ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Introduzione

Giulia Melani, 2014

Il 15 marzo 2011, nel corso di una conferenza stampa tenuta dalla Commissione di inchiesta sull'efficacia e l'efficienza del Servizio Sanitario nazionale, sono mostrate per la prima volta le immagini girate nel corso delle ispezioni a sorpresa effettuate dai membri della Commissione nei sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani. Lo sconvolgente video riflette una realtà decadente, rappresentata dalle immagini dei muri pieni di muffa, dei letti arrugginiti, accompagnate dalle grida strazianti di un internato che vuole rendere noto al mondo di non essere pericoloso. La notizia rimbalza sulle pagine dei quotidiani nazionali (1) e le immagini sono trasmesse dai principali telegiornali, si comunica inoltre che l'intero documentario - girato da Francesco Cordio - sarà mostrato in prima visione nella trasmissione di Rai 3 condotta da Riccardo Iacona, Presa Diretta (2). Così sono accesi i riflettori su un'istituzione sulla quale è per anni calato il silenzio.

Circa undici mesi dopo - il 17 Febbraio 2012 - in sede di conversione del D.L. 211/2011 (Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri) è inserito l'art. 3 ter che stabilisce un termine per il definitivo superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, viene annunciata così - con la rincorsa al clamore mediatico che ha caratterizzato l'operato di alcuni membri della Commissione - la chiusura degli OPG entro il 31 marzo 2013.

E' questo il contesto in cui ha mosso i primi passi la ricerca che ci accingiamo a presentare. Gli interrogativi che l'hanno guidata sono molteplici e si sono formati, modificati, riassestati durante il percorso; ma il primo quesito, quello che ha stimolato l'interesse nei confronti della tematica dell'OPG, lo spunto per avviare la ricerca, è senz'altro arrivato con la citata riforma. Una sorta di sospetto per l'afflato umanitario che aveva mosso la Commissione e per l'eccessiva aura rivoluzionaria con cui era presentata sui mezzi di stampa, mi ha spinto ad interrogarmi sulla reale portata dell'intervento normativo.

Da ciò è nata l'esigenza di capire cosa sia l'Ospedale psichiatrico giudiziario, quali categorie di persone vi siano destinate e soprattutto quale funzione svolga nella società contemporanea. L'ipotesi di partenza è che l'ospedale psichiatrico giudiziario, sin dalla sua nascita, abbia oscillato tra due opposti paradigmi: quello terapeutico-riabilitativo e quello difensivo-custodialistico che, con sorti alterne, hanno rappresentato la giustificazione della sua esistenza ed hanno legittimato - in un sistema penale che è ancorato al principio espresso nel brocardo latino nulla poena sine culpa - un intervento repressivo nei confronti di soggetti non imputabili, in ragione della loro presunta pericolosità sociale.

Per cogliere la funzione dell'ospedale psichiatrico giudiziario oggi, nella fase del suo formale superamento, ci è sembrato imprescindibile rintracciarne le radici storiche. La prima ragione che ci ha guidato in questa scelta è stata una constatazione semplice ma significativa: l'ospedale psichiatrico giudiziario (in origine chiamato manicomio giudiziario) è nato da meno di centoquarant'anni. Questa osservazione ha contribuito a scardinare quelle convinzioni che ci spingono spesso a percepire alcune istituzioni come naturali, giustificate da una razionalità universale, connesse ad una funzione imprescindibile. Queste sono in realtà storicamente e culturalmente determinate, non fluiscono come «magnifiche sorti e progressive» (3) di una razionalità che nella storia si dispiega, ma emergono in un contesto storico come elementi di rottura e discontinuità con il passato che poi si sviluppano tra teorie e pratiche spesso contraddittorie, continui aggiustamenti, riforme e controriforme.

Il metodo che andremo ad utilizzare è, dunque, quello storico-genealogico. Non ci limiteremo ad un elenco di normative, leggi e regolamenti che si sono susseguiti nel tempo. Ricostruiremo la storia dei pensieri, delle teorie, delle concezioni filosofiche che nel corso di un secolo e mezzo di vita di questa istituzione si sono avvicendate e contrastate. Analizzeremo anche le prassi, gli orientamenti giurisprudenziali e la dottrina che hanno costruito l'istituzione così come appare oggi ai nostri occhi. Alla base della predilezione per questa metodologia vi è la convinzione che i fenomeni non siano governati da una serie di enunciati prescrittivi, che il diritto non si possa circoscrivere ad un insieme di dispositivi contenuti nelle leggi, nei regolamenti e nelle altre fonti scritte che impariamo nel corso degli studi a sistemare secondo una rigida gerarchia delle fonti, ma che l'esperienza storico-normativa sia un'esperienza di prassi applicative, di letture giurisprudenziali, di produzione dottrinaria di schemi interpretativi.

Procedendo in senso cronologico, nel primo capitolo cercheremo di dimostrare come l'idea del manicomio criminale (questo era il nome che i criminologi positivisti avevano dato all'istituzione oggetto di questo studio) sia emersa sul finire del XIX secolo come soluzione alla percezione di un nuovo problema sociale, quello della pericolosità dei folli rei, ovvero coloro che avevano commesso un delitto in stato di pazzia. Nell'ambito di un più ampio processo di individualizzazione dell'istanza punitiva e di spostamento della funzione della pena dalla general-prevenzione alla special-prevenzione, si è costruita la categoria del pazzo-criminale alla cui pericolosità si dovevano offrire risposte adeguate, nella logica razionalista ed utilitarista del problema-soluzione. Dunque, il manicomio criminale, già nella sua prima elaborazione presentava i caratteri di un'istituzione a metà tra il manicomio e la prigione, con funzione di custodia di un soggetto doppiamente pericoloso (in quanto reo e in quanto folle) e di cura dal doppio morbo della malattia mentale e della delinquenza.

Il problema della pericolosità dei soggetti etichettati come folli e allo stesso tempo criminali era sentito soprattutto nei confronti di coloro che erano stati spinti al delitto dalla loro condizione di pazzia. Nonostante questo, le prime istituzioni, in ragione delle modalità con cui furono introdotte nel nostro ordinamento - vennero create con atto amministrativo del Direttore generale delle Carceri - in una prima fase furono destinate ad accogliere soltanto i servi di pena impazziti, i rei folli. I manicomi giudiziari sono rimasti in vita sotto la scure delle critiche promosse anche dai loro stessi fautori, fino ad estendere le categorie dei soggetti che vi erano destinati per ricomprendervi, come nel modello positivista, i folli rei.

Cercheremo inoltre di mettere in luce come la duplice funzione terapeutico-riabilitativa e difensivo-custodialistica siano rimaste come legittimazioni dell'istituzione anche con la sua consacrazione normativa operata con il Codice Rocco del 1930. Il Codice, nato dall'elaborazione di un terzo modello di penalità, compromesso tra quello "classico" e quello "positivo", ha adottato un sistema a doppio binario che prevede una biforcazione delle risposte pubbliche all'illecito penale. In questo sistema, in cui convivono pene con funzione general-preventiva e misure di sicurezza con funzione special-preventiva, cura e custodia appaiono come pezzi di un puzzle che si incastrano armonicamente in un complessivo disegno di difesa sociale. Le esigenze di difesa sociale giustificavano un durissimo intervento repressivo nei confronti del malato di mente autore di reato al quale si poteva applicare una misura detentiva con durata minima certa ma potenzialmente prorogabile ab aeterno e un regime molto più severo di quello riservato al reo comune.

Nel secondo capitolo cercheremo di mettere in luce come, con l'avvento della Carta costituzionale e la graduale affermazione dei suoi principi, il manicomio giudiziario sia stato giustificato - soprattutto dalla dottrina - in ragione della sua presunta funzione terapeutica. Nell'ambito di una più ampia riflessione sulla legittimità del doppio binario e sulla necessità di creare una linea netta di demarcazione tra le pene e le misure di sicurezza che permettesse di differenziarle, il manicomio giudiziario è stato adattato al mutato contesto, mantenendo però le sue caratteristiche di fondo inalterate. La Corte Costituzionale, infatti, quando è stata chiamata ad esprimersi sulla legittimità della presunzione di pericolosità sociale ha finito per confermare la duplice funzione custodialistico-terapeutica dell'istituzione.

Con il terzo capitolo cercheremo di mostrare come, nel corso degli anni '70 si sia iniziata a percepire una rottura del binomio cura e custodia e siano emerse tutte le sue contraddizioni. La riflessione e le pratiche poste in essere in quegli anni dal movimento antipsichiatrico hanno evidenziato i caratteri violenti dell'istituzione manicomiale e hanno portato ad una battaglia per la dissoluzione del paradigma psichiatrico al grido di «la libertà è terapeutica» (4). La malattia mentale doveva essere messa da parte fintanto che non si fosse dissolto, disgregato il rapporto di potere tra psichiatra e paziente.

Se fino agli anni '70 la cura e la custodia di soggetti pericolosi avevano accomunato il trattamento del malato di mente autore di reato con quello del malato di mente comune, con la legge Basaglia - n. 180 del 1978 - l'assistenza psichiatrica si articolava su un nuovo modello. Si rinunciava all'istituzione chiusa per il trattamento delle malattie mentali e si rifiutava l'attribuzione allo psichiatra dei compiti di tutela dell'ordine pubblico. L'intervento pubblico sul malato di mente non era più fondato sulla sua pericolosità ed il trattamento psichiatrico era a pieno titolo inserito tra i servizi preposti alla tutela del diritto alla salute. Nel contesto innovativo degli anni '70 il manicomio giudiziario/ospedale psichiatrico giudiziario è rimaneva l'ultimo baluardo del modello manicomiale in corso di superamento.

Negli stessi anni in cui all'internamento manicomiale si sostituiva un apparato di servizi a tutela della salute mentale, il diritto penitenziario e il paradigma penologico si adeguavano all'ideale rieducativo sancito dalla Costituzione. Con il nuovo ordinamento penitenziario - legge n. 354 del 1975 - il manicomio giudiziario cambiava nome e diventava ospedale psichiatrico giudiziario, ma non per questo mutava la sua natura di istituzione sostanzialmente carceraria volta alla special-prevenzione e alla custodia. Osserveremo, infatti, come il nuovo ospedale psichiatrico giudiziario abbia conservato le qualità penitenziarie del precedente manicomio giudiziario con un'architettura simile, personale dipendente dall'amministrazione penitenziaria, un regime ancor più severo di quello riservato ai detenuti. Anche nel nuovo ospedale psichiatrico giudiziario si applica un regime deteriore rispetto a quello previsto per i detenuti, in ragione della supposta differenza funzionale di pene e misure di sicurezza. Allo stesso tempo, le peculiarità di un'istituzione che non è esclusivamente terapeutica consentono che si consolidi l'abissale distanza dal nuovo modello di terapia destinata il malato di mente di comune.

Nel quarto capitolo analizzeremo i primi passi della "svolta in senso sanitario" dell'istituzione, che ha caratterizzato la sua storia negli ultimi anni. Nel silenzio del legislatore, la Corte Costituzionale, tra gli anni '80 e i primi anni 2000, è intervenuta a scardinare i rigidi automatismi della disciplina del codice penale che facevano seguire alla commissione del reato l'internamento per un periodo di tempo minimo certo ed un massimo indeterminato. In un primo momento - con la sentenza n. 139 del 1982 - la Corte ha scardinato la presunzione di pericolosità sociale. Successivamente - con la sentenza n. 253 del 2003 - ha allargato lo spettro delle misure di sicurezza applicabili al prosciolto folle ritenuto pericoloso. Con queste sentenze la Corte ha mutato il suo precedente indirizzo nel bilanciamento tra le esigenze custodiali e il diritto fondamentale alla salute, affermando - con la sentenza n. 253 del 2003 - l'assoluta preminenza di quest'ultimo.

La sanitarizzazione dell'istituzione è stata portata a compimento dalla recente riforma della sanità penitenziaria che ha inserito la medicina penitenziaria tra le competenze del servizio sanitario nazionale. Nel quinto capitolo analizzeremo gli effetti della nuova normativa unitamente alle diverse proposte di riforma del sistema delle misure di sicurezza e dell'ospedale psichiatrico giudiziario. Ci concentreremo infine sulla opzione di sanitarizzazione che è stata perseguita dal legislatore con la legge n. 9 del 2012, e che dovrebbe portare, attraverso una prima fase di territorializzazione ed attribuzione delle competenze sanitarie alle USL, al definitivo superamento dei vecchi ospedali psichiatrici giudiziari entro un termine prefissato. La riforma mantiene intatta la disciplina codicistica delle misure di sicurezza ed il ricovero, che non avverrà più nell'ospedale psichiatrico giudiziario ma nelle nuove residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza, continuerà ad essere subordinato all'esistenza del requisito soggettivo della pericolosità sociale. Ci chiederemo se la sanitarizzazione dell'OPG e la scelta di far prevalere l'aspetto terapeutico su quello custodiale saranno sufficienti a scardinare quel paradigma ottocentesco basato sull'idea della segregazione e della cura della malattia mentale e del disagio psichico o se, piuttosto, non ci troveremo di fronte all'ennesima truffa delle etichette, ad una cambiamento puramente nominale.

Con il sesto capitolo ci dedicheremo ad una analisi statistica quantitativa degli effetti dei mutamenti analizzati nei capitoli precedenti. La prima parte sarà destinata all'analisi retrospettiva degli effetti delle pronunce della Corte Costituzionale del 1982 e del 2003, la seconda ai possibili effetti futuri della riforma. Mostreremo come le sentenze con le quali la Corte Costituzionale ha tentato di adeguare l'istituzione al modello terapeutico-riabilitativo, abbiano finito per produrre un effetto espansivo dei meccanismi di controllo, che non ha condotto ad una deistituzionalizzazione degli OPG e ad una riduzione del ricorso alle misure di sicurezza destinate ai non imputabili, ma piuttosto ha allargato il bacino dei soggetti sottoposti a controllo. In considerazione del fatto che la scelta del legislatore si pone in continuità con l'opzione di sanitarizzazione espressa nelle sentenze della Corte Costituzionale, ci chiederemo se sia plausibile aspettarsi un analogo effetto espansivo della popolazione soggetta a controllo nelle nuove strutture che di qui a breve andranno a sostituire gli OPG.

Note

1. F. Amabile, "Giustizia: tutto l'orrore degli OPG nei risultati dell'inchiesta sugli "ultimi manicomi", La Stampa, 16 Marzo 2011; A. Sarno," La vergogna degli Ospedali psichiatrici. «Condizioni disumane per gli internati», La Repubblica, 16 marzo 2011.

2. F. Cordio, "Ospedale psichiatrico giudiziario. La vergogna italiana", in R. Iacona, Presa diretta, Rai 3, 20 Marzo 2011.

3. G. Lepoardi, "La ginestra", in G. Leopardi, Leopardi. Diciassette poesie, Milano, Mondadori, 1996.

4. La frase è tratta dalla vignetta di U. Guarino, "La libertà è terapeutica", in U. Guarino, Zitti e buoni! Tecniche del controllo, Milano, Feltrinelli, 1979.