Capitolo 2
Modalità di definizione del processo penale minorile ispirate al principio della minima offensività
In Italia la piena realizzazione del principio della minima offensività del processo penale minorile è sempre stata contrastata dalla previsione costituzionale del principio di obbligatorietà dell'azione penale (articolo 112 della Costituzione). "Tale principio sembra costituire un vincolo estremamente rigido nel settore minorile, che impedisce di adeguare fino in fondo le caratteristiche del sistema giudiziario alle condizioni sociopsicologiche del soggetto minorenne ed alle esigenze della sua educazione" (1). Le soluzioni adottate dal legislatore del 1988, volte a limitare l'offensività del processo, in linea con lo scopo del recupero del minore, si riferiscono tutte alla fase successiva all'esercizio dell'azione penale.
Quasi tutti i sistemi giudiziari delle democrazie occidentali presentano, invece, misure di diversion from court, che hanno come obiettivo l'astensione dell'apparato della giustizia da ogni forma di intervento (screening). In questi sistemi la fase delle indagini preliminari è caratterizzata da un'ampia gamma di opportunità alternative all'esercizio dell'azione penale. Infatti la polizia e gli organi della pubblica accusa oltre a potersi astenere da qualsiasi forma di intervento nei casi di colpa lieve e in assenza di interesse pubblico a procedere, possono ricorrere, nella fase delle indagini preliminari, a forme di intervento attenuato. Per esempio in paesi quali l'Inghilterra, l'Olanda, l'Austria, la Germania, la Francia e gli Stati Uniti sono diffuse misure che consentono alla polizia di ammonire e di avvertire anticipatamente di quali siano le conseguenze di un reato, accompagnando il minore presso la stazione di polizia, o fissando un colloquio con i genitori, o richiedendo l'intervento dei servizi sociali.
In Italia, invece, ostando il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, non esistono forme di diversion analoghe a quelle analizzate e il giudice per le indagini preliminari ha unicamente la possibilità di pronunciare il non luogo a procedere per irrilevanza del fatto con sentenza e solo dopo aver sentito il minorenne, l'esercente la potestà dei genitori e la persona offesa dal reato.
In realtà c'è stato un tentativo di introdurre nel processo minorile un'ipotesi di non intervento. La Commissione ministeriale istituita nel 1987 e presieduta dalla Dott.ssa Livia Pomodoro, aveva inserito nel progetto di riforma del processo penale minorile la possibilità per il giudice di adottare un decreto di archiviazione ogni qual volta, a causa della tenuità del fatto e dell'occasionalità del comportamento, la prosecuzione del procedimento sarebbe risultata non conforme alle esigenze educative del minore e a quelle di tutela della collettività. Al termine dell'iter legislativo, però, la Commissione ministeriale ha preferito la soluzione della sentenza di non luogo a procedere, pronunciata solo dopo aver sentito i soggetti interessati, per tutelare la nuova normativa da eventuali censure di costituzionalità (2).
Dalla scelta di non demandare alla fase delle indagini preliminari forme di chiusura del procedimento penale, derivano due importanti conseguenze. La prima consiste nel rilievo che si assiste alla celebrazione formale di processi anche a carico di autori di reati quali la falsificazione di biglietti di pubbliche imprese di trasporto (art. 462 del codice penale), l'introduzione o l'abbandono di animali nel fondo altrui (art. 636 del codice penale), il disturbo del riposo delle persone (art. 659 del codice penale) (3).
La seconda conseguenza di tale scelta è la posizione di centralità che assume l'udienza preliminare nel processo penale minorile. L'udienza preliminare diventa dal 1988 la "sede peculiare" (4) dello svolgimento del processo minorile, nonché la sede in cui viene definito il processo nel merito. Infatti l'articolo 32, primo comma, del D.P.R. 448 del 1988 prevede che il giudice dell'udienza preliminare possa pronunciare sentenza di non luogo a procedere nei casi previsti dall'articolo 425 del codice di procedura penale, così come modificato dalla legge n. 479 del 1999, o per concessione del perdono giudiziale o per irrilevanza del fatto. Inoltre il GUP può pronunciare sentenza di non luogo a procedere per non imputabilità del soggetto (art. 26), sospendere il processo e mettere alla prova l'imputato (art. 28), con successiva declaratoria di estinzione del reato per esito positivo della prova (art. 29) e disporre l'applicazione di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria (art. 32, secondo comma).
"Questi possibili esiti dell'udienza preliminare sono giustificati dall'esigenza di evitare il giudizio dibattimentale, per le speciali esigenze di protezione della personalità dei minori coinvolti" (5). In effetti il dibattimento riveste, nel processo penale minorile, un ruolo marginale e residuale, essendo riservato alle sole ipotesi in cui risulti necessaria una condanna a pena detentiva.
Per quanto riguarda l'articolo 32 del D.P.R. 448 del 1988 è da aggiungere che è stato modificato dalla legge n. 63 del 2001, che prevede le modifiche al codice penale e di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova, in attuazione della legge costituzionale di riforma dell'articolo 111 della Costituzione, che introduce i principi del 'giusto processo'. Il primo comma dell'articolo 32, così novellato, prevede che "nell'udienza preliminare, prima dell'inizio della discussione, il giudice chiede all'imputato se consente alla definizione del processo in quella stessa fase. Se il consenso è prestato, il giudice, al termine della discussione pronuncia sentenza di non luogo a procedere nei casi previsti dall'art. 425 del codice di procedura penale o per concessione del perdono giudiziale o per irrilevanza del fatto". Questa previsione è espressione della garanzia dell'imputato di partecipazione alla formazione della prova, il cui diritto va sempre riconosciuto in quanto costituisce uno dei principi del 'giusto processo'.
Tale modifica comporta che il giudice dell'udienza preliminare non possa prosciogliere il minore nel caso in cui risulti contumace o legittimamente assente o irreperibile, dovendo, in ogni caso in cui manchi il consenso dell'imputato, emettere il decreto che dispone il giudizio anche nel caso in cui avrebbe altrimenti pronunciato sentenza di non luogo a procedere nel merito con formula ampiamente liberatoria o, comunque, tale da non postulare alcun accertamento di responsabilità dell'imputato.
La novella del 2001, inoltre, contrasta con la sentenza della Corte Costituzionale n. 77 del 1993, che ha esteso il potere di proporre opposizione contro decisioni pronunciate nel corso dell'udienza preliminare astrattamente favorevoli all'imputato, ma nelle quali la sua responsabilità viene ontologicamente presupposta (perdono giudiziale), o logicamente postulata (non imputabilità). Con l'istituto dell'opposizione al minore "è offerta la possibilità di rinnovare la pronuncia adottata in sede di udienza preliminare e dare corso alla celebrazione del dibattimento, nel cui ambito è posto in condizione di esercitare compiutamente il diritto alla prova".
La Corte Costituzionale ha recentemente risolto i problemi sorti con la novella del 2001, dichiarando con sentenza n. 125 del 2002 l'incostituzionalità, per contrasto con gli articoli 3 e 31 della Costituzione, dell'articolo 32, primo comma del D.P.R. 448 del 1988, nella parte in cui, in mancanza di consenso dell'imputato, preclude al giudice di pronunciare una sentenza di non luogo a procedere che non presuppone un accertamento della responsabilità dell'imputato. La Corte, in questa sentenza, ha definito la disciplina emergente dalla modifica del 2001 come una "disciplina intrinsecamente priva di ragionevolezza, che vanifica le finalità deflattive che ispirano l'impianto dell'udienza preliminare minorile, precludendo la possibilità di una immediata definizione del processo e imponendo uno sviluppo dibattimentale assolutamente superfluo, non funzionale all'esercizio del diritto di difesa, posto che, fra l'altro, l'imputato non potrebbe comunque ottenere in dibattimento una formula di proscioglimento più vantaggiosa".
2.1. Il perdono giudiziale
Il perdono giudiziale fu introdotto dal codice penale del 1930, attualmente in vigore, all'articolo 169 e contemplato dall'articolo 19 del R.d.l. 1404 del 1934 (6), istitutivo del Tribunale per i minorenni.
Questo istituto configura una causa estintiva del reato, in quanto estingue la potestà statale di applicare la pena minacciata. Le cause estintive del reato (fra cui la prescrizione, la sospensione condizionale della pena, la remissione di querela), fanno venire meno la c.d. 'punibilità in astratto' (7), che sorge con il verificarsi di tutti gli elementi costitutivi del reato e consiste nella possibilità giuridica di applicare le conseguenze penali del reato: lo Stato, così, rinuncia ad applicare la sanzione penale minacciata dalla norma (8).
In particolare con il perdono giudiziale lo Stato rinuncia alla condanna o al rinvio a giudizio, nonostante che il giudice abbia accertato la responsabilità dell'imputato minorenne. Infatti può essere concesso in sede di udienza preliminare o dibattimentale, mentre è preclusa la sua concessione durante le indagini preliminari, in quanto non è incluso fra i motivi che comportano l'archiviazione.
La prima condizione necessaria per concedere il perdono è che il colpevole, al tempo della commissione del reato, non avesse compiuto i diciotto anni: si configura, così, una causa estintiva del reato applicabile esclusivamente ai minori.
Inoltre, secondo la previsione dell'articolo 169 del codice penale, è applicabile solo ai minori che abbiano commesso reati che importino una pena restrittiva della libertà non superiore a due anni o una pena pecuniaria non superiore a tre milioni di lire, da convertire in euro dal gennaio del 2002, anche se congiunta a detta pena (art. 19 del R.d.l. 1404 del 1034, modificato dalla legge 689 del 1981). Pertanto il perdono comporta la cognizione piena del merito dell'accusa, occorrendo prove sufficienti per condannare e si basa su un effettivo accertamento della colpevolezza dell'imputato.
Per poter concedere il perdono, il giudice deve presumere che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati (art. 169). Questa presunzione, che si deve fondare sulle circostanze indicate nell'articolo 133 del codice penale, volte a stabilire la gravità del reato e la capacità a delinquere del colpevole, implica, come emerge da una pronuncia della Corte di Cassazione del 1989, oltre l'esame del fatto, anche quello della personalità del soggetto e del suo comportamento contemporaneo e successivo al fatto. Il giudice è chiamato a compiere un "giudizio prognostico sul comportamento futuro del minore e quindi sulla possibilità che la mancata irrogazione della pena contribuisca al recupero dello stesso in termini di ragionevole prevedibilità" (9).
L'ultimo comma dell'articolo 169 del codice penale prevede che il perdono giudiziale non possa essere concesso più di una volta.
La Corte Costituzionale è intervenuta più volte sul tema della reiterazione del beneficio. Dapprima ha interpretato estensivamente la previsione del codice penale. Infatti con la sentenza n. 108 del 1973 ha esteso la possibilità di concedere il beneficio ad altri reati legati dal vincolo della continuazione a quelli per i quali è stato già concesso il perdono (10) e, con la sentenza n. 154 del 1976, tale estensione ha riguardato reati commessi anteriormente alla prima sentenza di perdono, quando la pena cumulata con la precedente, non superi i limiti per l'applicabilità del beneficio. Successivamente la sentenza n. 295 del 1986 ha ritenuto costituzionalmente legittimo il divieto di reiterazione, fuori dai casi predetti, in quanto la commissione di un nuovo reato dimostra l'insufficienza della funzione ammonitrice del perdono per l'autorieducazione del minore, il quale non ha risposto alla fiducia accordatagli dalla società.
L'articolo 169, nel disporre che il perdono non possa essere concesso al minore che ha riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto, anche se è intervenuta la riabilitazione, né al delinquente o contravventore abituale o professionale, rimanda esplicitamente a quanto previsto, dall'articolo 164, per la sospensione condizionale della pena. Questo istituto si può accostare al perdono giudiziale, in quanto entrambi costituiscono una forma di 'perdono' proveniente dall'autorità giudiziaria, che si colloca nell'ambito della più generale categoria delle cause di estinzione del reato (11), ma solo il perdono giudiziale estingue il reato contemporaneamente alla sua concessione e non può essere revocato. La Corte di Cassazione, in una pronuncia del primo marzo del 1967, ha stabilito che per decidere se concedere la sospensione condizionale della pena o il più vantaggioso beneficio del perdono, il giudice debba tenere conto della gravità del reato, della personalità del colpevole e dell'opportunità di rafforzare o meno il ravvedimento del reo, motivando la concessione della sospensione condizionale (12).
Per completare l'analisi dell'istituto in esame occorre fare cenno alla disciplina delle iscrizioni nel casellario giudiziale. Tali iscrizioni relative alla concessione del perdono sono conservate fino al compimento del ventunesimo anno di età della persona alla quale si riferiscono; dopodiché vengono eliminate. Questa previsione si inserisce nell'ambito delle disposizioni che abbiamo definito destigmatizzanti (13). Il fatto che sia stata prevista un'età più avanzata per l'eliminazione delle iscrizioni relative al perdono, rispetto a quella prevista per l'eliminazione delle iscrizioni relative ad altre 'formule indulgenziali', quali l'irrilevanza del fatto, la non imputabilità, l'estinzione del reato per esito positivo della prova, per l'eliminazione delle quali è sufficiente il raggiungimento dei diciotto anni di età, dimostra che il legislatore ha tenuto conto del fatto che sia stata accertata la responsabilità del minore e, per di più, per un reato che non necessariamente sia di lieve entità o che dimostri l'occasionalità della sua condotta e che l'estinzione del reato sia intervenuta contestualmente alla concessione del beneficio, senza che sia stata subordinata all'esito positivo di un periodo di prova.
Passiamo ad analizzare i presupposti ideologici e i vari orientamenti dottrinali, relativi all'istituto in esame.
Introdotto nel 1930, il perdono giudiziale doveva assolvere ad una funzione di ammonimento perfettamente in linea con il paternalismo autoritario che caratterizzava il regime fascista (14).
Successivamente, con l'introduzione del principio rieducativo, a cui devono tendere le pene, e della esigenza di tutela della gioventù ad opera dello Stato, contenuti rispettivamente negli articoli 27, terzo comma e 31, secondo comma della Costituzione, e, soprattutto, con il sorgere delle nuove tendenze del minimo intervento penale, l'istituto viene visto con favore, ritenendosi che, in determinati casi la non applicazione della sanzione sia più utile, per lo sviluppo armonico della personalità del reo e il suo reinserimento nella società, rispetto alla loro applicazione.
La Corte Costituzionale ha fissato questo orientamento nella sentenza n. 120 del 1977, in cui sostiene che il perdono giudiziale discende "dalla minore fiducia del legislatore nella capacità rieducativa del carcere per i minorenni e dalla maggiore fiducia nella possibilità del loro recupero sociale dopo il primo incontro con la giustizia penale".
Nella sentenza n. 295 del 1986 la Corte Costituzionale sottolineando la funzione ammonitrice del perdono mette in rilievo la propria fiducia nell'efficacia di tale funzione.
Chiaramente favorevole a questo istituto, Ricciotti (15), rileva che il perdono giudiziale ha in sé uno spirito retributivo, in quanto il concetto stesso di perdono comporta riprovazione verso la condotta del minore. E proprio alla riprovazione, che è assente in altri istituti, quale il proscioglimento per irrilevanza del fatto, l'autore attribuisce la funzione di responsabilizzare il minore stesso.
Anche Assante, Mazziotti e Giannino (16) concordano nel ritenere che l'utilità del perdono giudiziale derivi dalla sua valenza intrinsecamente responsabilizzante. Il processo di responsabilizzazione, originato dall'ammonimento, porterebbe il minore a prendere coscienza del disvalore sociale, nonché giuridico, della sua condotta e a capire che l'ordinamento giuridico se, da una parte, ha tollerato tale condotta, avendola considerata una 'sbandata' episodica, dall'altra non può assolutamente accettare ripetute violazioni della legge.
Di avviso contrario, Magno (17) sostiene che la circostanza che alla dichiarazione di responsabilità non segua l'applicazione della pena, rende il processo penale solamente una minaccia. Ciò avrebbe gravi conseguenze, in quanto "la certezza dell'impunità rafforza le spinte criminose". L'autore vede il perdono giudiziale come un istituto con caratterizzazione esclusivamente indulgenziale, mancando, invece, ogni valenza di tipo responsabilizzante o di contenimento della criminalità minorile. Per Magno sarebbe preferibile rispondere alla criminalità minorile tornando ad utilizzare "la frusta".
Anche per Moro (18) e Dusi (19) il perdono giudiziale rischia di vedere ridotta la sua valenza a mera espressione di clemenza. Occorrerebbe, pertanto, rivitalizzare le modalità con cui viene applicato nella prassi giurisdizionale per fare sì che contribuisca in modo significativo al processo educativo del minore.
Del resto già la Corte d'appello di Bologna, nell'esprimere un parere (20) riguardante il progetto preliminare delle disposizioni sul nuovo processo penale minorile, elaborato nel gennaio del 1988 dalla Commissione ministeriale presieduta dalla Dott.ssa Pomodoro, ha criticato l'uso fatto, specie dai Tribunali delle grandi città, del perdono giudiziale. Infatti si sostiene che il minore, arrestato o solo incriminato, "quando in seguito si vede notificare la sentenza di proscioglimento, non solo non riesce a capirne il significato, ma, ciò che è più grave, ritiene di aver raggiunto una sorta di immunità e se ne fa una millanteria diminuendo sempre più nel suo senso di responsabilità". Nel parere si sostiene, pertanto, non solo che il perdono, così come viene correntemente usato, non ha una valenza responsabilizzante, ma che addirittura fa diminuire il senso di responsabilità eventualmente presente nel minore.
Il perdono, da una parte, risponde perfettamente ad esigenze di tipo deflattivo ed ha l'indubbio merito di limitare i danni derivanti al minore da un prolungato contatto con il sistema penale. D'altra parte, però, la sua caratterizzazione prettamente paternalistica pone un ostacolo ontologico alla responsabilizzazione del minore, che costituisce, come è giusto ricordare, una delle principali caratteristiche che il processo penale minorile dovrebbe avere, secondo l'impostazione del decreto del 1988. A ciò si aggiunga che il beneficio in esame viene concesso in modo frettoloso e senza che sia accompagnato da una attenta spiegazione del suo significato più profondo. Tali modalità di applicazione annientano ogni valenza educativa, che taluni pretendono di attribuire a tale istituto. Si può, tutt'al più, affermare che, riducendo il contatto del minore con il sistema penale, il perdono persegue il fine educativo del processo penale minorile del 1988, in termini di non interruzione dei 'processi educativi in atto'.
Palomba (21) e Giannino (22) sostengono che il perdono giudiziale è destinato a risentire dell'applicazione che verrà fatta delle formule terminative del giudizio previste dagli articoli 27 (irrilevanza del fatto) e 28-29 (estinzione del reato per esito positivo della prova) del D.P.R. 448 del 1988, in modo tale che la sua applicazione diminuirà quanto più si affermeranno le altre formule più vantaggiose per i minori che commettono un reato, a cominciare dall'archiviazione.
In effetti da una indagine conoscitiva svolta dal Consiglio Superiore della Magistratura presso gli Uffici giudiziari minorili emerge che, nel periodo che va dal primo luglio del 1969 al 31 dicembre del 1970, il 43% dei processi penali a carico di imputati minorenni si sono conclusi con la concessione del perdono giudiziale, mentre, come emerge da uno studio dell'Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile del Ministero di Grazia e Giustizia (23), nel corso del 1998, solamente il 16% dei processi si sono conclusi con la concessione di tale istituto. Si osserva che, a dieci anni dall'entrata in vigore delle disposizioni sul nuovo processo penale minorile, il perdono giudiziale viene applicato in meno della metà dei casi rispetto a quanto accadeva diciotto anni prima dell'introduzione delle nuove formule terminative di tale processo, a conferma di quanto previsto da Palomba e Giannino.
2.2. La sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto
L'istituto dell'irrilevanza del fatto è stato introdotto, per la prima volta, nell'ordinamento giuridico italiano dall'articolo 27 del D.P.R. 448 del 1988, secondo il quale il giudice delle indagini preliminari può pronunciare sentenza di non luogo a procedere se risulta la tenuità del fatto e l'occasionalità del comportamento, quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne.
La dottrina maggioritaria ritiene che questo istituto configuri una causa di non punibilità (24), in quanto "non elimina al fatto commesso la qualità di illecito penale, ma fa venire meno la pretesa punitiva dello Stato nei confronti del suddetto minore" (25). Pertanto, come sottolinea Patanè (26), l'irrilevanza del fatto non ha una valenza depenalizzante, perché non interviene sul momento precettivo, continuando ad esistere ontologicamente il reato, ma sulla reazione sanzionatoria, impedendo la punibilità del reo (27).
Anche la Corte Costituzionale ha ritenuto che l'istituto in esame costituisse una causa di non punibilità. E proprio muovendo da questa constatazione, con la sentenza n. 250 del 1991, ha dichiarato l'incostituzionalità dell'articolo 27 del decreto del 1988. Infatti la Corte Costituzionale ha reputato che la previsione del nuovo istituto dell'irrilevanza del fatto costituisse un eccesso di delega da parte del Governo, il quale era stato delegato dall'articolo 3 della legge n. 81 del 1987 "a disciplinare il processo a carico di imputati minorenni al momento della commissione del reato", mentre la norma in esame, pur presentando implicazioni di carattere processuale, attiene al diritto sostanziale, configurando una nuova causa di non punibilità. Pertanto l'articolo 27 non trova di per sé collocazione all'interno dell'oggetto della legge delega. Inoltre, la previsione di una nuova causa di non punibilità non viene indicata nei principi direttivi del nuovo processo penale minorile, enunciati nell'articolo 3 della legge delega e non compare nemmeno fra i principi e i criteri del nuovo processo penale ordinario, a carico di imputati adulti, a cui il nuovo processo minorile deve, comunque, essere ancorato.
Sulla base di queste argomentazioni la Corte Costituzionale ha dichiarato, inevitabilmente, la contrarietà dell'articolo 27 del D.P.R. 448 del 1988 all'articolo 76 della Costituzione.
Secondo Palomba (28) la Corte Costituzionale avrebbe dichiarato l'incostituzionalità per eccesso di delega, con il chiaro intento di provocare la reintroduzione dell'istituto da parte del legislatore primario, prefigurando così un intervento "certamente più forte di quello derivato per delega" e con la finalità di preservare l'istituto da ulteriori questioni di legittimità costituzionale. Infatti la pronuncia della Corte, profilando l'eccesso di delega come unica causa di illegittimità, nonostante che la questione di costituzionalità sollevata riguardasse la contrarietà dell'articolo 27 non solo all'articolo 76, ma anche agli articoli 112 e 3 della Costituzione, "non ha affatto vulnerato la validità dell'istituto, compresa la costituzionalità sotto il profilo della sua piena rispondenza al principio di legalità e di determinatezza degli elementi della fattispecie".
In base a questa implicita indicazione della Corte Costituzionale, il legislatore ha potuto reintrodurre l'irrilevanza del fatto nell'ordinamento penale minorile, con la legge n. 123 del 1992 (29). L'istituto non solo non ha incontrato altre censure di incostituzionalità, ma, inoltre, la stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n. 103 del 1997, ha respinto la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 27 in riferimento agli articoli 3, 27 e 97 della Costituzione, in quanto il perseguimento della finalità di rieducare il minore, che si attua con la sottrazione dell'imputato minorenne il più rapidamente possibile dal sistema penale, costituisce la scelta di fondo del processo penale minorile.
Passiamo ad analizzare la scelta compiuta dal legislatore del 1988 riguardo alla forma dell'atto processuale attraverso cui il giudice applica l'irrilevanza del fatto.
Il disegno di legge Martinazzoli del 1986 prevedeva che in caso di irrilevanza del fatto, il giudice pronunciasse decreto di archiviazione. Il progetto preliminare manteneva questo esito della valutazione di irrilevanza del fatto. In questo modo si dava concreta attuazione al principio della minima offensività, garantendo una rapida definizione del processo (30). Tuttavia, dato che la dichiarazione di irrilevanza del fatto postula l'accertamento di un fatto costituente reato, il ricorso all'archiviazione avrebbe potuto costituire una violazione del principio costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale, sancito dall'articolo 112 della Costituzione. Pertanto, accogliendo il suggerimento della Commissione parlamentare (31), il testo definitivo delle disposizioni sul nuovo processo penale minorile prevede che il pubblico ministero richieda al giudice l'emissione di una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto.
Secondo la Corte Costituzionale (32) l'intento di estromettere rapidamente dal circuito processuale è sostanzialmente vanificato, "una volta che la improcedibilità per irrilevanza del fatto deve essere pronunciata anziché con decreto di archiviazione, con sentenza - soggetta ovviamente ad impugnazione - previa audizione del minore, dell'esercente la potestà dei genitori e della parte offesa". Secondo Colamussi l'istanza di tutela delle esigenze educative del minore sarebbe stata immediatamente soddisfatta attraverso un provvedimento di archiviazione (33).
Facendo ricorso alla sentenza di non luogo a procedere anziché al decreto di archiviazione, viene salvaguardato il profilo formale della legittimità costituzionale, mentre, secondo gran parte della dottrina, rimangono forti dubbi di costituzionalità sul piano del 'diritto applicato'. Infatti Nunziata (34) osserva che, per la realizzazione della parità di trattamento fra cittadini, sancita dall'articolo 3 della Costituzione, l'ordinamento ricorre alla tipizzazione normativa delle incriminazioni; "il meccanismo processuale in parola, invece, finisce per incidere sulla fattispecie di reato, aggiungendo agli elementi costitutivi legislativamente predeterminati un elemento ulteriore, discrezionalmente ravvisabile, quello della 'rilevanza' sociale del fatto concretamente commesso, incrinando il nostro diritto penale sostantivo" (35). In tal modo si attribuisce rilevanza alla qualità estrinseca della fattispecie, attribuendo al pubblico ministero la facoltà di valutare la portata offensiva del fatto, la sua 'rilevanza sociale', ampliando oltre misura la sua discrezionalità. Trattandosi di minorenni non appare più sufficiente che il fatto commesso risulti conforme alla descrizione legislativa, ma occorre che risulti concretamente offensivo: "nullum crimen, nulla poena sine periculo sociali". Si realizza, quindi, secondo l'autore, una violazione dell'articolo 112 della Costituzione, nella misura in cui tale articolo prevede che, una volta iniziata l'azione penale, sia esclusa ogni facoltà discrezionale del pubblico ministero sulla scelta di promuovere l'azione o di impedire la sua prosecuzione finché non intervenga una sentenza di condanna o di proscioglimento. Inoltre la previsione di questo meccanismo esclusivamente per i minori viola l'articolo 3 della Costituzione, così come collegato al 112, in base a cui si realizza una parità di trattamento di tutti i cittadini di fronte alla pretesa punitiva statuale, dovendo essere prevista una identica risposta sanzionatoria rispetto ad uno stesso fatto penalmente rilevante.
Anche Colamussi (36) prospetta la possibilità che permangano dei dubbi circa la contrarietà dell'articolo 27 rispetto all'obbligatorietà dell'azione penale. Secondo l'autrice, infatti, è innegabile che il pubblico ministero nel promuovere l'azione penale eserciti un ampio potere discrezionale, in quanto l'iniziativa penale è dettata da precise scelte di politica criminale, che tendono a privilegiare il perseguimento di alcuni fenomeni delinquenziali, trascurandone altri. Questo fenomeno si amplifica nel processo penale minorile, in cui la valutazione posta in essere dalle autorità giudicanti deve prestare particolare attenzione alle esigenze del minore e della sua personalità in età evolutiva, comportando "l'elaborazione di una risposta individualizzata, e più in generale l'instaurazione di un processo non 'speciale', ma 'specializzato', quindi costruito a misura del minore".
Analizziamo, adesso, le condizioni richieste dalla legge per potersi configurare l'irrilevanza del fatto, che sono rappresentate da:
- la tenuità del fatto
- l'occasionalità del comportamento
- il pregiudizio alle esigenze educative del minore
L'articolo 27 riferisce la tenuità al fatto e non al danno; pertanto si potrà configurare un fatto di per sé tenue, ma con un danno rilevante o un fatto di per sé non tenue, ma con un danno di lieve entità. La norma non specifica a quali tipologie di reato debba riferirsi il parametro della tenuità né entro quali limiti edittali di pena vada circoscritto.
Pertanto l'elasticità del criterio in esame comporta l'esigenza di individuare dei punti di riferimento precisi, che delimitino la discrezionalità del giudice anche "per evitare di incorrere in conseguenti disparità di trattamento causate da un'applicazione differenziata della disciplina, inevitabilmente influenzata dalla formazione culturale dei giudici" (37).
Infatti è possibile rilevare l'adozione di diversi criteri interpretativi del parametro della tenuità da parte dei vari Tribunali per i minorenni.
Per esempio il Tribunale per i minorenni di Milano, nel 1998 (38) ha fatto specifico riferimento al concetto di tenuità del fatto inteso come "fatto reato", che cioè comprende gli aspetti oggettivi e soggettivi della condotta, indipendentemente dai limiti edittali della pena, ma prendendo in considerazione gli aspetti propri della natura del fatto reato, delle specifiche modalità della condotta, delle sue conseguenze e delle finalità dell'azione.
Continuando con gli esempi, il Tribunale per i minorenni di Cagliari (39) ha specificato che la condotta del minore per essere considerata 'tenue' deve essere attuata per una finalità "ludica", come nel caso in cui l'imputato, simulando di essere un carabiniere, otteneva la consegna di somme di denaro o consumava pasti senza pagare il conto.
La Corte di Cassazione (40) ha indicato dei criteri per la valutazione della tenuità del fatto, anch'essi diversi dal danno cagionato da esso, specificando che
il giudizio sulla tenuità del fatto non può essere circoscritto essenzialmente alla considerazione del valore della cosa sottratta e dell'affidamento della stessa alla pubblica fede, ma deve investire la situazione complessiva, vale a dire il fatto come tale, nei suoi aspetti, in quanto tende a stabilire se esso sia tale da determinare modeste reazioni e preoccupazioni nella comunità. Detta tenuità può essere ritenuta se il fatto sia oggettivamente modesto e sia posto in essere con modalità che lo rendano ascrivibile alla naturale leggerezza delle persone di giovane età le quali spesso non riflettono adeguatamente sulle conseguenze della loro condotta.
La dottrina, dal canto suo, ha contribuito all'elaborazione di criteri precisi a cui riferire al tenuità del fatto. Fra le posizioni dottrinarie più accreditate, ricordiamo quella di Patanè (41), il quale preferisce ancorare la tenuità a parametri di carattere normativo, e pertanto apparentemente univoci, riferendosi all'applicazione dell'articolo 133 del codice penale (42).
Palomba (43), invece, privilegia come criterio su cui fondare il giudizio di tenuità di un fatto, la capacità a delinquere del reo.
Per quanto riguarda la seconda condizione prevista dalla legge, l'occasionalità del comportamento, si è discusso se debba privilegiarsi un'interpretazione che tenga conto della mancanza di ripetizione abituale della condotta, legando l'occasionalità ad un criterio cronologico, o una diversa interpretazione che si basa sulle particolari circostanze che determinano assenza di premeditazione, rapportando l'occasionalità ad un criterio psicologico. Quest'ultima interpretazione è sicuramente prevalente, sia in dottrina che in giurisprudenza.
Ad avviso di Giannino (44), infatti, l'occasionalità va riferita non ad un comportamento voluto, o premeditato, ma determinato da circostanze particolari e contingenti, cosicché, come specifica Palomba (45), il minore agisce sulla base di "pulsioni momentanee (occasionali) piuttosto che sulla base di progetti, programmi, disegni, piani, ragionamenti: di modo che il comportamento trasgressivo potrebbe considerarsi occasionale quando non è frutto di una scelta deviante precisa o sufficientemente orientata".
Sulla base di queste considerazioni può essere considerato occasionale il comportamento di un minore che costituisce la sua ennesima trasgressione penale, non configurando da un punto di vista psicologico una esplicita e consapevole scelta deviante, mentre può essere considerato non occasionale un comportamento costituente il primo reato commesso da un minore, se è ravvisabile in esso una precisa scelta criminogena.
In questo senso, il Tribunale per i minorenni di Milano (46) afferma che il fatto che la contestazione riguardi una condotta continuata non rappresenta certo un ostacolo per ritenere la sussistenza dell'occasionalità del comportamento, non potendosi escludere che sia occasionale il comportamento riferito ad un'ennesima trasgressione penale.
Anche il Tribunale per i Minorenni di Cagliari (47) ha avallato questa interpretazione, sostenendo che il requisito dell'occasionalità va inteso nel senso non di condotta episodica o unica, ma di condotta che, seppur reiterata, non sia sistematica, cioè tale da manifestare una tendenza deviante.
Secondo Colamussi (48) le due interpretazioni in questione non necessariamente si escludono a vicenda, in quanto 'occasionalità' non equivale in senso etimologico ad 'unicità', ma equivale al verificarsi di circostanze che non si verificano generalmente o normalmente e che possono indurre il soggetto ad agire d'impulso, esorbitando da quello che è il suo modus vivendi.
Losana (49) sostiene che per comportamento occasionale deve intendersi quello che non risulta essersi ripetuto nel tempo uguale a se stesso, accogliendo, quindi, l'interpretazione che si fonda sull'assenza di una coerente e consapevole scelta deviante.
Infine, il legislatore subordina la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto alla circostanza che l'ulteriore corso del procedimento pregiudichi le esigenze educative del minore.
Dalla formulazione dell'articolo 27 non si evince con certezza se tale requisito costituisca un elemento costitutivo che si aggiunge alla tenuità ed all'occasionalità o sia solamente la spiegazione logica su cui si basa la rapida espulsione del minore dal processo. Anche se l'uso della parola 'quando' da parte dell'articolo 27 sembra far propendere per la prima soluzione, la dottrina maggioritaria (50) accoglie la seconda interpretazione. Infatti partendo dal presupposto che il processo non favorisca mai le esigenze educative del minore (51), e in particolare quando si tratti di un fatto tenue prodotto da un comportamento occasionale, si arriva alla conclusione che il riferimento normativo alle esigenze educative del minore, sottolinei la strumentalità della forma di definizione anticipata del procedimento, di cui all'articolo 27, rispetto alla salvaguardia dello sviluppo armonico della personalità del minore stesso.
Comunque è opinione di Giannino (52) che da tale espressione non si possa ricavare l'intento del legislatore di attribuire valenza educativa al processo minorile, in quanto il processo in sé non può mai avere un'attitudine educatrice. Tutt'al più si può ammettere che, nel rispetto del principio della minima offensività, l'istituto previsto dall'articolo 27 "è diretto a non turbare più del necessario ed indispensabile quelle esigenze educative che il minore comunque ha".
La precisazione normativa in questione impedisce di qualificare l'irrilevanza del fatto come una incondizionata forma di depenalizzazione, in quanto esclude ogni rigido automatismo, introducendo una valutazione di 'inutilità' del processo sia dal punto di vista oggettivo, dato lo scarso disvalore sociale della condotta posta in essere dal minore, sia sotto il profilo soggettivo, dato che non potrebbe sortire alcun effetto responsabilizzante sul minore. L'introduzione di tale valutazione di 'inutilità' corrisponde al diritto del minore, sancito anche dalla Corte Costituzionale (53), ad avere una prognosi individualizzata.
Quando ricorrono le tre suddette circostanze, il pubblico ministero, secondo la procedura prevista dal primo comma dell'articolo 27, chiede al giudice per le indagini preliminari di pronunciare sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. Il secondo comma prosegue stabilendo che "sulla richiesta il giudice provvede in camera di consiglio sentito il minorenne e l'esercente la potestà dei genitori nonché la persona offesa dal reato" (54). L'attribuzione al giudice per le indagini preliminari del potere di definire il processo con la pronuncia di irrilevanza del fatto, che può essere considerata una pronuncia preliminare di merito (55), corrisponde, secondo la Relazione al testo definitivo del decreto del 1988, all'intento di "semplificare al massimo questa fase della procedura per evitare che fatti insignificanti finiscano per venire inutilmente sottolineati, vanificandosi così lo scopo primario del nuovo istituto, e per evidenti ragioni di economia processuale".
È da segnalare che la procedura camerale senza la partecipazione del collegio costituisce un'anomalia nel processo penale minorile, nel quale solitamente il giudice monocratico esercita solo funzioni di garanzia e di controllo di natura processuale, essendo, invece, riservate al collegio tutte le pronunce definitorie che richiedono una valutazione della personalità. Tale particolarità "dipende esclusivamente da ragioni di opportunità e snellezza deflattiva e di adeguamento del rito alla esiguità del fatto" (56).
Il terzo comma dell'articolo 27 stabilisce che "contro la sentenza possono proporre appello il minorenne e il procuratore generale presso la corte di appello". Le motivazioni sulla base delle quali questi due diversi soggetti proporranno appello sono espressione di interessi confliggenti: mentre il minore può proporre appello perché sostiene la sua completa estraneità ai fatti, il procuratore generale, invece, può sostenere che la valutazione degli elementi sia stata eccessivamente indulgente nei confronti del minore.
La vecchia formulazione dell'articolo 27 prevedeva anche il ricorso immediato per cassazione, sulla base dell'articolo 569 del codice di procedura penale, mentre la legge n. 123 del 1992 non ha contemplato tale mezzo di impugnazione.
Se il giudice per le indagini preliminari non accoglie la richiesta del pubblico ministero, dispone con ordinanza la restituzione degli atti a quest'ultimo, il quale chiederà la prosecuzione delle indagini preliminari, al termine della quale potrà formulare l'imputazione e chiedere il rinvio a giudizio o richiedere la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. La stessa cosa accade se la corte d'appello non conferma la sentenza.
Il giudice per le indagini preliminari non ha la facoltà di pronunciare d'ufficio la sentenza di non luogo a procedere prevista dall'articolo 27, ma la sua pronuncia deve necessariamente essere subordinata alla richiesta del pubblico ministero, in quanto 'dominus' del processo. Invece nell'udienza preliminare, nel giudizio direttissimo e nel giudizio immediato la sentenza di irrilevanza potrà essere pronunciata dal giudice, qualora ne ricorrano le condizioni, anche disattendendo le eventuali diverse richieste del pubblico ministero.
Alla luce dell'analisi condotta in relazione alle caratteristiche e alla procedura di applicazione dell'istituto dell'irrilevanza del fatto possiamo esaminare le finalità da cui è dettato.
L'istituto in esame appare volto da una parte al perseguimento della finalità deflattiva, dall'altra alla realizzazione del principio di adeguatezza alle esigenze educative del minore. Iniziando da quest'ultima finalità si osserva che l'irrilevanza del fatto può essere considerata una delle più evidenti espressioni di tale principio. La relazione al testo definitivo del decreto del 1988 riconosce espressamente che "questa norma costituisce applicazione del criterio di adeguamento del processo alle esigenze educative del minore, sancito dalla prima parte dell'articolo 3 della legge delega".
Il principio dell'adeguatezza alle esigenze educative del minore, che costituisce uno dei principi ispiratori della riforma del processo penale minorile, è strettamente legato al principio della minima offensività. Infatti in base ad esso il processo penale minorile deve risultare adeguato ad una personalità in formazione e tale da non interferire con un suo armonico sviluppo. Questa esigenza è maggiormente sentita laddove si tratti di reati di scarsa rilevanza sociale, che rappresentano episodi isolati nella vita del minore. Pertanto, soprattutto in tali casi, il processo dovrà essere evitato quando potrebbe trasformarsi da evento rieducativo e responsabilizzante per il minore in evento traumatizzante per la sua personalità in formazione.
In questo senso Magno (57) parla a proposito dell'irrilevanza del fatto di "rinuncia del legislatore a ritenere che il processo verso il minore autore del reato abbia sempre una valenza pedagogica".
L'irrilevanza del fatto è volta anche al perseguimento dell'ulteriore finalità deflattiva, in quanto, in qualità di strumento di diversion, consente la rapida fuoriuscita del minore dal circuito penale, permettendo di sfoltire la massa delle notizie di reato da tutti i così detti reati bagatellari. In tal modo il sistema processuale minorile può concentrare la sua attenzione e le sue risorse sui casi ritenuti più meritevoli di attenzione (58).
Ricciotti (59) fa notare come lo scopo deflattivo non fosse perseguito dal legislatore nella previsione dell'istituto in esame, ma abbia finito per risultare dall'uso fattone dai Tribunali per i minorenni. In effetti la Relazione al testo definitivo del decreto del 1988 non menziona tale scopo, riferendosi esclusivamente all'applicazione del criterio di adeguamento del processo alle esigenze educative del minore.
A conclusione della trattazione dell'irrilevanza del fatto appare opportuno riferire le principali critiche che vengono mosse dalla dottrina a tale istituto.
Oggetto di critica, da parte di Pepino, è lo stesso termine 'irrilevanza'. Secondo l'autore il termine è improprio sotto due profili: innanzitutto il fatto mantiene la sua rilevanza come fatto illecito per tutti gli effetti diversi da quello penale (sicuramente è fonte di responsabilità civile per i danni eventualmente causati). Inoltre risulta dannoso sotto il profilo educativo, in quanto avalla una ingiustificata sensazione di intrinseca liceità del fatto, che risulta, invece, smentita dalla lettera dello stesso articolo 27, che prevede la sua punibilità in difetto del requisito dell'occasionalità. Ad avviso dell'autore sarebbe più appropriato e corretto il termine "esiguità".
Nunziata (60), invece, concentra la sua critica sul richiamo normativo dell'articolo 27 all'eventualità che l'ulteriore corso del procedimento penale pregiudichi le esigenze educative dell'imputato minorenne. Secondo l'autore in tal modo si confondono gli obiettivi istituzionali del processo penale con quelli propri della politica sociale: poiché il processo penale ha una finalità prettamente retributiva e repressiva appare errato subordinarlo al perseguimento di interessi meta-giuridici, quali le esigenze educative (61). Prosegue sostenendo che il fatto che un soggetto deviante minore non debba in alcun modo rispondere della propria condotta criminosa costituisce un'ennesima riprova
di un costume permissivistico e di un atteggiamento indulgenziale invalso nel nostro tempo e che non può assolutamente fondare alcuna valida politica criminale, in quanto, invece, si traduce in un vero e proprio 'moltiplicatore delinquenziale' che incentiva il delinquente a reiterare la propria condotta criminosa anziché scoraggiarlo, convincendolo della riprovevolezza di tale azione.
Nunziata preferisce di gran lunga la messa alla prova e il perdono giudiziale che definisce misure "meno rivoluzionarie" e idonee a stimolare una maggiore responsabilizzazione del reo a differenza dell'irrilevanza del fatto attraverso la quale "si perviene a deresponsabilizzare in toto il reo, in nome della 'tenuità' del fatto".
Per Nunziata la soluzione prospettata nell'articolo 27 è impropria anche sotto il profilo dell'esigenza di affrontare i così detti reati bagatellari. Infatti l'autore sostiene che se tali fatti non paiono meritevoli di essere penalizzati, allora si dovrà necessariamente procedere alla loro decriminalizzazione; ma se un "preteso" illecito bagatellare mantiene la qualificazione di reato, non si può disapplicare la norma incriminatrice, trascurando l'irrogazione di una qualche sanzione.
Colamussi (62) osserva come la possibilità di impugnare la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto emessa dal giudice per le indagini preliminari impedisce di concludere rapidamente il processo. Pertanto considera la possibilità di proporre appello in questa fase come un ostacolo procedurale al raggiungimento della finalità propria dell'istituto dell'irrilevanza, la fuoriuscita del minore dal circuito penale il più velocemente possibile.
Infine, vengono messi in evidenza i rischi derivanti dalla mancanza di omogeneità nell'applicazione dell'istituto da parte dei vari Tribunali per i minorenni. In particolare Occhiogrosso (63), dopo aver preso atto della tendenza di molti tribunali a non limitare l'applicazione dell'istituto solamente alle contravvenzioni, ma ad estenderlo ad alcuni delitti (come per esempio i furti nei grandi magazzini), osserva come tale tendenza trovi talvolta resistenza sotto forma di impugnazione da parte delle procure. Pertanto l'autore paventa che si possano verificare delle differenze da tribunale a tribunale, relativamente ai reati per i quali viene effettivamente applicata l'irrilevanza.
Rettura (64) condivide il timore di Occhiogrosso, in quanto la mancanza di criteri legislativi a cui ancorare il concetto di tenuità, può portare a vere e proprie violazioni del principio costituzionale di uguaglianza, sancito dall'articolo 3 della Costituzione, potendosi verificare che uno stesso fatto considerato tenue da un pubblico ministero non sia considerato tale da un altro.
Per concludere riportiamo i dati a nostra disposizione relativi all'applicazione dell'irrilevanza del fatto a livello nazionale, facendo notare che purtroppo sono aggiornati solamente all'anno 1998. L'istituto in esame viene monitorato dalla Direzione Generale degli affari penali, secondo un criterio quantitativo che non mette in evidenza la tipologia dei reati per i quali è stato applicato. La seguente tabella, predisposta dagli Affari Penali, è riportata nel 'Rapporto sulla criminalità minorile', relativo agli anni 1996, 1997 e 1998, a cura dell'Ufficio Centrale per la giustizia minorile.
1991 | 1992 | 1993 | 1994 | 1995 | 1996 | 1997 | |
---|---|---|---|---|---|---|---|
Nord | 260 | 589 | n.d. | 713 | 461 | 653 | 486 |
Centro | 199 | 710 | n.d. | 498 | 293 | 539 | 324 |
Sud | 404 | 918 | n.d. | 480 | 395 | 644 | 436 |
Isole | 107 | 425 | n.d. | 506 | 273 | 323 | 202 |
Tot Naz. | 970 | 2642 | n.d. | 2197 | 1422 | 2159 | 1448 |
È interessante notare che negli anni fra il 1989 e il 1995 l'irrilevanza del fatto è stata dichiarata nell'11% dei casi rispetto al numero totale delle sentenze emesse in sede di udienza preliminare, nel 1996 nel 13% dei casi, mentre nel 1997 ha rappresentato l'11% del totale. Rispetto al totale delle sentenze di proscioglimento negli anni fra il 1989 e il 1995 l'irrilevanza ha rappresentato il 17% del totale, nel 1996 il 21% e nel 1997 il 18%. Infine nel 1998 la pronuncia di improcedibilità per irrilevanza del fatto ha rappresentato il 7% delle denuncie complessive e il 12% dei casi in cui ha avuto inizio l'azione penale (65).
Da questi dati si evince che l'introduzione dell'istituto dell'irrilevanza del fatto ha ricevuto una risposta positiva da parte del sistema della giustizia minorile, il quale ha fatto ampio uso di esso, superando le critiche mossegli da più parti, probabilmente anche a causa dell'indubbio vantaggio che l'istituto offre di decongestionare il sistema penale stesso.
Per quanto riguarda le ipotesi di reato alle quali è stata applicata l'irrilevanza del fatto non si dispone di studi sistematici a livello nazionale. Possiamo riportare, però, alcuni esempi di casi in cui è stata applicata l'irrilevanza nei vari Tribunali per i minorenni italiani (66):
- molestia telefonica
- lesioni personali inferte durante una partita di calcio
- ingiurie
- minacce
- guida di un'automobile senza patente
- omicidio colposo in danno di persona legata all'autrice da sentimenti di amicizia
- furto di legname in un cantiere forestale
- due episodi di furto di piccole quantità di carburante
- rapporti sessuali intrattenuti con un cugino consenziente
Come si può vedere da questi esempi i reati che sono stati ritenuti irrilevanti sono di vario tipo. Sicuramente vi rientrano anche i delitti. Tali reati si diversificano, poi, per l'oggetto dell'offesa, essendo compresi sia reati contro il patrimonio, che contro la persona. Inoltre le ipotesi considerate irrilevanti sono molto eterogenee anche per la gravità del danno prodotto: sono elencati, infatti, sia reati di mero pericolo, come la guida senza patente, sia reati che hanno prodotto un danno irreversibile alla persona, addirittura la morte, come nel caso dell'omicidio colposo.
Quindi, probabilmente la fortuna di questo istituto è stata determinata proprio dalla sua adattabilità alle più diverse ipotesi di reato, dovuta alla mancanza di determinazione legislativa di criteri a cui ancorare la 'tenuità'.
2.3. L'esito positivo della messa alla prova
2.3.1. L'istituto della messa alla prova
L'articolo 28 del D.P.R. 448 del 1988 introduce un istituto del tutto nuovo per l'ordinamento giuridico italiano, la sospensione del processo con messa alla prova del minore. In base ad esso il giudice può disporre con ordinanza la sospensione del processo per un periodo massimo di tre anni, durante il quale il minore, affidato ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia in collaborazione con i servizi locali, sarà sottoposto ad una prova, consistente in un progetto di intervento di carattere educativo. Se al termine del periodo di sospensione del processo il giudice, tenendo conto del comportamento del minore e dell'evoluzione della sua personalità, ritiene che la prova abbia dato esito positivo, dichiara con sentenza l'estinzione del reato; altrimenti il processo riprenderà il suo normale svolgimento (articolo 29 del D.P.R. 448 del 1988).
Nell'elaborazione di questo istituto il legislatore si è evidentemente ispirato al modello del 'probation' (67), nato intorno alla metà del XIXº secolo in Inghilterra e negli Stati Uniti, allo scopo di realizzare un'alternativa alla detenzione, nella convinzione che in molti casi la pena detentiva sia una soluzione inutile, non portando ad una risocializzazione del reo, e, anzi, dannosa, per i fenomeni di stigmatizzazione e di etichettamento che comporta. Il probation si fonda su un'idea nuova di difesa sociale, diversa da quella tradizionale, in quanto rifiuta ogni tipo di segregazione detentiva e ogni pena intesa come sofferenza emendatrice, essendogli estraneo il principio della retribuzione morale (68). In esso prevale la dimensione 'pragmatica' più che quella giuridico-formale (69), in quanto viene attribuito un ruolo dominante alle interazioni personali (70), che intercorrono fra 'l'operatore di probation' e il soggetto sottoposto alla misura, fra questi e il giudice e fra l'operatore e il giudice stesso. 'L'operatore di probation' assume il ruolo di 'guida' del soggetto in prova, assistendolo, consigliandolo ed essendogli amico. Il giudice deve, da una parte, portare a conoscenza del soggetto il contenuto della prova, sottoponendolo al suo consenso e, dall'altra, deve verificare l'esito della stessa.
Mentre le forme di probation utilizzate all'estero attengono in genere alla fase dell'esecuzione, intervengono, cioè, solo dopo l'emanazione di una sentenza di condanna, costituendo un'alternativa all'espiazione della pena, l'articolo 28 introduce, invece, un probation che può essere definito 'processuale', in quanto interviene nel corso del processo, comportandone la sospensione allo scopo di consentire al giudice di valutare la personalità del minore all'esito della prova.
Così l'introduzione del probation ad opera dell'articolo 28 nel nostro ordinamento giuridico, per quanto sia avvenuta in ritardo rispetto a molti altri paesi e solo nell'ambito minorile, ha costituito una vera innovazione rispetto al modello originario anglosassone.
Per quanto riguarda la natura giuridica dell'istituto in caso di esito positivo della prova, non ci sono dubbi sul fatto che configuri una causa di estinzione del reato (71); infatti di estinzione del reato parla il testo stesso dell'art. 29 (72).
Il Consiglio Superiore della Magistratura, nel parere sul progetto definitivo delle disposizioni sul nuovo processo penale minorile del luglio 1988, avanzò dei dubbi di costituzionalità in relazione alla natura sostanziale dell'istituto. Secondo tale parere, infatti, introdurre un istituto di natura sostanziale, quale una causa di estinzione del reato, esulava dall'oggetto della legge delega, destinata a contenere esclusivamente norme di carattere processuale. In realtà la legge delega prevede alla lettera e dell'articolo 3 la possibilità per il giudice di sospendere il processo per un tempo determinato per valutare compiutamente la personalità del minore, al fine ultimo di apprezzare i risultati degli interventi di sostegno disposti dallo stesso giudice. La dichiarazione di estinzione del reato è una conseguenza logica e necessaria di tale previsione, in quanto "'valutare', anche con 'apprezzamento dei risultati' comporta come conseguenza logica che una valutazione positiva incida sulla proseguibilità del processo e sull'estinzione del reato" (73).
In effetti fino ad oggi nessuna pronuncia della Corte Costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità dell'estinzione del reato per esito positivo della prova. Al contrario la Corte di Cassazione in una sentenza del 12 aprile 1994 ha sostenuto in modo esplicito che l'estinzione del reato a seguito del buon esito della prova manifestamente non si pone in contrasto né con la delega, con riferimento alla lettera e dell'articolo 3, né con l'articolo 3 della Costituzione, non provocando alcuna ingiustificata disparità di trattamento.
Inoltre la Corte Costituzionale, dichiarando incostituzionale, con la sentenza n. 125 del 1995, il quarto comma dell'articolo 28 nella parte in cui prevedeva che la sospensione non potesse essere disposta se l'imputato aveva chiesto il giudizio immediato, non solo ne ha confermato la legittimità costituzionale, ma ne ha anche esteso l'ambito di applicazione.
Per quanto riguarda i presupposti per l'applicazione della messa alla prova, il primo di essi è sicuramente l'esistenza di una notitia criminis. Infatti il soggetto, nel caso in esame, il minore, entra in contatto con il processo penale solo attraverso la commissione di un reato.
Relativamente alla responsabilità del soggetto, il D.P.R. 448 non dice se la sospensione del processo e la conseguente messa alla prova siano subordinate alla necessità del previo accertamento di essa. Nulla si può ricavare in questo senso nemmeno dalle disposizioni del codice di procedura penale, sulla base del principio di sussidiarietà, in quanto l'istituto in esame non è previsto per il processo a carico di imputati adulti. Partendo dal presupposto che la messa alla prova costituisce una misura penale, che, in quanto sostitutiva di una pronuncia di merito, di condanna in caso di esito positivo, può assumere una connotazione sanzionatoria ed afflittiva, si arriva agevolmente a concludere che si deve necessariamente fondare sul giudizio di responsabilità penale del soggetto. Tutto ciò appare dettato dalle garanzie proprie del processo penale, in particolare dal principio di legalità (74), in quanto se si applicasse una misura penale che incide sulla libertà personale in assenza di un preventivo accertamento sulla responsabilità penale si rischierebbe di trasformare la messa alla prova in una misura amministrativo-rieducativa, contravvenendo alla lettera della legge, e al principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza. Ne consegue che la sospensione del processo con messa alla prova dovrebbe escludersi ogni qual volta sussistano le condizioni per emanare un provvedimento di archiviazione, sulla base degli articoli 408 e 411 del codice di procedura penale, o emergano determinate cause di non punibilità (ex articolo 129 c.p.p.), o occorra emanare una sentenza di non luogo a procedere sulla base dell'articolo 425 del codice di procedura penale oppure, infine, siano applicabili altre formule di proscioglimento, come il perdono giudiziale o l'irrilevanza del fatto.
Anche la Corte di Cassazione ha ribadito quest'ultimo rilevo, osservando che debba essere ritenuta la responsabilità penale, in quanto, altrimenti, si imporrebbe la archiviazione o il proscioglimento (75).
È da sottolineare che l'ordinanza che sospende il processo non sospende l'accertamento della responsabilità del soggetto, ma sospende la pronuncia di essa e le sue conseguenze penali, confermando quanto ha affermato la Corte Costituzionale nella sentenza n. 125 del 1995, secondo la quale la messa alla prova si inserisce in una fase anteriore alla pronuncia sulla re judicanda.
Un orientamento giurisprudenziale richiede come presupposto per l'applicabilità della messa alla prova la confessione dell'imputato (76), sostenendo che costituisca uno strumento processuale utile per garantire la presa di coscienza da parte dell'imputato della sua condotta deviante, nonché l'impegno e la disponibilità a sottoporsi al progetto di prova. Al contrario la dottrina maggioritaria esclude che la confessione costituisca un presupposto applicativo dell'istituto in esame, in quanto incompatibile con i principi costituzionali della presunzione di non colpevolezza, dell'onere della prova in capo al pubblico ministero e dell'inviolabilità del diritto di difesa (77).
Il secondo requisito, non desumibile dalla lettera della legge, ma frutto dell'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, è costituito dalla capacità di intendere e di volere del minore. L'imputabilità del soggetto deve essere previamente appurata, innanzitutto perché in assenza di essa il soggetto deve essere prosciolto. Inoltre, avendo la messa alla prova una natura consensuale, richiedendo un impegno attivo da parte del minore sottoposto, risulta necessario il suo consenso al progetto di intervento; ma il consenso potrà essere dato in modo consapevole solo laddove il minore sia un soggetto sufficientemente maturo e capace di intendere e di volere, cosicché la capacità risulta essere un elemento imprescindibile (78).
Infine la messa alla prova è subordinata ad una valutazione discrezionale del giudice, il quale deve elaborare un giudizio prognostico riguardante l'opportunità di emanare il provvedimento in base alla personalità del minore, accertando la sussistenza della possibilità di un cambiamento effettivo che porti il minore a dissociarsi dalla sua scelta deviante. Il giudice può effettuare tale valutazione avvalendosi degli accertamenti sulla personalità, previsti dall'articolo 9 del D.P.R. 448, funzionali ad acquisire "elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne". La Corte di Cassazione nella sentenza n. 519 del 1999 individua dei criteri precisi su cui fondare la valutazione del giudice: il "tipo di reato commesso, le sue modalità di attuazione, i motivi a delinquere, i precedenti penali del reo, la sua personalità, il suo carattere" e "ogni altro elemento utile per la formulazione dell'indicato giudizio".
Palomba (79) osserva che la formulazione dell'articolo 28 accentua il versante della percezione del giudice più che quello della personalità del minorenne, ma necessariamente deve prevalere l'utilità della misura per il ragazzo in rapporto alla sua personalità, rispetto ai dubbi soggettivi del giudice.
La personalità del minore è vista non nella sua dimensione statica, ma come capacità del minore di relazionarsi con il suo ambiente socio-ambientale, anche in riferimento al futuro. In tal modo il processo è visto come sede che ricostruisce le relazioni sociali del minore, utilizzando il controllo istituzionale per rivitalizzare il controllo sociale spontaneo, costituito dall'insieme delle relazioni sociali stesse.
Il parametro relativo alla positiva evoluzione del minore, elaborato dalla giurisprudenza, consiste non nella mera astratta possibilità che si verifichi tale progressiva maturazione, ma in una valutazione probabilistica (80) sulla rieducazione del soggetto e sull'evoluzione della personalità verso modelli socialmente adeguati (81).
Pertanto il giudice può escludere l'applicazione della messa alla prova in due situazioni contrapposte: quando la scelta deviante appaia così radicata o il contesto ambientale del minore così disastrato da non rendere probabile un suo ravvedimento, portando all'esito negativo della prova, oppure se dalle circostanze del reato, dalla personalità dell'imputato si evinca l'estraneità della condotta antigiuridica dal modus vivendi del minore, in modo tale da far ritenere non appropriato sottoporlo ad un programma rieducativo, ma più proficuo applicare altre forme più celeri di proscioglimento, quali il perdono giudiziale o l'irrilevanza del fatto.
Non risulta ravvisabile nessun altro elemento impeditivo per l'applicazione della messa alla prova. La Corte di Cassazione (82) esclude che i precedenti penali e giudiziari influiscano negativamente sulla decisione di applicare l'istituto in esame, in quanto la variabilità che caratterizza l'adolescenza impone decisioni diverse appropriate ai differenti casi. Conseguentemente anche l'esito negativo di una precedente prova non può far escludere che si possa applicare la messa alla prova, che potrebbe essere giustificata dal favorevole mutamento delle condizioni personali ed ambientali.
Se da una parte la disciplina dei presupposti applicativi della messa alla prova può apparire eccessivamente generica, dall'altra bisogna ricordare, come fa Colamussi (83), che il processo penale minorile è interamente improntato alla flessibilità, all'ampia discrezionalità e all'adeguatezza alle esigenze educative del minore.
Da un punto di vista strettamente procedurale gli articoli 28 e 29 non introducono una particolare modalità del procedimento, ma un vero e proprio procedimento incidentale che si inserisce nelle fasi ordinarie del giudizio, bloccando la decisione sul merito del caso. Infatti l'ordinanza con cui il giudice dispone la sospensione del processo sulla base dell'articolo 28, può intervenire nel corso dell'udienza preliminare o nel corso del dibattimento (come si desume dal rinvio operato dall'articolo 29, secondo cui, in caso di esito negativo della prova, deve provvedersi a norma degli articoli 32 e 33, che si riferiscono rispettivamente all'udienza preliminare e al dibattimento), su richiesta del pubblico ministero, dell'imputato, del difensore e su proposta dagli esercenti la potestà genitoriale, dei servizi ed anche del giudice autonomamente.
L'articolo 27 delle disposizioni di attuazione del processo minorile stabilisce che la decisione di sospendere il processo per mettere alla prova il minore deve essere presa sulla base di un progetto di intervento elaborato dai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia, in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali.
Questo progetto deve prevedere, per prima cosa, "le modalità di coinvolgimento del minore, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita". Tale previsione comporta, innanzitutto, che il minore debba prestare il suo pieno consenso al progetto. La consensualità è sicuramente in linea con l'attitudine responsabilizzante dell'intero processo penale minorile, oltre a costituire il presupposto necessario per far sì che la messa alla prova non sia destinata al fallimento. Affinché la prova dia esito positivo, il coinvolgimento del minore deve essere volontario e deve avvenire dopo una adeguata prospettazione delle conseguenze dell'eventuale esito negativo della prova. Quotidianamente, o quasi, i servizi e i giudici si confrontano con minori che preferiscono essere condannati, piuttosto che essere sottoposti ad una prova che comporta una molteplicità di impegni, che sanno di non potere rispettare.
Ed è per questo che devono essere coinvolti nel progetto anche la famiglia del minore e il suo ambiente di vita, per facilitare il rispetto degli impegni contenuti nel progetto, rendendo anche tali soggetti partecipi delle difficoltà che il minore ha manifestato con la commissione del reato. Questa interazione fra soggetti diversi, legati al minore, mira anche a ricreare quella rete di controllo sociale spontaneo, che si era interrotto o che non aveva mai funzionato.
Il citato articolo 27 stabilisce che il progetto di intervento deve prevedere anche gli impegni specifici che il minore assume. Tali impegni devono essere adatti alla sua personalità, alle sue esigenze, alle sue capacità, nonché al tipo di reato commesso. L'esigenza di adeguatezza del progetto alle capacità del soggetto e dell'ambiente si desume dall'esigenza che la prova si concluda positivamente.
Il progetto deve adeguarsi necessariamente anche alle risorse presenti sul territorio, che determinano un limite imprescindibile, rispetto al quale il consenso e la volontà di impegno da parte del minore risultano subordinate, nel senso che per quanto un minore dimostri interessamento alla messa alla prova, questa sarà preclusa ogni qual volta non siano reperibili risorse sul territorio.
Il progetto deve essere flessibile, nel senso che se taluno dei suoi elementi risulta non più attuabile, deve essere modificato ed adattato alle nuove esigenze. Ciò è tanto più opportuno ove si consideri la mutazione continua propria dalla personalità del minore.
Dall'articolo 27 delle disposizioni attuative emerge il ruolo fondamentale che rivestono i servizi sociali. La collaborazione fra i servizi minorili dell'amministrazione della giustizia e i servizi locali permette di unire la specializzazione dei primi nel settore della devianza minorile con la conoscenza dei secondi delle risorse del territorio. I servizi locali, infatti, individuano le risorse disponibili sul territorio, determinando la concreta praticabilità di un progetto.
Dall'analisi statistica sulla sospensione del processo e messa alla prova riferita al 2001, condotta dal Dipartimento Giustizia Minorile (84), emerge la reale portata di tale collaborazione: solamente il 10,3% dei progetti risultano gestiti dai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia in maniera esclusiva. I rimanenti progetti sono frutto della collaborazione con altri enti, quali i Comuni, le A.S.L. e il settore del 'privato sociale'. Quest'ultimo settore è costituito dall'insieme delle formazioni sociali, per lo più rientranti nel volontariato, operanti nei più diversi settori, dallo sport, all'intrattenimento, alla solidarietà, che costituiscono quella rete relazionale fondamentale per la formazione della personalità del minore. Nel 2001, anno al quale si riferisce lo studio statistico in questione, il 'privato sociale' si è rivelato una risorsa importantissima, avendo partecipato alla gestione di ben 890 progetti, che rappresentavano più della metà rispetto al numero totale di essi.
L'attività dei servizi sociali non si esaurisce con l'elaborazione del progetto, ma prosegue con il sostegno al minore durante il periodo della prova, la verifica dell'andamento della prova, oggetto di relazioni al giudice, le informazioni allo stesso in relazione all'evoluzione del caso.
Da quanto è emerso possiamo rilevare, con La Greca (85), che l'efficacia della messa alla prova sia condizionata dal rendimento dei servizi sociali, in quanto, da una parte sono coloro che reperiscono le risorse sul territorio e dall'altra sostengono il minore, vigilando su esso, nella fase di attuazione della prova.
Il contenuto del progetto, che costituisce l'oggetto della prova, riguarda l'osservanza di specifiche condotte, quali attività di volontariato, attività di studio, lavoro, attività sportiva, contatti con il servizio sociale, sostegno psicologico (86). In particolare sia l'articolo 28 del D.P.R. 448, sia l'articolo 27 delle disposizioni attuative, prevedono che il giudice possa impartire delle "prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato".
Questa previsione si ispira al modello della mediazione penale, come spiega la Relazione al testo definitivo del decreto del 1988, la quale si fonda sull'idea di 'giustizia riparativo-conciliativa'. Tale concezione non punitiva della giustizia, configura il crimine come un'azione commessa contro le persone e la comunità piuttosto che contro lo Stato (87); in tal modo vengono riconosciuti alla persona offesa dal reato, alla vittima, i propri diritti, dandole la possibilità di esprimere i propri bisogni. Le idee della riparazione e della conciliazione derivano dall'attenzione rivolta dallo Stato ai bisogni della vittima e, allo stesso tempo, dall'attenzione rivolta all'esigenza di responsabilizzare il minore autore del reato, avvicinandolo alla vittima stessa, rendendo possibile "il concretizzarsi della vittima e della sua sofferenza" (88).
In particolare l'attività riparatoria riguarda le azioni risarcitorie o ripristinatorie relative alle trasformazioni materiali che sono derivate dal reato. Il risarcimento del danno viene visto non come sussidiario rispetto alla pretesa punitiva, ma assume il ruolo di autonoma sanzione. L'articolo 28 si riferisce sicuramente anche ad aspetti, diversi dal risarcimento monetario, potendo la riparazione del danno consistere in un fare o perfino in un tollerare (89).
La conciliazione, invece, attiene ad una dimensione psicologica e relazionale, che si propone come fine la chiarificazione delle cause e del movente dell'azione e l'emersione delle scuse da parte del reo, ripristinando la reciproca accettazione fra i cittadini, che riacquistano in tal modo serenità. La conciliazione si configura, pertanto, come attività di composizione privata del conflitto, a cui si ispirano gli orientamenti abolizionisti del sistema penale tradizionale e che, allo stesso tempo, costituisce uno dei mezzi attraverso cui, secondo la concezione del minimo intervento penale, si arriva a ridurre l'ingerenza del sistema penale nella vita dei cittadini.
Dalla necessità che l'oggetto della prova abbia carattere consensuale discende che la scelta fra l'applicazione di prescrizioni riparatorie o conciliative si deve fondare su una valutazione di praticabilità, che tenga conto di ciò che il minore è in grado di fare in relazione a ciò che la vittima è in grado di accettare.
Secondo Scivoletto (90), però, questo significa sottoporre in pratica la fruibilità della misura, certo benefica per il reo, alla volontà e disponibilità della persona offesa.
Nel 2001 il giudice ha impartito prescrizioni di tipo espressamente riparatorio-conciliativo in 261 casi sui 1646 casi totali. In particolare è stata prescritta la riconciliazione con la parte lesa in 178 casi e la riparazione simbolica del danno in 83 casi (91).
Negli ultimi anni l'interesse per la giustizia riparativo-conciliativa è notevolmente aumentato, tanto da rendere la mediazione penale in ambito minorile l'ultima frontiera della procedura penale minorile. Dal 1995 in molte città si è istituito uno specifico servizio ad hoc: uffici di mediazione penale minorile sono sorti a Torino, Milano, Roma, Bari e sono in via di sperimentazione a L'Aquila, a Catanzaro, a Cagliari e a Firenze.
Passiamo, adesso, all'analisi dei dati relativi all'applicazione su scala nazionale della messa alla prova. Il monitoraggio relativo all'applicazione dell'articolo 28 è stato avviato alla fine del 1991, con l'obiettivo di seguire nel tempo l'applicazione di questo nuovo istituto (92).

Dal grafico che segue emerge che il numero dei provvedimenti di sospensione del processo per messa alla prova è andato progressivamente aumentando. In particolare, mentre nel 1992 sono stati registrati 788 provvedimenti, nel 1999 ne sono stati registrati 1421, nel 2000 1471 e nel 2001 1646.
Dallo studio in esame emerge, poi, che le sedi processuali in cui sono stati registrati il maggior numero di provvedimenti di concessione dell'articolo 28 sono state Milano (191 provvedimenti) e Genova (109 provvedimenti) al nord, Ancona (59 provvedimenti) al centro, Napoli (102 provvedimenti), Lecce (131 provvedimenti) e Taranto (99 provvedimenti) al sud, Palermo (123 provvedimenti), Catania (72 provvedimenti) e Cagliari (51 provvedimenti) nelle isole.
Esaminando il tasso nazionale di applicazione, calcolato rapportando il numero dei provvedimenti di concessione della messa alla prova con il numero dei casi in cui è iniziata l'azione penale, emerge che nel 2000 e nel 2001 nel 5,2% dei procedimenti si è applicato l'articolo 28, mentre nel 1999 il tasso di applicazione nazionale era pari al 5,6% e nel 1998 era pari al 5,2%.
Da questi dati si ricava la tendenza dei tribunali per i minorenni ad usare con molta prudenza l'istituto della sospensione del processo e messa alla prova.
Uno dei motivi principali dell'uso 'parsimonioso' dell'articolo 28 è che nella prassi si richiede che la situazione personale, psicologica e ambientale del ragazzo sia idonea ad accogliere la prova in modo da orientarla verso un esito positivo (93) e ciò è dimostrato dalla scarsa applicazione dell'istituto agli stranieri, di cui abbiamo già parlato.
Lo scarso utilizzo della messa alla prova è da attribuire anche alle inadeguatezze organizzative, come la carenza di strutture di supporto per il collocamento dei minori fuori della famiglia e per le attività da svolgere nel corso della prova, e all'insufficienza dei servizi sociali. In effetti la messa alla prova comporta un notevole carico di lavoro per i servizi, "i quali richiesti di 'progettare il progetto' di ciascuna esperienza risultano così, a loro volta, sottoposti ad una prova impegnativa" (94). È per questo motivo, come rivela la ricerca condotta da Anna Mestitz (95), che emerge un generale sfavore degli assistenti sociali per la messa alla prova.
La stessa autrice registra con stupore, che, nonostante la reale carenza di servizi sociali territoriali, in alcune sedi meridionali, come Bari e Palermo, la messa alla prova è molto utilizzata. Secondo Occhiogrosso (96) questo è da attribuire al fatto che in molte regioni del sud "la carenza degli interventi sociali a favore dei minori ha determinato l'effetto di un incremento a quelli giudiziari". In pratica si sostiene che, in assenza di politiche pubbliche sociali nei confronti dei minorenni, gli interventi giudiziari vengono assunti per dare assistenza ai minori.
Un altro motivo a cui può essere ascritto l'esiguo utilizzo della messa alla prova sta nel basso livello di gradimento della magistratura nei confronti di tale istituto. In determinate zone in cui i servizi sociali territoriali
non solo esistono, ma sono anche molto ben organizzati, come a Bologna, la non applicazione della messa alla prova rivela necessariamente l'ostilità della magistratura nei confronti di questo istituto (97).
2.3.2. Tipologia di reati per i quali è applicabile la messa alla prova
Passando ad analizzare la tipologia di reati a cui è applicabile l'istituto in esame, è necessario specificare che la distinzione operata dall'articolo 28, fra reati punibili con la reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni e gli altri reati, si riferisce esclusivamente alla durata della sospensione del processo che, nel primo caso non può superare i tre anni e nel secondo, un anno. Ne consegue, in assenza di una previsione legislativa contraria, che la messa alla prova sia applicabile a qualsiasi tipo di reato.
L'assenza di limiti relativi al tipo di reato a cui applicare la messa alla prova ha suscitato, fin dalla sua introduzione, aspre critiche, sia in relazione all'ampio margine di discrezionalità che offre al giudice, sia per l'inopportunità di estinguere il reato, in caso di gravi crimini, quali l'omicidio.
Sotto il primo profilo, nel parere sul progetto preliminare di riforma al processo penale minorile, il Tribunale per i Minorenni di Trieste ha manifestato la sua preoccupazione per l'illimitatezza dell'ambito applicativo dell'istituto, mettendo in risalto la necessità di circoscrivere la sfera di discrezionalità del giudice (98).
Per limitare tale discrezionalità sono stati elaborati tre diversi criteri.
Attraverso il criterio quantitativo si può arrivare ad escludere l'operatività dell'istituto previsto dall'articolo 28 ogni qual volta ci siano i presupposti per l'applicazione dell'irrilevanza del fatto. Ma quando manca il solo requisito del pregiudizio alle esigenze educative, dato dall'ulteriore corso del processo o, anzi, il processo si riveli utile ad esse, non rimane che ricorrere alla messa alla prova.
Utilizzando il criterio qualitativo, invece, la discrezionalità del giudice è limitata non dal titolo del reato, ma dalla possibilità che la prova risulti utile per il minore, a causa delle sue caratteristiche personali. Il giudice dovrebbe poter applicare la messa alla prova tenendo conto del significato della trasgressione per la personalità del soggetto, in relazione alla sua capacità di adeguarsi spontaneamente alle regoli sociali.
L'ultimo criterio prospettato si fonda sulla lettera dell'articolo 28, nella parte in cui prevede in capo al giudice l'obbligo che siano "sentite le parti". Il giudice, cioè, non dovrebbe sospendere il processo senza averlo prima prospettato alle parti ed averne ottenuto il consenso.
Per quanto riguarda l'inopportunità di applicare la messa alla prova ai rati più gravi, molte sono le voci in tal senso.
Già i pareri, sul progetto preliminare per la riforma del processo minorile, provenienti dalla Corte d'appello di Ancona, da quella di Cagliari, e dalla facoltà di giurisprudenza dell'Università degli studi di Firenze muovono un'aperta critica all'istituto, nella misura in cui risulta applicabile anche ai più gravi reati (99). Anche il consiglio Superiore della Magistratura (100) critica che l'estinzione del reato per esito positivo della prova sia slegata da qualsiasi riferimento, anche generico, al tipo di reato per cui si procede e definisce la messa alla prova come un istituto potenzialmente devastante, in quanto offre alla malavita, specie a quella organizzata, un incentivo ad utilizzare e sfruttare i minorenni, anche per reati di estrema gravità.
Melita Cavallo (101), nell'affrontare il tema dei reati caratterizzati da un elevato grado di antisocialità, commessi con violenza efferata e gratuita, da giovani senza progettualità per sfidare il mondo ostile degli adulti e per sentirsi superiori a tutto, nota l'inadeguatezza della pena e del carcere. Secondo l'autrice la risposta preferibile a questo tipo di reati dovrebbe essere il collocamento in piccole comunità, in cui i minori, sotto il controllo giudiziario, siano monitorati continuamente da operatori altamente specializzati. In tal modo verrebbe intrapreso un percorso di integrazione per il recupero dell'autostima e dell'educazione alla regola. Sulla carta questo tipo di intervento rientra pienamente nelle potenzialità della messa alla prova, ma la sua traduzione in pratica sarà subordinata alla disponibilità delle risorse sul territorio (dall'esistenza delle piccole comunità, all'esistenza di operatori altamente specializzati nonché ad una loro eventuale disponibilità).
A due anni dall'entrata in vigore del D.P.R. 448, la Corte di Cassazione sottolinea che la gravità del fatto non costituisce un elemento ostativo per l'applicazione dell'istituto previsto dall'articolo 28, il quale può essere applicato anche per i reati più gravi (102).
La prassi applicativa rivela che la messa alla prova viene generalmente applicata anche ai reati di maggior gravità. Infatti dallo studio condotto da Marilena Colamussi (103) presso il Tribunale per i minorenni di Bari è emerso che, in tale sede, l'articolo 28 viene applicato anche al reato di omicidio, sulla base del rilievo che tale reato rimane un episodio isolato ed esclusivo nella vita del minore (104)
ed escludere questa ipotesi di reato dalla messa alla prova potrebbe alla fine comportare un danno per il minore, perché in questa maniera si escluderebbe un'opportunità di recupero per quel minore che ha sì commesso un reato gravissimo ma che, però, può talvolta essere recuperato più facilmente di un borseggiatore.
Anche dall'analisi statistica riferita al 2001, condotta dal Dipartimento Giustizia Minorile, emerge l'eterogeneità dei reati per i quali è stata applicato l'articolo 28. Le imputazioni interessate su 1646 casi sono state le seguenti (105):
- delitti contro la persona 320, di cui:
- omicidio colposo 16;
- omicidio volontario 22;
- lesioni personali 135;
- violenze sessuali 70;
- sequestro di persona 9;
- altro 68;
- delitti contro il patrimonio 949, di cui:
- furti 510;
- rapine 278;
- danneggiamenti 57;
- estorsioni 44;
- ricettazioni 44;
- altro 16;
- delitti contro l'economia e la fede pubblica 293, di cui:
- violazioni alle leggi sugli stupefacenti 290;
- altro 3;
- delitti contro lo stato e l'ordine pubblico 37, di cui:
- violenza, resistenza, oltraggio a pubblico ufficiale 16;
- altro 21.
2.3.3. Possibili esiti della prova
Analizziamo, adesso, i possibili esiti della prova. Nell'udienza fissata per la valutazione della prova, ai sensi dell'articolo 29, il collegio deve procedere a realizzare due tipi di accertamento.
Il primo accertamento riguarda il comportamento tenuto dal minore durante la prova. Non è richiesto al minore tanto una continua e totale osservanza dell'insieme delle prescrizioni impostegli, quanto piuttosto un comportamento che evidenzi la sua completa adesione al progetto e la profonda comprensione di esso. Possono essere tollerate delle trasgressioni non gravi ed isolate, in presenza delle quali la prova, se fatta continuare, può dare esito positivo. In sostanza la prova sarebbe costituita da segmenti successivi, oggetto di volta in volta di una valutazione da parte dei servizi; se questi ogni volta formulano una valutazione di proseguibilità, significa che la prova procede progressivamente in modo positivo. Per cui al momento dell'udienza fissata per la valutazione della prova non rileveranno eventuali sporadiche trasgressioni, ma rileverà solamente che la prova sia proseguita, fatto che dimostra che sono mancati i presupposti per la revoca della stessa. Conseguentemente è possibile affermare che al ragazzo viene richiesta una prestazione non di risultato, ma di impegno nell'adeguarsi al progetto.
In secondo luogo, dovrà essere accertata l'evoluzione della personalità del minore avvenuta nel corso della prova. Il minore deve avere compreso le ragioni per le quali fu disposta la sospensione e deve aver mantenuto costante il consenso prestato al momento dell'accettazione del progetto. Solo in questo caso, infatti, la prova avrà prodotto dei mutamenti in positivo nel minore, che possono fare ritenere che la prova abbia avuto esito positivo.
Se l'esito di questi due accertamenti è stato positivo, verrà pronunciata, in sede di udienza preliminare, una sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell'articolo 425 del codice di procedura penale, o, in sede di dibattimento, una sentenza di non doversi procedere ai sensi dell'articolo 531 di tale codice.
La sentenza così pronunciata non è suscettibile di iscrizione nel casellario giudiziale (articolo 14 del D.P.R. 448 del 1988), a conferma della natura destigmatizzante propria del probation.
Abbiamo già osservato la natura di causa di estinzione del reato propria della sentenza emessa a seguito dell'esito positivo della prova. In presenza di un giudizio positivo sulla persona, lo Stato rinuncia alla sua pretesa punitiva, in quanto essa appare sostituita dalla condotta post-delictum posta in essere dal soggetto, che ha dimostrato di non possedere qualità penalmente rilevanti. Lo Stato autolimita la sua pretesa di perseguire i reati, sulla base della sostituzione intervenuta fra il fatto reato e la condotta del soggetto.
Nel caso di esito negativo della prova il processo prosegue nelle sue forme ordinarie (articolo 29). Poiché nel momento in cui il minore è stato sottoposto alla prova si è operato un accertamento sulla sua responsabilità penale e sulla sua capacità di intendere e di volere, comprensiva del riferimento alla sua maturità, che gli ha consentito di prestare il suo consenso alla prova stessa, a seguito dell'esito negativo della prova non potranno essere pronunciate sentenze di proscioglimento, nemmeno per incapacità. Potranno, invece, essere concessi il perdono giudiziale e l'irrilevanza del fatto.
Scivoletto (106) mette in guardia rispetto al rischio di confondere il successo processuale della prova con il successo di carattere sociale in termini di recupero del minore deviante. Infatti, secondo l'autrice, si deve distinguere fra il piano formale e il piano sostanziale. Da una parte esiste il successo puramente formale della prova, che è quello che produce l'archiviazione del fascicolo processuale senza lasciare traccia, nel casellario giudiziale, del suo protagonista, dall'altra quello sostanziale, che produce un effettivo mutamento nella condotta del reo, recuperandolo socialmente. Ai fini di questa distinzione andrebbe analizzato il fenomeno della recidiva, la cui presenza, riferita a soggetti già messi alla prova, dimostra che l'esito positivo di essa costituiva un successo esclusivamente formale- processuale.
Analizziamo, adesso, l'incidenza degli esiti positivi delle prove disposte nel 2000 (107), anno a cui si riferisce lo studio statistico più volte citato. In questo anno la maggior parte di messe alla prova concesse si sono concluse con esito positivo; in particolare nell'82,5% dei casi è stato emesso un provvedimento di estinzione del reato. il provvedimento di condanna è stato pronunciato nel 6,6% dei casi. Tali percentuali sono state calcolate sul totale delle messe alla prova di cui si conosceva l'esito, in quanto al momento dell'elaborazione di tali dati alcune messe alla prova erano ancora in corso.

Questi dati sono indice di efficacia della misura, dal momento che l'esito positivo della prova con la conseguente dichiarazione di estinzione del reato, presuppone che il giudice abbia valutato in senso positivo il comportamento tenuto dal minore durante la prova e, soprattutto, abbia riscontrato l'evoluzione della personalità del minore stesso. Pertanto nell'82,5% dei casi la prova, nella valutazione del giudice, ha avuto come esito una maturazione psicologica del minore nel senso di una sua (ri)socializzazione, intesa come piena adesione alle comuni regole del vivere sociale.
Alla luce dell'analisi svolta sulla messa alla prova possiamo affermare che "in questo istituto c'è la sintesi di tutte le idee-guida del processo minorile", come sostiene la Corte d'appello di Bologna nel parere riguardante il progetto definitivo di riforma al processo penale minorile. D'altra parte in tal senso si è pronunciata anche la Corte Costituzionale nella sentenza n. 125 del 1995, nella quale si afferma che l'istituto in esame è strettamente aderente alla principale finalità del processo minorile, la finalità del recupero del minore deviante, perseguita attraverso la sua rieducazione e il suo reinserimento sociale, nel rispetto dell'articolo 31 della Costituzione. Secondo la Corte con questo istituto, il reinserimento sociale del minore viene favorito anche dall'attenuazione dell'offensività del processo, il quale viene sospeso, nella convinzione che possa costituire un'esperienza demoralizzante, nonché stigmatizzante per il minore, che al contrario ha bisogno di stimoli positivi per prendere le distanze dalla sua condotta deviante. La Corte Costituzionale è, pertanto, convinta che la messa alla prova, nell'ambito degli "istituti di favore tipici del processo penale a carico di imputati minorenni", quali il perdono giudiziale e l'irrilevanza del fatto, sia l'istituto che più di ogni altro risponde alle indicate finalità della giustizia minorile.
In effetti la messa alla prova non configura una misura clemenziale, in quanto la dichiarazione di estinzione del reato, costituente formula pienamente liberatoria per il minore, è subordinata alla verifica del conseguimento di una evoluzione nella personalità del minore, attraverso la sua adesione al progetto di intervento, intesa come comprensione dello stesso e impegno per il suo rispetto. Pertanto si può configurare come istituto di natura premiale, in quanto l'estinzione del reato è ancorata al raggiungimento della (ri)socializzazione del minore. Nelle altre due formule terminative del processo penale minorile analizzate (il perdono giudiziale e l'irrilevanza del fatto) la formula liberatoria interviene in modo acritico e sulla base di circostanze inerenti al reato, oggettive, come la quantità di pena prevista per il reato commesso, per il perdono giudiziale, o la tenuità del fatto, per l'irrilevanza, o soggettive, come l'occasionalità del comportamento, sempre per l'irrilevanza del fatto. Invece l'estinzione del reato ai sensi dell'articolo 29 avviene attraverso un processo personale e sociale di chiarificazione, con cui il minore "si guadagna" (108) la perdita dell'interesse del sistema penale verso di lui.
In tali termini la messa alla prova è un istituto dotato indubbiamente di una maggiore carica responsabilizzante di quanto non abbiano il perdono giudiziale e l'irrilevanza del fatto, ammesso che ne abbiano.
Scivoletto (109) fa riferimento alla portata educatrice della mesa alla prova e sostiene che la peculiarità di questo istituto stia nella sua idoneità a coniugare la punizione con l'educazione. Questa potenzialità, che differenzia l'istituto in esame rispetto ad ogni altra formula procedurale minorile, da un lato lo rende particolarmente "prezioso", in quanto perfettamente rispondente agli obiettivi ultimi della giustizia minorile, ma dall'altro fa sì che sia l'istituto più difficilmente praticabile. La punizione in senso educativo, attuata con il probation può far recuperare delle competenze perdute o mai avute, in quanto coinvolge più soggetti della società (i servizi minorili dell'amministrazione della giustizia, i servizi locali, il comune, l'A.S.L., il privato sociale, la famiglia, la scuola, ecc.).
Giannino (110) e Occhiogrosso (111), poi, mettono in risalto l'importanza della contestualizzazione del progetto di intervento nell'ambiente di vita del minore. Sarebbe proprio tale elemento a garantire la validità dell'istituto in esame ai fini del recupero del minore deviante, il quale trarrebbe un indiscutibile beneficio dal fatto di non essere sradicato bruscamente e in modo traumatico dall'ambiente in cui si trovano i suoi affetti, i suoi punti di riferimento ed in cui ha una sua identità. In particolare, secondo Occhiogrosso, con un'applicazione creativa delle prescrizioni da impartire si può conseguire il recupero di giovani devianti, attraverso il coinvolgimento, nella risocializzazione del minore, della comunità locale che viene resa partecipe del processo penale minorile.
È innegabile che l'istituto della messa alla prova comporti dei rischi, dei limiti di natura sostanziale che possono concretamente ostacolare la sua applicazione e il suo esito positivo.
Tali ostacoli sono rappresentati dalle difficoltà che emergono nel momento applicativo, dovute alla mancanza di risorse, di strutture pubbliche o private, di competenze adeguate e di professionalità degli operatori. Pertanto spesso l'applicazione della messa alla prova e l'esito di essa sono condizionati, più che dalla volontà del ragazzo, dalla capacità di mobilitare delle risorse intorno a lui.
Altre volte sono le variabili connesse al ceto sociale del minore a influenzare la fruibilità dell'istituto in esame. L'assenza della famiglia, così come l'assenza di una fissa dimora, impedisce l'applicazione della messa alla prova, in quanto manca un fondamentale elemento di stabilità nonché di controllo sociale spontaneo per il minore. In altre ipotesi può essere la famiglia stessa la causa di origine della devianza (per esempio nell'ipotesi di un contesto familiare in cui il crimine viene accettato, costituendo un modus vivendi generalmente condiviso). E' evidente come le variabili, citate, connesse al ceto sociale, ostative rispetto all'applicazione della messa alla prova, spesso caratterizzino la situazione dei minori extracomunitari presenti in Italia e che costituiscono la parte più consistente della criminalità minorile del nord e del centro del paese. Si nota, quindi, il paradosso costituito dal fatto che una misura introdotta nel nostro ordinamento per il recupero dei minori devianti risulti nella pratica inapplicabile a molti di essi.
Tutto ciò risulta anche dall'analisi statistica relativa alla messa alla prova, riferita al 2001, anno in cui l'88% dei minori che hanno fruito della misura risultano essere italiani, mentre solo il 12% sono minori stranieri.

Una delle critiche più aspre che viene mossa all'istituto della messa alla prova consiste nel prospettare il pericolo che comporti un allargamento della rete di controllo (112). Partendo dal presupposto che nell'ambito della punizione non sia opportuno introdurre interventi e strumenti finalizzati alla rieducazione del minore, viene criticato l'istituto in esame, perché oltre a realizzare la commistione fra punizione e rieducazione, potrebbe anche costituire una risposta inadeguata, perché eccessiva, ai reati c.d. bagatellari, i cui autori non necessitano di una rieducazione, non avendo compiuto affatto una scelta deviante.
Secondo questo orientamento dottrinale la rieducazione, fatta passare per sostegno, può portare facilmente ad infliggere un trattamento in condizioni di coazione e privo di garanzie difensive (113). A questo Palomba (114) obietta che l'articolo 28 impedisce di collocare la messa alla prova in un ambito di coattività, in quanto il sostegno sociale offerto al ragazzo è subordinato al suo consenso.
Giordani (115) fa notare che l'equivoco di fondo costituito dal paradigma che attribuisce il comportamento deviante a cause intrapsichiche, dovute a disturbi di identità o alle patogenesi familiari, può portare ad utilizzare nella messa alla prova progetti di intervento ispirati ad un'ottica di medicalizzazione clinico-terapeutica, che mirano a correggere il soggetto deviante ritenuto 'difettoso'. L'autore teme questo tipo di interventi in quanto "tutti gli interventi adottati sul presunto paziente per guarire la 'malattia della delinquenza' risultarono repressivi, inumani e ovviamente inutili".
Roli (116) individua un aspetto negativo della messa alla prova nel venire meno del principio psicologico dell'attribuzione dell'azione. Il minore, infatti, percepirà, non a torto, la sua punizione non come conseguenza della propria condotta criminosa, ormai lontana nella sua temporalità psicologica, ma come conseguenza della violazione delle prescrizioni impartitegli con il progetto di intervento. Questo meccanismo conduce, secondo l'autrice, al fallimento della risposta penale a livello educativo e alla produzione di contro-risposte di tipo reattivo da parte del minore.
Anche secondo Magno (117) sul piano dell'educazione la messa alla prova non è una misura incisiva. Infatti, in questo istituto, il processo non viene utilizzato come uno strumento di cui servirsi per educare il minore, ma viene usato come pena in sé, momentaneamente sospesa, ma di cui si minaccia la prosecuzione, se non viene rispettato il progetto di intervento. Non avendo fiducia nella potenzialità educatrice-responsabilizzatrice della messa alla prova l'autore sostiene che nella previsione di tale istituto "la tardiva resipiscenza del minore basti a provocare una pronuncia di totale immunità".
Lo studio, già citato, di Anna Mestitz dimostra che sul piano nazionale le decisioni giurisdizionali tendono ad ispirarsi al modello applicativo, che privilegia la messa alla prova nei casi complessi che coinvolgono ragazzi recidivi imputati di reati gravi. Ma allo stesso tempo è stata sottolineata una correlazione positiva fra la scarsa offensività del reato e l'esito positivo della prova (118) e fra esito negativo della prova e gravità del reato e recidività. Pertanto si può affermare che gli esiti delle prove sono più spesso negativi quando i minorenni sono recidivi, quando sono imputati per reati gravi, quando la durata della prova è lunga e quando viene svolta nelle comunità.
Rimane solamente da segnalare l'esistenza di un disegno di legge, varato dal Consiglio dei Ministri nel marzo di questo anno, che prevede un generale inasprimento della giustizia minorile, in quanto, secondo il ministro della Giustizia Castelli: "la legislazione attuale che riguarda i minori si riferisce ad una realtà di molti anni fa che oggi è completamente mutata. Ci troviamo di fronte a ragazzi di sedici, diciotto anni che commettono gravi reati" (119). Una delle novità previste è la limitazione della possibilità di applicare la sospensione del processo con la conseguente messa alla prova, in presenza dei reati di associazione a delinquere, violenza sessuale e resistenza aggravata a pubblico ufficiale. La tanto criticata applicabilità dell'istituto a qualsiasi tipo di reato, anche ai più gravi, troverebbe dei limiti oggettivi. Non si spiega, però, la ratio della scelta di tali reati e la contemporanea esclusione di altri reati dotati della stessa potenzialità offensiva, come per esempio l'omicidio che non può essere considerato meno grave od offensivo della violenza sessuale o, tanto meno, della resistenza a pubblico ufficiale, anche se aggravata.
2.4. Alcune riflessioni critiche sul fenomeno della criminalità minorile
Prima di analizzare alcuni aspetti peculiari connessi al fenomeno della criminalità minorile in Italia, è opportuno notare che le Procure della Repubblica presso i Tribunali per i Minorenni del nord e del centro del paese, negli ultimi anni, segnalano una riduzione delle notizie di reato, con punte fino al venti per cento in meno rispetto alle rilevazioni relative agli anni novanta; mentre al sud del paese non si registra questa flessione. La riduzione complessiva, riferita alla rilevazione delle notizie di reato su scala nazionale si aggira intorno al 7%. Alla diminuzione del numero dei procedimenti penali sopravvenuti, tuttavia, si accompagna spesso una recrudescenza qualitativa dei reati; vengono, infatti, frequentemente segnalati in aumento i casi di omicidio volontario, i tentativi di omicidio e le rapine.
2.4.1. La criminalità dei minori stranieri
E' un dato di fatto che il fenomeno della devianza minorile sia strettamente connesso con l'emarginazione sociale; la maggior parte dei minori denunciati vivono nel degrado urbano e sociale in famiglie deprivate e disgregate e, secondo dati del Ministero dell'interno, il 76% dei minori che vive nell'illegalità è analfabeta o ha uno scarso livello di istruzione (120).
È evidente che la maggior parte dei minori che vivono in tali condizioni sono i minori stranieri (nomadi o extracomunitari). Essi vivono senz'altro in una situazione di vera e propria marginalità: provengono da paesi poveri, quali l'Albania, i paesi dell'ex Iugoslavia e i paesi nordafricani e spesso non sono accompagnati dalla famiglia, non hanno una fissa dimora e non hanno il permesso di soggiorno, per cui, giunti in Italia attratti dal nostro benessere, di fatto spesso sono reclutati e sfruttati da organizzazioni malavitose (in certe aree del paese anche di tipo mafioso) che trovano in loro manovalanza a basso costo, nella prospettiva dell'impunità.
Già dalla metà degli anni ottanta, si è assistito al progressivo aumento delle denunce a carico di minorenni stranieri, in particolare nel nord e nel centro del paese. Adesso in alcuni tribunali per i minorenni ci sono più indagati stranieri che italiani (121).
È possibile tracciare delle correlazioni fra la tipologia di reati commessi e la appartenenza etnica dell'autore degli stessi. È noto che la criminalità dei nordafricani è connessa al mondo delle tossicodipendenze, quindi caratterizzata da denunce per spaccio di stupefacenti, quella degli slavi e dei nomadi è di tipo appropriativo, prevalentemente determinata da reati contro il patrimonio, soprattutto scippi e furti in appartamento, mentre la criminalità degli albanesi è legata allo sfruttamento della prostituzione e ai reati contro il patrimonio, soprattutto furti in appartamento.
Il nostro ordinamento giuridico dovrebbe garantire ai minori stranieri i diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione: diritto ad un ambiente protetto, preferibilmente familiare; diritto alla scolarizzazione; diritto alla salute. Tutto ciò anche nel rispetto della previsione costituzionale contenuta nell'articolo 31 che dichiara che "la Repubblica protegge l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari allo scopo". L'estensione di tale protezione a tutti i minorenni presenti sul territorio dello Stato, e non solo ai cittadini, può essere dedotta dalla sentenza n. 120 del 1962 della Corte Costituzionale relativa agli articoli 2, sui diritti fondamentali della persona, e 3, sulla parità di trattamento, della Costituzione. In tale pronuncia la Corte chiarisce che la tutela dei diritti inviolabili dell'uomo è estesa anche allo straniero; e sicuramente fra i diritti inviolabili dell'uomo rientra anche il diritto alla protezione del minore nel proprio processo di crescita, previsto dall'articolo 31 della Costituzione.
Fra gli istituti che la Repubblica ha predisposto per la protezione del minore vi rientrano anche le disposizioni in materia di processo penale minorile, che contengono varie modalità di soluzione del processo che offrono la possibilità di allontanare dal carcere i minorenni autori di reato. Nel disegno del legislatore il ricorso al carcere sarebbe dovuto diventare un'extrema ratio, una risposta residuale per casi marginali. In realtà alcuni istituti introdotti nel 1988 appaiono inaccessibili per i minori stranieri, i quali, nonostante tutti i minori siano astrattamente possibili fruitori di essi, possiedono delle caratteristiche socioambientali che precludono in pratica l'applicabilità delle formule di chiusura del processo ispirate al principio della minima offensività.
In particolare per quanto riguarda le modalità di definizione del processo penale minorile oggetto di questo studio emerge che si possono verificare "disuguaglianze di fruizione" (122), in quanto i requisiti previsti dalla legge per l'applicazione di esse si adattano meglio alla condizione dei minori italiani. In effetti il giudizio di irrilevanza del fatto con difficoltà potrà essere pronunciato nei confronti di un minore straniero, a causa della difficoltà di valutare il requisito dell'occasionalità del comportamento. Parimenti la sospensione del processo con la conseguente messa alla prova del minore autore di reato difficilmente potrà adattarsi a situazioni di deprivazione sociale, in quanto l'esito positivo della prova è subordinato alla presenza di sedi di controllo sociale spontaneo, come la famiglia, che aiutino il minore a rispettare gli impegni assunti con l'accettazione del progetto di intervento. Infine anche la possibilità di concedere il perdono giudiziale ai minori stranieri appare limitata dalla difficoltà di formulare una prognosi in ordine alla astensione del minore dal commettere reati in futuro. Infatti spesso il giudice non possiede gli elementi sufficienti per formulare tale giudizio, non essendo possibile avere le informazioni relative al carattere del reo, alla sua condotta e alla sua vita antecedente, contemporanea e successiva al reato e al contesto individuale, familiare e sociale della sua vita.
Una trattazione a parte merita il mondo zingaro, le cui problematiche non vanno confuse con quelle proprie del fenomeno dei minori stranieri extracomunitari tout court in quanto è caratterizzato da una sua specificità. Gli elementi che differenziano questo mondo sono: la presenza della famiglia dei minori che li avvia, li istiga e, spesso, li costringe al reato; la specializzazione dei minori nella perpetrazione dei reati e il contributo preponderante delle donne. Oltre alla raccolta di elemosine (Manghèl), una delle attività più diffuse è il furto in appartamento ad opera di minorenni, in quanto penalmente meno perseguibili, praticato soprattutto dalle comunità di recente provenienza dai paesi della ex Iugoslavia di religione ortodossa. Tale attività può costituire una necessità sporadica, dovuta ad esigenze economiche oppure può essere oggetto di un'organizzazione su vasta scala che si avvale dello sfruttamento del minore da parte di adulti, anche estranei alla rete familiare. Quasi tutti i minori impegnati in tale attività illecita sono argati (letteralmente 'operai'), cioè minori ceduti dai genitori con un contratto, per un determinato periodo di tempo, ad un adulto che li sfrutta per rubare, in cambio di un compenso economico. Tale completo assoggettamento del minore, che spesso viene sottoposto anche a sevizie nel caso in cui torni 'a mani vuote', può essere considerato un vero e proprio "nuovo schiavismo" (123), mentre per la cultura Rom è una normale forma di approvvigionamento economico.
Inoltre una delle peculiarità della cultura nomade è il fatto che costituisca un vero e proprio 'mondo a parte' i cui componenti non vogliono venire a contatto con la nostra società. Per questo motivo il minore zingaro ha un atteggiamento di neutralità passiva e di impermeabilità davanti all'autorità giudiziaria, in modo tale che "né una condanna materiale, né la disapprovazione della nostra società potranno influire in futuro in modo positivo sulla sua condotta" (124). La condizione di deviante attribuitagli dalla nostra società, nonché dalla legge, non viene recepita dal minore nomade, in quanto si basa su di un codice culturale che non gli appartiene e che lo trova assolutamente insensibile.
Lo stesso processo penale appare agli occhi del minore nomade assolutamente incomprensibile, anche se occorre notare che avviene quasi sempre nella contumacia dell'imputato, a meno che non si trovi in custodia cautelare.
Anche per i minori nomadi si registrano le difficoltà di applicazione dei modi di definizione del processo penale minorile oggetto di questo studio. In particolare il perdono giudiziale è generalmente negato ai minori nomadi, in quanto la prognosi formulabile per essi è addirittura contraria a quella che giustificherebbe la concessione del beneficio, essendo la perpetrazione di reati contro il patrimonio un modus vivendi.
Inoltre l'attività svolta nell'ambito della messa alla prova di sostegno specifico nei confronti di un soggetto che si trova in una condizione di deprivazione non è assolutamente compresa nel mondo zingaro in cui la deprivazione non è particolare, ma è una condizione generalizzata. Per il nomade che ha commesso un reato risposte istituzionali così sofisticate sono lontane da una logica percepibile, mentre sono accettate più facilmente la condanna o la libertà vigilata (125).
La conseguenza della difficoltà di applicazione di tali formule terminative del processo penale minorile è che il carcere minorile da extrema ratio "assume le caratteristiche di ratio speciale, trasformato in formula riservata a quanti risultano svantaggiati, perché carenti di quelle risorse (ambientali e sociali), senza le quali il rito penale non può ottenere i suoi obiettivi più ambiziosi" (126).
A questo proposito è interessante osservare le rilevazioni compiute dal Dipartimento della Giustizia minorile del Ministero della Giustizia in ordine agli ingressi nei diciassette istituti penali minorili (Ipm) italiani di minori italiani e stranieri dal 1991 al 2000.
Anno | Minori italiani | Minori stranieri | Totale | ||||||
---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|
M | F | MF | M | F | MF | M | F | MF | |
1991 | 1175 | 53 | 1228 | 451 | 275 | 726 | 1626 | 328 | 1954 |
1992 | 1462 | 30 | 1492 | 455 | 342 | 797 | 1917 | 372 | 2289 |
1993 | 1429 | 36 | 1465 | 510 | 339 | 849 | 1939 | 375 | 2314 |
1994 | 1303 | 19 | 1322 | 557 | 361 | 918 | 1860 | 380 | 2240 |
1995 | 1086 | 24 | 1110 | 592 | 311 | 903 | 1678 | 335 | 2013 |
1996 | 1067 | 26 | 1093 | 546 | 336 | 882 | 1613 | 362 | 1975 |
1997 | 910 | 24 | 934 | 583 | 371 | 954 | 1493 | 395 | 1888 |
1998 | 852 | 32 | 884 | 655 | 349 | 1004 | 1507 | 381 | 1888 |
1999 | 849 | 22 | 871 | 640 | 365 | 1005 | 1489 | 387 | 1876 |
2000 | 752 | 27 | 779 | 753 | 354 | 1107 | 1505 | 381 | 1886 |
Da tale tabella emerge che nel periodo osservato gli ingressi in Ipm di minori stranieri sono in crescita costante, mentre quelli dei minori italiani sono in netta diminuzione, fino ad arrivare al 1997, anno in cui addirittura il numero di ingressi dei minori stranieri (954) supera quello degli italiani (934).
Si nota, inoltre, che per quanto riguarda la criminalità femminile, tradizionalmente inferiore a quella maschile, le ragazze straniere (soprattutto nomadi) sono in netta maggioranza. Nel 2000, per esempio, esse erano 354, il 93% del totale (381). Si può anche osservare che la presenza femminile, mentre per i minori italiani è molto bassa (nel 2000, 27 ingressi su un totale di 779, pari a circa il 3,5%), è, invece, rilevante per i minori stranieri (nel 2000, 354 ingressi su un totale di 1107, pari a circa il 32%).
È interessante anche verificare come queste presenze si distribuiscano per area geografica.




Dalla lettura dei dati emerge che il numero degli ingressi in Ipm dei minori stranieri al Centro-Nord è molto alto, con un picco dell'82,9% registrato al Nord nel 1998, e in costante ascesa. Al Sud, invece, si registra un lieve aumento degli ingressi di minori stranieri in Ipm solo a partire dal 1997; tuttavia le percentuali sul totale rimangono comunque basse (nel 2000, il 19,7%), lontane dai valori del Centro-Nord. Ciò dipende dal fatto che la criminalità minorile al Sud è rappresentata soprattutto dalle ampie aree di emarginazione, composte da minori italiani, entrate nella sfera dell'illegalità e dalla criminalità organizzata, le quali "eliminano ogni possibile concorrenza" (127).
Per concludere dobbiamo osservare che fra qualche anno, alle problematiche relative alla correlazione fra criminalità e immigrazione, se ne aggiungerà una del tutto nuova per un paese che, come il nostro, ha conosciuto il fenomeno dell'immigrazione in tempi relativamente recenti: la criminalità degli 'immigrati di seconda generazione'. Infatti dal Documento programmatico relativo alla politica dell'immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato (128) emerge la presenza di una significativa quota di minori, figli di immigrati, ma che non sono tali, in quanto nati in Italia. Essi pongono delle problematiche specifiche rispetto agli altri minori stranieri, in quanto si trovano "a cavallo fra la cultura dei genitori e quella del paese di accoglienza", vivendo "tutte le contraddizioni dell'incontro fra culture, senza poterne godere i vantaggi" (129). Le scienze criminologiche (130), osservando che i figli degli immigrati nati nel paese di accoglienza commettono più reati dei genitori (immigrati), spiegano tale fenomeno proprio con il conflitto insorgente fra diversi sistemi culturali che si sovrappongono. Tale sovrapposizione, determina un affievolimento dei valori culturali d'origine, rispetto alla percezione di essi da parte dei genitori immigrati, senza, però, pervenire ancora all'assimilazione dei valori culturali del paese di accoglienza. Tutto ciò provoca un indebolimento dei sistemi individuali di controllo della condotta e, conseguentemente, una maggiore predisposizione verso condotte devianti.
Solamente fra qualche anno disporremo dei dati sufficienti per riscontrare se si sia verificata anche in Italia questa osservazione criminologica, che, per il momento, rimane solamente un'ipotesi.
2.4.2. La criminalità organizzata
Il fenomeno della criminalità organizzata, riguardante il sud del paese, è rappresentato da associazioni criminali, quali la mafia siciliana, la 'ndrangheta calabrese, la camorra campana e la sacra corona unita pugliese, che si configurano come strutture di potere dotate di propri codici culturali, che entrano in relazione con il sistema legale inquinandolo, attraverso il perseguimento di interessi economici, finanziari e politici, realizzati violando le leggi dello Stato.
Tali associazioni, pur con diverse caratterizzazioni, sono accomunate da due elementi. In primo luogo la distorsione della regola statuale per sottrarre dal patrimonio pubblico ingenti risorse destinate a confluire in patrimoni privati, in cambio di favori in vari settori, quali quello urbanistico, elettorale, edilizio o finanziario; il secondo elemento comune è costituto dallo sviluppo di tali organizzazioni su un territorio caratterizzato dal degrado culturale ed economico. Infatti la criminalità organizzata acquista spazio riempiendo i vuoti lasciati dalle istituzioni, in quei territori del Meridione d'Italia dove in molti settori lo Stato è latitante, come per esempio nel settore dell'occupazione, in cui tali organizzazioni criminali svolgono il ruolo di motore delle attività lavorative nell'area illegale.
Si comprende agevolmente, pertanto, come, in tali territori, l'incapacità della scuola e dei referenti istituzionali sul territorio di proporre validi modelli alternativi, avvicini inevitabilmente i giovani alle organizzazioni criminali, le quali, paradossalmente, finiscono "per apparire al singolo individuo come più rispettose della propria dignità e delle proprie aspettative di integrazione in un gruppo omogeneo" (131). E il maggiore incentivo del minore a porsi al servizio dell'organizzazione è proprio il senso di appartenenza al gruppo, che gli assicura protezione, identità e sicurezza di un progetto per il futuro (132).
D'altra parte l'organizzazione criminale ottiene notevoli vantaggi dall'utilizzazione di minorenni nelle attività criminose, in quanto, oltre ad assicurare un'obbedienza acritica nei confronti dell'azione da compiere, che viene percepita come automaticamente discendente dal ruolo assunto, tali soggetti non sono imputabili fino ai quattordici anni e fino ai diciotto incorrono in conseguenze sanzionatorie di minore entità rispetto a quelle previste per i maggiorenni. Capita spesso, infatti, che il minorenne si addossi ogni colpa del reato allo scopo di scagionare i maggiorenni coinvolti e, inoltre, la testimonianza di un minorenne è più facilmente smontabile o può essere più agevolmente fatta ritirare attraverso le opportune minacce e ritorsioni ai familiari.
Negli ultimi anni si è registrato un netto aumento, nelle regioni del sud, dei minorenni coinvolti nella criminalità organizzata. Anche se è spesso difficile provare l'associazione per delinquere di stampo mafioso o camorristico, questo dato viene dedotto dalla tipologia dei reati commessi e dalla loro modalità di esecuzione, in particolare dalle estorsioni eseguite con modalità sempre più allarmanti da minori evidentemente esecutori di ordini, dalle armi di grosso calibro con numero di matricola abraso trovate in loro possesso, dallo spaccio di notevoli quantitativi di droga, dalle migliaia di furti di automobili, che per essere fatte sparire nel nulla, necessitano di una ben strutturata organizzazione pronta ad assorbirle. Interessante è anche notare che negli anni novanta compaiono fra i reperti sequestrati dalle forze dell'ordine blocchetti del lotto clandestino e cassette d'intercettazione telefonica, indice che la criminalità organizzata ha iniziato a reclutare i minorenni anche nel lotto clandestino e nelle estorsioni.
È possibile individuare tre diverse tipologie di minori radicati nell'area della criminalità organizzata. Il primo gruppo è costituito dai figli di camorristi o mafiosi, i quali già dall'infanzia introiettano gli orientamenti del modello malavitoso, fino a giungere, dalla preadolescenza, ad un'assimilazione perfetta del modello. Il secondo gruppo è formato dai minori che, pur non facendo parte della famiglia malavitosa, sono tuttavia inseriti nel clan familiare con il quale si identificano, condividendone gli obiettivi. Infine appartengono al terzo gruppo quei minori che, pur non appartenendo alla famiglia e non identificandosi con essa, operano comunque nell'area della criminalità nel pieno rispetto delle regole imposte dalla famiglia malavitosa.
I ragazzi appartenenti al primo gruppo non espiano quasi mai una pena in carcere perché la famiglia è molto attenta a tenerli lontani da grossi rischi nel corso della minore età. Essi talvolta giungono al carcere minorile a seguito dell'applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, ma per periodi brevi in quanto spesso vengono riconosciuti portatori di gravi malattie ampiamente documentate da medici compiacenti. Comunque solitamente i loro avvocati, che sono sempre i migliori, riescono ad ottenere misure cautelari meno afflittive, quali il collocamento in comunità o la permanenza in casa, potendo provare, con l'ausilio di persone compiacenti, l'offerta di un lavoro, un'attività di studio o un ingaggio sportivo. Su tali ragazzi ogni tipo di intervento giudiziario di tipo educativo risulta inefficace, in quanto la famiglia rifiuta qualsiasi contatto con i Servizi sociali territoriali e ministeriali. Anche le famiglie dei ragazzi del secondo gruppo sono poco collaborative con i servizi sociali, negando ogni problema e non accettando l'intervento socio-assistenziale, percepito come un'arbitraria intrusione. Da questo dato emerge la non praticabilità di un intervento quale la messa alla prova che fonda la sua applicabilità sull'imprescindibilità dell'aspetto consensuale riguardante il minore stesso e la sua famiglia, della quale si auspica una concreta collaborazione. Marilena Colamussi (133) nel suo studio riguardante la prassi applicativa della messa alla prova nel Tribunale per i Minorenni di Bari riferisce che in tale tribunale non viene applicato l'articolo 28 ai minori coinvolti nella criminalità organizzata, in quanto, a detta di un giudice di tale tribunale, la criminalità per tali persone "si sa che è una scelta di vita, ormai frutto di un'adultizzazione completa che non lascia spazio per la messa alla prova".
Solamente nei confronti dei ragazzi appartenenti al terzo gruppo sembra realizzabile un progetto in direzione del loro recupero, in quanto essi non sono radicati nella criminalità organizzata né per vincolo di sangue, né per vincolo di appartenenza, ma, al contrario, sono stati spinti verso la via criminale dalle condizioni di vita, che con l'abbandono da parte delle istituzioni fanno apparire i referenti malavitosi come gli unici modelli di successo a cui aderire pienamente.
Melita Cavallo (134), esperta di problematiche relative alla connessione fra criminalità organizzata e minori, in quanto è stata giudice minorile a Napoli ed attualmente fa parte dell'Osservatorio Nazionale sui Problemi dei minori, è convinta che la reazione all'atto deviante di un minore coinvolto nella criminalità organizzata, che spesso è la conseguenza di un atto di esclusione subito dal minore o di un ingiustizia sociale, non possa essere il carcere, in quanto rischierebbe di essere percepito semplicemente come un'altra grave ingiustizia sociale. L'autrice propone in alternativa una strategia di intervento che si fondi su uno shock di tipo sociale, "un terremoto psicologico", perseguito attraverso il porre in contatto questi ragazzi con una realtà dura di sofferenza e di deprivazione più forte delle loro, per esempio lavorando in strutture per ragazzi disabili, o attraverso il loro inserimento in un nuovo contesto di vita, caratterizzato dal lavoro a contatto con la natura e dal silenzio come strumento per poter riflettere e progettare una vita diversa. Infine l'autrice avverte che, finito il periodo di 'shock sociale', i ragazzi dovrebbero essere reintrodotti nel territorio con un adeguato sostegno da parte dei referenti del progetto, altrimenti "ogni investimento sarà stato inutile, perché il riassorbimento nell'ambiente sarà inevitabile".
2.4.3. Il bullismo
Il bullismo è un fenomeno proprio dell'età giovanile e si manifesta con comportamenti aggressivi e violenti, con forme di prevaricazione che intimidiscono i soggetti più deboli. Tale fenomeno non è proprio di un gruppo sociale, né di una determinata area territoriale, ma lo si incontra in tutti gli strati della società ed in tutte le regioni d'Italia, nonché in altri paesi (135).
Il fenomeno che può manifestarsi sia all'interno dell'istituzione scolastica, sia fuori da essa, si può collocare nella condizione generale di disagio giovanile, registrata in tutta Italia a partire dai primi anni novanta, denominata "malessere del benessere" o "teppismo per noia" (136) che comprende una pluralità di situazioni diverse. Tale fenomeno si caratterizza per l'ingresso nell'area della devianza del ceto medio (137) e delle donne, che prima ne erano escluse, ad eccezione delle ragazzine nomadi.
Vi rientrano fatti gravissimi e sempre più frequenti, feroci e immotivati, quali l'omicidio di una suora a Chiavenna ad opera di alcune ragazzine, quello di Castelluccio dei Sauri, dove due ragazze hanno ucciso la loro più cara amica, quello di Novi Ligure, dove una ragazza con il fidanzato ha ucciso la madre e il fratello. Vi rientrano anche fenomeni diversi quali il lancio di sassi dal cavalcavia, la distruzione di beni pubblici, la profanazione di cimiteri, il fenomeno dei naziskin e degli ultras.
Fra tali fenomeni si colloca anche il bullismo, che ha in comune con essi sia la caratteristica dell'aggressività gratuita, sia il fatto di essere emerso in modo significativo solo negli anni novanta.
Una delle possibili spiegazioni di questa nuova forma di disagio giovanile sta nella profonda modificazione, verificatasi nel corso degli anni ottanta, dei valori della società e della cultura giovanile, che allo spirito di contestazione rispetto alla società adulta ha sostituito uno spirito di adesione ed omologazione rispetto ai valori dominanti. L'aumento progressivo delle nuove forme di disagio giovanile si è sviluppato di pari passo all'affermazione di questa nuova cultura e all'aumento diffuso del benessere.
Per quanto riguarda il bullismo nelle scuole tale fenomeno è da intendersi come manifestazione negli studenti di comportamenti antisociali e conflittuali che fanno emergere diverse forme di prepotenza e aggressività. Una ricerca condotta da Ada Fonzi in scuole elementari e medie di regioni italiane diverse quanto ad aspetti culturali, sociali ed economici, ha evidenziato una preoccupante diffusione di tale fenomeno (138).
Esistono due distinte dimensioni del bullismo scolastico; una diretta, che si esplica nella aperta persecuzione di una vittima, colpendola con pugni, calci o appropriandosi dei suoi oggetti personali per danneggiarli, o deridendola, insultandola; l'altra indiretta, che colpisce la vittima attraverso sguardi minacciosi, dicerie, costringendola all'emarginazione e all'autoesclusione dal gruppo (139).
Alla base dei comportamenti di bullismo c'è un desiderio di intimidire e dominare, che può durare settimane, mesi o addirittura anni e da cui è difficile difendersi. Le vittime di tali comportamenti persecutori possono esternare il loro disagio manifestando il desiderio di non andare più a scuola, perdendo la propria sicurezza e autostima, fino a colpevolizzarsi per il fatto di attirare le prepotenze dei compagni. Altri possono manifestare sintomi psicosomatici dovuti allo stress, quali mal di testa, mal di stomaco, incubi, attacchi d'ansia. Si può arrivare perfino a porre in pericolo la vita della vittima, con violenze di tipo fisico che portano a lesioni e, in casi estremi, anche la morte.
Se tali comportamenti non vengono ostacolati il bullismo tende a diffondersi e i bulli, se non vengono dissuasi dall'usare tattiche intimidatorie, hanno più probabilità degli altri di assumere comportamenti antisociali da adulti.
Le risposte che le istituzioni hanno dato al fenomeno del bullismo nelle scuole si sono indirizzate verso l'organizzazione di corsi in materia di legalità tenuti anche da magistrati e verso politiche securitarie che si fondano sull'intervento dissuasivo e repressivo delle forze di polizia nelle scuole.
Occhiogrosso (140) sostiene la non validità del metodo repressivo nei confronti dei bulli, i quali, pur nella loro aggressività, sono essenzialmente soggetti deboli che "con la repressione introiettano sempre più il concetto di estraneità e di conflitto con la regola". In questo senso auspica che il così detto welfare non sia distrutto, ma, bensì, potenziato per evitare che lo Stato sociale sia trasformato in Stato penale.
Anche Rubinacci (141) per la soluzione del problema del bullismo nelle scuole sostiene che ci si debba affidare non ad un metodo repressivo, quanto ad una politica di prevenzione praticata dalla scuola e che si avvalga della collaborazione fra gli organi direttivi dell'istituto scolastico, il personale docente, i genitori e gli stessi studenti. Particolarmente interessante è il riferimento alla tecnica della mediazione scolastica, che prevede che uno studente conduca una mediazione per la risoluzione di un conflitto che si è venuto a creare in ambito scolastico fra studenti. Questa tecnica, praticata in alcune regioni italiane come il Piemonte, risulta essere particolarmente efficace in quanto il mediatore è uno stesso studente che, in quanto uno dei pari, è più accettato.
La scelta di una soluzione non repressiva sembra far optare, nella fase successiva alla commissione di un comportamento 'da bullo' che configura un reato, per quelle modalità di definizione del processo penale minorile ispirate al principio della minima offensività. In particolare sembra che la messa alla prova sia la modalità definitoria del processo che meglio si adatta alle peculiarità del fenomeno del bullismo. Infatti, da una parte l'applicabilità dell'irrilevanza del fatto potrebbe essere ostacolata dal ripetersi degli episodi persecutori, anche a danno di più soggetti, che impedisce di configurare il requisito dell'occasionalità del comportamento, e, dall'altra, la concessione del perdono giudiziale potrebbe essere ostacolata dalla difficoltà di formulare un giudizio prognostico positivo in merito all'astensione da parte del minore dal ripetere in futuro comportamenti 'da bullo'.
Inoltre si deve tenere conto che gli episodi riconducibili al fenomeno del bullismo che sfociano nella commissione di reati, sono particolarmente gravi (per esempio sequestro di persona, lesioni personali volontarie gravi, violenza sessuale). Così l'applicazione del perdono giudiziale risulta in concreto esclusa dal fatto che la pena prevista per tali fatti supera nel massimo i due anni di detenzione, limite previsto dalla legge per la concessione di tale istituto e l'applicazione dell'irrilevanza del fatto è preclusa dall'impossibilità di configurare il fatto come tenue. L'unico istituto, fra quelli esaminati, la cui applicazione non è limitata in relazione alla tipologia di reati o alla gravità di essi è la sospensione del processo con messa alla prova del minore, che risulta essere l'unica risposta giudiziaria, fra quelle esaminate, praticabile e praticata dai Tribunali per i Minorenni.
Note
1. A. Nicolì, L'alternativa tra azione penale e diversion nei sistemi di giustizia minorile, in Critica penale, genn.-giugno 1997, Ponte Nuovo Editrice, Bologna.
2. La Greca, Dalla delega del 1974 al decreto 448 del 1988, in Il nuovo codice di procedura penale, a cura di Conso, Grevi, Neppi Modona, vol. VII, Cedam, 1990.
3. A. Mestitz, M Colamussi, Processo penale minorile: l'irrilevanza del fatto e la messa alla prova, Working Papers IRSIG-CNR n. 8, Lo Scarabeo, Bologna, 1997.
4. G. Sergio, L'udienza preliminare minorile, in F. Occhiogrosso (a cura di), Il processo penale minorile: prime esperienze. Atti del convegno di Bari, Unicopli, 1991.
5. Corte Costituzionale, sentenza n. 311 del 1997.
6. L'art. 19 è stato modificato dall'art. 2 della legge 603 del 1961, così come sostituito dall'art. 112 della legge 689 del 1981 in tema di depenalizzazione.
7. Diversamente le cause estintive della pena fanno venire meno la 'punibilità in concreto', che si concretizza nella pena irrogata con la sentenza di condanna esecutiva. Lo Stato, in questo caso, rinuncia all'esecuzione della pena inflitta dal giudice.
8. F. Mantovani, Diritto penale, Cedam, Padova, 1992.
9. P. Giannino, Il processo penale minorile, Cedam, 1997.
10. Il disegno di legge Martini del 1986, in materia di rinnovo delle disposizioni riguardanti il processo penale minorile, all'articolo 36, prevedeva tale ipotesi, specificando che i reati legati dal vincolo della continuazione dovessero essere espressione di un medesimo disegno criminoso, ex art. 81, secondo comma del codice penale. Il testo definitivo del 1988 non ha disciplinato questa ipotesi e la dottrina successiva, fra cui Giannino, ha sostenuto la non necessarietà del requisito dell'unicità del disegno criminoso.
11. F. Mantovani, op. cit.
12. La necessità di motivare la concessione della sospensione condizionale della pena è sostenuta dalla Cassazione in una pronuncia del 27 febbraio del 1973.
14. P. Pazè, Le scelte ideologiche del nuovo processo, in F. Occhiogrosso (a cura di), op. cit.
15. R. Ricciotti, La giustizia penale minorile, Cedam, 1998.
16. P. Giannino, op. cit.
17. G. Magno, La decisione, in F. Occhiogrosso (a cura di), op. cit.
18. A. C. Moro, Manuale di diritto minorile, Zanichelli, Bologna, 2000.
19. P. Dusi, Le risposte possibili al reato minorile, in Minori Giustizia, 1993, n. 3.
20. Il testo del parere è riportato in Conso, Grevi, Neppi Modona (a cura di), op. cit.
21. F. Palomba, Il sistema del processo penale minorile, Giuffrè, 2002.
22. P. Giannino, op. cit.
23. Ministero della Giustizia - Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile, Minorenni denunciati alle Procure della Repubblica presso i Tribunali per i Minorenni, Anno 1998, Analisi statistica
24. Mantovani (op. cit.) definisce le cause di non punibilità come "particolari situazioni esterne al fatto tipico, che non escludono il reato ma in presenza delle quali il legislatore ritiene, per ragioni di mera opportunità, che non si debba applicare la pena e ogni altra conseguenza penale (misura di sicurezza)".
25. P. Giannino, op. cit.
26. V. Patanè, L'irrilevanza del fatto nel processo minorile, in Esperienze di giustizia minorile, n. 3, 1992.
27. Battistacci ritiene che l'irrilevanza del fatto possa essere ritenuta una causa di non punibilità o una ipotesi di mancanza di condizione di procedibilità, cfr. G. Battistacci Il nuovo processo penale a carico di imputati minorenni, in Le nuove disposizioni sul processo penale. Atti del convegno di Perugia 14-15 aprile 1988, Cedam, 1989.
28. F. Palomba, op. cit.
29. Nella sua nuova formulazione l'articolo 27 non prevede più la possibilità di ricorrere in Cassazione avverso la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, possibilità che era invece prevista nella formulazione originaria. Viene anche aggiunto il quarto comma che stabilisce che nell'udienza preliminare, nel giudizio direttissimo e nel giudizio immediato il giudice pronuncia d'ufficio la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto.
30. M. Colamussi, op. cit.
31. Relazione ministeriale al testo definitivo del D.P.R. 448 del 1988, pag. 221.
32. Sentenza n. 250 del 1991.
33. M. Colamussi, op. cit.
34. M. Nunziata, La sentenza di 'non luogo a procedere per irrilevanza del fatto' nel processo penale minorile: considerazioni critiche, in Critica penale, gennaio-giugno 1997.
35. Di parere opposto è la Relazione al testo definitivo del D.P.R. 448/88, secondo cui "il meccanismo processuale prescelto non incide sulla fattispecie sostanziale del reato (e cioè sui suoi elementi costitutivi o sulle condizioni di punibilità), ma si limita a consentire l'anticipata conclusione del processo con una pronuncia fondata sulla valutazione comparativa degli effetti positivi e negativi dello svolgimento del normale iter processuale, in considerazione delle concrete caratteristiche del fatto e della personalità del minorenne imputato".
36. M. Colamussi, op. cit.
37. M. Colamussi, op. cit.
38. Foro ambrosiano, 1999, 200.
39. Sent. 11 aprile 1995, Foro it. 1996, II, 450.
40. Cass. sent. n. 1208 del 1995.
41. V. Patanè, op. cit.
42. Cfr. Colamussi, op. cit., la quale osserva che se il legislatore avesse voluto orientarsi in questo senso, avrebbe potuto farlo con un esplicito richiamo.
43. F. Palomba, op. cit.
44. P. Giannino, op. cit.
45. F. Palomba, op. cit.
46. sent. cit.
47. sent. cit.
48. M. Colamussi, op. cit.
49. C. Losana, sub art. 27 c.p.p.m., in Esperienze di Giustizia minorile, 1989.
50. In questo senso cfr. Palomba, Colamussi, Giannino, Losana, Pepino.
51. L. Pepino, Misure cautelari e giudice per le indagini preliminari nel nuovo processo penale minorile, in F. Occhiogrosso (a cura di), op. cit.
52. P. Giannino, op. cit.
53. v. sent. n. 46 del 1978.
54. La formulazione precedente dell'articolo 27, stabilendo che "il giudice provvede con sentenza", non specificava se la decisione dovesse avvenire o meno a seguito di una udienza camerale.
55. F. Palomba, op. cit.
56. P. Giannino, op. cit.
57. G. Magno, in F. Occhiogrosso (a cura di), op. cit.
58. Con questa finalità il legislatore ha introdotto questo istituto anche nel sistema penale ordinario con il D.L.vo n. 274 del 2000 recante "Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace", escludendo la condanna in presenza della particolare tenuità del fatto.
59. R. Ricciotti, op. cit.
60. M. Nunziata, op. cit.
61. L'autore sembra trascurare che il principio rieducativo è un principio di rango costituzionale, in quanto sancito dall'articolo 27 della Costituzione.
62. M. Colamussi, op. cit.
63. F. Occhiogrosso, Il processo nella prospettiva dei nuovi diritti, in F Occhiogrosso (a cura di), op. cit.
64. F. Rettura, Note sulle nuove formule indulgenziali nel processo di appello, F Occhiogrosso (a cura di), op. cit.
65. Ministero della Giustizia - Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile, Rapporto sulla criminalità minorile, Anni 1996-1998.
66. G. Giostra (a cura di), Il processo penale minorile, Giuffrè, Milano, 2001.
67. La Relazione al testo definitivo del D.P.R. 448 del 1988 riferendosi agli articoli 28 e 29 dichiara esplicitamente che "le due norme si richiamano all'istituto della cosiddetta probation processuale, da tempo noto e vantaggiosamente applicato in molti ordinamenti".
68. G. Di Gennaro, Aspetti teorici e pratici del probation, in Quaderni di criminologia clinica, 1970, 3.
69. Il probation si caratterizza, infatti, per una procedura largamente discrezionale e amministrativa.
70. F. Palomba, op. cit.
71. Per la nozione di causa estintiva del reato v. cap.2.1.
72. Già il testo dell'articolo 24 bis del progetto definitivo del decreto del 1988 prevedeva espressamente che l'esito positivo della prova agisse quale causa estintiva del reato. Inoltre la Relazione al testo definitivo fa notare la natura di causa estintiva del reato dell'esito positivo della prova.
73. F. Palomba, op. cit.
74. C. Losana, op. cit.
75. Cassazione Sezione I, 23/3/1990.
76. M. Colamussi, op. cit., cita il Tribunale per i minorenni di Bologna e quello di Bari.
77. M. Colamussi, op. cit.
78. Anche la Corte di Cassazione, nella sent. n. 5399 del 1990 sostiene che la maturità sia uno dei presupposti imprescindibili dell'istituto.
79. F. Palomba, op. cit.
80. Cass. sent. n. 10962 del 1999.
81. Cass. sent. n. 3213 del 1998.
82. Cass. sent. n. 1600 del 1997.
83. M. Colamussi, op. cit.
84. Ministero della Giustizia - Dipartimento Giustizia Minorile, La sospensione del processo e messa alla prova, Anni 1999, 2000, 2001, Analisi statistica
85. G. La Greca, op. cit.
86. Le attività elencate hanno costituito le principali prescrizioni risultanti dalla prassi applicativa riferita al 2001, come emerge dall'analisi statistica relativa alla sospensione del processo e messa alla prova per l'anno 2001, condotta dal Dipartimento Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia.
87. A. C. Baldry, Concilazione nell'ambito della giustizia penale minorile, in Critica penale, gennaio-giugno 1997.
88. C. Scivoletto, Dopo dieci anni la probation minorile verso la conciliazione-riparazione?, in Minori Giustizia, 2, 1999.
89. F. Palomba, op. cit.
90. C. Scivoletto, op. cit.
91. Ministero della Giustizia, Dipartimento Giustizia Minorile, La sospensione del processo e messa alla prova, Anno 1998, Analisi statistica
92. I dati risultanti da tale monitoraggio sono stati pubblicati nella già citata analisi statistica sulla messa alla prova riferita al 1999, 2000 e 2001, elaborata dal Dipartimento Giustizia Minorile.
93. C. Scivoletto, op. cit.
94. C. Scivoletto, op. cit.
95. A. Mestitz, M. Colamussi, op. cit.
96. F. Occhiogrosso, Anche per i minorenni è necessaria una 'Nuova resistenza', in Minori Giustizia, 4/1992, 1/1993.
97. A. Mestitz, A. Cocchini, A. Nicolì, Organizzazione e funzionamento dei tribunali per i minorenni. Analisi di un caso Working Papers IRSIG-CNR, 6, Lo Scarabeo, Bologna, 1996.
98. G. La Greca, op. cit.
99. G. La Greca, op. cit.
100. Consiglio Superiore della Magistratura, Parere sul progetto preliminare di riforma del processo penale minorile.
101. M. Cavallo, I comportamenti fuori controllo, in Minori Giustizia, 3, 2000.
102. Cass. sent. n. 722 del 1990.
103. M. Colamussi, A. Mestitz, Messa alla prova e restorative justice, in Minori Giustizia, 2, 2000.
104. A questo rilievo fanno eccezione gli omicidi commessi dai minori nell'ambito della criminalità organizzata, per i quali non viene applicata la messa alla prova.
105. Nei singoli casi possono essersi avute più imputazioni.
106. C. Scivoletto, op. cit.
107. Lo studio degli esiti delle prove non si riferisce al 2001, in quanto lo studio del Dipartimento Giustizia Minorile (op. cit.) è stato condotto quando le prove disposte in tale anno non erano concluse.
108. F. Palomba, op. cit.
109. C. Scivoletto, op. cit.
110. P. Giannino, op. cit.
111. F. Occhiogrosso, op. cit.
112. U. Gatti, A. Verde, Il sistema della giustizia minorile alla riconquista dei territori perduti: osservazioni sulla riforma della procedura penale minorile, in P. Pazè (a cura di), I minori e il carcere, UNICOPLI, Milano, 1989.
113. T. Bandini, U. Gatti, Il controllo sociale dei giovani, in G. Ponti (a cura di), Giovani, responsabilità e giustizia, Giuffrè, Milano, 1985.
114. F. Palomba, op. cit.
115. N. Giordani, L'abuso del concetto di personalità nella devianza minorile: la messa alla prova quale occasione da non sprecare, in Minori Giustizia, 1, 2000.
116. E. Roli, Riflessioni critiche in margine alla nuova procedura, in E. Lo Giudice (a cura di), La delinquenza giovanile e il nuovo processo penale per i minori. Atti del convegno di Paola, 28-29-30 Aprile 1989, Giuffrè, 1990.
117. G. Magno, op. cit.
118. G. Scardaccione, F. Merlini, Minori, famiglia, giustizia. L'esperienza della messa alla prova nel processo penale minorile, Unicopli, Milano, 1996.
119. Minorenni, è in arrivo un codice più severo, Il sole 24 ore, 2/3/2002.
120. N. Giordani, L'abuso del concetto di personalità nella devianza minorile: la messa alla prova quale occasione da non sprecare, in Minori Giustizia, 1, 2000.
121. Per es. questo accade a Firenze, cfr. infra cap. 3.
122. F. Palomba, op. cit.
123. M. D'Urso, Alcune riflessioni in tema di procedimento penale a carico di 'minori nomadi', Diritto & Diritti.
124. M. D'Urso, op. cit.
125. G. Calcagno osserva che nelle aree geografiche in cui i nomadi sono stati collocati in campi attrezzati, dotati di servizi vari e controllati, la delinquenza minorile è stata grandemente ridotta. G. Calcagno, Il trattamento penale dei minori nomadi e dei minori extracomunitari, in Minori Giustizia, 3, 1999.
126. C. Scivoletto, "Per i minori stranieri solo accoglienza in carcere", in "Minori Giustizia", 1, 2000.
127. M. Cavallo, Ragazzi senza, Bruno Mondadori, 2002.
128. D.P.R. 215/1998, emanato in attuazione della l. 40/1998 (Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).
129. D.P.R. 215/1998.
130. In particolare in questo senso ricordiamo la teoria dei conflitti culturali (Sellin: 1938), in F. Mantovani, Il problema della criminalità, Cedam, 1998.
131. M. Emiliano, La lotta repressiva alla mafia attraverso l'educazione alla legalità tra limiti di bilancio e finanziamenti strutturali dell'Unione Europea, in Minori Giustizia, 2, 2000.
132. M. Cavallo, op. cit.
133. A. Mestitz, M. Colamussi, Messa alla prova e restorative justice, in Minori Giustizia, 2, 2000.
134. M. Cavallo, op. cit.
135. D. Novara, Bullismo a scuola: istruzioni per l'uso, in Minori Giustizia, 2, 2000.
136. F. Occhiogrosso, Scuola, bulli e ragazzi della mafia, in Minori Giustizia, 2, 2000.
137. Nelle relazioni dei Procuratori della Repubblica per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2001 emerge proprio l'aumento dei reati compiuti da minori provenienti da contesti socio-economici privilegiati, che pongono in essere soprattutto reati contro la persona commessi in gruppo.
138. Dei 5000 alunni delle scuole medie e elementari intervistati, il 41,6% degli alunni delle elementari e il 26,4% di quelli delle medie aveva subito prepotenze dai compagni di classe e il 42% delle vittime alle elmentari e il 20,7% alle medie avevano subito angherie di tipo fisico, come calci e pugni. A. Fonzi (a cura di), Il bullismo in Italia, Giunti, Firenze, 1997.
139. C. Rubinacci, Come la scuola italiana può combattere il bullismo, in Minori Giustizia, 2, 2000.
140. F. Occhiogrosso, op. cit.
141. C. Rubinacci, op. cit.