ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Conclusioni

Federica Pratelli, 2001

In astratto ogni paese occidentale che si trova a dover gestire il fenomeno dei minori stranieri non accompagnati può individuare diverse soluzioni, essenzialmente riconducibili a tre differenti politiche: la prima è basata sulla convinzione che il rientro nella famiglia di origine sia la soluzione migliore per tutti i minori stranieri. In Italia lo strumento attraverso il quale è possibile attuare tale scelta è rappresentato dal rimpatrio assistito. Il rimpatrio è un provvedimento adottato quando se ne ravvisi l'opportunità e la necessità, nell'interesse del minore, a seguito di una valutazione specifica del caso in esame. Inoltre l'esecuzione di un provvedimento di rimpatrio presuppone una preventiva indagine circa la situazione cui il minore andrà incontro, quando verrà ricondotto nel suo paese d'origine. Mentre l'adulto espulso è semplicemente rinviato nel suo paese d'origine, disinteressandosi di quale situazione incontrerà in quel paese (salvo il caso di rischio di persecuzioni), il minore può essere rimpatriato solo attraverso garanzie procedurali e sostanziali.

La seconda posizione è basata, invece, sulla convinzione che la soluzione migliore per i minori non accompagnati sia quella di accoglierli nella maniera più adeguata possibile. Si tratta di una posizione di 'incorporazione', in quanto tende ad accogliere il ragazzo, e prescinde da altri fattori. È un punto di vista che rispetta il progetto migratorio del minore, cercando di supportarlo con interventi sociali ad hoc. Lo scopo è quello di favorire le aspettative dei diretti interessati ed aiutarli ad attivare il processo di inserimento socioeconomico e culturale.

Nel nostro paese questa politica è adottata solo in parte, con la concessione ai minori stranieri del permesso di soggiorno per minore età, convertibile, in alcune circostanze in permesso per affidamento. Tale scelta sembra emergere dalla recente circolare del Ministero dell'interno del 9 aprile 2001. In essa si prevede che il permesso per minore età possa essere convertito, su richiesta dei Servizi Sociali competenti in permesso di soggiorno per affidamento, nei casi di minori affidati ai sensi dell'art. 2 della L. 184/83, permesso che consente di lavorare, e che soprattutto può essere, al raggiungimento della maggiore età convertito in un nuovo titolo di soggiorno. Questa scelta di accoglienza mira ad evitare che il minore viva ogni suo percorso di inserimento scolastico, formativo o lavorativo in Italia come un periodo transitorio in attesa dell'espulsione.

La terza è una posizione intermedia rispetto alle altre due. Trova fondamento sulle differenti esigenze che hanno i minori e sulla valutazione ponderata di ciascun caso. Questa scelta pone al centro dell'attenzione il minore sia nel caso desideri il ritorno nel paese d'origine, sia nel caso in cui voglia restare e rendere concreto il suo progetto di immigrazione. In Italia quest'ultima politica sembra emergere in maniera caotica, soprattutto data la contraddizione delle diverse discipline normative in merito, e l'introduzione di nuovi organismi che risultano sovrapposti a quelli già esistenti.

Come abbiamo visto, quindi la questione del trattamento dei minori stranieri non accompagnati è complicata da affrontare dal punto di vista normativo. Infatti, nonostante l'entrata in vigore della L. 40/98, definita al momento dell'approvazione 'normativa organica' in materia di immigrazione, la materia dei minori stranieri non accompagnati è considerata in alcuni studi 'quasi intrattabile' (1). Tale difficoltà è data dalla 'coesistenza nell'ordinamento giuridico di molteplici disposizioni, disorganiche ed in parte contrastanti tra loro, che danno luogo ad enormi difficoltà di orientamento, e conseguentemente a prassi giudiziarie disparate' (2).

Da alcuni anni arrivano in Italia minori stranieri non accompagnati dai genitori. Questi ragazzi irregolarmente presenti sul territorio italiano non richiedono asilo o protezione umanitaria e spesso provengono da zone in cui non hanno alcuna prospettiva di istruzione, di formazione e di lavoro. In molti casi sono gli stessi genitori a suggerire al minore di immigrare per contribuire a sostenere la famiglia rimasta nel paese d'origine.

In relazione a questa situazione, il nostro ordinamento prevede il divieto di espulsione del minore straniero, ex art. 19, comma 2 lett. a) del T.u. 286/98, ma su tale disposizione, a causa del d.lgs. 113/99, sono sorti molti dubbi interpretativi. Tale decreto legislativo ha infatti introdotto delle norme correttive al T.u., con particolare riferimento ai poteri del Comitato per i minori stranieri, di cui all'art. 33. Quest'organo ha visto così ampliare i propri compiti, non più solo legati ai programmi solidaristici di accoglienza temporanea di minori stranieri, ma inerenti anche all'assistenza dei minori stranieri non accompagnati ed alla possibilità di rimpatriarli.

La ratio che ispira le rilevanti innovazioni introdotte con il d.lgs. 113/99 è dettata dall'esigenza di colmare una lacuna in materia di minori non accompagnati presente nella legislazione minorile. Tale vuoto deriva dalla sfasatura fra una legislazione creata per la protezione di minorenni italiani abbandonati e un fenomeno nuovo: l'immigrazione di minorenni stranieri senza famiglia, ma non in stato di abbandono. Da qui l'intenzione di creare un organo 'libero' di agire senza seguire una procedura rigida o troppo dettagliata, con la possibilità di avvalersi della collaborazione dell'autorità di pubblica sicurezza e delle amministrazioni locali. Tutto questo per arrivare a decisioni rapide, tecniche, in grado di garantire soluzioni tempestive ed indolori ad un fenomeno rilevante come quello dei minori non accompagnati.

Se l'obiettivo in sé può essere in astratto condivisibile, 'il difetto d'origine di questa impostazione è probabilmente quello di ritenere possibile lo svolgimento di un'attività meramente tecnica, politicamente e socialmente neutrale, [...] in una materia invece così delicata e pregna di ramificazioni e risvolti politici e giuridici, penali, amministrativi e sociali, come quella dei minori stranieri' (3). Il Comitato appare come un organismo dalle competenze incerte e spesso sovrapposte ad altre già esistenti, con procedure poco precise.

Concentrando nell'ambito amministrativo le attività di accertamento dello status di minore non accompagnato, il procedimento deliberativo e l'esecuzione del rimpatrio assistito, si ottiene da un lato l'aggiramento delle garanzie procedurali che sono proprie degli organi giudiziari minorili competenti, dall'altro di fatto si subordina l'interesse del minore, in quanto straniero, ad altri interessi, che sembrano premere maggiormente allo stato. Il pericolo, come evidenzia ad esempio Lorenzo Miazzi (4), è che tale Comitato sia una sorta di 'mostro inerme', con estesi poteri, senza alcun tipo di controllo sulla sua attività.

In tale ambito una proposta potrebbe essere la suddivisione delle competenze in materia di minori immigrati che attribuisca al Tribunale per i Minori, organo in generale depositario della loro tutela, il potere di disporre il rimpatrio assistito, e al Comitato per i minori stranieri una competenza istruttoria prima e poi esecutiva ed amministrativa. Quindi nell'ambito del rimpatrio il Comitato potrebbe limitarsi a gestire la fase dell'acquisizione delle informazioni sul caso e quella del rientro con la collaborazione del Servizio Sociale Internazionale.

Con il d.lgs. 113/99 il governo ha voluto indicare che il divieto di espulsione previsto dal T.u. non esclude di per sé l'ipotesi del rimpatrio del minore. Il rimpatrio è, secondo la legge, istituto che pone in primo piano il superiore interesse del minore e si differenzia dall'espulsione in quanto è realizzato con garanzie procedurali e sostanziali (il consenso del minore al rientro, la volontà dei genitori a riavere con sé il figlio, indagini familiari nel paese d'origine). Questo istituto diversamente dall'espulsione non dovrebbe ridursi ad un mero atto di coazione, ma consistere in aiuto al reinserimento sociale nel paese d'origine assistito.

Il legislatore distingue questi due istituti: il problema che emerge è se realmente queste differenze siano sostanziali o meno. È stato proprio questo uno degli obiettivi del mio studio: verificare se concretamente il rimpatrio assistito sia assimilabile all'espulsione e in quale misura tale istituto sia paragonabile ad un'espulsione mascherata.

Ho tentato di dare una risposta a questo quesito, consultando i verbali del Comitato per i minori stranieri nel primo anno di lavoro (2000) e, come ho già detto, è apparso un quadro caotico e poco chiaro della sua attività. Sono stati rimpatriati quindici minori, e fra questi due non avevano espresso parere favorevole; in questi due casi è ancora legittimo parlare di rimpatrio assistito, realizzato nel superiore interesse del minore, o sarebbe opportuno definire questi due provvedimenti espulsioni?

Nelle ipotesi suddette manca la volontà del minore al rientro nel paese d'origine e la natura del provvedimento appare soprattutto coattiva. Del resto la normativa, come disposto dall'art. 7, comma 2 del D.P.C.M. 535/99, prevede che prima del rimpatrio il minore sia "sentito", e quindi lascia molta discrezionalità agli organi competenti. Finora il Comitato ha interpretato questa norma limitandosi ad assumere informazioni dal minore, senza valutare le possibilità di permanenza in Italia nel caso di volontà in questo senso. L'impressione è che il Comitato consideri vincolante la volontà del minore solo nel caso in cui sia orientata al rientro.

L'analisi svolta evidenzia l'attuale incertezza del confine fra rimpatrio assistito ed espulsione. D'altra parte la discrezionalità della legge alimenta il pericolo che, nonostante il divieto di espulsione, il rimpatrio assistito possa divenire uno strumento per equilibrare il numero annuale di ingressi di stranieri stabilito dal governo italiano.

Sebbene l'esiguità dei casi affrontati possa solo far intravedere un orientamento, l'atteggiamento tenuto finora dal Comitato, come emerge anche dalle interviste svolte, avallerebbe tali perplessità. A questo punto, se il fine reale del rimpatrio non è di perseguire l'interesse del minore, bensì di 'dare un segnale', non saremmo forse di fronte ad una sorta di avvertimento per scoraggiare l'immigrazione clandestina? La realizzazione del rimpatrio in questi termini non sarebbe definibile come un'espulsione mascherata? Questa interpretazione contrasta peraltro con l'art. 33, comma 2 del T.u. 286/98, che affida al Comitato una funzione di tutela dei diritti dei minori stranieri: in molti casi è evidente che una forma di tutela per il minore potrebbe essere il suo inserimento nel nostro paese.

Se l'orientamento secondo il quale il fine del rimpatrio non è il perseguimento del 'superiore interesse del minore' si consolidasse, sarebbe contestabile non solo dal punto di vista sociale, ma anche illegittimo giuridicamente, in quanto violerebbe la Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo. Tale Convenzione, ratificata e resa esecutiva dall'Italia con la L. 176/91, stabilisce che tutte le azioni e le decisioni riguardanti i minori (italiani e stranieri) devono tenere in preminente considerazione il 'superiore interesse del minore', cioè tali scelte devono fondarsi sulla valutazione di ciò che è meglio per il minore stesso. Il principio del 'superiore interesse del minore' dovrebbe prevalere sulle considerazioni relative al controllo dell'immigrazione clandestina: al contrario una parte della dottrina (5) ritiene che ciò non avvenga. La normativa in esame, in particolare il d.lgs. 113/99, dal punto di vista sostanziale appare subordinare l'interesse del minore in quanto tale, nonostante le formali dichiarazioni di volerlo tutelare, all'esigenza di tutela dell'ordine pubblico rispetto allo straniero clandestino o irregolare, tutela che si ottiene mediante l'allontanamento del minore dal territorio dello stato.

Una tutela circoscritta al periodo della minore età perde gran parte del suo significato. Le prospettive per una persona sono un elemento fondamentale: in questo senso la normativa italiana è criticabile. Infatti essa prevede a favore del minore straniero un permesso di soggiorno per minore età, senza però dare una continuità temporale a questo istituto. L'unica possibilità di una regolarizzazione, prevista dalla circolare del Ministero dell'interno del 9 aprile 2001, a seguito del permesso di soggiorno per minore età deriva, solo in alcuni casi, da un successivo permesso per affidamento. Non si può ignorare che la consapevolezza di un permesso temporaneo condiziona la vita del minore: se questi sa che al compimento del diciottesimo anno di età perderà il permesso di soggiorno e sarà espulso, ogni suo percorso di inserimento scolastico, formativo, lavorativo in Italia perderà significato, diventando una sorta di limbo in attesa dell'espulsione. È probabile anzi che molti minori si allontaneranno dai percorsi di emersione ed inserimento e preferiranno restare nella clandestinità, con il rischio di essere coinvolti in attività criminose.

In conclusione è auspicabile un nuova disciplina per la complessa materia dei minori non accompagnati che faccia chiarezza su alcuni aspetti problematici. È necessaria un'applicazione senza ambiguità del principio per cui il rimpatrio deve essere disposto unicamente nell'interesse del minore e non come strumento di controllo dell'immigrazione clandestina. È poi essenziale chiarire i criteri e le procedure con cui deve essere deciso se il minore debba restare in Italia o debba essere rimpatriato, ed in particolare stabilire in maniera esplicita che nella valutazione dell'interesse del minore si deve tenere conto della volontà del minore e della sua famiglia. Opportuna sarebbe anche la definizione di tempi rapidi per la procedura, in modo che il minore non resti per mesi 'sospeso' senza sapere quale sarà il suo destino.

In generale ritengo che dovrebbero essere resi più ampi e più efficienti i canali di ingresso regolare in Italia, sia per lavoro (prevedendo, per i minori in età lavorativa, la possibilità di ingresso per lavoro), sia per il ricongiungimento familiare (ad esempio prevedendo la possibilità di ricongiungersi a parenti entro il quarto grado, come fratelli o zii), sia per motivi umanitari, in modo da ridurre progressivamente gli ingressi clandestini dei minori e favorendo invece gli ingressi regolari.

Note

1. G. Turri, I bambini stranieri non accompagnati, in Minorigiustizia, n. 3, 1999, Franco Angeli, Milano, 1999, p. 18.

2. Ibidem.

3. Vedi L. Miazzi, Il rimpatrio assistito del minore straniero: ancora un caso di diritto speciale?, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, n. 2, 2000, FrancoAngeli, Milano, 2000, p. 47.

4. Vedi Il Manifesto, 29 novembre 2000.

5. Vedi L. Miazzi, G. Turri, W. Citti, D. Consoli, P. Bonetti, ASGI- Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione, Rete d'urgenza contro il razzismo, Servizio Migranti Caritas, Gruppo Abele.