isolamento provocato dalla reclusione, e permettano al soggetto di riprendere parte gradualmente alla vita familiare.

GRUPPO D - Relazioni in cui il marito mantiene il ruolo di capo famiglia

Caso 1

R. A., marocchino, 36anni, in custodia cautelare. Ha regolare permesso di soggiorno e prima dell'arresto lavorava come magazziniere in un'industria tessile a Prato.

La sua famiglia vive a Montemurlo, ed è composta da moglie e quattro figli, tutti molto piccoli, il più grande ha 9 anni.

La moglie, fino al suo arresto conduceva una vita molto ritirata, occupandosi della gestione della casa e dei figli; ma le relazioni pubbliche erano totalmente gestite dal marito, tanto che lei non parla neanche l'italiano. La loro condizione economica era abbastanza precaria anche prima della detenzione, ma dopo è divenuta disastrosa, essendo venuta a mancare la loro unica fonte di reddito.

La moglie va spesso ai colloqui, e il marito le dà indicazioni su come comportarsi, le dice a chi rivolgersi, e come affrontare le situazioni che le si presentano. Lei si trova in uno stato di totale disorientamento. Con l'aiuto di una mediatrice si è messa in contatto con i servizi sociali, per chiedere un sostegno economico.

Dopo alcuni mesi, il servizio sociale del Comune in cui risiedono ha preso in carica il caso, accollandosi le spese per l'affitto, e concedendo un contributo economico per le spese alimentari.

La moglie continua ad andare regolarmente a visitare il marito, che costituisce ancora il suo punto di riferimento.

Caso 2

U. S., nigeriano, 33anni, in custodia cautelare per traffico di stupefacenti. Ha il permesso di soggiorno per lavoro autonomo, e fino al momento dell'arresto faceva l'autotrasportatore.

Aveva inoltrato le pratiche per il ricongiungimento familiare, la moglie e il figlio di cinque anni sono arrivati in Italia nei giorni immediatamente successivi all'arresto.

Al momento del nostro primo incontro, avvenuto dopo poche settimane dal suo ingresso in carcere, era in uno stato di grande ansia per la mancanza di informazioni riguardo all'arrivo della moglie e del figlio. Era molto preoccupato per le condizioni di vita che avrebbero trovato i suoi familiari, data la sua assenza. Al momento dell'arresto aveva comunque dato disposizioni ad alcuni connazionali perché accudissero la moglie e il figlio al momento dell'arrivo. Ha chiesto anche a me se potevo contattare il padrone di casa per verificare che avesse permesso ai suoi familiari di insediarsi nell'appartamento, che aveva preso in affitto.

Pur non conoscendo affatto la lingua italiana, la moglie si è subito attivata per incontrare il marito, andando regolarmente ai colloqui con il figlio.

Il marito continuava a preoccuparsi della situazione economica dei familiari, e dell'educazione del figlio, cercando qualcuno che potesse indirizzarli ai vari servizi.

La moglie si è infatti rivolta ai centri di servizio sociale del Comune di Prato per un suo eventuale inserimento lavorativo, e per l'iscrizione a scuola del figlio, in attesa che la Questura rilasciasse loro i permessi di soggiorno per ricongiungimento familiare.

Il marito ha continuato dall'interno del carcere a esercitare il suo ruolo di guida per la famiglia, definendo le linee da seguire per risolvere i vari problemi. La moglie è stata supportata economicamente e praticamente da alcuni connazionali, amici del marito.

Dopo alcuni mesi il figlio è stato inserito a scuola e la moglie ha trovato lavoro in una stireria.

Dopo quasi un anno dall'arresto, la moglie continua ad andare regolarmente ai colloqui con il figlio, e il loro legame familiare sembra saldo.

Caso 3

N. S., nigeriano, 32 anni, in custodia cautelare, aveva il permesso di soggiorno e un lavoro regolare prima di entrare in carcere.

Sua moglie vive qui, con il figlio di nove mesi.

L'hanno arrestato quando suo figlio aveva appena un mese. Il bimbo è nato l'11 settembre, e lui è stato arrestato il 13 ottobre.

Ha richiesto gli arresti domiciliari, ma il giudice per l'indagini preliminari ha respinto l'istanza.

La famiglia è in grave disagio economico: la moglie è costretta ad "elemosinare" dagli amici per mangiare.

"Quando vengono al colloquio mia moglie piange tutto il tempo. Io piango dentro, è un dolore insopportabile, ma almeno li vedo, vedo che sono ancora vivi, che stanno bene e allora sono felice. Anche quando non li vedo per una settimana, ma non ho ricevuto nessuna brutta notizia, e so che sono ancora vivi, sono felice.

Mio figlio non mi conosce, viene sempre al colloquio, ma quando gli dico "vieni" e gli butto le braccia lui piange e scappa. Questo mi dà un grande dolore, ma non ci posso fare nulla. Aveva un mese quando mi hanno arrestato. Ora è cresciuto.

Se poi penso anche ai miei genitori, giù in Nigeria, divento matto. Mia madre ha 74 anni e non ha la pensione, non ha soldi, non ha niente, se non le mando i soldi non mangia. Ma non posso pensare a tutto insieme, se no divento matto. Così penso a quelli vicini.

Tra noi nigeriani c'è molta solidarietà, siamo soli qui, non abbiamo madre, padre, né fratelli che ci possono aiutare. Così i miei amici hanno aiutato molto mia moglie, ma come potevano, ora sono stanchi. Lei deve fare l'elemosina per portarmi quei 10-20 euro qui a me. Dovrei essere io a dare i soldi a loro, e invece non posso fare niente per loro. Questo mi dà molto dolore.

Ho chiesto gli arresti domiciliari perché così anche se non posso lavorare mia moglie può lavorare, mentre io sto a casa con il bambino. Ma il Gip ha respinto, due volte ha respinto, anche se il Pm ha dato parere favorevole. A parte il passaporto italiano io ho tutto: vivo in Italia da cinque anni, sono entrato con regolare visto, ho sempre avuto un lavoro. Mia moglie lo stesso. Tutto quello che poteva fare l'ha fatto. Ha anche trovato un lavoro in un negozio, io l'ho detto al Gip, perché mi facesse andare a casa per guardare il bambino, ma lui ha detto che mia moglie poteva andare a lavorare con il bambino. Ma non c'è giustizia per noi stranieri".

Valutazione dei casi

I casi descritti in questo gruppo sono tutti rappresentativi delle particolari problematiche che le famiglie in questione si trovano ad affrontare a causa della stato di detenzione del capo famiglia, unico apportatore di reddito. Tutte le famiglie qui coinvolte sono famiglie immigrate, per cui la loro situazione risulta aggravata anche dalle specifiche difficoltà legate a questo status: in primo luogo la difficoltà di comunicazione dettata dalla mancanza di padronanza della lingua italiana, in secondo luogo la scarsa conoscenza della città e delle modalità di accesso alle risorse del territorio, in terzo luogo la diversità culturale che attribuisce alla donna un ruolo familiare molto legato alla cura della casa e dei figli, che la rende estranea ai rapporti esterni.

Nel caso 1 trattato in questo gruppo, la difficoltà linguistica e il disorientamento della moglie a causa della situazione di isolamento relazionale cui era abituata sono molto evidenti. La signora non è stata capace di rivolgersi ai servizi sociali territoriali fino all'intervento di una mediatrice culturale in lingua araba, appartenente ad una associazione di volontariato che opera nel carcere di Prato che si è messa in contatto con lei dopo averne avuta segnalazione dal marito.

Nel caso 2, l'arresto immediatamente precedente l'arrivo in Italia della moglie ha complicato il processo di adattamento del nucleo, che si è trovato in un paese sconosciuto, privo di punti di riferimento. La coniuge del detenuto n. 2 ha contattato i servizi sociali in seguito alle informazioni che le sono state fornite da alcune volontarie del carcere di Prato, su indicazione del marito.

Durante il nostro primo incontro con questi due detenuti è risultato immediatamente evidente il profondo stato di ansia in cui questi soggetti si trovavano a causa della situazione difficile ed incerta in cui avevano dovuto lasciare la famiglia. L'art. 23 del regolamento di esecuzione prevede al comma 7º che durante il colloquio di primo ingresso il soggetto sia "invitato a segnalare gli eventuali problemi personali e familiari che richiedono interventi immediati", disponendo che di tali problemi la direzione debba informare il centro di servizio sociale. In nessuno di questi casi tale procedura è stata rispettata.

Nel caso 3 le difficoltà del nucleo non sono connesse alla mancata integrazione della coniuge, in quanto questa viveva in Italia da sola prima del matrimonio, aveva un lavoro e una buona conoscenza della lingua e del territorio, ma piuttosto alle difficoltà legate alla situazione di isolamento familiare, con la totale assenza di figure parentali di sostegno, in cui questa e tante altre famiglie immigrate si trovano. Il sospetto di discriminazione nei propri confronti sostenuto dal detenuto in quanto straniero non è totalmente privo di fondamento, perché dai dati relativi alla concessione delle misure alternative alla detenzione risulta evidente il minor numero di ammissioni concesse ai detenuti stranieri, dovuto al pericolo di fuga quasi sempre attribuito a questi soggetti. Anche se non spetta a noi valutare, in questo caso è difficile stabilire una preminenza dell'interesse a garantire la sicurezza (il soggetto è in custodia cautelare) su quello di preservare un nucleo familiare con un bimbo di un anno dagli effetti catastrofici della detenzione del padre.

Tutti i casi appartenenti a questo gruppo, se pur connotati per le disastrose situazioni economiche e sociali in cui si trovano le rispettive famiglie, non sembrano essere coinvolti nei processi di crisi relazionale. Le difficoltà pratiche ed economiche, la mancanza di risorse e di riferimenti culturali, il sentimento di sradicamento che accomuna l'esperienze di queste famiglie, oltre al particolare legame che lega questi coniugi, contribuisce a tenere in piedi le relazioni familiari, mantenendone intatti i ruoli e gli equilibri.

GRUPPO E - I rapporti con i familiari lontani

Caso 1

N. A., iraniano, 47 anni, definitivo, condannato a 18 anni in Italia, estradato dalla Francia per un altro reato per il quale aveva già scontato 3 anni e mezzo, si trova nelle carceri italiani da ormai 12 anni.

Non vede la famiglia da più di 17 anni, ma è sempre in contatto con sua moglie che vive in Iran, e i suoi tre figli, di cui uno vive in Canada, uno in Inghilterra, e l'altro a Teheran con la madre.

Da un anno gli hanno concesso il permesso per effettuare le telefonate con la scheda, una volta al mese. Fino all'anno scorso, e quindi per più di sedici anni, ha mantenuto i contatti con la famiglia soltanto per lettera. Ma è molto informato su tutti i suoi familiari, ed il legame che li unisce è molto forte.

Da tempo si sta attivando per avere un permesso premio per poter trascorrere qualche giorno con la sua famiglia, nella casa di Don Leonardo. "Non posso mica farli venire qui da tutto il mondo per vederli solo un'ora, e poi dopo tanto tempo...".

I familiari sono tutti benestanti, lavorano, e non hanno nessun problema per ottenere il visto. L'unico impedimento al loro incontro è la mancata (fino ad oggi) concessione di un permesso premio che dia loro la possibilità di ricongiungersi anche solo per qualche giorno.

Caso 2

L. F., cinese, 34 anni, definitivo, condannato per sequestro di persona e associazione mafiosa, declassato in Media Sorveglianza in quanto ha sempre manifestato un'ottima condotta. Non ha mai avuto i documenti per il soggiorno, e si dice sprovvisto anche di documenti di identità.

Ha moglie e un figlio di 9 anni in Cina. È molto attaccato al figlio, compra sempre della cartoline con disegni per mandargli i saluti. Il figlio non sa niente della detenzione e crede che il padre sia in Italia per lavoro.

La moglie invece ha interrotto completamente i rapporti, tanto che ha richiesto al tribunale cinese l'affidamento completo del figlio, dichiarando che il coniuge era morto.

L. F. mantiene invece contatti telefonici con la madre anziana, alla quale ha detto di essere stato condannato ad una breve condanna. È stata la madre che lo avvertito del procedimento del tribunale, invitandolo a mandare urgentemente la documentazione della sua esistenza per poter ottenere l'affidamento del figlio.

È molto agitato, in quanto il figlio costituisce l'unico segno di speranza pensando al futuro.

Al momento non si conoscono gli esiti della vicenda.

Caso 3

V. R., Olandese, 36 anni, definitivo, condannato a 14 anni per omicidio, è in carcere in Italia da quattro anni e mezzo.

Aspetta il definitivo per poter richiedere il trasferimento in Olanda, dove vive la sua famiglia, composta da sua madre, sua zia e sua figlia di quasi 7 anni.

Sta portando avanti da tempo una battaglia per ottenere le telefonate con la scheda, perché le ritiene l'unico modo per poter mantenere il rapporto con la figlia, che non vede da quando lei aveva due anni e mezzo.

"Avere il permesso per telefonare con la scheda è l'unica cosa che mi interessa qui.

Il fatto è che io ce l'ho avute per un anno, (15) poi me le hanno revocate perché usufruisco delle telefonate ordinarie. Ma 10 minuti non mi bastano per parlare con mia figlia, che non capisce perché il papà mette giù il telefono.

Mia zia dice che quando mi sente dopo sta troppo male perché piange per tutto il pomeriggio perché pensa che io non le voglio parlare.

Così quando telefono con le ordinarie non me la faccio neanche passare e parlo solo con mia zia o con mia mamma. Ma per me è difficile perché mia figlia è l'unica cosa che conta per me. L'ho cresciuta da solo. La mia compagna se n'è andata quando mia figlia era molto piccola".

Valutazione dei casi

Data la rilevante percentuale di detenuti stranieri presenti negli istituti penitenziaria italiani, il problema del mantenimento dei rapporti familiari con i parenti rimasti nei paesi di origine sembra essere di notevole importanza. I casi sopra riportati dimostrano l'insufficienza dei mezzi attualmente previsti per il mantenimento dei rapporti con i familiari lontani, e quanto sia difficoltoso proprio per gli stranieri essere ammessi alla fruizione di quelli che per loro costituiscono le uniche modalità di contatto.

Il caso 1 dimostra all'estremo la difficoltà per i detenuti stranieri, soprattutto extra-comunitari, di essere autorizzati alle telefonate. Il soggetto in esame, dopo dodici anni di detenzione in Italia, non è stato ancora autorizzato ad effettuare telefonate ordinarie alla famiglia. Fino a qualche anno fa la moglie non aveva il telefono in casa, e quindi risultava impossibile autorizzare telefonate verso un numero che non corrispondesse al nominativo di un familiare. Ora che l'abitazione familiare è dotata di una linea telefonica propria non sono ancora arrivate le conferme consolari sulla rispondenza dei dati. L'unica concessione che gli è stata fatta è stata l'autorizzazione ad effettuare le telefonate con la scheda, che però, oltre ad essere una prassi di limitata applicazione, è da considerarsi una misura premiale e uno strumento non adatto per l'esercizio di un diritto fondamentale, quale quello al mantenimento delle relazioni familiari.

Nella situazione presentata dal caso 3 le telefonate con la scheda sono invece invocate quale mezzo maggiormente idoneo a mantenere un valido rapporto con la figlia. Le telefonate ordinarie sono infatti sottoposte ad una rigida regolamentazione degli orari, che non sempre corrispondono a quelli di disponibilità della figlia, e la durata può essere solo di dieci minuti (art. 39 comma 2º Nuovo Reg. Esec.). L'art. 39 prevede al comma 3º la possibilità di una concessione in deroga ai limiti stabiliti dal comma 2º, nel caso in cui la corrispondenza telefonica si svolga con prole inferiore di dieci anni. Nel caso in esame la concessione dell'autorizzazione in deroga è stata negata per la carenza di apparecchi telefonici, ritenuti dall'amministrazione appena sufficienti allo svolgersi delle telefonate di durata ordinaria di tutti i detenuti (a Prato vi è un telefono per ogni piano, in cui sono ubicate due sezioni).

Il caso 2 testimonia la difficoltà aggiuntiva determinata dalla detenzione in un paese straniero nel risolvere eventuali problemi sorti nella situazione familiare. Il detenuto in questione, che ha il problema di dover dimostrare la sua esistenza in vita a fronte di una dichiarazione di morte presunta presentata su istanza della moglie al tribunale cinese, per poter ottenere il totale affidamento del figlio, non ha a disposizione nessuno strumento di sicura efficacia.

GRUPPO F - Quando la famiglia viene presa in carico da altri familiari

Caso 1

A. B., albanese, 37 anni, definitivo per concorso in omicidio, arrestato con altri due fratelli. Ha il permesso di soggiorno e prima dell'arresto lavorava presso un'impresa edile come muratore.

La sua famiglia, composta da moglie e due figli (1 anno e 6 anni), viveva con lui a Prato al momento dell'arresto. Dopo l'arresto del marito la moglie è caduta in depressione, e si è chiusa in casa, per la vergogna, dice lui. Adesso si è trasferita a Latina dal fratello, che si è accollato il mantenimento della sua famiglia anche di quella di un altro fratello detenuto.

La moglie non viene mai ai colloqui perché non ha le possibilità economiche e materiali per fare il viaggio. Ogni tanto viene il fratello, ma lei con i bimbi piccoli rimane a casa. Non parla italiano, e con i figli piccoli è impossibilitata a trovare lavoro.

A.B., inveisce contro la giustizia italiana, affermando la sua completa innocenza, e si dimostra disperato per le condizioni in cui verte la famiglia. L'unica preoccupazione è quella di trovare qualcuno che possa aiutarla.

Ha una condanna lunga e non intravede possibilità per il futuro.

Caso 2

M. B., Tunisino, anni 42, definitivo, condannato ad un anno e sei mesi per concorso in detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Durante la detenzione è divenuto cieco a causa di una malattia.

Vive in Italia da quasi dieci anni, ma non ha mai avuto il permesso di soggiorno, e non ha mai avuto un lavoro fisso.

L'anno scorso è arrivata in Italia anche la moglie, che ora è detenuta presso la Casa Circondariale di Perugia per lo stesso reato.

In Tunisia ha due figlie di 6 e 8 anni, che vivono con sua madre.

Ha contatti telefonici con la moglie, per la quale si dimostra molto preoccupato, ma ha con lei uno strano rapporto, tanto che ad aprile al momento della scarcerazione non ha voluto avvertirla del suo ritorno a casa in Tunisia.

Ha colloqui telefonici anche con la madre, che gli permettono di avere notizie sulle figlie, ma dice di non voler parlare direttamente con loro per non essere costretto a dare spiegazioni.

Contattando telefonicamente la madre, grazie all'aiuto di una mediatrice in lingua araba, ci racconta, piangendo, del passato turbolento del figlio. M ha avuto ripetute risse con gli altri componenti della famiglia, arrivando perfino ad accoltellare lo zio, e ha interrotto i rapporti con quasi tutti i familiari. La famiglia della moglie gli rimprovera la colpa di aver condotto anche lei sulla strada della devianza, e minacciano vendetta qualora dovesse rientrare in patria.

La madre quindi è molto preoccupata per il ritorno del figlio temendo per tutta la situazione familiare, e affermando che le bambine crescono meglio con lei che con i genitori. Date le circostanze di salute del figlio ci chiede di provare a contattare una sorella di M. B. che vive in Italia, e che potrebbe aiutarlo a rimanere.

M. B. in un primo momento non vuole chiedere aiuto alla sorella, con la quale non ha contatti da molti anni, e alla quale non vuole dimostrare il suo "fallimento", ma poi acconsente. La sorella vive in Calabria con la famiglia e sembra avere una vita tranquilla.

Ad un primo colloquio telefonico la sorella sembra stupita di ricevere notizie del fratello, ma dice di essere disponibile ad aiutarlo. Pur avendo tentato altre ripetute telefonate non è stato più possibile mettersi in contatto con lei.

Al momento del rilascio, M.B. si presenta con degli abiti nuovi di tipo sportivo che gli sono stati regalati dai compagni di cella, e accompagnandolo all'aeroporto mi chiede di fermarmi a comprare dei regali per le bambine, "Devo dare l'impressione di tornare da un viaggio d'affari, e non da una catastrofe come questa!".

Dopo qualche settimana lo chiamo per sentire come è andato il ritorno a casa. La madre ci dice che le cose vanno meglio di quanto sperasse, e che M. B. è rimasto a vivere con lei e le bambine.

Lui dice che sta bene, e che ha raccontato alle sue figlie di grandi avventure.

La moglie rimane detenuta, mancando ancora un anno al suo fine pena.

Valutazione dei casi

I casi presentati in questo gruppo sono esemplificativi delle situazioni in cui gli effetti della detenzione si estendono ad una dimensione familiare più allargata. In entrambi i casi la famiglia ha usufruito della disponibilità di familiari non appartenenti al nucleo, nel caso 1 un fratello, e nel caso 2 la madre del detenuto, dal momento che il nucleo non aveva le risorse per far fronte alla situazione.

Nel caso 1, la moglie, madre di due figli piccoli, immigrata, non riesce a reagire alla situazione derivante dalla detenzione del marito, che per lei rappresenta uno shock molto forte. Secondo il marito la donna non riesce a superare il senso di vergogna per lo screditamento che la famiglia ha subito in seguito alla detenzione dei tre fratelli. Lo stigma si fa più marcato per la discriminazione che opera nei confronti degli immigrati albanesi, riguardo ai quali la popolazione locale nutre molti pregiudizi. La donna e i bambini vengono accolti nella famiglia del fratello, le condizioni economiche in cui verte il nucleo così allargato (il fratello si è fatto carico anche della famiglia di un altro fratello detenuto), non le permettono di recarsi ai colloqui. La famiglia in questione, pur appartenendo a più aree svantaggiate, essendo famiglia immigrata, con difficoltà di integrazione; famiglia di un detenuto, che non mantiene i contatti con questo, e famiglia in situazione di povertà, non è stata mai segnalata ai servizi sociali, e al momento dell'intervista non riceve aiuti da nessuno.

Nel caso 2 la presa in carico delle figlie del detenuto da parte della madre di questo è indipendente dall'evento detentivo in quanto entrambi i genitori erano volontariamente partiti per l'Italia affidando le bambine alla madre. Le figlie non sono informate della detenzione dei genitori, e data la lontananza non hanno subito particolari conseguenze derivanti da questo evento.

Il caso 2 rappresenta l'unico caso del campione in cui è stato possibile seguire la fase del rilascio e del conseguente rientro in famiglia. La storia di M. B., è particolarmente travagliata a causa della perdita della vista, provocata da una malattia, che si è aggravata durante la detenzione, diventando incurabile. Il suo ritorno a casa è segnato da una profonda tristezza perché non potrà mai più rivedere le sue bambine.

4.3.3. I rapporti con i figli

Caso 1

M. H., marocchino, 34 anni, clandestino, definitivo per resistenza a pubblico ufficiale, con una condanna a mesi 4 di detenzione.

Al momento dell'intervista è in carcere da 1 mese.

È in Italia con la convivente, anch'essa clandestina, ed ha un figlio di appena 4 mesi (e 25 giorni, al momento dell'intervista), nato prematuro, affetto da una grave malformazione cardiaca.

La moglie non è ancora venuta al colloquio perché non parla bene italiano e non sa quali sono le procedure.

Risulta molto preoccupato per lo stato di salute del figlio, e per la moglie, che fuori da sola non sa se sarà capace di orientarsi. Il figlio deve essere operato al più presto, presso l'ospedale di Massa Carrara, ma lui dal momento dell'arresto non ne sa più niente. Ha con sé una foto del piccolo, ed è molto emozionato nel mostrarmela.

Caso 2

H. G., tunisino, 29 anni, clandestino. Definitivo per detenzione e spaccio di stupefacenti.

Riporta molte ferite da autolesionismo. È appena tornato da un ricovero all'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo.

Ha una convivente italiana, con la quale ha un figlio di cinque anni. Non ha molti rapporti con loro, ma ogni tanto la compagna porta il figlio a trovarlo, perché sa che il padre ci tiene tanto. Quando viene, e riescono a giocare insieme nei locali della ludoteca, gli sembra una giornata di festa.

Quando uscirà spera di potersi regolarizzare, soprattutto per poter stare insieme a suo figlio.

Caso 3

B. K., marocchino, 37 anni, definito, condannato a 10 mesi di reclusione.

È in carcere da quattro mesi. Aveva il permesso di soggiorno, ma gli è scaduto da molto tempo, non l'ha mai rinnovato perché non aveva lavoro.

Vive con una donna italiana dalla quale ha avuto una bambina che adesso ha tre anni.

Quando esce intende sposarsi. La convivente non viene quasi mai ai colloqui, la bambina mai, perché stanno a Roma, ma lui è sicuro che lei lo aspetterà.

Caso 4

C. F., Cinese, 41 anni, definitivo.

Aveva il permesso di soggiorno, che è scaduto da pochi mesi, mentre era detenuto; prima dell'arresto era proprietario di una confezione di abbigliamento.

È sposato ed ha cinque figli, la più grande lavora in Francia, ma non si ricorda precisamente quanti anni ha. Gli altri quattro vivono a Prato con la madre, la più grande di loro ha tredici anni e quest'anno ha preso il diploma di terza media.

Sua moglie lavora un po', ma con quattro figli piccoli da mantenere non è facile. Fino allo scorso mese lui lavorava come scopino, e quei pochi soldi che guadagnava li mandava tutti a casa, per i suoi figli.

I suoi figli parlano solo italiano, lui invece lo parla molto male; loro comprendono il cinese, ma non riescono a parlarlo, così non è sempre facile capirsi.

I figli gli spediscono molte letterine, ma tutte in italiano e lui non le sa leggere.

"I più piccoli fanno tanti disegni, ma la più grande scrive delle lettere lunghissime. Per fortuna io ho un vocabolario grosso, grosso, e così passo il mio tempo a cercare di capirle".

Caso 5

V. R., Olandese, 36 anni, ... (caso 3, gruppo E, paragrafo 4.3.2.)

Aspetta il definitivo per poter richiedere il trasferimento in Olanda, dove vive la sua famiglia, composta da sua madre, sua zia e sua figlia di quasi 7 anni, che lui ha cresciuto da solo fino al momento dell'arresto, avvenuto quattro anni fa. (...)

La figlia sa che il padre si trova in carcere, anche se lui sostiene che non è in grado di capire cosa significa.

L'anno scorso quando era detenuto a Sollicciano sono venute a trovarlo la zia e la figlia, ma l'incontro non è potuto avvenire:

"Hanno fatto più di tremila chilometri in macchina per venire a trovarmi, e mia figlia è stata brava perché veniva a trovare il papà.

Poi sono venute a Firenze, ma non me le hanno fatte incontrare perché mancava un foglio del PM.

È stata una cosa tremenda!

Io le aspettavo perché avevo fatto richiesta per avere un colloquio di quattro ore, sapevo che arrivavano, era il 16 agosto. Mi hanno anche fatto scendere.

Io aspettavo e a 15 metri di distanza sentivo la voce di mia zia e della mia bambina nell'ufficio del Direttore; avevano anche fatto venire una guardia che parlava inglese, perché mia zia non parla l'italiano.

È anche una tipa tosta mia zia, ma non l'hanno fatte passare.

Io ho fatto un casino tremendo. Ho sfasciato tutto e ho preso denunce e rapporti per quel giorno.

Per me vedere mia figlia era la cosa più importante. Io l'ho cresciuta da solo!".

Caso 6

G. R., 24 anni, colombiano. (caso 3, gruppo A, paragrafo 4.3.1.)

È sposato con una ragazza italiana, anche lei di ventiquattro anni, e ha una figlia di due anni e 7 mesi. Ha un legame molto forte con la bambina e ce lo racconta così:

"Io sono molto innamorato, sono proprio innamorato della mia bambina, l'ho lasciata quando aveva solo tre mesi, ma ora sono proprio innamorato.

Da quando sono a Prato mi si è affezionata molto, ci vediamo ogni settimana e adesso mi riconosce. L'anno scorso ci siamo visti tutte le settimane, adesso ogni quindici giorni, ma mi riconosce.

Quando ero a Trani l'ho vista dopo quattro mesi.

Io sono molto attaccato alla mia bambina, mi piace coccolarla, parlargli.

Sono molto permissivo con lei, mi piace spiegarle le cose, tranquillizzarla con le parole, non alzare la voce o picchiarla. Non voglio che nessuno alzi le mani sulla mia bambina.

Mi hanno proposto la Gorgona, là potrei lavorare per settecento, forse anche ottocentomila lire al mese, ma mia moglie non vuole. Preferisce che non le dia i soldi, ma almeno posso vedere lei e la bambina.

Eh si, anche lei impara a conoscermi ora, fino ad ora era troppo piccinina.

Ora ci parlo anche per telefono, ora capisce: l'altro giorno al telefono piangeva perché voleva l'acqua e non gliela volevano dare perché se l'era appena rovesciata tutta addosso, allora io le ho parlato e piano piano l'ho convinta, le ho detto di chiedere a zia Camilla (16) di darle l'acqua, perché era brava e non l'avrebbe rovesciata più.

E anche questo per me è partecipare un po' alla loro vita.

Per me mia figlia è tutto, tutto dipende da lei, per me sarebbe certo più facile lasciare tutto e tornarmene in Colombia, ma lei no, non la lascerei mai.

Mi piace essere padre, mi fa sentire realizzato, anche se da qui non so ancora bene quello che vuol dire, proverò meglio quando uscirò. Ma mia figlia per me è davvero importante, ne sono innamorato!

Lei non si rende neanche conto di quello che mi dà senza fare nulla, solo con la sua naturalezza.

L'altro giorno al colloquio le ho cambiato il pannolino. Per me è stata un'emozione, dicono che puzza, ma io non lo sentivo neanche, mi fa più schifo la mia.

E così l'altro giorno al colloquio aveva tutto il pannolone pieno di popò, e mia moglie mi ha detto "vai, tocca a te!" così gliel'ho levato, poi l'ho lavata nel lavandino; avevo paura di farle male, infatti lei mi diceva:"babbo fai pianino", e io avevo un po' paura perché non ci sono abituato, ero tutto emozionato.

Mi faceva ridere quando mi diceva "fai pianino" e io le dicevo "scusa, ma il babbo non c'è abituato".

Io glielo dico sempre che il babbo gli vuole tanto bene, e la ama tanto, chissà se capisce, mia moglie dice di no".

Valutazione dei casi

Tutti i detenuti con prole del campione hanno manifestato una grande sofferenza per l'interruzione del rapporto con i figli, causata dalla detenzione, lamentando una sporadicità degli incontri, che comunque, anche quando frequenti non sembrano mai sufficienti al mantenimento di una relazione come quella genitore-figlio che necessita di cure ed attenzioni quotidiane. Nella maggior parte dei casi i figli rappresentano la più grande speranza per il futuro, in un meccanismo di identificazione e proiezione del sé: (17) i padri sperano che i figli riusciranno a realizzare quello che loro non hanno saputo essere. Si avverte in tutti i detenuti di questo gruppo l'orgoglio di essere genitore, come se il figlio rappresentasse la cosa migliore o comunque la cosa più importante, che siano stati capaci di fare.

La perdita di contatto quotidiano con il figlio, rende l'attaccamento del padre quasi esagerato, vivendo la detenzione in attesa di quegli unici momenti di contatto con il figlio (casi 2, 5, 6). La possibilità introdotta a Prato di poter effettuare gli incontri con i figli nella ludoteca, ha permesso di poter godere meglio di questi momenti, concedendo l'opportunità di poter condividere gesti quotidiani, come il cambio di un pannolino, che per i padri detenuti, diventano occasioni eccezionali (caso 6).

La mancanza di questi contatti rappresenta per alcuni detenuti l'elemento più doloroso della detenzione. Il detenuto del caso 5 racconta il particolare trauma che ha vissuto quando gli hanno negato di poter vedere la figlia venuta appositamente dall'Olanda per incontrarlo. E possiamo facilmente immaginare quali siano state le conseguenze sulla figlia.

Anche nei rapporti con i figli la condizione di immigrazione rende più difficile la già complessa problematica del mantenimento delle relazioni.

Il caso 4 mostra in maniera esemplare le difficoltà di comunicazione proprie delle famiglie di immigrati, i cui figli siano nati nel paese ospitante. I bambini nati in Italia parlano correntemente la lingua locale, ma non sanno comunicare nella lingua di origine, che riescono a mala pena a comprendere. Contrariamente i genitori hanno una conoscenza limitata della lingua locale, spesso solo orale. Nel contatto quotidiano la difficoltà viene mediata da altre forme di linguaggio e di espressione, ma durante la detenzione, quando il contatto quotidiano è impedito e la corrispondenza scritta diventa un'importante mezzo per il mantenimento costante delle relazioni, questa difficoltà diventa particolarmente evidente.

Il caso 1 mostra invece una particolare situazione di difficoltà legata allo stato di salute del figlio. Il detenuto in questione condannato solo a quattro mesi, padre di un figlio minore in grave stato di salute non ha accesso a nessuna misura alternativa che gli permetta di esercitare il suo ruolo di genitore. Il detenuto e la sua compagna si trovano in un totale stato di disorientamento dovuto in parte alle difficoltà di comprensione linguistica, in parte al terrore di essere espulsi, che non gli permette di usufruire nemmeno di quei pochi strumenti di tutela previsti dalla legge. (18)

Note

1. AA. VV., Architetture carcerarie, in E. SANTORO, D. ZOLO (a cura di), L'Altro Diritto. Emarginazione, devianza e carcere, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997, p. 125.

2. L. SCARCELLA, Le mille prigioni. Rapporto sul Repertorio del patrimonio edilizio dell'Amministrazione penitenziaria, in "La Nuova Città", n. 2/3, maggio/dicembre 1998, p. 66.

3. P. MORRIS, op. cit., p.9.

4. A. MARGARA, Il sorriso di Michelucci nel grigio del carcere, in G. MICHELUCCI, Un fossile chiamato carcere. Scritti sul carcere, A cura di C. Marcetti e N. Solimano, Angelo Pontecorboli Editore, Firenze, 1993, p. 12.

5. P. MORRIS, op. cit., p. 146.

6. Secondo il nuovo art. 609- septies del codice penale, introdotto dall'art. 8 della legge 15 febbraio 1996, n. 66, i delitti di violenza sessuale sono punibili a querela della persona offesa, ma secondo il 3º comma di detto articolo, una volta proposta, la querela diviene irrevocabile.

7. Nome di fantasia.

8. J. P. MARTIN, D. WEBSTER, The Social Consequences of Conviction, Heinemann, London, 1971, p. 92; A. PAOLELLA, M. CORRERA, F. SCLAFANI, "Dinamiche familiari e detenzione", Napoli, Rassegna Medico Forense Anno XIX, collana monografica "Dentro e Attraverso" diretta da Sciaudone.

9. R. BREDA, C. COPPOLA, A. SABBATINI, op. cit., pp.305-308.

10. R. HILL, Families Under Stress, New York, Harper Bros., 1949.

11. A. BOUREGBA, Le difficoltà di assumere ruoli e funzioni familiari per i padri detenuti, in Atti della Giornata di Studi; "Carcere: salviamo gli affetti", Casa di Reclusione di Padova, 10 maggio 2002.

12. P. GALLINARI, L. SANTILLI, Dall'altra parte. L'odissea delle donne dei detenuti politici, Feltrinelli, Milano, 1994; D. CLEMMER, The Prison Community, Boston, The Christopher Publishing House, 1941, p. 226.

13. Nome di fantasia.

14. Al tempo dell'intervista era ancora in vigore la valuta nazionale, adesso la cifra sarebbe equivalente a circa 41 euro.

15. Intende il permesso per effettuare le telefonate con la scheda.

16. nome di fantasia.

17. A. BOUREGBA, Le difficoltà di assumere ruoli e funzioni familiari per i padri detenuti, in Atti della Giornata di Studi; "Carcere: salviamo gli affetti", Casa di Reclusione di Padova, 10 maggio 2002.

18. Il Testo Unico in materia di immigrazione emanato con decreto legge 25 luglio 1998 n. 286, prevede all'art. 19 comma 2º lettera d) il divieto di espulsione per le donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi al parto.