ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Cap. II
Il Codice Rocco e il mutamento politico-istituzionale

Sarah Musio, 1999

1. Introduzione

Le pagine che seguono abbracciano un periodo di tempo estremamente breve ma di grande rilievo per comprendere gli orientamenti e gli sviluppi del processo di riforma del codice penale.

Si tratta degli anni che vanno dal 1944 al 1948, anni la cui rilevanza storica e politico-istituzionale fa da sfondo alle prime riforme nel settore penale secondo direttive e ispirazioni che non mancheranno di condizionare successivamente il dibattito riformatore sul Codice Rocco.

Sono anni 'fondanti' da ogni punto di vista: se da un lato vengono a costituirsi le basi del nuovo ordinamento democratico con l'approvazione della Carta fondamentale, dall'altro, in campo penalistico, si affacciano i primi rilevanti interventi riformatori in un tentativo di adeguamento ai principi democratici che sarebbero stati proclamati dì lì a poco nel processo costituente.

Il profilo politico-istituzionale e quello penalistico costituiscono essenziali punti di riferimento del nostro discorso: due poli che per lungo tempo hanno stentato ad 'attrarsi', due piani distinti che hanno viaggiato a lungo in parallelo, concedendosi tardivamente ad influenze reciproche. Solitamente si ritiene che radicali mutamenti politico-istituzionali si accompagnino ad incisivi interventi riformatori nella codificazione penale. Ragioni storiche ma anche culturali consentono di poter dire che i mutamenti socio-politici si traducono generalmente in radicali modifiche dell'assetto di valori contenuto nei codici penali. (1) Questo intuitivo postulato non ha però trovato conferma nella storia d'Italia: la caduta del fascismo e l'avvento del nuovo ordinamento democratico non hanno portato a mutamenti radicali nel Codice Rocco come si sarebbe potuto pensare ed auspicare. Le cause di questo fenomeno sono da ricercarsi in primo luogo nell'atteggiamento assunto da buona parte della dottrina negli anni '40 nei riguardi di ogni ipotesi di riforma al codice.

Il tecnicismo giuridico, come si vedrà, non rappresentò soltanto un indirizzo penalistico che poté facilmente prestarsi alle strumentalizzazioni del regime fascista. Proprio per il tipo di diritto penale che quell'indirizzo suggeriva, un diritto cioè acritico, estraneo ad ogni valutazione storica e politica, esso costituì una vera e propria ipoteca al processo di riforma e un comodo 'lasciapassare' del Codice Rocco nell'ordinamento democratico. A ciò si aggiunse il tenore del dibattito politico in materia penale, il quale vide le posizioni dei moderati prevalere facilmente sulle deboli impostazioni dogmatiche della sinistra.

Il tecnicismo giuridico non solo costituì fin dall'inizio un condizionamento, un ostacolo alle riforme negli anni che videro il nuovo ordinamento costituzionale prendere forma, ma anche il principale responsabile delle difficoltà che il processo riformatore incontrerà negli anni successivi. Ciò si potrà meglio comprendere considerando il fatto che parlare di tecnicismo giuridico significa parlare dell'atteggiamento della dottrina penalistica nei confronti del sistema penale, significa cioè guardare ai suoi orientamenti dogmatici, alla cultura giuridica di generazioni di giuristi cresciuti e formatisi alla scuola penalistica di Rocco, Manzini e Massari. (2)

La storia di questi ultimi decenni insegna come, prima di ogni modifica di diritto positivo, il mutamento debba avvenire in primo luogo nella cultura penalistica, nel modo in cui cioé la dottrina concepisce il fenomeno giuridico. Il progressivo, anche se lento, allontanamento da un approccio tecnicistico al diritto penale ha consentito di guardare sempre più alla Costituzione non solo come alla norma fondamentale con la quale il Codice penale avrebbe dovuto imparare a convivere, ma alla fonte primaria da cui evincere i principi informatori e le linee guida del processo di riforma penale.

Oltre al tecnicismo giuridico altri fattori hanno sicuramente ostacolato la riforma del Codice Rocco dal dopoguerra in poi, ma essendo propri di momenti storico-politici diversi da quelli qui in oggetto ad essi si farà riferimento in un altro capitolo.

2. Le Novelle del 1944 e il clima riformatore del dopoguerra

Nell'estate del 1944, quando era ancora in corso la lotta di liberazione dal nazifascismo, il Governo dell'Italia Libera, guidato da Ivanoe Bonomi, realizzò i primi, importanti interventi riformatori sul codice Rocco. (3)

Infatti, con il Dlt 14 settembre 1944 n.288 furono introdotte:

  1. le attenuanti generiche, vale a dire circostanze che non sono previste dalla legge e che spetta al giudice di individuare, rendendo la condanna il più possibile adeguata alle specificità della vicenda concreta;
  2. l'exceptio veritatis, con la quale si riconosce all'imputato il diritto di provare la verità del fatto attribuito nei reati di ingiuria e diffamazione, allo scopo di riconoscere al privato il diritto di critica e una più generale libertà di espressione;
  3. a scriminante della reazione legittima del cittadino agli atti arbitrari del pubblico ufficiale. (4)

Di grande rilievo, il Dlt 10 agosto 1944, con il quale venne abolita la pena di morte per i delitti comuni, anticipando un orientamento di politica penale che verrà solennemente sancito nell'art. 27 della costituzione del '48. (5)

Come si può notare, molti di questi istituti non costituivano una novità nel panorama della legislazione penalistica italiana, ma trovavano un importante precedente storico nella codificazione del 1889. Per dare il segno delle istanze riformatrici che venivano emergendo all'indomani della caduta del fascismo, il sopra citato Dlt del 14 settembre, all'articolo 1 presentava una formula che accompagnerà molte delle riforme degli anni successivi: "Fino a quando non siano pubblicati i nuovi codici penale e di procedura penale sono apportate le modificazioni di cui agli articoli seguenti al codice penale ed al codice di procedura penale in vigore". (6) Appariva dunque scontata l'ipotesi di una riforma dei codici penali da inquadrarsi in un più generale contesto di rifondazione dell'impianto statuale che, una volta finita la guerra, avrebbe condotto a riscrivere la norma fondamentale dell'ordinamento giuridico.

In attesa quindi di ben più incisivi mutamenti, l'approccio alle riforme in materia penale si presentava quanto mai settoriale, frammentario. Oggi, conoscendo ciò che avvenne successivamente, o per meglio dire, ciò che non avvenne, può dirsi che fu proprio da quel momento che si inaugurò un intervento riformatore di tipo novellistico nella perdurante attesa di una riforma radicale da rinviarsi a momenti politico-istituzionali più opportuni.

Lo strumento novellistico è stato in tempi relativamente recenti oggetto di riflessioni. Si è sostenuto che l'unità stilistica e il respiro organico di un codice, legati ad un'altra epoca e ad un'altra tavola di valori risulterebbero sconvolti dalla continua immissione di nuclei di norme ispirati da principi diversi (7). Gli istituti introdotti nel '44 avrebbero avuto così un duro impatto con l'impianto autoritario del codice Rocco, con la conseguenza che la loro carica innovativa e la loro logica sarebbe andata smorzandosi nella solida struttura del codice. Per queste ragioni le novelle dovrebbero avere come indispensabile presupposto una certa omogeneità ideologica rispetto all'impianto codicistico sul quale intervengono. (8)

Nello stesso agosto del '44, il Consiglio dei ministri approvò una delega al Governo per provvedere alla formazione di un codice penale e di procedura che fossero "...pienamente aderenti alle tradizioni giuridiche del popolo italiano" (9). Il 2 gennaio del 1945 fu costituita dal guardasigilli Tupini una commissione per la revisione del codice penale nella quale si avvicendarono affermati giuristi. Basti pensare a nomi come Bettiol, Petrocelli, Saja, Vassalli, Pannain, Delogu, Leone. La commissione avrebbe dovuto scegliere tra prendere come base il Codice Zanardelli, aggiornandolo, oppure avere come punto di riferimento il codice vigente modificandolo alla luce dei principi fondamentali della democrazia. Come si vedrà, fu scelta la seconda strada, escludendo completamente l'ipotesi di redigere ex-novo il codice penale.

Le ragioni di questo orientamento sono da ricercarsi in seno alla stessa commissione: i lavori furono segnati da notevole discontinuità (frequenti furono le dimissioni dei commissari) e da divergenze difficilmente sanabili tra i sostenitori di un ritorno al codice del 1889 e coloro che volevano limitarsi ad alcune modifiche del Codice Rocco. La dottrina e la magistratura che, come tradizione, attraverso delle consultazioni, poterono esprimere la loro opinione, erano orientate decisamente per modifiche adeguatrici al codice fascista; gli ordini forensi, al contrario, auspicavano un ritorno al codice previgente. (10)

Le diversità di posizioni tra politica e dottrina non mancavano: c'era un differente approccio riformatore, un diverso modo di guardare al Codice Rocco, testimoniato dalle stesse parole pronunciate dal guardasigilli Tupini in occasione del Dlt del '44, quello abolitivo della pena di morte:

Il codice penale è ispirato a concezioni nettamente autoritarie che si riflettono sia nella parte generale che nella parte speciale, attraverso uno sproporzionato inasprimento delle pene e attraverso la creazione di nuove forme di reati, le quali, sotto la parvenza di una più efficace tutela dello Stato, tendevano in realtà a rassodare, col presidio di gravissime sanzioni penali, le maggiori istituzioni del regime (11).

Vivaci furono le reazioni della dottrina a questo discorso, la quale su riviste giuridiche e quotidiani dell'epoca non mancò di avvalersi del tradizionale 'armamentario' dogmatico del tecnicismo giuridico, nell'intento di difendere il codice Rocco e soprattutto i giuristi del '30, artefici della sua elaborazione.

Tra i politici, la necessità della riforma era sostenuta sia dai democristiani che dai comunisti e, in generale, da tutta la sinistra. Proprio questa unità condusse ad approvare la relazione di Tupini sopra citata ma, le diversità di motivazioni teoriche e di scelte politiche concrete apparirono subito evidenti, soprattutto in seguito al duro attacco che giuristi appartenenti politicamente all'area moderata sferrarono contro le dichiarazioni del guardasigilli. (12) Fu proprio in seguito agli attacchi di giuristi come Pannain e Leone che la riforma subì una battuta d'arresto: secondo Piasenza ciò avvenne non perché la loro opposizione fosse insuperabile, quanto perché essa fornì la copertura tecnica ad opposizioni politiche di fondo presenti anche tra i riformatori. (13)

3. L'opposizione della dottrina alla riforma del codice Rocco

Già nel 1941, il penalista Biagio Petrocelli, sulla "Rivista italiana di diritto penale", rispondendo a uno scritto di Giuseppe Maggiore (14), si era impegnato nella difesa dei valori del tecnicismo giuridico, "gettando le basi dell'operazione di salvataggio del codice penale che verrà compiuta dopo la Liberazione dalla cultura penale accademica" (15). Criticando la scuola nazista di Kiel e il ricorso alla interpretazione analogica, Petrocelli difese sia la separazione tra diritto e politica che il carattere scientifico della dogmatica penalistica. Egli poté sostenere, da un lato, che il principio di legalità non era rimasto nel Codice Rocco una mera sopravvivenza degli ideali illuministici e liberali ma che, al contrario, esso aveva costituito una delle basi più solide del regime autoritario. Dall'altro, poté sottolineare:

La dommatica, fondata su basi nettamente logiche, riducendosi... a un atteggiamento di pacata disciplina.. meglio si conviene al clima dello Stato autoritario, in quanto...si limita ad elaborare il diritto qual è, non cercando argomenti contro il suo valore né basi per la sua giustificazione. (16)

Secondo Neppi Modona da queste parole emergerebbe chiaramente la saldatura tra Stato autoritario e funzione ideologico-politica del tecnicismo giuridico. La sovrapposizione tra autoritarismo e tecnicismo costituirebbe la migliore conferma della sostanziale continuità della legislazione penale tra pre-fascismo, fascismo e ordinamento repubblicano, dimostrando, ancora una volta, quanto sia stato essenziale il ruolo del tecnicismo giuridico nel troncare nel periodo antecedente e successivo al fascismo ogni dibattito sugli aspetti politici e sociali del diritto penale. (17)

La separazione tra diritto e politica, cara al tecnicismo di Rocco, veniva, già nelle parole di Petrocelli, a svolgere una funzione garantista rispetto a quei giuristi italiani che pur non condividendo il regime "...avevano tentato di arginare la fascistizzazione del diritto usando il tecnicismo come autorevole riparo" (18).

Vi sarebbe un filo logico (19) che lega la prolusione di Arturo Rocco del 1910, le aspre critiche di Manzini nei confronti della filosofia e della politica del diritto contenuti nel suo manuale del 1920 e quanto affermato da Petrocelli nel 1941 sulla dogmatica giuridica la quale, a suo giudizio, doveva rimanere "al di sopra e al di fuori dell'oggetto della sua indagine". (20)

La politica, come si è avuto modo di vedere, nel 1944-45 spingeva per interventi di riforma al Codice Rocco, penale e processuale. Tra chi era orientato ad un ritorno al codice Zanardelli (come lo stesso guardasigilli Tupini) e chi riteneva si dovesse attendere che la liberazione del paese fosse completata per poter affrontare le riforme più serenamente, forte era comunque l'idea di sbarazzarsi di una legislazione così indissolubilmente legata ad un periodo nefasto nella storia del paese, di cui ancora si pagavano tragiche conseguenze.

L'atteggiamento assunto nei confronti del Codice Rocco suscitò una vivace reazione corporativa da parte dei giuristi che sulle pagine di alcune riviste si impegnarono in una strenua difesa dell'impianto codicistico del '30, affermando la piena estraneità del codice alle posizioni ideologiche del fascismo. In particolare, gli interventi della dottrina trovarono spazio nella rivista "L'archivio penale" fondata in quegli anni da Remo Pannain. Questi, in un articolo, partendo dalle parole di Tupini che avevano accompagnato l'abolizione della pena di morte, criticava la tendenza a voler vedere nei codici del '30 una manifestazione politica. Al contrario, quei codici non sarebbero stati un prodotto politico, ma un'opera scientifica, tecnica, dovuta alla capacità e alla preparazione della scienza giuridica che aveva raccolto istanze riformatrici preesistenti al 1930. (21)

Con Pannain venivano così delineandosi quei punti nodali su cui buona parte della dottrina del periodo elaborò la strenua difesa del Codice Rocco: preclusione metodologica alla valutazione "politica" del codice, da compiersi, invece, esclusivamente dal punto di vista tecnico; valutazione complessivamente positiva della legislazione penale del '30 dal momento che buona parte dei suoi istituti avevano resistito alle influenze politiche del regime; necessità di riforme parziali che eliminassero quei pochi casi in cui questo fosse avvenuto; delega ai giuristi di un'eventuale riforma complessiva tenuto conto del corretto comportamento da loro tenuto durante il ventennio, periodo in cui si erano distinti per la capacità di difendere e mantenere i tradizionali principi giuridici liberali. (22)

Questi argomenti trovarono ancora più esplicita manifestazione in un articolo di Tullio Delogu, pubblicato nel '45 sulla medesima rivista, dal titolo L'elemento politico nel codice penale. Se il diritto non è altro che "...un insieme di norme destinate a raggiungere un complesso di finalità, richieste dalle idee politiche, economiche e morali vigenti in un determinato momento storico", sosteneva Delogu, la dimensione giuridica e quella politico-economica non possono quindi essere oggetto di un medesimo giudizio, in quanto gli scopi da raggiungere attengono a valutazioni di ordine socio-economico, mentre le norme, che rappresentano la via per raggiungerli, devono essere oggetto di una valutazione tecnica che spetta al giurista effettuare.

Al contrario, secondo Delogu, si sarebbe assistito ad un orientamento in base al quale si tendeva a rovesciare sul sistema giuridico ogni malcontento di ordine politico ed economico attribuito al fascismo, senza che nessuno si sia domandato "...se in fondo, questo sistema giuridico non potesse entro certi limiti considerarsi indipendente dal sistema politico e non presentasse pregi meritevoli di essere rispettati". (23) Nel campo del diritto penale, proseguiva Delogu, il legame con le istituzioni politiche sarebbe quanto mai stretto; la natura del regime politico inciderebbe sostanzialmente nell'attribuire rilevanza ai singoli reati, ma ciò non consentirebbe di ritenere attendibile l'affermazione in base alla quale vi sarebbe stato un indissolubile legame, una interdipendenza tra fascismo e codice penale.

Il fascismo non fu, secondo Delogu, la causa unica della riforma penale ma, piuttosto, l'occasione, in quanto molte delle istanze riformatrici erano emerse già all'indomani della entrata in vigore del codice Zanardelli. Queste istanze trovarono sulla loro strada un corpo di giuristi in grado di elaborarle e di tradurle in istituti giuridici contraddistinti da molti elementi di continuità rispetto alla tradizione liberale. Delogu, come faranno poi altri autori, nel suo scritto enucleava uno per uno principi e istituti che non solo sarebbero stati estranei ad ogni influenza del regime ma che dimostravano in tutta la loro evidenza quanto fosse stato diverso il ruolo della dottrina in Italia e in Germania.

Se la scuola di Kiel, aveva fatto scempio di molti dei canoni fondamentali del diritto penale posti a presidio della libertà del cittadino e della certezza del diritto, la dottrina italiana aveva invece impedito che i nuovi principi politici sopraffacessero la tradizione penalistica. Proprio la principale accusa mossa solitamente al tecnicismo giuridico, quella cioé di risolvere il diritto col diritto, trascurando l'elemento politico e quello sociale, aveva invece garantito al codice Rocco una patente di liberalità. (24)

Ecco quindi che in quel codice venivano a trovare conferma il principio di legalità e l'irretroattività della legge penale, optando, inoltre, per un diritto penale fondato sulla responsabilità morale, un diritto penale che si fonda sull'evento esterno e sull'intenzione, trascurando del tutto pensieri e stati d'animo.

Delogu respingeva decisamente l'accusa, spesso avanzata al codice, di smoderato ossequio al principio di autorità che avrebbe caratterizzato molti dei suoi articoli. A questo proposito, prima di archiviare l'analisi sulla parte generale del Codice Rocco come parte sostanzialmente indenne dalle influenze fasciste, l'autore dà spazio a qualche riflessione sul delitto politico, riconoscendo che "la politica ha soverchiato il diritto". (25)

Nella parte speciale apparirebbero più numerosi i casi in cui "..la tutela offerta dalla sanzione penale è stata sfruttata per garantire principi ed istituti propri della politica del fascismo...Ma sui punti più importanti del codice l'influsso politico non ha giocato" (26). Il tutto si ridurrebbe quindi ad una questione di quantità, consentendo a Delogu di poter concludere che il codice nelle sue linee fondamentali non contrasta con un regime di libertà e che le infiltrazioni politiche attengono più che altro ad elementi di dettaglio o a singole figure di reato. Scrive Delogu:

Si può procedere ad una enucleazione rispettando la parte buona e vitale del codice, la quale, dopo l'operazione può benissimo continuare ad espletare il ruolo di legge fondamentale del nuovo Stato... in attesa che raggiuntosi un definitivo assetto politico sociale ed economico si possa procedere ad una serena e meditata riforma (27).

Negli interventi di Giovanni Leone apparsi tra il settembre del '44 e il gennaio dell'anno seguente su "La Giustizia", è ancora più netto l'intento di stigmatizzare il ruolo avuto dalla dottrina italiana nel resistere decisamente ai tentativi di asservimento della scienza giuridica e della legge ai principi politici. Ciò sarebbe apparso tanto più evidente, a giudizio del noto penalista, se solo si fosse dato uno sguardo alle commissioni nominate per la riforma dei codici dal guardasigilli Tupini: accanto ad un ristretto numero di insigni giuristi erano stati chiamati "alla dur opera di riforma uomini di nessuna e mediocre capacità tecnica" (28).

Nell'articolo La scienza giuridica penale nell'ultimo ventennio egli mise in luce le nette differenze tra la dottrina penalistica tedesca e quella italiana. Quest'ultima era rimasta fermamente legata a principi-cardine come quello di legalità, di irretroattività e di tassatività della legge penale, cui si aggiungevano la concezione del reato come violazione di un bene o di un interesse giuridico e la concezione della funzione punitiva come rapporto giuridico penale. Si doveva quindi all'indipendenza dei penalisti degli anni Venti e Trenta se il sistema penale italiano non ebbe a subire infiltrazioni politiche. (29)

Questi temi troveranno maggior vigore in un successivo articolo (30). Così come aveva fatto Delogu nell'articolo sopra citato, anche Leone individua principi e istituti che senza soluzione di continuità sarebbero passati dal sistema liberale del Codice Zanardelli al Codice Rocco, tanto da poter concludere che "la legislazione penale fascista è rimasta nel fondo liberale".

Accanto a questi principi si sarebbero potute individuare alcune fattispecie, come il delitto politico o i delitti contro la personalità dello Stato, che risentivano maggiormente dell'influenza fascista. Secondo Leone occorreva introdurre la scriminante della legittima difesa agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, scriminante già prevista da una recente disposizione ma che, a suo giudizio, attraverso alcuni espedienti applicativi di fatto già era stata riportata in vita. Sarebbe stata inoltre necessaria una risistemazione dei delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio, nonché un rinvigorimento delle pene per i delitti contro l'integrità e la sanità della stirpe, delitti cui erano sottesi valori che non costituivano, secondo Leone, monopolio esclusivo dello Stato fascista. (31)

La politica criminale del codice Rocco sarebbe nata da un esperimento di conciliazione tra Scuola classica e Scuola positiva di cui fu artefice l'indirizzo tecnico-giuridico,

...un indirizzo metodologico che valse non solo a paralizzare lo sbandamento della scienza giuridico-penale verso l'antropologia o la sociologia, bensì a convogliare le accese tendenze innovatrici della Scuola positiva verso una visione giuridica del problema, provocando così la fioritura della fase giuridica della scuola positiva... (32)

Secondo il giudizio di Leone, a questo esperimento di originale conciliazione si sarebbero potuti apportare dei ritocchi, ma non introdurre delle innovazioni sostanziali e di larga estensione. (33)

Anche la posizione del Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione, Enrico Casati, così come quella di Piero Calamandrei non si discostarono molto da quella di Delogu, Pannain e Leone. Anche per loro il Codice Rocco non era, se non per alcuni aspetti, un codice fascista. Sarebbe stato quindi sufficiente intervenire su questi ultimi, mantenendo una legislazione penale che per il suo alto livello tecnico ben avrebbe potuto soddisfare le esigenze del nascente regime democratico. (34)

Uno studioso come Piasenza invita a fare qualche importante riflessione sulle posizioni assunte da questa dottrina. In esse si troverebbero le matrici per comprendere il successo dell'impostazione moderata di tutta la riforma della legislazione, nonché l'egemonia teorica che questa impostazione è riuscita ad assicurarsi. (35)

Colpisce di questa impostazione il modo con il quale viene ricostruito il passato. Al contesto storico-politico nel quale vide luce la codificazione Rocco non si vuole guardare, facendo di un codice penale un vuoto contenitore adatto a tutte le stagioni. Il metodo tenico-giuridico si contraddistingue proprio per questo suo porsi fuori da ogni valutazione storica e politica, ma questo, secondo Piasenza, sarebbe "..più il risultato che la causa di questo a priori logico.., di questa eliminazione dall'universo dei valori della interpretazione e della stessa conoscenza, dei conflitti sociali, cioé, appunto, della storia" (36).

I giuristi cui abbiamo fatto riferimento tenderebbero ad avere un'interpretazione nominalistica della realtà. La legge, ad esempio, diventa un testo normativo che promana dalla realtà e non una forma di intervento sui rapporti sociali, non la manifestazione di un'ideologia. Anche lo Stato liberale sarebbe uno Stato "democratico" in quanto le sue sono istituzioni rappresentative e non certo istituzioni di uno stato di notabili. Si hanno così molte semplificazioni, una idea di storia dove i conflitti sono assenti, dove si ha una fissità dei dati storici ('lo' Stato liberale, 'il' fascismo, 'la' legge). (37)

Lo schema interpretativo che accomuna questi autori (codice Rocco non autoritario se non per alcuni aspetti perché elaborato da giuristi liberali) poggerebbe su due mistificazioni, su due valutazioni non infrequenti nella coscienza storico-politica del tempo: l'equazione tra Stato liberale e Stato democratico tout court; la valutazione tecnica degli istituti di parte generale del codice non sulla base della loro applicazione e relazione con la parte speciale, ma sulla loro 'ipostatizzazione', vale a dire una assolutizzazione degli istituti giuridici al di fuori di ogni contesto storico e istituzionale (38).

Ciò risulta evidente a proposito del principio di legalità, principio sul quale Leone e Delogu si sono impegnati a dimostrarne l'immutata portata nel passaggio tra il codice liberale e il Codice Rocco, sulla base di un mero confronto formale tra le due formule. Veniva trascurata del tutto un'analisi del diverso significato sostanziale che il termine 'legge' aveva avuto sia nell'ambito dello Stato liberale che nel sistema parlamentare degli anni Trenta.

Un'altra tesi, asserisce Piasenza, emergerebbe in modo particolare da quegli scritti: quella della indipendenza della legislazione dalla organizzazione istituzionale dello Stato. Nelle parole di Delogu si comprende come la funzionalità di un codice o di una legislazione si misura nella sua capacità di garantire una politica criminale di lungo periodo. Il modificarsi troppo rapido della legislazione in seguito a mutamenti di tipo politico-istituzionale potrebbe rivelarne più la debolezza a garantire la continuità che la capacità di intervento. Proprio il prevalere dell'orientamento contrario alla riforma dei codici penali sarà, secondo Piasenza, la migliore dimostrazione di questa tesi. (39)

L'approccio formalistico al diritto di cui si è detto, non consentì quindi di rendersi conto che il fascismo era riuscito a raccogliere e ad unificare tutti gli spunti autoritari presenti nella tradizione giuridica liberale. Salvando la facciata del sistema, il fascismo aveva proseguito e potenziato quella tecnica di 'svuotamento parallelo' delle istituzioni penali che già aveva contraddistinto il periodo liberale. Si toglieva cioé da una parte quello che veniva dato dall'altra, creando "..una sorta di doppio binario normativo per cui i principi e le garanzie affermate in massima vengono sovvertiti e derogati per settori particolari..". (40)

Nel tentativo di sottolineare la compattezza della dottrina italiana e la sua neutralità al regime, si dimenticava l'esistenza di giuristi fascisti, mentre le polemiche che pure erano sorte negli anni Trenta in tema di principio di legalità o di teoria del bene giuridico venivano ridimensionate e trasformate in dispute con la scuola di Kiel. (41)

Stante l'illustre dottrina che lo aveva inaugurato, viste le garanzie di indipendenza scientifica di cui aveva dato prova, il metodo tecnico-giuridico sarebbe dovuto essere il punto di riferimento dei futuri giuristi nella prospettiva di una qualche riforma al codice penale.

Lungi da ogni declino, la scuola tecnico-giuridica trovò ulteriori conferme e nuova linfa vitale in un articolo di Petrocelli apparso nel 1945 sulla rivista "Archivio penale", dal titolo "Forma e sostanza nell'antigiuridicità". Esso costituì la base teorica per i penalisti dei decenni successivi. Alcuni passaggi sono indicativi di quella impostazione dogmatica:

Può avere nel fatto giuridico una qualsiasi rilevanza ciò che la norma non ha preso in considerazione?... Nel fatto giuridico penalmente illecito si può far calcolo di una realtà umana, di una sostanza o materia che il diritto non ha vista, di bisogni e interessi che il diritto non ha valutati o che siano socialmente valutati in modo diverso da come li ha valutati il diritto...? La cosiddetta antigiuridicità materiale, in conclusione non esiste. E che tutto si concentri, ferreamente, nel punto in cui si attua il contrasto con la norma giuridica, appare manifesto dalla irrilevanza... di ogni valutazione del fatto che sia al di là o al di qua della norma: irrilevante (se non fatta propria dal legislatore) una preesistente valutazione sociale; irrilevante una successiva valutazione del giudice: decisiva soltanto la valutazione contenuta nella norma. (42)

Se era stato dunque questo l'atteggiamento della dottrina nei riguardi delle riforme al codice penale, occorre riferirsi, spostandosi sia pure brevemente sul piano politico, alla posizione assunta dalla sinistra sul tema, cioé da chi, nel panorama politico più di ogni altro era incline a liquidare il Codice Rocco come 'fascista' e a volerlo eliminare dall'ordinamento giuridico.

Autori come Piasenza, Neppi Modona, Gallo sono stati concordi nel ritenere che la sinistra non solo non dimostrò un vero interesse al dibattito in corso, ma rivelò ancor più una incapacità tecnica, una impreparazione scientifica sulla quale ebbe gioco facile la dottrina penalistica appartenente per lo più all'area moderata. La lotta fu impari: di fronte al compatto schieramento degli accademici del diritto penale che sapevano sapientemente disquisire sugli aspetti tecnici del Codice Rocco, la sinistra non riuscì ad esprimere proposte traducibili in concrete soluzioni tecniche, non andando oltre una generica denuncia del carattere autoritario e illiberale del codice. (43) Non fu quindi in grado di denunciare l'opera di mistificazione che si nascondeva dietro il tecnicismo giuridico, né seppe individuare gli aspetti autoritari che lo stesso Codice Rocco aveva recepito dalla recedente codificazione, limitandosi ad appoggiare i primi atti del governo Bonomi per un ritorno al codice penale dell'89 e al codice di procedura del '13.

Bisogna dire che la sinistra era abbastanza eterogenea, divisa come era tra le posizioni del Pci, dei socialisti e del Partito d'Azione. Ma ciò che davvero mancò fu una risposta scientifica che facesse da contraltare alle posizioni dogmatiche della dottrina. Gravava su di essa l'impostazione ideologica di stampo marxista che vedeva diritto e giustizia come componenti sovrastrutturali del sistema e per la cui assimilazione si sarebbe dovuto attendere la trasformazione dello Stato. (44)

Così come il socialismo giuridico quarant'anni prima non era riuscito ad avvalersi di idonei strumenti tecnico-dogmatici per fronteggiare le impostazioni del tecnicismo giuridico, nel secondo dopoguerra lo stesso ritardo culturale fece sì che il formalismo giuridico di quel medesimo indirizzo penalistico potesse facilmente travolgere tentativi riformistici contraddistinti più da slogan propagandistici che da elaborazioni dottrinali degne di questo nome. (45)

4. I lavori della commissione Tupini e il progetto del'49

Come accennato in precedenza, i lavori della commissione istituita dal guardasigilli Tupini nel '45 furono contraddistinti da divergenze insanabili e da defezioni eccellenti. Pannain, il più ostile alla riforma, ottenuto lo scopo di evitare un ritorno al codice dell'89 e quindi di preservare il Codice Rocco, diede le dimissioni, per essere poi sostituito da Santoro, Delogu e Leone. Quest'ultimo però non accettò l'incarico.

Nel luglio del '45 la commissione presentò un progetto di riforma della Parte generale: in materia di delitto politico e di estradizione si ritornava sostanzialmente alle disposizioni del Codice Zanardelli. La pena di morte veniva abolita e mitigata la pena dell'ergastolo in un generale orientamento di riduzione dei massimi edittali. Altre modifiche erano tese a rendere più garantistica la scriminante dell'uso legittimo delle armi, e meno "oggettiva" la responsabilità del direttore del giornale. Anche il concorso di reati, così come la disciplina dell'ubriachezza ricordavano le previsioni del Codice Zanardelli. (46)

Fu nel 'febbraio del '49 che il processo di riforma ricevette un impulso decisivo. Per portare più rapidamente a termine il progetto fu nominato un 'comitato esecutivo' che esautorò del tutto i poteri della commissione. Del comitato fecero parte professori universitari come Petrocelli e Vannini, nonché i magistrati di Cassazione Gabrieli e Lattanzi. Le modifiche più significative avanzate per la Parte generale ricalcavano quelle proposte nel progetto preliminare di quattro anni prima.

Tre erano le caratteristiche essenziali: risistemazione metodologica di tutta la Parte generale e, limitatamente della Parte speciale; moderazione nella misura delle pene; eliminazione, come si leggeva nella Relazione che accompagnava il progetto di "ogni sopravvivenza degli orientamenti del passato regime politico."

Non vi era dunque una sovversione delle tradizioni giuridiche ma, si ritrovavano molte delle modificazioni richieste dalla dottrina rispetto agli istituti più compromessi con il regime. (47) Riprendendo l'orientamento del progetto del '45 si eliminava la perseguibilità dei delitti commessi all'estero senza limitazioni; nella disciplina delle circostanze si rovesciavano le ipotesi degli articoli 59 e 60 rendendo sempre valutabili quelle attenuanti anche se erroneamente supposte e sempre da escludersi quelle aggravanti se non esistenti e non conosciute.

La disciplina della ubriachezza subì profonde modifiche: si distingueva tra ubriachezza accidentale e non, modulando diversamente responsabilità e pene a seconda dei casi. Nel concorso di persone si introduceva la rilevanza della partecipazione di secondaria importanza e la responsabilità colposa per reato diverso da quello voluto. Veniva poi riconfermata la legittimità dell'ergastolo, attenuato però nell'esecuzione, mentre la competenza circa l'esecuzione delle pene passava dal Pubblico ministero o dal Ministro al giudice. Si ampliavano i casi in cui sarebbe stato possibile concedere la liberazione condizionale mentre veniva sostituita la figura della tendenza a delinquere con quella della "particolare malvagità". (48)

A queste riforme ormai pacificamente accolte dai penalisti e anzi da essi stessi richieste, si aggiungeva la riforma della rilevanza delle concause nel rapporto di causalità e la nuova disciplina del tentativo in cui veniva dato rilievo agli atti di esecuzione.

Nel complesso l'impianto riformatore appariva piuttosto tradizionale e circoscritto. Una 'risistemazione metodologica' che secondo Piasenza aveva il preciso significato di riproporre un codice contrassegnato da "una pura tecnica legislativa al di fuori di ogni scelta di merito e di valore esterne all'elaborazione dottrinaria". (49)

Nella Parte speciale il progetto prevedeva un titolo del tutto nuovo: Dei delitti contro le libertà costituzionali, suddiviso in otto capi relativi ai delitti del Pubblico ufficiale, alla libertà personale e al domicilio.

Nel capo IV (Delitti contro la libertà religiosa) spariva ogni speciale tutela della religione cattolica. Venivano poi abrogati i delitti di sciopero e serrata, nonché il Titolo X (Delitti contro l'integrità e la sanità della stirpe. Anche il Titolo I (Delitti contro la personalità dello Stato) vedeva abrogati gli artt. 270-274, 280-282.

Secondo Piasenza, esaminando a fondo i vari titoli, al di là di alcune indiscutibili innovazioni, si scopre che molte delle abrogazioni trovavano un bilanciamento significativo in altre disposizioni nuove o rielaborate. (50)

Alle università, agli ordini forensi, alla magistratura venne distribuito il progetto del Libro I, contenente le modifiche alla Parte generale del codice. (51) Il progetto fu investito da numerose critiche: si riteneva che il comitato avesse ecceduto rispetto al mandato ricevuto, vale a dire quello di rendere il codice vigente più rispondente al mutato clima politico e non quello di dare vita ad un codice integralmente nuovo nel suo impianto generale. Anche le attenuazioni di pena, così come il reato commesso in stato di ubriachezza o le norme sostitutive di quelle sul delinquente abituale furono criticate. Atteggiamento favorevole incontrarono, invece, le proposte di riforma relative al concorso di reati, l'estensione del controllo giudiziario nell'esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza, nonché l'indirizzo rivolto ad improntare il sistema penale ai criteri della effettiva responsabilità morale.

Le critiche non furono tutte dello stesso tenore. Giacomo Delitala, ad esempio, affermò su una rivista: "Non si vede un valido motivo per redigere un nuovo codice se il nuovo codice. ..è ancora quello vecchio". A suo giudizio si sarebbe potuto introdurre quelle modifiche con una novella come già si era fatto nel '44. Più in generale, il progetto non avrebbe tenuto in nessun conto le istanze riformatrici reiteratamente suggerite da gran parte della dottrina. (52)

Sulle pagine della medesima rivista Leone non si dimostrò particolarmente critico, apprezzando l'eliminazione di ogni istituto del codice incompatibile con lo spirito democratico della Costituzione, l'attenuazione della misura delle pene, e il fatto di aver mantenuto, quale fondamento del diritto penale, il principio della responsabilità morale. (53)

Di ben altro tenore fu la posizione assunta dal penalista Grispigni, il quale arrivò a parlare di "regresso di un secolo nella legislazione penale". In un articolo che portava questo titolo egli lamentava che si fossero alterati quasi tutti gli istituti che avevano reso il Codice Rocco uno dei codici più moderni, preso a modello da altre legislazioni. Con quel progetto, al contrario, si sarebbe regrediti, a sistemi arcaici, ormai da tempo abbandonati. (54)

Lungi dal limitare la riforma a quegli aspetti del codice più anacronistici rispetto al nascente sistema democratico, il comitato, aveva avanzato profonde riforme di carattere tecnico-scientifico che non erano state neanche ventilate in seno alla Commissione. Secondo Grispigni con le riforme avanzate nel progetto non si sarebbe distrutto solo il codice penale vigente, ma si sarebbero rinnegati anche i principi liberali che avevano ispirato il Codice Zanardelli. A suo giudizio "le modificazioni proposte hanno avuto lo scopo di legittimare retroattivamente talune arbitrarie interpretazioni date al Codice Rocco" (55).

Sarebbe stato così proposto un codice che rappresenta esclusivamente il punto di vista di pochissimi studiosi, un codice che è del tutto in contrasto con il progresso del diritto penale e con le riforme dell'attuale legislazione straniera. L'invito fu dunque perentorio:"...abbandonare un simile Progetto, il quale non è certo destinato a segnare una bella pagina nella storia del diritto penale italiano" (56).

Il monito trovò facile accoglimento. L'insoddisfazione che il progetto aveva procurato, complice l'instabilità ministeriale del V governo de Gasperi, determinarono il primo di una serie di arresti nel processo di riforma del Codice Rocco. La vicenda rimane comunque emblematica del ruolo determinante che su quel processo ebbero e ancora avranno i giuristi della 'rinnovata' scuola tecnico-giuridica.

5. Il Codice Rocco e il nuovo ordinamento costituzionale

Con l'approvazione della Costituzione repubblicana, cambia necessariamente il modo di porsi del Codice Rocco nell'ambito dell'ordinamento giuridico. La Carta fondamentale viene ad imporsi come 'autorevole interlocutore', come imprescindibile punto di riferimento per la legislazione allora vigente. Inutile dire che sul piano penalistico ciò assumeva un significato tutto particolare perché un codice penale che fino a quel momento aveva avuto pari rilevanza nella gerarchia delle fonti rispetto alla Costituzione, si trovava inevitabilmente a 'dover cedere il passo', di fronte ad un insieme di norme di rilevanza superiore, piegandosi ai principi costituzionali di nuovo conio.

Sono così venuti a coesistere due testi normativi contraddistinti da linguaggi giuridici diversi, appartenenti a contesti storico-politici quanto mai differenti che rendevano il problema della riforma del codice penale difficilmente rinviabile.

In realtà, il problema, oggi pacificamente avvertito, di coniugare una costituzione ricca di principi ed istanze appartenenti ad un sistema democratico, con un codice penale frutto di un regime dalle cui spoglie quello stesso nuovo ordinamento democratico è nato, ha indugiato ad essere percepito come tale per molto tempo.

L'influenza propositiva che le norme costituzionali avrebbero avuto o avrebbero dovuto avere sul sistema penalistico è stata percepita tanto dalla dottrina che dalla giurisprudenza con estremo ritardo. (57)

Non è un caso che un giurista come Bricola nel commentare il II e III comma dell'art. 25 della Costituzione inizi con un monito che soltanto agli occhi di oggi può apparire scontato:

Chi si accinga oggi ad una lettura critica delle norme che la Costituzione italiana dedica al settore penale sostanziale, non deve perdere di vista i nessi che intercorrono tra queste norme e gli articoli in essa contenuti. Una lettura atomistica e frazionata delle medesime ha sempre, infatti, costituito l'asse portante della tendenza a neutralizzare o affievolire la carica innovativa di questo settore della Carta fondamentale (58).

Le parole chiave che in un certo senso sintetizzano l'atteggiamento che la dottrina penalistica ha assunto nei confronti della Costituzione, almeno per i primi vent'anni del secondo dopoguerra, possono dirsi: 'separazione', 'atomismo', 'dicotomia'. Un approccio parcellizzato, settoriale, che si è limitato a considerare come rilevanti solo gli articoli della Costituzione più dichiaratamente penalistici (artt. 25 e 27), escludendo le potenzialità di altri articoli contenuti nella stessa Prima parte della Carta, perché ritenuti di interesse e di competenza esclusiva del costituzionalista.

Ne è seguita quell'orientamento della dottrina orientato a separare in modo netto la dimensione costituzionalistica da quella penalistica, ritenendole aree di conoscenza del diritto tra loro indipendenti che solo in quei sopra citati articoli potevano trovare punti di reciproca interferenza.

Anche in questo atteggiamento ha forse influito l'approccio tecnico-giuridico, dove alla tradizionale estraneità alle problematiche sociali, politiche e storiche, si sono aggiunte chiusure anche nei confronti di un versante giuridico come quello costituzionalista, finendo così per relegare e limitare, ancor più, lo studio del diritto penale nelle pieghe degli articoli del codice penale.

Come si vedrà, la progressiva emancipazione dall'approccio tecnico-giuridico ai problemi penalistici andrà di pari passo con una diversa sensibilità costituzionalistica che verrà emergendo in maniera sempre più netta. (59)

5.1. Gli articoli costituzionali di rilievo penalistico

Come è noto, in seno all'Assemblea costituente (60), la Commissione per la Costituzione (cosiddetta Commissione dei 75), si suddivise, nel luglio del 1946, in tre Sottocommissioni, di cui la prima, presieduta da Tupini si occupò dei "Diritti e doveri dei cittadini". (61) Tra i suoi componenti figuravano, tra gli altri, Basso, Dossetti, Bettiol, Leone, Iotti, La Pira, Moro e Togliatti.

Una volta esauriti, i lavori di questa e delle altre sottocommissioni furono sottoposti ad un'opera di coordinamento, affidata ad un Comitato di redazione, composto da diciotto costituenti. (62) Nella stesura definitiva gli articoli della costituzione a diretta rilevanza penale risultano essere l'articolo 25 e l'articolo 27.

L'articolo 25 prevede al secondo comma:

"Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso".

Vengono così sanciti in un unico articolo i capisaldi del liberalismo penale: principio di legalità, irretroattività della legge penale, principio di tassatività e determinatezza della fattispecie incriminatrice.

Al terzo comma, il principio di legalità è esteso al settore delle misure di sicurezza:

"Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge".

Dopo aver sancito nell'art. 26 il divieto di estradizione per reati politici, l'art. 27 recita al I comma:

"La responsabilità penale è personale". Seguono nel II, III e IV comma, rispettivamente, il principio della presunzione di non colpevolezza, il finalismo rieducativo della pena e l'abolizione della pena di morte.

Chi avesse immaginato di trovare nei lavori preparatori dell'Assemblea costituente dei riferimenti più che casuali al Codice Rocco e all'esigenza di una sua riforma in vista della compiuta definizione dell'ordinamento democratico, sarebbe rimasto quanto mai deluso. I componenti della Sottocommissione non vi accennano mai.

Anche Neppi Modona ha riscontrato questa assenza, questa mancanza di riflessioni che, partendo dalla prospettiva costituzionalistica, finissero con l'includere anche aspetti della codificazione penale, riconoscendo ai principi costituzionali, già in sede costituente, tutta la loro forza propositiva (63). Lo stesso Modona, nonché Ettore Gallo, lamentano, inoltre, il modesto risultato ottenuto dal Costituente con gli artt. 25 e 27.

Secondo Gallo, poche sarebbero le norme in materia penale dotate di una qualche originalità: se solo si escludono quelle del II comma dell'articolo 25, dove non si fanno che riproporre formule già appartenenti alla tradizione illuministico-liberale, l'apporto innovativo si sarebbe limitato alla personalità della responsabilità penale e allo scopo rieducativo della pena. Gallo asserisce che la ragione ultima di questo risultato risiederebbe tanto nella impreparazione tecnica quanto nella estraneità della sinistra a questi temi, dove, differentemente da altri settori della Costituzione, come quello economico e sociale, mancherebbe "...persino il tentativo di delineare un quadro programmatico...di concepire un ruolo promozionale del diritto penale, offrendo indicazioni non soltanto in negativo". (64)

Nel tentativo di trovare conferme circa la lamentata esiguità del numero di disposizioni a rilevanza penale nella Costituzione del '48, si è provveduto ad un confronto con la Grundgesetz tedesca (65) e con la Costituzione gaullista della V Repubblica. In seguito a questa comparazione la critica di Gallo e Modona è apparsa in qualche misura eccessiva.

Nel caso francese, l'impianto presidenzialista di quella Costituzione, se da un lato ha condotto ad una dettagliata disciplina delle funzioni degli organi costituzionali, dall'altro ha affidato la tutela dei principi costituzionali in materia penale alla Dichiarazione dei Diritti del 1789 e al Preambolo della Costituzione del 1946.

Riguardo alla Costituzione tedesca può dirsi che, a fronte di una funzione giurisdizionale disciplinata in modo molto articolato e puntuale, il principio di legalità, di irretroattività della legge penale e di colpevolezza non trovano formule di analogo tenore. Come sottolineato da Bricola, quegli stessi principi che nella Costituzione italiana sono formulati in termini espliciti, nella Grundgesetz si ricavano da principi superiori molto generali che attengono alla dignità dell'uomo e al diritto di svolgere liberamente la sua personalità. (66)

Può quindi rilevarsi come il Costituente italiano abbia conferito alle norme costituzionali in materia penale una 'visibilità' non riscontrabile in altri ordinamenti, anche se, come avverte lo stesso Bricola, non sempre una formulazione esplicita si accompagna ad una chiarezza di contenuti. (67)

5.2 La dottrina e i principi costituzionali in materia penale

Se nel dibattito costituente era mancato ogni riferimento al Codice Rocco e alla eventualità di un suo adeguamento ai principi democratici, il costituente si era comunque preoccupato di ancorare il nuovo ordinamento a ben saldi principi di derivazione liberale che lo preservassero da ogni possibile abuso.

Il dibattito si incentrò per lo più sulla scelta delle parole da impegare, sulle espressioni da inserire nel testo costituzionale, perché la previsione di un termine piuttosto che di un altro si sarebbe tradotta in una adesione o meno agli orientamenti prevalenti della dottrina.

Giuristi come Leone e Bettiol si impegnarono e confrontarono, ad esempio, sul significato da attribuire al termine "fatto commesso" del II c. dell'art. 25 o sul termine "responsabilità" del I c. art. 27, stante le implicazioni che queste espressioni comportavano sul piano interpretativo. (68)

Secondo Alberto Alessandri, che ha curato il commento dell'articolo 27 nell'opera diretta da Branca, la nostra Costituzione sarebbe stata una delle poche ad affrontare il tema della responsabilità penale. Tema che, tuttavia, a suo giudizio, per come è stato affrontato e risolto confermerebbe

...quell'atteggiamento almeno culturale che paventava impegnative prese di posizione della Carta costituzionale sui problemi penalistici, (una) doverosa neutralità che serviva. .(.) a confermare la separatezza "tecnica" del diritto penale da un momento di fondazione democratica. (69)

Nel concludere queste pagine, abbiamo voluto verificare se, nella manualistica penale successiva alla promulgazione della Costituzione, potesse avvertirsi il senso del mutamento politico-istituzionale appena avviato.

Inutile dire che delle rilevanti modificazioni intervenute a livello costituzionale e del significato storico-giuridico che derivava dall'aver esplicitato principi di rilievo penalistico nell'ambito di una Costituzione rigida non è dato percepirne il segno.

Autori come Frosali, Spasari o Nuvolone si limitano a segnalare corrispondenze tra le disposizioni costituzionali in materia penale e i principi già a suo tempo sanciti a livello di codice penale, facendo confronti meramente linguistico-formali. (70)

Il Codice penale e la Costituzione sembrano essere due monadi, due settori distinti, non suscettibili di influenze reciproche. L'approccio tecnico-giuridico di buona parte della dottrina, anche a distanza di alcuni anni dalla conclusione dei lavori dell'Assemblea costituente, terrà lontano dagli studi penalistici non solo la Storia e la Politica, ma anche quella parte del diritto che in quanto 'costituzionale' più di ogni altra aveva in sé una carica propulsiva e innovatrice del sistema giuridico.

Come si vedrà, sarà proprio il riconoscimento della forza propulsiva del dettato costituzionale ad inaugurare, molti anni dopo, un meditato e costruttivo atteggiamento critico nei confronti del Codice Rocco. (71)

Note

1. V. C.E. Paliero, Tecniche di tutela e riforma del codice penale, in Aa.Vv., Valore e principi della codificazione penale, cit., p. 137.

2. Si veda G.N. Modona, Tecnicismo e scelte politiche nella riforma penale, cit., p. 676 e ss.

3. Dopo la liberazione di Roma (4 giugno 1944) ci fu il passaggio di consegne alla guida del governo tra il maresciallo Badoglio e Ivanoe Bonomi, imposto dal Cln a Umberto, il quale, una volta ritiratosi re Vittorio Emanuele III, divenne luogotenente plenipotenziario. Cfr. P. Ginsborg, Storia d'Italia dal dopoguerra ad oggi, vol. I, Einaudi, Torino 1989, p. 66.

4. V. G. Vassalli, Codice penale, cit., p. 276; G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale, parte generale, Zanichelli, Bologna 1997, p. 39.

5. Sottolinea Piasenza come, questo provvedimento escludesse la legislazione penale militare e quella speciale, con conseguenze importanti rispetto alla disciplina che di lì a poco fu stabilita nei confronti di particolari delitti. V.P. Piasenza, Tecnicismo giuridico e continuità dello Stato: il dibattito sulla riforma del codice penale e della legge di pubblica sicurezza, "Politica del diritto", 1979, p. 261.

6. Ivi, p. 293.

7. V. F. Bricola, Considerazioni introduttive, in Il codice Rocco cinquant'anni dopo, cit., p. 16.

8. Ibid.

9. Cit. in G. Vassalli, Codice Penale, cit., p. 277.

10. P. Piasenza, Tecnicismo giuridico e continuità dello Stato, cit., p. 289.

11. Cit., in G.N. Modona, Legislazione penale, cit., p. 601.

12. P.Piasenza, Tecnicismo giuridico e continuità dello Stato, cit., p. 263.

13. Ivi, p. 263.

14. Si tratta dello scritto in cui Maggiore suggeriva una nuova formulazione del principio di legalità che tenesse conto dello spirito della rivoluzione fascista e della volontà del Duce. Su questo v. supra, Cap. I.

15. Così G.N. Modona, Tecnicismo e scelte politiche nella riforma del codice penale, cit., p. 674.

16. B. Petrocelli, Per un indirizzo italiano nella scienza del diritto penale, "Rivista italiana di diritto penale", 1941, p. 3, cit., in G.N. Modona, Tecnicismo e scelte politiche nella riforma del codice penale, cit., p. 674.

17. Ibid.

18. V. E. Gallo, Una politica per la riforma del codice penale, in Il codice Rocco cinquant'anni dopo, cit., p. 55.

19. V.G.N. Modona, Legislazione penale, cit., p. 600.

20. B. Petrocelli, op. cit., p. 26, cit. in G.N. Modona, Legislazione penale, cit., p. 600.

21. R. Pannain, Notizie e spunti sulla riforma dei codici, "Archivio penale", 1945, p.56.

22. Si veda su questi rilievi, P. Piasenza, op cit., p. 264.

23. T. Delogu, L'elemento politico nel codice penale, "Archivio penale", 1945, p. 161.

24. Ivi, p.195.

25. Ibid.

26. T. Delogu, op. cit., p. 190.

27. T. Delogu, op. cit., p. 193.

28. G. Leone, Ancora sulla riforma della legislazione, "La Giustizia", 22 gennaio 1945, cit. in R. Pannain, Notizie e spunti sulla riforma dei codici, cit., p. 58.

29. G. Leone, La scienza giuridica penale nell'ultimo ventennio, "Archivio penale", 1945, p.23 e ss.

30. G. Leone, Contro la riforma del codice penale, "Archivio penale", 1945, p. 276 e ss.

31. Ivi, p. 278-279.

32. Ivi, p. 280.

33. Ivi, p. 282.

34. Calamandrei sosteneva l'opportunità di procedere alla riforma costituzionale prima che a quella dei codici. V. P. Calamandrei, Sulla riforma dei codici, la truffa delle etichette, "La Nuova Europa", 4 marzo 1945, cit., in R.Pannain, op. cit., p. 59. E. Casati, Considerazioni e proposte sulla riforma dei codici penali, "Archivio penale", 1945, p. 43.

35. P. Piasenza, op. cit., p. 268.

36. Ibid.

37. Su questo ancora P. Piasenza, op. cit., p. 269.

38. Ivi, p. 270.

39. Ivi, p. 277.

40. Così T. Padovani, La sopravvivenza del codice Rocco nell'"età della della decodificazione", in Il codice Rocco cinquant'anni dopo, cit., p. 91.

41. P. Piasenza, op. cit., p. 279.

42. B. Petrocelli, Forma e sostanza nell'antigiuridicità, "Archivio penale", 1945, cit. in P. Piasenza, op. cit., p. 281.

43. V. G.N. Modona, op. cit., p. 676.

44. V. E. Gallo, Una politica per la riforma del codice penale, cit., p. 56.

45. Si veda P. Piasenza, op. cit., p. 286 e ss.

46. Ivi, p. 292.

47. Ivi, p. 309.

48. Su questi punti ancora, P. Piasenza, op. cit., p. 310.

49. Così P. Piasenza, op. cit., p. 311.

50. Così, l'abrogato Titolo X veniva sostanzialmente mantenuto trasferendo alcune ipotesi delittuose tra le contravvenzioni o prevedendo nuove ipotesi di lesioni personali. Nel Titolo dedicato ai delitti contro le libertà costituzionali non mancherebbero, secondo Piasenza, molte norme contraddittorie. V.P. Piasenza, op. cit., p. 312.

51. La Parte speciale fu distribuita per un parere solo in un secondo tempo e su di essa poterono pronunciarsi soltanto alcune corti. V. G. Vassalli, Codice penale, cit., p. 278.

52. G. Delitala, Sul progetto preliminare del Primo Libro del codice penale, "Rivista italiana di diritto penale", 1950, p. 160 e ss.

53. G. Leone, Sulla riforma del Primo Libro del codice penale, "Rivista italiana di diritto penale", 1950, p.182.

54. F. Grispigni, Regresso di un secolo nella legislazione penale, "La scuola positiva", 1949, p. 330 e ss.

55. L'autore, a questo proposito, faceva un ampio riferimento al tema della responsabilità morale, cui si fa menzione nel progetto di riforma per fondare la funzione della pena, ma di cui Grispigni nega l'esistenza nel Codice Rocco, ispirato, come emergerebbe anche dalla relazione al Re, da un'idea di pena intesa come difesa sociale. F. Grispigni, op. cit., p. 334.

56. F. Grispigni, op. cit., p. 363.

Per l'autorevolezza dei commentatori, si accenna brevemente, alle posizioni assunte sulla medesima rivista da Francesco Carnelutti e da Francesco Antolisei. Entrambi hanno avuto opinioni critiche, ma decisamente più moderate rispetto a quelle di Grispigni. Il progetto avrebbe dovuto essere migliorato, tenuto conto dei progressi che gli studi penalistici avevano fatto nel ventennio successivo al '30 rispetto ad un'opera già di per sé avanzata come il Codice Rocco. Nel progetto, a detta di Antolisei, i difetti del codice più volte lamentati non sarebbero stati eliminati. Continuavano a permanere un'esagerata teoricità e un eccesso di casistica; bisognava tener maggior conto degli sviluppi penalistici di altri paesi dove la distinzione tra pene e misure di sicurezza era stata soppressa o modificata, e la funzione della pena era ormai intesa non più soltanto come retributiva, ma ispirata al principio dell'emenda del reo. Per queste ed altre ragioni il Progetto poteva apparire, in confronto allo stesso Codice Rocco, "un indiscutibile e marcato regresso". F. Antolisei, Il progetto preliminare del codice penale, "La scienza positiva", p. 2377 e ss; F. Carnelutti, Relazione alla facoltà giuridica di Roma, sul progetto di riforma del I Libro del codice penale, "La scienza positiva", p. 364 e ss.

57. V. M. Siniscalco, I principi del sistema penale e la Costituzione, "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1976, p. 1121 e ss.

58. V. F. Bricola, Il II e III comma dell'art. 25, in Branca (a cura di) Commentario alla Costituzione, vol.. III, cit., p. 227.

59. Si veda su questo G. Flora, Il rilievo dei principi costituzionali nei manuali di diritto penale, in Evoluzione e riforma del diritto e della procedura penale 1945-1990, Studi in onore di G.Vassalli, vol. I, Giuffrè, Milano 1991, p. 315 e ss.

60. L'Assemblea Costituente si insediò il 25 giugno 1946. Il compito di redigere un progetto base fu affidato il successivo 19 luglio alla Commissione per la Costituzione, composta da 75 membri scelti con criterio proporzionale fra i membri dell'Assemblea.

61. Delle altre due sottocommissioni una, presieduta da Terracini si occupò dell'"Ordinamento costituzionale della Repubblica", l'altra, presieduta da Ghidini, dei "Diritti e doveri economico sociali". C. Fusaro, Nota introduttiva al testo della Costituzione, in G. Amato, A. Barbera (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Il Mulino, Bologna 1984, p. 979.

62. Tra questi, Mortati, Calamandrei, Perassi, Fanfani, Moro, Tosato, Leone, Pietro Rossi. V.C. Fusaro, Nota introduttiva al testo della Costituzione, cit., p. 978.

63. V. G.N. Modona, Tecnicismo e scelte politiche, cit., p. 677.

64. E. Gallo, Una politica per la riforma del codice penale, cit., p. 56.

65. V. P.G. Lucifredi, Appunti di diritto costituzionale comparato, Il sistema tedesco, Giuffrè, Milano 1992.

66. V. F. Bricola, Rapporti tra dommatica e politica criminale, "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1988, p. 13.

67. Si veda, ad esempio, il diverso significato attribuito alla "rieducazione" del III comma dell'art. 27 Cost.; F. Bricola, op. cit., p. 13.

68. Si pensi alle diverse posizioni in dottrina circa l'esclusione attraverso il principio della responsabilità personale oltre che della responsabilità per fatto altrui della responsabilità oggettiva. Cfr. V. Crisafulli, L. Paladin, Commentario breve alla Costituzione, Cedam, Padova 1990, p. 192 e ss.

69. A. Alessandri, Art. 27, in Commentario alla Costituzione, cit., vol.IV, p. 5 e ss.

70. Si veda Frosali, Sistema penale italiano, Torino 1958, p 113 e ss; P. Nuvolone, Le leggi penali e la Costituzione, 1953; Spasari, Diritto penale e Costituzione, 1966.

71. Lo stesso Nuvolone, in uno scritto di pochi anni successivo a quello del '53, affronterà in termini nuovi il rapporto tra Costituzione e diritto penale. Si veda P. Nuvolone, Norme penali e principi costituzionali, "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1956.