ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Dopo Lampedusa: la nuova sfida dell'asilo allo spazio europeo e mediterraneo

Alessandra Sciurba, 2014

1) L'orizzonte dei diritti umani e il diritto d'asilo

Parlare oggi della “nuova” sfida che il diritto d'asilo rappresenterebbe per la gestione dello spazio europeo e mediterraneo potrebbe sembrare in qualche modo surreale. L'asilo è infatti un istituto della civiltà occidentale che ha radici lontanissime nel tempo: se ne riscontrano tracce già tra gli antichi egizi, ed esso è citato spesso nella letteratura greca classica, anche se con accezione diversa da quella attuale. Per secoli, specie in epoca medievale, la protezione dell'asilo è stata avocata e concessa soprattutto con riferimento alla sacralità di determinati luoghi. In epoca moderna, con il dischiudersi dell'orizzonte nuovo dei diritti soggettivi essa inizia a fondarsi su un principio di inviolabilità della persona fino a venire sancita, dopo la seconda guerra mondiale, come uno dei diritti umani fondamentali e, forse, come il diritto fondamentale paradigmatico dell'essere umano in quanto tale.

In quegli anni post-totalitari Hannah Arendt spiegava al mondo fino a che punto le persone private di uno Stato che attribuisca loro dei diritti si rivelino sprovviste dell'originario «diritto ad avere diritti», dal momento in cui l'essere umano “in quanto tale” è privo di ogni tutela che non sia quella fragile e difficilmente azionabile dei diritti umani (1).

Fin dal sorgere dello Stato Nazione, la cittadinanza rimane infatti il principale criterio di attribuzione di diritti, e a chi non ne possiede alcuna, perché apolide, perché profugo, non resta altro di sé stesso che “la nuda vita”, l'astratta nudità dell'essere umano. I diritti umani, insomma, esisterebbero solo nel momento in cui vengono tutelati e, in questo senso, la loro esistenza dipende dalle istituzioni che devono metterli in atto (e che sono di norma le principali responsabili della loro violazione). Le Costituzioni novecentesche, che volevano sottrarre un nucleo di diritti fondamentali al capriccio delle scelte politiche contingenti, non sono riuscite, è evidente, a sopperire a questo difetto strutturale.

Eppure, i diritti umani, nonostante questo e altri limiti rilevanti, tra cui la loro forte connessione con uno specifico paradigma liberale che presuppone un altrettanto preciso modello antropologico (2), possano ancora, se declinati in un certo modo e non in un altro, rimanere - e anzi diventare con più forza - un orizzonte di lotta culturale, politica e sociale, ancor prima che giuridica; un orizzonte di eccedenza rispetto all'ordine lineare che sarebbe il presupposto della loro possibilità di attivazione. I diritti umani, come cercherò di argomentare alla fine di queste pagine, possono essere utilizzati come arma da rivolgere contro la loro stessa strumentalizzazione, e a tale scopo il diritto d'asilo rappresenta oggi la sfida per eccellenza.

Prima di incedere in questo tipo di riflessioni può essere utile ripercorrere brevemente la storia recente dell'asilo politico in relazione a quella delle migrazioni verso l'Europa e dei tentativi istituzionali di controllarle e orientarle.

2) Il diritto d'asilo nelle politiche migratorie europee dal dopoguerra ad oggi

Ai tempi della sua costituzionalizzazione negli ordinamenti della maggior parte dei paesi europei, la figura dell'asilante era stata normativamente costruita avendo in mente soprattutto quella dell'intellettuale in fuga dall'ex Unione sovietica nel corso della cosiddetta “guerra fredda”. Non a caso, la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato prevedeva una precisa riserva geografica oltre che temporale (secondo la quale potevano essere prese in considerazione solo le richieste d'asilo riguardanti fatti antecedenti al primo gennaio 1951 e avvenuti in Europa) che i singoli stati Ue hanno nel tempo abolito aderendo allo specifico Protocollo Adottato a New York nel 1967 (3).

Alle origini della regolamentazione nazionale e internazionale del diritto d'asilo, insomma, i governi occidentali dei paesi ad economia più avanzata non avevano fatto i conti con la possibilità che questo diritto sarebbe potuto diventare azionabile per diversi milioni di persone nel mondo. Cosa che è accaduta di fatto con la nuova “era delle migrazioni” (4) per come si è caratterizzata negli ultimi decenni.

Proprio nel momento della sua universalizzazione, quindi, l'asilo, incorporato prevalentemente all'interno delle politiche migratorie, è diventato per i governi dei paesi cosiddetti di immigrazione (inclusi quelli la cui transizione migratoria da paese di emigrazione a paese di immigrazione è avvenuta più di recente, come negli Stati dell'Europa mediterranea) un orpello di cui cercare di disfarsi nella sostanza, pur non potendo formalmente cancellarlo dagli ordinamenti giuridici nazionali e internazionali.

Tenendo a mente questo presupposto, vediamo brevemente, rispetto all'Unione europea, come si è costruito negli ultimi 15 anni il cosiddetto Sistema europeo comune di asilo, delineato per la prima volta nel Consiglio di Tampere del 1999, e costituito dall'interazione tra iprincipali testi di legge che regolano l'istituto della protezione internazionale all'interno dell'UE. Come si legge nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 2000, all'interno dell'Unione europea “il diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, e a norma del trattato che istituisce la comunità europea”. Già dal 1997, del resto, con il Trattato di Amsterdam, l'immigrazione e l'asilo erano diventate materie del Terzo pilastro UE, quello della “legislazione intergovernativa”.

Negli anni che hanno seguito l'11 settembre del 2001, però, tutte le iniziative prese in questi ambiti hanno risentito fortemente della continua evocazione del pericolo terroristico e sono apparse quindi ispirate dalla volontà di irrigidire i criteri di accesso e permanenza legale di tutti i migranti sul suolo europeo, piuttosto che dalla necessità di tutelare al meglio i diritti umani.

Nel 2004, quando il Programma dell'Aia ha definito lo “Spazio di libertà, sicurezza e giustizia” dell'UE, da gestire attraverso un piano di azione pluriennale, il fenomeno dell'immigrazione illegale è stato trattato insieme a quelli del terrorismo e della criminalità organizzata. Questa associazione di ambiti ha avuto conseguenze evidenti anche sull'effettiva tutela dell'asilo politico visto che per i richiedenti protezione internazionale non esiste alcun canale privilegiato di ingresso e che essi, come vedremo a breve, sono invece solitamente le principali vittime delle politiche anti-immigratorie messe in atto dai governi.

Nel 2005 si è chiusa così la prima fase di costruzione del Sistema Comune dopo l'adozione del Regolamento Ce n.343/2003, che ha sostituito la Convenzione di Dublino del 1990 nel determinare lo stato competente per l'esame della richiesta d'asilo di un migrante (5), e l'adozione di quattro direttive CE espressamente dedicate alla regolamentazione della protezione internazionale (6). Tali direttive hanno avuto degli effetti positivi nel predisporre degli standard minimi di tutela e accoglienza dei richiedenti asilo politico, contribuendo a limare, ad esempio, alcuni aspetti particolarmente repressivi di leggi nazionali come la Bossi Fini in Italia, quali il trattenimento generalizzato dei richiedenti asilo, il mancato effetto sospensivo del ricorso contro il diniego, o l'impossibilità del ricongiungimento familiare per i titolari di protezione sussidiaria. Esse hanno lasciato, tuttavia, ampi margini di manovra ai governi nazionali, con la conseguenza di perpetrare un regime d'asilo a geometria variabile in termini di tutela effettiva da parte dei diversi Stati membri.

La seconda fase della costruzione del sistema comune di asilo è segnata dal passaggio, nel 2007, dal Trattato di Amsterdam al Trattato di Lisbona. Nel nuovo TUE (Trattato sull'Unione europea) viene riconosciuto valore giuridico vincolante alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e l'UE aderisce formalmente alla CEDU. Parallelamente, nel TFUE (Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea), si pongono tra le dirette competenze UE gli interventi relativi agli ambiti di “frontiere, asilo e immigrazione” (capo II). Il Trattato di Lisbona aumenta anche, rispetto ad essi, i poteri della Corte di Giustizia dell'Unione europea.

Dal 2009 il Programma di Stoccolma subentra a quello dell'Aia. Esso contiene un capitolo intitolato “Un'Europa all'insegna della responsabilità, della solidarietà e del partenariato in materia di migrazione e asilo”, in cui viene ribadito l'obiettivo di “stabilire uno spazio comune di protezione e solidarietà basato su una procedura comune in materia d'asilo e su uno status uniforme per coloro che hanno ottenuto la protezione internazionale”. In quest'ottica viene istituito nel 2010 l'Ufficio europeo di sostegno per l'asilo - (Regolamento UE Nº 439/2010), con sede a Malta, al fine di colmare le differenze nell'attuazione del diritto d'asilo tra gli Stati membri, e viene adottata la Direttiva 2011/95/UE, recante norme sull'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta, che ridefinisce le declinazioni europee della protezione internazionale.

Il 2013, infine, è un anno di intensa attività normativa dell'Unione europea in tema di asilo. Vengono licenziate due Direttive, la 2013/33/UE, recante norme relative all'accoglienza dei richiedenti protezione internazionale e la 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, e messa a punto la terza versione della Convenzione di Dublino, ovvero il Regolamento UE N. 604/2013.

Nonostante formalmente queste normative abbiano previsto nel tempo una serie di tutele crescenti rispetto alla condizione dei richiedenti protezione internazionale, la sostanza della gestione dell'asilo in Europa non è mutata negli anni, ed è stata anzi sempre più segnata da un atteggiamento di tipo difensivo da parte dei governi.

La “solidarietà europea” in tema di asilo viene sempre più espressamente declinata e intesa nei termini di un “burden sharing”, della “condivisione di un fardello”, che possa sgravare gli Stati membri da un eccessivo “carico” di responsabilità, soprattutto economiche, connesse con l'accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati. In questo senso si sono levate in maniera sempre più insistente le invocazioni di alcuni governi, soprattutto di quelli a Sud-est dell'Unione, e quindi situati sulla linea di frontiera esterna, affinché le istituzioni europee manifestassero la propria solidarietà in termini di resettlement dei profughi e, soprattutto, di redistribuzione monetaria. In questo quadro, identificare o meno i potenziali rifugiati - e quindi rispettare i principi di Dublino - oppure lasciarli proseguire per altri paesi europei senza averli prima fotosegnalati, è spesso diventata un'arma usata dai paesi frontalieri all'interno di un braccio di ferro costante con gli altri Stati membri.

Questo approccio è evidenziato alla perfezione dal costante rifiuto di inserire nel sistema di asilo europeo la clausola di mutuo riconoscimento (prima apparsa in bozza e poi scomparsa dalla Comunicazione della Commissione al Parlamento e al Consiglio europeo di marzo 2014, “Un'Europa aperta e sicura: come realizzarla”) (7) che permetterebbe ai profughi di vedere riconosciuto automaticamente il proprio diritto d'asilo in tutti gli Stati una volta che lo si è ottenuto in uno soltanto. Ma le frontiere, per i migranti provenienti da paesi esterni all'Ue, richiedenti asilo e rifugiati compresi, sono sempre asimmetriche: si attivano tutte insieme per i dinieghi o le espulsioni, mentre per i diritti agiscono da dispositivo di confinamento che ne restringe la validità all'interno del solo territorio dello Stato membro che li ha concessi.

A fianco delle politiche ufficiali e delle norme, si devono poi tenere in considerazione, quando si guarda al reale stato di salute del diritto d'asilo in Europa, di tutte le pratiche di respingimento informale - attuate il più delle volte contravvenendo anche al divieto delle espulsioni collettive -; le liste di paesi terzi sicuri da cui di fatto non si accoglie nessuna richiesta di asilo; le sfibranti procedure burocratiche che devono affrontare i richiedenti soprattutto nei paesi dell'Europa mediterranea; i dispositivi di limitazione della loro libertà personale e le condizioni di “accoglienza” spesso ai limiti della decenza, e tantissimi altri elementi che si potrebbero ancora elencare e che hanno di fatto svuotato dall'interno il diritto a una protezione internazionale effettiva ed efficace che tuteli anche tutti gli altri diritti fondamentali.

Un diritto soggettivo universale come quello all'asilo politico ha in tal modo avuto, senza essere modificato nella forma e nella definizione giuridica, un'applicazione sempre più selettiva dal momento in cui è stato normativamente e politicamente preso in considerazione solo come uno degli aspetti di politiche migratorie tendenzialmente sempre più restrittive.

I provvedimenti che sarebbero necessari per un'effettiva tutela del diritto d'asilo nelle società europee contemporanee, a cominciare dalla previsione di canali di ingresso legale sempre aperti e garantiti, appare infatti radicalmente in contrasto con la visione predominante nella “gestione” delle migrazioni da parte dei governi europei. Questa è riassumibile nel costante calcolo dei costi e dei benefici soprattutto economici, ma anche connessi alle strumentalizzazioni politiche del fenomeno.

Paradossalmente, inoltre, proprio mentre l'asilo è stato di fatto del tutto inglobato dentro la prospettiva del governo delle migrazioni globali, si è parallelamente affermata una sempre più netta distinzione istituzionale, normativa e burocratica tra migrazioni cosiddette “economiche” e migrazioni “umanitarie”; una distinzione che negli anni si è consolidata come narrazione incontrovertibile sulla base della quale creare una ufficiale gerarchia di categorie di migranti, con un diverso grado di accesso ai diritti. Questa gerarchizzazione si è rivelata innanzitutto un ulteriore strumento di restringimento dell'accesso all'asilo, attraverso la tendenza comune a livello europeo a stigmatizzare la figura del richiedente protezione come colui che abuserebbe di un diritto inventando una storia che non ha, al fine di ottenere un permesso di soggiorno (8). Rispetto alla maggioranza delle migrazioni verso l'Europa, invece, tale distinzione tra migranti e rifugiati è diventata un'arma utilizzata per criminalizzare i primi, paradossalmente sfruttando la sovraesposizione mediatica dell'arrivo dei secondi. Sono i profughi infatti, il più delle volte, a fare ingresso in Europa nei modi più rocamboleschi e visibili, soprattutto attraverso il mare Mediterraneo. L'estetica stessa del loro arrivare ha sempre creato quell'ansia da invasione, quell'allarme necessario per costruire il consenso popolare atto a legittimare l'inasprimento delle leggi sull'immigrazione che hanno poi colpito tutti gli altri migranti, la maggioranza, solitamente entrati silenziosamente attraverso canali legali, con un visto la maggior parte delle volte non rinnovabile, e diventati quindi, a tempo più o meno indeterminato, “overstayers”.

In Italia, ad esempio, la spettacolarizzazione degli arrivi via mare dei profughi - che fino al 2011 non hanno mai rappresentato più del 10-15% degli arrivi irregolari - è stata sempre utilizzata, a cadenze ben precise, per inasprire progressivamente le politiche migratorie del Paese rispetto agli ingressi, alle espulsioni, alle possibilità di regolarizzazione (9).

Anche per questi motivi, molti studiosi, soprattutto quelli che guardano all'immigrazione come a un fenomeno sociale e politico, hanno criticato, oltre alla classica visione “push and pull” delle migrazioni, anche le differenziazioni tradizionalmente istituite tra migranti economici e migranti umanitari, proponendo a volte più realistiche e al contempo provocatorie categorie come quella del “rifugiato economico” (10).

Nonostante le ragioni di tali critiche continuino ad essere estremamente valide e condivisibili, la situazione contemporanea merita però un ripensamento generale: il tema dell'asilo, l'atteggiamento politico e culturale che si sceglierà di avere nei confronti di questo diritto soggettivo universale, appare oggi più che mai centrale e determinante non solo per il futuro delle politiche migratorie , ma anche per l'adeguatezza e l'efficacia delle stesse critiche che a queste politiche si oppongono.

3) Il contesto contemporaneo: migrazioni, crisi economica e guerre

La significativa peculiarità del contesto economico e geopolitico contemporaneo è determinata da almeno due fattori specifici:

  1. La crisi economica e finanziaria che ha colpito e continua a colpire gran parte dei paesi fino ad oggi ad economia più avanzata rendendoli sempre meno attrattivi per la costruzione di progetti di vita.
  2. Il diffondersi di conflitti asimmetrici e di nuove forme di guerra all'interno di uno spazio globale che vede il fallimento della prospettiva di un impero mondiale retto dagli Stati Uniti e delle tradizionali modalità di gestione delle migrazioni collaterali alle guerre (11).

Iniziamo dalle conseguenze che la crisi ha avuto e sta avendo sulle migrazioni, tenendo presente che la maggior parte delle cifre in nostro possesso si fermano al 2012/13, e che le tendenze che andremo ad evidenziare si sono con tutta probabilità acuite nell'ultimo anno. Secondo un recente rapporto Ocse, seguendo un andamento costante che si è registrato a partire dal 2008, l'ingresso dei migranti non comunitari verso l'Unione europea ha subito una deflessione del 12%. Il crollo è relativo soprattutto ai paesi dell'Europa del Sud, Spagna e Italia in testa (nel 2012 gli ingressi in Spagna crollano del 22% e in Italia del 19% facendo tornare questi due paesi a un saldo migratorio precedente al 2007), ma anche nel Regno Unito si è assistito nel 2012 all'11% in meno degli ingressi, sotto le 300.000 unità, dato più basso dal 2003 (12).

Al contrario, l'emigrazione dagli Stati europei del Sud continua ad aumentare. In generale, aumentano le migrazioni Sud Nord interne alla zona Ue (la metà degli ingressi registrati nei paesi Ue nel 2012 riguarda cittadini comunitari), ma anche quelle dai paesi dell'Europa mediterranea ad altri continenti, spesso invertendo le rotte divenute tradizionali dagli anni Novanta ad oggi. Dopo decenni in cui abbiamo contato i morti uccisi dalle polizie di frontiera mentre cercavano di entrare dal Marocco nelle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, ironia della sorte, sono oggi i giovani spagnoli, a migliaia, a trasferirsi nel paese africano delle città imperiali in cerca di lavoro. A riconferma dell'asimmetria delle frontiere, questi ultimi, però, per tentare di rendere la propria vita più dignitosa in un altro continente, non sono obbligati a dormire nei boschi per settimane in attesa del momento giusto per cercare di scavalcare griglie alte metri e metri, con il rischio di ricevere una pallottola sparata alle spalle o di subire pestaggi da parte delle polizie di frontiera di due diversi paesi. La loro possibilità di guadagno in Marocco è anzi resa possibile dall'assenza di qualunque controllo nell'attraversamento inverso della frontiera, dalla Spagna all'Africa, e nella circolarità di un movimento migratorio che permette di restare perennemente in sospensione tra i due paesi giocando in positivo le potenzialità del confine (13).

Allo stesso modo, l'emigrazione italiana ha raggiunto cifre estremamente significative. Secondo il Rapporto RIM 2014 della Fondazione Migrantes (14) si conta un più 19,2% dal 2012 al 2013 di emigrati italiani all'estero, mentre l'immigrazione verso l'Italia continua a decrescere. Non a caso, il saldo naturale è il più basso di sempre, e alla diminuzione delle nascite percentualmente senza precedenti contribuisce incisivamente il decremento di quelle da genitori non italiani (15). Il saldo migratorio resta quindi oggi positivo, nei paesi Ue, solo a causa della stabilizzazione delle migrazioni precedenti, e dei nuovi movimenti interni all'Unione stessa, con una significativa migrazione di cittadini rumeni, tra cui moltissime donne, chiamate soprattutto a svolgere lavoro domestico e di cura e a diventare ammortizzatori sociali di un sistema di welfare europeo sempre più fragilizzato (16).

E i migranti arrivati dal Mediterraneo?

Il Mediterraneo, lo abbiamo accennato, è sempre stato canale di asilo: basti pensare al crollo delle richieste di protezione internazionale durante gli anni dei respingimenti verso la Libia (17), poi fermati dalla sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo relativa al caso Hirsi c. Italia. Ma gli ingressi attraverso il Mediterraneo avevano fino ad oggi riguardato, abbiamo detto anche questo, solo una piccola parte del totale dei migranti non comunitari.

Nonostante per anni studiosi e politici più illuminati di altri abbiano opposto con forza questo dato di realtà alla demagogia razzista che alimentava l'ansia degli “sbarchi”, non possiamo oggi non registrare e analizzare una chiara inversione di tendenza anche in questo senso. Se in 15 anni di arrivi dal Mediterraneo hanno fatto ingresso sul territorio italiano mezzo milione di persone, ad esempio, bisogna considerare quanto sia aumentato percentualmente questo canale di arrivo, guardando alle 160.000 persone giunte attraverso lo stesso percorso nei soli primi dieci mesi del 2014.

Se guardiamo ai dati delle richieste di asilo in Europa al 2013, in tutto 435mila, osserviamo non a caso un forte rialzo rispetto al 2012 quando erano state 335mila. Rispetto al 2014, i dati appena citati lasciano presupporre che per questo anno il bilancio sarà ancora maggiore (18). Come si legge in una recente ricerca inserita nell'ambito dell'Iniziativa globale contro il Crimine organizzato, è ormai evidente fino a che punto “la guerra rappresenta uno dei motivi principali alla base dell'attuale processo migratorio” (19).

Una guerra diversa e inedita nelle forme e nella diffusione che, dall'Iraq alla Siria, dalla Palestina al Corno d'Africa, irrompe in un panorama geopolitico i cui equilibri sono in forte ristrutturazione anche rispetto alla capacità tradizionale di gestire gli effetti collaterali dei conflitti in termini di movimenti di profughi e sfollati. Sono infatti saltati, ad oggi, i “cordoni sanitari” offerti da alcuni stati maghrebini (Libia ed Egitto in testa) rispetto alle migrazioni, e appare estremamente indebolita la tradizionale capacità dei governi nazionali e delle agenzie internazionali di contenere gli sfollati e i profughi nelle zone limitrofe al conflitto. Lontano dagli occhi occidentali, ad esempio, durante la guerra civile in Ruanda negli anni Novanta, una gestione estremamente violenta, se non criminale, del movimento di circa due milioni di persone in fuga provocò nella regione dell'odierna Repubblica democratica del Congo la cosiddetta “Crisi dei grandi Laghi”.

L'insieme di tutti questi fattori dà forma quindi alla realtà di una migrazione verso l'Europa sempre più direttamente connessa alle guerre in corso, sebbene un enorme numero di profughi continui anche oggi a restare nei paesi confinanti alle aree colpite (si guardi oggi al milione circa di profughi siriani presente in Libano).

4) Nuovi contesti, vecchie politiche?

Profughi e migranti comunitari: così è già cambiata la composizione delle migrazioni in Europa. Chi se ne è accorto tra le istituzioni e i politici?

A sentire le loro voci ufficiali, si direbbe pochi.

Di fronte ai cambiamenti epocali che abbiamo segnalato, le politiche migratorie continuano infatti ad essere concepite innanzitutto come politiche di ordine e sicurezza pubblica, e promosse come politiche di controllo delle frontiere (un “controllo” che peraltro non ha mai evitato l'ingresso delle persone, ma solo favorito la “clandestinizzazione” di tutti i migranti e la pericolosità dei viaggi soprattutto per i profughi).

Tale continuità nelle politiche migratorie appare legittimata dall'utilizzo di un linguaggio istituzionale e mediatico rimasto anch'esso in gran parte immutato. In Italia si continua ad esempio a parlare di “clandestini”: una definizione che identifica le persone senza documenti connotandole negativamente attraverso il riferimento a qualcosa di oscuro e nascosto. Se questa parola, lentamente entrata a far parte del linguaggio giuridico con gli ultimi pacchetti sicurezza a firma leghista, e purtroppo persino in quello accademico, è sempre stata discriminatoria e razzizzante, essa è utilizzata oggi esplicitamente per negare la condizione giuridica dei profughi in fuga non dicendo mai, tra l'altro, che con il vigente sistema di visti e ingressi chi fugge non può entrare in territorio europeo che in maniera irregolare e quindi, secondo la retorica imperante, da “clandestino”.

La sovraesposizione mediatica dell'arrivo dei profughi serve nuovamente, quindi, ad acuire razzismi e xenofobia attraverso uno schema ormai noto. La novità consiste ora in un livello superiore di occultamento della realtà delle nuove migrazioni atto a ridar linfa a vecchie paure rispetto a pericoli terroristici o sanitari che vengono imputati all'immigrazione extraUe, e a spianare la strada a partiti di estrema destra, oggi pericolosamente eletti nelle istituzioni rappresentative europee, che sognano ritorni a nazionalismi antichi o avanzate verso nuove forme di comunità immaginate.

Surreale come, proprio adesso che tutto sta nuovamente cambiando, l'Italia scopra improvvisamente di avere migliaia di esercizi commerciali cinesi o bengalesi, o milioni di musulmani sul proprio territorio. Persone arrivate in media da più di dieci anni, con figli che frequentano le scuole dei figli nati da genitori italiani. E che se ne faccia oggi più che mai un problema, proprio mentre gli emigrati dal Bel Paese verso gli altri Stati Ue tornano ad essere bersaglio della retorica xenofoba dei nuovi partiti di destra nell'Europa del Nord.

Nonostante anche i razzismi interni tra le popolazioni europee stiano in tempo di crisi trovando una certa diffusione, è ancora contro la categoria percepita come più distante, quella dei cittadini provenienti da altri continenti, che i gruppi xenofobi affinano le loro armi migliori (fatta eccezione per le minoranze Rom e Sinte, che meritano sempre un discorso a parte rispetto alla violenza razzista che si abbatte contro di loro). Il problema è che oggi, lo abbiamo detto, la categoria dei migranti non europei coincide quasi totalmente con quella dei profughi definibili come tali anche ai sensi della Convenzione di Ginevra, la cui definizione di rifugiato non è certamente tra le meno restrittive.

In questo mutato panorama, vecchie forme di razzismo si mescolano quindi, necessariamente, con più raffinate retoriche che non possono non affrontare questo tipo di migrazioni anche da un punto di vista umanitario.

5) La retorica e le articolazioni dell'umanitario

Unica retorica in qualche modo nuova, o almeno utilizzata in modo più pervasivo e diffuso nell'ultimo periodo, è stata infatti quella dell'umanitario, inteso come “a complex domain possessing specific forms of governmental reason” (20) la cui applicazione come dispositivo di costruzione di particolari tipi di frontiere è in corso ormai da anni, ma è stata in special modo implementata dopo il naufragio di Lampedusa del 3 Ottobre del 2013, sfruttando più di quanto non si fosse già fatto il macabro e disperante spettacolo del Mediterraneo. Uno spettacolo cui il mondo assisteva da quasi trent'anni, e che però, nel momento in cui non ha più avuto come palcoscenico privilegiato l'isola di Lampedusa, ma un'area molto più vasta, ha messo in scena soprattutto l'esplicitazione ultima di una definitiva sanzione della commistione tra umanitario e militare attraverso l'operazione di salvataggio Mare Nostrum (21). Questa operazione è durata in via ufficiale dall'Ottobre del 2013, dal “dopo Lampedusa”, fino al primo novembre del 2014. Intervistando i Comandanti delle navi della marina militare italiana impegnati in Mare Nostrum, una delle prime cose che questi ufficiali tengono a sottolineare, però, è che le linee guida rispetto agli obiettivi - contrasto dell'immigrazione illegale e soccorso - e gli ordini cui hanno obbedito nell'arco di questi quasi 13 mesi non hanno avuto nulla di inedito (22). L'obbligo di salvataggio è sempre vincolante per ogni natante; il soccorso in mare dei migranti era dal 2005 una delle attività delle navi di COMFORPAT (Comando Forze di Pattugliamento per la Sorveglianza e la Difesa Costiera).

Ad essere cambiati sono stati invece i numeri: quelli dei migranti che hanno preso il mare, innanzitutto, con l'acuirsi dei conflitti e dopo la caduta di Gheddafi in Libia; quelli delle navi militari, ben 11, che hanno iniziato a solcare il Mediterraneo in lungo e in largo; quelli delle coordinate che determinavano l'estensione dello spazio da pattugliare, praticamente tutta la zona ricompresa tra le coste africane e l'Italia. A parità di ordini, le azioni di salvataggio sono state quindi enormemente maggiori rispetto a quelle di contrasto allo smuggling e, a parità di linee guida, l'intera iniziativa è stata comunque anche mediaticamente raccontata innanzitutto come un'operazione di salvaguardia della vita in mare.

La critica strumentale a Mare Nostrum da parte di alcuni partiti italiani ed europei, incentrata sull'accusa che questa azione avrebbe aumentato il numero delle persone partite dall'Africa, e quindi sarebbe diretta responsabile delle morti di chi non è riuscito a essere intercettato in tempo, costringe assurdamente a ribadire quanto valore abbiano comunque le più di centomila vite salvate dalle navi della Marina Militare italiana in questo ultimo anno, e quanto pretestuoso sia connettere l'aumento degli ingressi via mare non ai fattori che abbiamo in precedenza analizzato (innanzitutto le guerre), ma alla nuova logica del salvataggio.

Detto questo, però, occorre dire con la stessa forza che Mare Nostrum è strutturalmente stata costruita su un presupposto inaccettabile: quello che le persone in fuga dai conflitti partano attraversando migliaia di chilometri sottoposte a rischi e violenza di ogni tipo e incontrino il territorio europeo o le sue emanazioni (marina militare, guardia costiera, navi mercantili, ecc.) solo una volta trasformate in potenziali naufraghi da salvare; non soggetti portatori di diritti internazionalmente sanciti, “vittime” per le quali si apre una prospettiva interamente umanitaria che diventa poi uno specifico strumento di governo e controllo delle loro vite.

Su questa prospettiva è interamente definita, ad esempio, la logica del sistema di accoglienza in paesi come l'Italia, costruita come emergenziale nel 2011, durante la proclamate Emergenza Nord Africa, e diventata poi strutturale. Tale sistema coinvolge, a fianco degli enti ufficialmente deputati alla gestione dei “centri” per richiedenti asilo e rifugiati, anche soggetti privati, di ogni ordine e tipo, che semplicemente abbiano uno spazio atto a diventare temporaneamente un “Centro di Accoglienza Straordinaria” (CAS). E, a proposito, di retoriche anti immigrazione costruite sulla trasfigurazione costante della realtà, di rado viene detto che nel sistema dell'accoglienza umanitaria, che non presuppone e anzi esclude aprioristicamente le possibilità ai autogestione da parte degli “ospiti”, i profughi non hanno quasi mai accesso diretto al denaro che viene investito nelle strutture. Quando si sente dire che i governi spendono questa o quella cifra per ogni richiedente asilo, si sta in realtà parlando di quanto i soggetti che guadagnano sull'accoglienza stanno di volta in volta incamerando per ogni persona ospitata.

L'umanitario, quel diritto internazionale che protegge i civili nelle situazioni di conflitto, si apre quindi per i profughi come unico orizzonte di esistenza e riconoscimento anche quando sono ormai distanti dalle zone di guerra, in una prospettiva perennemente emergenziale all'interno della quale la retorica dei diritti umani, a cominciare dal diritto d'asilo, diventa strumento delle politiche di governo della mobilità (come esemplarmente dimostrano i presupposti e gli obiettivi della Convenzione di Dublino). Del resto, già l'Agenzia di controllo delle frontiere esterne europee, Frontex, aveva sdoganato negli anni l'utilizzo di un linguaggio umanitario per costruire la narrazione di operazioni interamente militari, introducendo il rispetto dei diritti umani nel suo mandato, e producendo il paradosso, come nota Campesi, di interventi umanitari che nei fatti impediscono alle persone di esercitare il loro diritto fondamentale a emigrare e a chiedere asilo, tenendole a distanza dai confini di quei paesi dove potrebbero trovare protezione (23).

Nell'appello delle ricercatrici e dei ricercatori coinvolti nella produzione di sapere sulle migrazioni, dal titolo “Un rifiuto collettivo” (24), è ben spiegato come “dalle operazioni 'militari e umanitarie'”, inoltre, “si possa passare, con assoluta coerenza e solo con un cambio degli ordini ricevuti, a quelle esclusivamente militari e poliziesche”.

Un esempio emblematico è la coincidenza temporale tra la fine di Mare Nostrum e l'inizio di Mos Maiorum, l'operazione di polizia europea avviata tra il 13 e il 26 ottobre del 2014. In questo passaggio è implicita infatti la trasformazione dei profughi da naufraghi da salvare a persone da controllare, se necessario, anche con l'uso della forza, come si legge nella circolare del Ministero dell'Interno diramata per dare istruzioni agli agenti di polizia rispetto alle identificazioni, e poi tradotta anche nel volantino distribuito ai profughi a bordo delle navi militari e nei centri dell'accoglienza umanitaria sparsi in tutta Italia (25). Questa svolta appare particolarmente significativa anche alla luce del fatto che per mesi, attraverso accordi informali tra Stati europei e in quella dinamica di costante braccio di ferro precedentemente accennata, i profughi arrivati in Italia dal mare sono stati lasciati partire per altri paesi senza essere identificati. Più di 60.000 persone sono passate dall'Italia nel 2014 senza lasciare traccia all'interno di uno schema negoziato tra profughi e istituzioni italiane: due attori che per una volta avevano esattamente lo stesso obiettivo. Se i primi volevano lasciare l'Italia e proseguire il loro percorso verso paesi dove già si trovavano familiari o amici, o dove intravedevano delle garanzie più credibili per la costruzione di un progetto di vita, le seconde non vedevano l'ora che queste persone si allontanassero per non doversene occupare e prenderle in carico.

Il patto tacito, il compromesso, è stato quindi semplice: nessuna identificazione, ma anche nessuna accoglienza formale. Come il salvataggio umanitario implica strutturalmente il militare, l'accoglienza umanitaria istituzionale implica infatti il poliziesco dei fotosegnalamenti. E così decine di migliaia di persone, tantissime famiglie anche con bambini piccolissimi, si sono ritrovate a dormire per giorni in zone di transito come le stazioni, e poi partire spesso affidandosi a passeur più o meno improvvisati, pagando i viaggi molto più di quanto sarebbero costati a qualunque cittadino europeo. In luoghi come la stazione di Milano, le associazioni, i volontari, gli Enti locali, hanno in tal modo gestito da soli, per mesi, il passaggio di un enorme numero di profughi (26). Il loro intervento umanitario, in parte diverso e in parte contiguo rispetto a quello governativo di cui abbiamo parlato fino ad ora, dimostra come la stessa logica umanitaria non sia sempre univoca e lineare. In questo caso, agevolando indirettamente i migranti nella costruzione di percorsi che rispondevano ai loro desideri, sono state assecondate anche le scelte politiche istituzionali, seppure non dichiarate e non dichiarabili (nella situazione specifica la deroga informale al Regolamento di Dublino).

Questo tipo di gestione, caotica e precisa allo stesso tempo, mi ha ricordato quello che avevo visto accadere nei giardinetti intorno alla Gare de l'Est e alla Gare du Nord di Parigi, dove ai profughi afghani e curdi che volevano tentare la sorte provando a raggiungere l'Inghilterra era permesso restare anche per giorni, senza subire controlli e identificazioni, per raccogliere i soldi necessari ad arrivare a Calais e da lì tentare di imbarcarsi (27). In quel frangente le associazioni caritatevoli della Mairie distribuivano cibo la sera e fornivano per alcuni anche un luogo per dormire poco distante. Come è accaduto e accade coi siriani in Italia, che si aprano o si chiudano questi spazi di negoziazione che si concretizzano in zone franche dove si può sostare prima di riprendere il viaggio (i giardinetti di Parigi, la stazione di Milano), dipende dalle contingenze e dagli equilibri politici del momento.

Come il poliziesco può prevalere in ogni momento sull'umanitario alle frontiere interne, quando mutano accordi internazionali e decisioni istituzionali, allo stesso modo, alle frontiere esterne, il militare prevale quando non c'è più lo spettacolo del naufragio. Può accadere anche per chi è stato naufrago, come ben prima di Mos Maiorum era già accaduto ai migranti eritrei sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre, una volta spostati i riflettori solo sulle bare, mentre loro, ancora vivi, restavano segregati illegalmente per mesi nel cosiddetto centro di prima accoglienza di Lampedusa.

E vi sono, ovviamente, frontiere interamente militari, tutte quelle solitamente sottratte alle telecamere, come lo sono da sempre le frontiere tra la Grecia e la Turchia e tra l'Italia e la Grecia, o come lo è spesso quella tra le enclave di Ceuta e Melilla e il Marocco, - rispetto alla quale la violenza della Guardia Civilnei respingimenti automatici è stata di recente denunciata da più di 70 associazioni spagnole (28).

Che lo spettacolo del naufragio stia per scomparire anche dal Mediterraneo, portando con sé il suo orizzonte umanitario e lasciando ampio spazio a quello militare, lo confermano le premesse sulle quali si fonda la nuova missione Triton, descritta dal governo italiano come un “percorso di fuoriuscita” da Mare Nostrum, nonostante tale missione, già dimenticati i morti del 3 ottobre e mai celebrati gli altri 4000 da quel giorno in poi, abbia come “obiettivo principale” quello di “contrastare l'immigrazione irregolare e il traffico di esseri umani” (29) (come peraltro dimostra chiaramente il sostanziale arretramento della linea di pattugliamento che sarà adesso a massimo 30 miglia dalle coste italiane).

In questa fase di riassetto ancora difficile da interpretare, pare invece che la logica umanitaria continuerà ad essere chiamata in causa, accanto a quella militare e poliziesca, per affrontare il “problema” del diritto d'asilo, soprattutto sotto forma della sua utilizzazione a distanza (come del resto “a distanza” - rispetto ai governi che le mettono in atto - sono tutte le guerre condotte in nome dell'umanitario stesso). Il prossimo obiettivo delle politiche migratorie europee, al fine di “gestire” la problematica sempre più pressante delle nuove migrazioni di guerra, sembra infatti essere quello di riuscire finalmente a strutturare un sistema di esternalizzazione delle frontiere che comprenda anche l'esternalizzazione delle procedure dell'asilo. Un'esternalizzazione, certo, che deve essere largamente riveduta e corretta rispetto a precedenti progetti già delineati (e in parte realizzati da una serie di accordi bilaterali in cui l'Italia ha spesso avuto un ruolo da protagonista), dopo che le primavere arabe hanno fatto saltare dai loro scranni i più fidati dittatori che si erano prestati a queste politiche europee. I prossimi processi di esternalizzazione, non a caso, si fonderanno probabilmente sulla retorica dei diritti umani questa volta in chiave di esplicita esportazione coloniale, fornendo uffici di agenzie specializzate che fingeranno di garantire il diritto d'asilo oltre frontiera e rappresenteranno nei fatti un ulteriore ostacolo alla libertà di movimento dei profughi.

In quest'ottica va letta verosimilmente la consegna di alcuni pattugliatori italiani alla Tunisia, e vanno interpretate le affermazioni del governo italiano e di altri governi europei rispetto alla necessità che la Libia possa presto firmare la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, nonostante il paese stia collassando nella guerra civile; affermazioni che tradiscono quella tipica ansia umanitaria di costruire le condizioni meramente formali per poter continuare a dire di rispettare un diritto che di fatto si vuole cancellare.

Questo tipo di compatibilità del pensiero umanitario con scelte politiche che di fatto violano i diritti umani diventa sbalorditivo per la sua esplicitezza nelle recenti affermazioni con cui la Ministra degli affari esteri inglese ha argomentato la mancata partecipazione britannica alla missione Triton. Lady Anelay ha infatti motivato questo rifiuto spiegando come, per il governo inglese, la nuova operazione europea abbia ancora troppo a che fare con le attività di “search and rescue” dei migranti precedentemente svolte da Mare Nostrum. Tali attività, ha spiegato Lady Anelay, favorirebbero infatti “un involontario push factor che incoraggia più persone a tentare pericolosi viaggi attraverso il mare portando a un aumento di morti tragiche e non necessarie”. Dopo avere esposto questa teoria così intrisa di preoccupazione umanitaria (che neanche troppo ironicamente qualcuno ha riassunto nel motto Drown a refugee to save a refugee) (30), la Ministra ha poi ribadito l'importanza di concentrarsi piuttosto sui paesi di origine e di transito e, soprattutto, di contrastare le reti criminali dei trafficanti, prima di dichiarare la sua definitiva preferenza per operazioni europee che abbiano come unico scopo dichiarato il “border management”.

Se l'intervento umanitario inchiodava i profughi nella loro condizione di naufraghi, dopo che il regime dei confini li aveva resi tali, la prospettiva militare di controllo difensivo sembra rilanciare ulteriormente la distruzione dell'asilo come diritto, non solo rimuovendo dal discorso pubblico sulle migrazioni le cause delle partenze, le guerre, i conflitti, le crisi, ma anche cercando di perpetrare l'invisibilizzazione delle loro conseguenze attraverso rinnovati tentativi di contenimento dei profughi lontano dai territori occidentali.

6) Contro la logica dell'umanitario e del militare, il diritto d'asilo come claim

Crisi economica, nuove e vecchie guerre, antiche e più recenti dittature, in un contesto geopolitico in cui il Mediterraneo è diventato il fulcro del riassestamento di forze nazionali e coalizioni internazionali all'interno di un sistema che ha visto scardinarsi molti degli equilibri fino ad ora vigenti, stanno trasformando le migrazioni verso l'Europa in migrazioni di profughi ex Convenzione di Ginevra.

Queste persone oggi in cammino sono spesso, per di più, i civili di quelle guerre che anche l'Occidente sta conducendo, all'interno della narrazione di uno “scontro di civiltà” a livello globale; una narrazione secondo la quale la maggior parte dei profughi sarebbe oggi, inequivocabilmente, vittima delle barbarie del nuovo millennio. Delle 435mila domande di asilo inoltrate in Europa nel 2013, ad esempio, la maggioranza proveniva da cittadini e cittadine di nazionalità siriana, ed erano siriane anche il 35% circa delle 160.000 persone salvate da Mare Nostrum dall'inizio del 2014 ad oggi. Questi profughi, inoltre, hanno delle caratteristiche molto simili a quelle degli asilanti della guerra fredda per cui la Convenzione di Ginevra era stata immaginata e redatta, inclusa un'estetica spesso diversa da quella di quasi tutti gli altri migranti. Sono famiglie, sono anziani, sono bambini, sono professionisti che hanno investito tutti i loro soldi, a volte non pochi, per fuggire da un giorno all'altro dalle loro case. Anche questo ha reso complicato, per i governi e le organizzazioni internazionali, trovare nuove modalità, più o meno umanitarie, di svuotamento del diritto d'asilo di queste persone.

La loro stessa presenza, infatti, insieme a quella degli esuli eritrei, palestinesi, o curdi, apre per gli Stati e gli enti sovranazionali che dicono di fondare la propria costituzione sul rispetto dei diritti umani delle contraddizioni estreme.

Non è questa la sede per valutare le responsabilità dirette o indirette dell'Occidente rispetto ai conflitti africani e mediorientali in corso, o rispetto alla nascita e al diffondersi di forze come l'Isis (e prima i talebani) il cui pericolo reale appare di volta in volta strumentalizzato per rispolverare gli arsenali di guerra e ristabilire assi specifiche di potere geopolitico. Basti dire qui che il modo in cui i profughi vengono lasciati alle porte dell'Europa, a meno che non attraversino le frontiere a rischio della propria incolumità, è l'emblema di come anche per gli stati che si professano paladini dei diritti umani contro le barbarie prevalga una cultura del calcolo che mai dà priorità alla vita delle persone.

Come si legge in un recente Rapporto dell'IOM, dal 2000 sono 22.000 i migranti che hanno perso la vita per raggiungere l'Europa sui 40.000 deceduti in tutto il mondo durante il loro viaggio, e mentre a tutte le altre frontiere, inclusa quella tra Messico e Stati Uniti, il numero dei morti è in calo costante, solo nel Mediterraneo si registra invece un aumento esponenziale (31). Ed è evidente come questi siano numeri molto al ribasso, che prendono in considerazione solo le persone di cui si è avuta notizia.

Morti per aggirare le frontiere militarizzate e raggiungere quelle umanitarie dello spettacolo del Mediterraneo “dopo Lampedusa”, morti per inseguire il miraggio di un asilo politico che, proclamato come universalmente garantito, agisce solo tramite un gioco complesso e crudele di filtri selettivi.

Eppure, a questo gioco tremendo hanno iniziato a giocare anche i profughi, sovvertendolo, aprendo spazi di conflitto imprevisti e imprevedibili attraverso l'utilizzo del diritto d'asilo contro la costruzione del confine umanitario e contro l'umanitario stesso, oltre che, come dovrebbe essere connaturato in questo diritto, contro la violenza del militare e del poliziesco.

Molte delle critiche che da Marx in poi (32) hanno sottolineato l'intrinseca predisposizione dei diritti umani ad essere utilizzati come strumento per disciplinare e sottomettere, piuttosto che per tutelare e difendere dall'arbitrio anche e soprattutto degli Stati, sono certamente fondate. Eppure, non esiste, almeno non ancora, una visione altrettanto potente come quella dei diritti umani, se si guarda ad essi in quanto claims e ci si oppone, da un lato, alla retorica che legittima guerre e violenze perpetrate in loro nome e, dall'altro, alla loro riduzione “a rivendicazioni controfattuali, una sorta di ultimo rifugio per coloro che non hanno nessun'altra possibilità di ottenere giustizia” (33).

Scrive Walters che l'umanitario come dispositivo di costruzione del confine è uno strumento governamentale attivato lungo quelle frontiere in cui si confrontano concretamente e bruscamente livelli troppo diversi, nella globalizzazione, di benessere e povertà, cittadinanza e non cittadinanza (34). Inserire con forza all'interno di questo confronto i diritti umani come claims ricolloca allora le migrazioni come la sfida per eccellenza all'ingiustizia sociale globale.

Perché ciò sia possibile, bisogna che sia chiara la distinzione teorica e interpretativa, normativa e giurisprudenziale, ma anche rispetto all'azione politica, tra umanitario e diritti umani, volgendo i diritti umani contro la loro strumentalizzazione umanitaria. In questo senso, e a maggior ragione nel contesto geopolitico contemporaneo, il diritto all'asilo politico ha un ruolo fondamentale perché mette alla prova la possibilità di esistenza di tutti gli altri diritti per le persone in quanto tali, a prescindere dal loro status, anche una volta persa la protezione offerta dalla propria appartenenza nazionale. Guardare in questo modo al diritto d'asilo come claim può forzare anche il limite ad esso intrinseco, il suo vizio d'origine, a dirla con Ferrajoli, ovvero il fatto che “esso rappresenta (...) l'altra faccia della cittadinanza e della sovranità, ossia del limite statalistico imposto ai diritti fondamentali” (35).

Si tratta certamente di riflessioni da approfondire, più che altro ancora suggestioni, ma nella realtà concreta di questi ultimi anni, è possibile verificare come il diritto d'asilo stia diventando un terreno di sfida inedito almeno su due diversi livelli:

  1. Come forzatura delle contraddizioni implicite ai governi stessi e alle loro politiche in divenire; contraddizioni che diventano evidenti quando una Corte europea come quella di Strasburgo condanna l'Italia prima contro i respingimenti dei migranti verso la Libia e poi per quelli verso la Grecia (36), proprio sulla base dell'impossibilità delle persone di inoltrare una richiesta di asilo, ritenendo gli Stati direttamente responsabili anche dei trattamenti inumani e degradanti che ne conseguono. E quando la stessa Corte arriva poi a condannare la Svizzera per il respingimento ex Convenzione di Dublino di una famiglia di profughi afghani verso l'Italia (37), contestando nel merito l'inadeguatezza del sistema italiano di accoglienza dei richiedenti asilo, interamente fondato, come si è detto, sulla logica dell'umanitario e dell'emergenziale. O quando uno studio della Commissione Libe del Parlamento europeo prospetta l'apertura di percorsi di arrivo garantito attraverso la concessione di visti umanitari nelle ambasciate degli stati membri, e lo fa senza prevedere alcun ruolo dei paesi di transito (ovvero nessuna forma di esternalizzazione), proprio forzando l'indistinto “humanitarian ground” citato nell'acquis di Schengen fino a interpretarlo come uno spazio che “may include human rights related issues” (38). O quando la commissaria europea Maelstrom è costretta a richiamare il governo spagnolo per gli accadimenti del 15 ottobre 2014 lungo la frontiera di Melilla - filmati da una Ong che ha ripreso il pestaggio e il respingimento da parte della Guardia Civil di un ragazzo africano che aveva scavalcato la grata di divisione - dicendo che in questo caso particolare alla persona in questione era stata negata la possibilità di chiedere asilo. Ovvio che tutte le istituzioni Ue sono sempre state perfettamente a conoscenza di cosa accada da anni alle frontiere d'Europa, e che richiami formali come questo si inseriscono in un gioco di ruoli che le porta ad approfittare delle denunce umanitarie per dimostrarsi ancora più umanitarie del denunciante. Ma in tutti questi casi è l'inequivocabilità del linguaggio dei diritti umani, comprensibile per tutti, che dà legittimità a chi pratica la resistenza ai respingimenti e mette in crisi la linearità con cui solitamente si presuppone come “legale” l'agire delle istituzioni democratiche e si definiscono illegittime le forme di opposizione ad esse.
  2. Come strumento per scardinare i dispositivi governamentali e normativi dall'esterno e dal basso, in modo eccedente e non lineare, come avviene tutti i giorni nel porto francese di Calais, dove la volontà dei migranti, in maggior parte richiedenti asilo, di raggiungere l'Inghilterra, è sempre più un punto di crisi tra il governo inglese e quello francese, o come è avvenuto il 26 ottobre del 2014 quando più di 200 profughi si sono rifiutati di sbarcare a Malta dalla nave mercantile danese che li aveva intercettati in mare e hanno ottenuto di essere portati in Italia. Questi profughi hanno così potuto “salvarsi” dall'accoglienza umanitaria dei centri maltesi per richiedenti asilo, ghetti in mezzo al nulla dove nessuna prospettiva di vita può aprirsi, reclamando il loro diritto a chiedere asilo solo dove il riconoscimento di questo diritto può diventare terreno di lotta per il riconoscimento anche degli altri diritti fondamentali.

Il diritto d'asilo come claim non accetta infatti adempimenti meramente formali, come la firma su una Convenzione per legittimare pratiche di esternalizzazione che finirebbero per annientarlo, o l'inserimento di clausole di non violazione di alcuni principi all'interno di accordi o trattati che hanno ben altre priorità rispetto alla tutela dei diritti umani. Allo stesso modo, il diritto d'asilo come claim rifiuta la logica umanitaria dei campi di accoglienza, degli spazi di sospensione indefinita in cui meramente sopravvivere, così come quella della sovradeterminazione dei percorsi e delle scelte, emblematicamente operata dalla Convenzione di Dublino in tutte le sue versioni.

E in questo senso il diritto d'asilo richiama i diritti umani alla concretezza e all'effettività come condizioni imprescindibili per la loro credibilità in quanto prerogative civili, politiche, sociali, non solo indisponibili, ma anche inseparabili e universali, a prescindere dalle cittadinanze e dalle contingenze; in quanto lista aperta e continuamente integrabile; in quanto terreno di conflitto che apre contraddizioni interne ai poteri costituiti. Guardare al diritto d'asilo come claim nello stato di cose attuali ripoliticizza il discorso dei diritti umani contro la logica dell'umanitario e contro la gestione fintamente emergenziale delle frontiere utilizzata per nascondere crisi strutturali e orientarne gli effetti; riporta la relazione tra profughi e Stati sul piano di ciò che è dovuto e non di ciò che è concesso a persone vittimizzate; disvela la violenza implicita dell'umanitario quando si pone come carità protettiva, e quella esplicita quando appare nella sua contiguità con il militare e il poliziesco.

Assumere il diritto d'asilo come claim significa ripercorrere all'inverso il percorso del suo svuotamento sostanziale, e riempirlo di senso a partire dalle istanze di giustizia che emergono oggi, con la forza rinnovata di una sfida radicale, alla costruzione politica, sociale e culturale dello spazio mediterraneo ed europeo.

Note

1. Cfr. Arendt, H. (1958), The origins of totalitarianism, Meridian Books, New York. Trad. it. Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2004, pp. 404 ss.

2. Per una critica al pensiero liberale nel solco del quale, a partire da Locke, si inseriscono le principali teorie dei diritti umani e della giustizia, e soprattutto al modello antropologico “gerarchico-dualistico” ad esso sottostante, cfr. Santoro, E., Autonomia individuale, libertà e diritti. una critica dell'antropologia liberale, Edizioni ETS, Pisa 1999.

3. L'Italia lo ha fatto con la Legge Martelli (n.39) solo nel 1990, mentre altri paesi come la Francia (nel 1971) o la Germania (nel 1969) avevano già aderito da tempo al Protocollo.

4. Secondo Castles e Miller esistono delle precise caratteristiche che differenziano le migrazioni contemporanee da quelle precedenti e fanno del periodo che stiamo vivendo “l'era delle migrazioni” per eccellenza. Cfr. Castles, S., Miller, M. J., L'era delle migrazioni. Popoli in movimento nel mondo contemporaneo, Odoya, Bologna 2012. Le argomentazioni dei due autori a favore di questa tesi sono sostanzialmente convincenti, nonostante alcuni degli elementi riportati come innovativi abbiano forse una storicità più complessa di quella riportata.

5. Fondamentale a questo scopo è il sistema di confronto delle impronte digitali, normato dal Regolamento Eurodac (CE) n. 2725/2000. Questa normativa va interpretata nel segno della tendenza a porre in secondo piano la figura del richiedente asilo politico come portatrice di diritti fondamentali violati, e quindi bisognosa di protezione al fine di sanare questa violazione, anteponendole invece la volontà politica di limitare le migrazioni secondo le convenienze dei paesi d'accoglienza. Il principio seguito è quello che la richiesta d'asilo possa essere inoltrata solo nel primo Stato, tra quelli che hanno aderito alla Convenzione, di cui il richiedente asilo ha varcato la frontiera. Lo scopo dichiarato è di evitare le cosiddette “richieste d'asilo multiple”, negando di fatto la possibilità a un rifugiato di vedere valutata la propria situazione da più di un governo diverso. Le conseguenze dirette dell'applicazione di tale Convenzione sono il trasferimento forzato dei migranti da uno Stato all'altro qualora vengano fermati dalla polizia in un paese diverso da quello di primo ingresso, e il fatto che un diniego ricevuto in uno qualunque degli Stati firmatari della Convenzione risulti immediatamente valido anche in tutti gli altri.

6. Le direttive in questione sono:

  1. La Direttiva 2001/55/CE - recante norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell'equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell'accoglienza degli stessi (recepita in Italia dal decreto legislativo 7 aprile 2003, n. 85). L'istituto della protezione temporanea viene creato al fine di superare, laddove risultasse opportuno, i rigidi requisiti imposti dalla definizione di rifugiato posta in essere dalla Convenzione di Ginevra, e di poter concedere altre forme di protezione internazionale anche a chi non appare personalmente e direttamente minacciato o a rischio, ma fugge tuttavia da condizioni di pericolo diffuso. Nei fatti, però, l'attribuzione di questo tipo di permesso di soggiorno offre garanzie e tutele di molto inferiori rispetto a quelle di cui possono godere i rifugiati;
  2. La Direttiva 2003/9/CE - recante norme minime relative all'accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri (recepita in Italia dal decreto legislativo 30 maggio 2005, n. 140);
  3. La Direttiva 2004/83/CE - recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta (recepita in Italia dal decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251), stabilisce i criteri che gli stati membri dell'Unione devono utilizzare per decidere se un richiedente asilo abbia o meno diritto alla protezione internazionale e quale forma di protezione debba ricevere;
  4. La Direttiva 2005/85/CE - recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato (recepita in Italia dal decreto legislativo 28 gennaio 2008 n. 25 poi modificato dal decreto legislativo del 3 ottobre 2008, n. 159).

7. Cfr. Sarfatti, C., Il “Caso Siria”: i numeri, le difficoltà, le strade percorribili, in Milano come Lampedusa? Dossier sull'immigrazione siriana, Novecento Editore, Milano 2014, pp. 31-32.

8. Cfr. Valluy J., Rejet des exilés. Le grand retournement du droit de l'asile, éditions du croquant, Broissieux 2009. In Inghilterra, ad esempio, i politici conservatori hanno coniato l'espressione di bogus asylum seeker.

9. Sciurba, A., Diritti respinti. Particolari conseguenze del razzismo istituzionale in Italia, in: Pirrone, M.A. e Mannoia, M. (a cura di), Il razzismo in Italia. Società, istituzioni e media, Aracne, Roma 2011.

10. Cfr., ad es. Ferrajoli, L. Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Laterza, Roma-Bari, p.26.

11. Come ha scritto Mezzadra in un recente articolo apparso sul sito di Euronomade, “guerra e crisi: non è un binomio nuovo. Ma nuove sono le forme con cui si presenta: nella relativa crisi dell'egemonia statunitense, che costituisce un tratto saliente di questa fase della globalizzazione, la guerra dispiega la propria violenza ‘destituente’ senza che all'orizzonte si profilino scenari realistici - fossero pure a noi avversi - di ‘ricostruzione’”. Cfr. Mezzadra, S., Kobanê è sola?, in Euronomade, 7 ottobre 2014.

12. OECD; Is Migration really Increasing?, in “Migration Policy Debates”, May 2014.

13. Cfr. Boom economico. Marocco paradiso per i clandestini spagnoli, in “Online news”, 24 maggio 2014.

14. Cfr. Fondazione Migrantes, Rapporto Italiani nel Mondo 2014, Tau Editrice, Todi 2014.

15. Cfr. Istat, Bilancio demografico nazionale. Anno 2013.

16. Cfr. Sciurba, A., La cura servile, Numero monografico de “I quaderni de L'Altro Diritto”, Pacini Edizioni, Pisa (forthcoming).

17. Cfr. Acnur, Dimezzate le domande di asilo il Italia nel 2009, Comunicato stampa del 2/3/2010.

18. I principali paesi di accoglienza dei rifugiati sono il Pakistan (1,6 milioni), l'Itan e il Libano (857mila ciascuno), la Giordania (642mila) e la Turchia (610mila). L'86% dei rifugiati ha trovato accoglienza in Pesi del Sud del mondo (sono esclusi dai dati i 5 milioni di profughi palestinesi sotto mandato UNRWA). Cfr. Rapporto Unar, p. 43. Va però detto che nel 2013 una richiesta di protezione internazionale su 3 è stata presentata in uno degli Stati dell'Ue, per un totale di 435.385 persone, 100.000 in più rispetto al 2012. In Europa il primato dell'accoglienza va alla Germania con 323mila tra rifugiati e richiedenti, seguita da Francia, Svezia, Regno Unito e Italia. Idem, p. 44. La stesa tendenza distributiva si osserva anche per i primi 6 mesi del 2014, durante i quali le richieste di asilo sono ancora percentualmente aumentate (230mila di cui 38mila da parte di cittadini siriani).

19. Futuri contrabbandati: il pericoloso percorso dei migranti dall'Africa all'Europa - Ricerca inserita nell'ambito dell'Iniziativa Globale contro il Crimine Organizzato Transnazionale e la Tratta di Esseri Umani - maggio 2014.

20. Walters, W., Foucault and Frontiers: Notes on the Birth of the Humanitarian Border, in Bröckling, U., Krasmann, S., Lemke, T (eds), Governmentality: Current Issues and Future Challenges, New York, Routledge 2011, p. 142.

21. Cfr. Tazzioli, M., Mare Nostrum Beyond the sea, paper presentato alla conferenza “Migration and Law”, Birbeck College, Londra, 28 Marzo 2013.

22. Da interviste ai comandanti Elia, Pasquale e D'Alessandro condotte nella sede della Marina Militare di Augusta e a bordo della nave Sirio nel mese di Settembre del 2014.

23. Campesi, G., Frontex, the Euro-Mediterranean border and the paradoxes of humanitarian rhetoric, in “South-East European Journal of Political Science”, vol. II., n. 3.

24. Cfr. Un rifiuto collettivo. Appello delle ricercatrici e dei ricercatori coinvolte/i nella produzione di sapere sulle migrazioni. All'appello è possibile aderire dal sito Change.org.

25. Cfr. Spinelli, B., Circolare del Viminale e maltrattamenti a danno di migranti: richiesta alla Commissione di attivare procedure di infrazione.

26. Cfr. Milano come Lampedusa? Dossier sull'immigrazione siriana, cit.

27. Cfr. Sciurba, A., Dalla forma-campo ai 'campi di forza'. I giardinetti del X arrondissement di Parigi, in “L'Altro Diritto. Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità”.

28. Cfr. Migreurop junto a 70 entidades exigen el fin de las devoluciones sumarias y el respeto a la legislación nacional, europea e internacional, 16 ottobre 2014.

29. Ministero Dell'Interno - Notizie, Strategie per l'immigrazione, Alfano riferisce alla Camera.

30. Cfr. Hodges, D., Drown an immigrant to save an immigrant: why is the Government borrowing policy from the BNP?, in “The Telegraph”, 28 ottobre 2014.

31. IOM, Fatal Journeys. Tracking Lives Lost during Migration, Ginevra 2014.

32. Cfr. ad es. Zizek, S., Contro i diritti umani, Il Saggiatore, Milano 2005.

33. Kaufman, Diritti umani, Alfredo Guida Editore, Napoli 2009, p. 62.

34. Walters, W. Foucault and Frontiers, cit., p. 146.

35. Ferrajoli, L., Diritti fondamentali, cit., p. 25.

36. Cfr. le sentenze della Cedu relativamente ai casi Hirsi c. Italia e Sharifi c. Italia e Grecia.

37. Cfr. la sentenza delle Cedu relativamente al caso Tarakhel c. Svizzera.

38. Cfr. Jensen, U.I., Humanitarian Visas: Option or Obligation?, Study for the LIBE Committee (European Parliament), Brussels 2014, p. 9.