ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo sesto
Aporie nella concretezza

Irene di Valvasone, 2013

1- Il cambiamento della popolazione carceraria: il problema dell'emarginazione e dei detenuti non definitivi. La recherche d'emploi tra le condizioni di accesso alle misure alternative

Per completare il discorso sulle misure semidetentive e detentive non carcerarie, è necessario concludere analizzando brevemente ciò che accade nella prassi, quali sono i problemi che sorgono quando in concreto si cerca di applicare queste misure. I problemi principali sono sempre gli stessi, che da anni dottrina e giurisprudenza mettono in evidenza; non mi ripropongo certo di dare un'impronta innovativa allo studio della materia. Ma la loro attualità impone di farli presente ancora una volta. E nuovamente il leit motiv che fa da sfondo alla ricerca è il fenomeno del sovraffollamento nelle carceri italiane. La volontà di analizzare pregi e difetti delle alternative alla pena detentiva ha come principale e urgente scopo quello di affrontare l'emergenza carceraria.

Se è vero che le misure alternative limitative della libertà personale sono applicate con una certa frequenza e che non si può certo lamentare una diffidenza, una ritrosia, da parte della magistratura nel concederle (eccezion fatta per la semidetenzione), quello che si deve sottolineare sono le diseguaglianze nella loro applicazione.

La prima discriminazione riguarda i soggetti che hanno commesso uno dei delitti previsti nell'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354. Il divieto di applicazione dei benefici penitenziari crea una presunzione di pericolosità per certe categorie di condannati che si pone in contrasto col principio d'individualizzazione delle pene. Certamente si tratta di soggetti che hanno commesso reati gravissimi, ma escluderli a priori significa escludere non solo la possibilità, ma l'idea stessa che alcuni delinquenti possano essere rieducati. Per quanto sicuramente si possa provare a creare un collegamento tra gravità del delitto e maggiori difficoltà di reinserimento, non mi risulta che esistano studi che affermano l'impossibilità di rieducare alcune persone, a seconda del reato che hanno commesso. Inoltre, continua a rendere perplessi il fatto che gli autori di determinati delitti, ai quali in fase processuale è garantito il diritto di non collaborare, si vedano invece precluso l'accesso ai benefici penitenziari se non collaborano durante la fase dell'esecuzione della pena. (1) La questione è stata affrontata anche dalla Commissione Mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza, presieduta dal professor Giostra. La commissione propone di modificare l'art. 4-bis limitando il divieto ai soli autori di delitti mafiosi o di terrorismo, per ristabilire la ratio originaria della norma in questione, che era appunto quella di dare importanza anche in fase esecutiva al perdurare dei collegamenti con la criminalità organizzata. (2) La legislazione d'emergenza, legata al contingente, ha esteso il divieto a soggetti che hanno commesso «un'accozzaglia di reati», impedendo a priori il trattamento rieducativo dei condannati. (3) Pertanto, riportare l'articolo 4-bis alla sua versione originaria consentirebbe di ridurre la più vasta fra le presunzioni di pericolosità dell'ordinamento penitenziario.

Stesso discorso vale per le esclusioni basate sul reato o sul tipo d'autore che di volta in volta il legislatore prevede nella disciplina delle singole misure o sanzioni alternative. Innanzitutto, ci sono le preclusioni per i recidivi con l'aggravante del quarto comma dell'articolo 99 c.p., che tuttavia, il decreto n. 78 del 2013 ha provveduto, in parte, ad eliminare; anche se, durante la conversione in legge 9 agosto 2013, n. 94, sono stati soppressi gli articoli che abrogavano l'art. 30-quater O.P. che disciplina la concessione dei permessi premio ai recidivi e il comma 7-bis dell'art. 58-quater, che vieta di concedere i benefici penitenziari più di una volta a questa categoria di soggetti, che pertanto continuano a svolgere il loro effetto preclusivo.

Ma ci sono altri titoli di reato, categorie di autori che il legislatore trasforma in esclusioni senza nessun criterio razionale. Ad esempio, nella detenzione domiciliare ex legge 26 novembre 2010, n. 199, si ammettono i recidivi reiterati ma si escludono coloro che sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza. Dato che la dichiarazione di delinquenza abituale è basata sulla commissione dello stesso numero di reati dell'articolo 99, comma quarto, del codice penale, è difficile riuscire a giustificare tale differenza di trattamento. (4) Ma lo stesso discorso si può estendere a tutte le preclusioni soggettive.

Insomma, le esclusioni automatiche cercano di limitare l'accesso ai benefici per ragioni di difesa sociale. Se anche si possono comprendere, in alcuni casi, queste esigenze di tutela, l'automatismo della disciplina fa sì che l'ago della bilancia penda soltanto dalla parte della prevenzione generale. Abbiamo, infatti, visto il rifiuto della Corte costituzionale di accettare gli automatismi in materia penale, e in particolar nella fase dell'esecuzione della pena. Inibire l'accesso alle misure alternative alla detenzione per gravi reati, o addirittura attraverso la tipizzazione dei titoli di reato si pone in contrasto coi principi di proporzionalità e d'individualizzazione della pena; delineare delle preclusioni automatiche basate sul tipo di autore non è conforme alla funzione rieducativa della sanzione. (5) La pena deve tendere alla rieducazione del reo, e per farlo deve essere individualizzata, nel senso che deve essere costantemente adeguata all'evoluzione del comportamento del condannato, cosa che implica l'utilizzo di poteri discrezionali da parte del giudice. La previsione di preclusioni automatiche crea un percorso differenziato nell'esecuzione penale a discapito di alcuni soggetti, il cosiddetto "doppio binario" appunto, lesivo del diritto di uguaglianza. In questo modo, inoltre, contribuisce non poco all'affollamento delle carceri. Togliere le preclusioni automatiche non significa, però, concedere le misure alternative a chiunque, anche a soggetti potenzialmente pericolosi, ma semplicemente rimettere al giudice la valutazione in concreto su chi si dimostri meritevole di accedervi. (6)

Molte disparità di trattamento nell'accesso alle misure o sanzioni alternative derivano dal cambiamento della popolazione carceraria e dal mutamento della situazione economica del Paese. Le misure alternative infatti furono introdotte nel 1975, perciò i destinatari che il legislatore di allora aveva in mente sono molto diversi dai destinatari di oggi. In particolare, si registra una diversificazione nella composizione della popolazione penitenziaria, di modo che l'applicazione in maniera omogenea dei benefici del trattamento rieducativo non può che alimentare le disparità. È impossibile negare infatti che molta parte della popolazione carceraria appartiene alle fasce più deboli, più povere della società. Si parla degli emarginati, degli ultimi. Ma anche rimanendo all'interno di questa categoria, si deve constatare un cambiamento nelle persone che finiscono in carcere. Mi riferisco principalmente agli stranieri e ai tossicodipendenti. (7) Attualmente i detenuti stranieri in Italia sono 22.744, il 35% del totale della popolazione detenuta. La spiegazione al perché di questo numero elevato è semplice da individuare: gli stranieri non danno garanzie. Quelli che delinquono sono spesso irregolari, e anche se si è affermato che il trattamento rieducativo è un diritto anche per gli immigrati, la magistratura non può, comprensibilmente, mandare in misura alternativa qualcuno che non ha né lavoro né abitazione né permesso di soggiorno. Lo dimostrano anche i dati sui detenuti non definitivi: su 23.649 imputati che si trovano in custodia cautelare, gli stranieri sono 9.539. Eppure i reati che vengono commessi dagli stranieri sono, quasi sempre, reati patrimoniali o di piccolo spaccio, oltre ai reati legati alla condizione d'immigrato. Reati, dunque, che di solito non appaiono indiziari di una particolare pericolosità. (8) Ciò significa che l'affidabilità degli stranieri è sicuramente inferiore a quella degli italiani, ma solo per motivi contingenti, come dire, esterni dalla volontà dei soggetti.

Un altro rilevante problema riguarda l'alto numero di tossicodipendenti o alcooldipendenti negli istituti di pena. In questo caso, è invece dimostrato che la tossicodipendenza è un fattore criminogeno, ma il punto è un altro: a cosa serve loro il carcere? Se è la dipendenza a spingere alla delinquenza, per cercare di evitare la reiterazione dei reati si dovrà eliminare la spinta criminogena dovuta al bisogno di sostanze stupefacenti o alcoliche. E il carcere, per fare ciò, non serve a niente. Si può neutralizzare per un po' la pericolosità della persona, ma appena il soggetto torna in libertà, inizierà nuovamente a delinquere. Sul fatto che sia possibile disintossicarsi in carcere non c'è bisogno di discutere, perché non è un luogo adatto per curarsi, e perché la quantità di droga che circola lì dentro non aiuta affatto. L'unica via per recuperare, anche solo parlando in termini pragmatici di lotta alla recidiva, i tossico o alcool dipendenti è la strada della disintossicazione, che sicuramente non è un percorso facile e spesso termina con una ricaduta, senza contare il problema che obbligare una persona a disintossicarsi, magari col ricatto "o la cura o il carcere", non è il miglior modo per provarci. In proposito, il "decreto carceri" ha ampliato i casi in cui è possibile ricorrere alla sanzione del lavoro di pubblica utilità quando il reato è stato commesso da persona tossicodipendente. Dato che il lavoro di pubblica utilità è indubbiamente un'ottima alternativa alla detenzione, ma che il problema è trovare società o cooperative che offrano questo tipo di servizio, non sono sicura che offrire questi pochi posti disponibili soltanto a chi soffre di una dipendenza, che quindi lo rende poco affidabile, sia una buona scelta.

Ci sono poi altri emarginati: poveri, senzatetto, persone con uno scarso livello di scolarità, che indubbiamente hanno minori possibilità di accedere alle misure alternative, perché non hanno i mezzi. Il domicilio e il lavoro in fondo sono richiesti in tutte le misure previste dall'ordinamento penitenziario, pertanto risulta svantaggiato chi già in partenza è svantaggiato. L'avvocatura d'ufficio, poi, non è vero che garantisce le stesse possibilità che offrono gli avvocati di fiducia.

Eppure, in realtà le misure alternative sarebbero più utili a queste categorie di persone, che agli individui pienamente inseriti; anzi, l'idea stessa di rieducazione è nata pensando a queste persone. Il recupero sociale della persona si ottiene con l'offerta di un'istruzione, di esperienze lavorative e rapporti sociali con persone che provengono da un ambiente "migliore", con più possibilità. (9) Che poi, in carcere, queste attività in concreto non vengano offerte, è un altro discorso. I cosiddetti "colletti bianchi", le persone che provengono da una classe medio-alta, non hanno bisogno di essere rieducati, perché generalmente non hanno mai avuto problemi né di soldi né di affetti. Non c'è bisogno di recuperarli, sono perfettamente inseriti. Perciò, si rileva una contraddizione insita nelle stesse misure alternative: se da una parte sono finalizzate al reinserimento di quei soggetti che, per svariati motivi, sono ai margini della società, dall'altro sembrano avere come beneficiari soltanto coloro non hanno bisogno di essere rieducati, perché già perfettamente inseriti. Non si comprende, in concreto, in che modo le misure alternative possano rieducare un manager o un alto dirigente o un politico, che senso abbia, ad esempio, concedere loro la semilibertà al fine d'inserirli nel mondo del lavoro. Dall'altra parte, risulterebbe quasi vendicativo, oltre ad essere discriminatorio, ritenere che sia utile solo la pena detentiva nei confronti dei cosiddetti "colletti bianchi". (10) Non si può negare, però, che ottenere una misura alternativa alla detenzione per queste persone è notevolmente più facile che per la categoria degli emarginati.

Un'altra rilevante ingiustizia che colpisce la popolazione carceraria riguarda l'alto numero di soggetti non definitivi. Se il principio di non colpevolezza è un pilastro della democrazia, non si può accettare che il 36% della popolazione detenuta sia costituito da imputati. Addirittura, di questa cifra impressionante poco meno della metà sono detenuti in attesa del giudizio di primo grado. (11) Una ragione fondamentale si riscontra nella lentezza dei processi in Italia, lentezza che allunga i tempi della custodia cautelare. Un altro motivo è, nuovamente, la previsione di una disciplina automatica per alcune categorie di persone, per le quali il legislatore presume che non possano che attendere la sentenza definitiva in carcere. Ma da sole queste ragioni non sono sufficienti: forse un po' di colpa va data anche ai magistrati, a volte preoccupati più di assicurare qualcuno alla giustizia che di garantire il rispetto dei diritti dell'individuo. Anche perché il vero problema della carcerazione degli imputati non è solo una questione di rispetto dei principi dell'ordinamento, ma comporta anche l'impossibilità di accedere ai benefici penitenziari. Da una parte, si afferma che il trattamento dei detenuti in custodia cautelare deve essere improntato al rispetto del principio di non colpevolezza, dall'altra però, proprio perché non sono definitivi non possono accedere agli strumenti del trattamento rieducativo. E questo comporta che di fatto i detenuti imputati subiscono in carcere un trattamento peggiore, meno vantaggioso, rispetto al trattamento di chi è stato dichiarato colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio. Spesso diventano definitivi avendo espiato interamente la pena e ciò gli impedisce di usufruire della liberazione anticipata, dei permessi premio, o delle alternative alla detenzione.

Queste cause d'ingiustizia che caratterizzano la popolazione penitenziaria si riflettono indubbiamente sul fenomeno del sovraffollamento. I pochi posti disponibili nella case di accoglienza o nelle comunità in generale non aiutano ad eliminare le discriminazioni nei confronti di chi non può accedere alle misure perché non ha un posto dove dormire.

Le difficoltà a trovare un lavoro, e a mantenerlo, sono aggravate dalla pesante e ben nota recessione economica del Paese. Tutte queste cause, che si possono definire esterne in quanto non attinenti ad una sorta d'immeritevolezza della misura da parte del condannato, rendono ancora più difficile l'accesso alle alternative da parte degli emarginati. Si delinea un carcere come luogo in cui nascondere i problemi reali agli occhi della società, invece di risolverli, un carcere, appunto, come «discarica sociale». (12) Cercare di risolvere queste discriminazioni potrebbe indubbiamente anche servire a ridurre la popolazione detenuta. Per usare parole più incisive delle mie: «non prevediamo l'uscita dal carcere e il non ingresso in carcere perché ci sono pochi posti disponibili, ma perché ci sono soggetti che rispettivamente non debbono rimanerci e non debbono entrarci». (13)

D'altronde, il fenomeno del sovraffollamento non è solo un problema di numeri ma è un problema di rispetto della persona e dei suoi diritti: c'è chi storce il naso quando si afferma che stipare in una cella da due, tre o quattro (a volte anche di più!) persone sia un trattamento disumano e degradante, ma a parte la retorica (che per la verità corrisponde alle parole usate dalla Corte europea) non è degno di un Paese civile privare gli individui della loro privacy, dei loro spazi, costringendoli a vivere a strettissimo contatto con degli estranei. E ne risente pure la salute non solo mentale, ma anche fisica delle persone. Morire di carcere non è solo uno slogan, visto che recenti studi dimostrano che esiste una relazione inequivocabile fra il sovraffollamento e il numero di suicidi negli istituti penitenziari. In verità, se si confronta il numero dei suicidi in Italia con quello in altri Paesi europei non siamo affatto sopra la media, ma se si confronta il numero di suicidi in carcere e fuori da esso, il divario da noi è nettamente più alto che in altri Paesi. (14) È difficile non pensare ad un collegamento con le condizioni di vita negli istituti penitenziari, condizioni che sicuramente sono aggravate dalla situazione di sovraffollamento. Ma ancora più alto è il numero di morti "naturali" avvenute all'interno delle mura carcerarie, morti che chiedono spiegazioni allo Stato di diritto, Stato che dovrebbe tutelare i diritti fondamentali della persona, in primo luogo il diritto alla salute e all'incolumità. (15)

La pena è indefettibile; la pena detentiva consiste nella privazione della libertà personale. Non sta scritto da nessuna parte che la pena debba consistere nella privazione del diritto alla riservatezza, nella violazione della dignità umana, nella lesione del diritto alla salute, finanche del diritto alla vita. Come stabilito dalla Regole penitenziarie europee, dato che la privazione della libertà personale costituisce di per sé una punizione, il regime detentivo non deve aggravare la sofferenza dei condannati. (16)

Ci sono, poi, altre due ragioni che devono spingerci ad incentivare il ricorso alle misure alternative, attraverso una loro generale ristrutturazione, e ad affrontare il problema del sovraffollamento. La prima ragione è assolutamente pragmatica: la detenzione in carcere è la sanzione più costosa di tutte, perciò in tempi di crisi, il ricorso alle alternative alla pena detentiva, si potrebbe considerare un'intelligente manovra finanziaria.

Il secondo motivo si lega al fenomeno della recidiva. È stato calcolato che coloro che scontano la pena in carcere hanno una probabilità di commettere ulteriori reati pari al 68-69% dei casi, mentre per coloro che hanno usufruito di una misura alternativa il tasso scende al 19%, per arrivare all'1-2% quando il soggetto è riuscito a inserirsi nel mondo del lavoro. Mi sembra che questi dati parlino chiaro. Inoltre, incidendo sul comportamento futuro dei condannati, si fa una previsione di lungo periodo, nel senso che si fa uscire qualcuno dal carcere e si aumentano le probabilità che non ci rientri. (17)

Nell'ordinamento francese sono presenti alcuni piccoli accorgimenti, che denotano un'attenzione più marcata alle reali difficoltà dei giorni nostri. Si tratta delle attività necessarie ad ottenere la semi-liberté o la surveillance électronique che introducono delle norme atte a favorire l'ingresso nel mondo del lavoro. Innanzitutto, si permette per la concessione di una peines aménagées lo svolgimento di un lavoro a tempo determinato, che abbia una durata inferiore alla durata della pena che resta da espiare. Nella consapevolezza della flessibilità del mercato del lavoro di oggi, si evita di negare l'accesso alle misure alternative perché si trovano soltanto lavori a tempo determinato. Allo scadere del termine, poi, se il contratto non viene prolungato, viene data comunque la possibilità di trovarsi un nuovo lavoro. In realtà, la Corte di Cassazione francese nel 2003 aveva affermato che l'attività da svolgere doveva avere durata non inferiore a quella della pena da espiare. L'introduzione, però, con la legge penitenziaria del 2009, della recherche d'emploi porta a concludere che sia possibile, al termine dell'attività a tempo determinato, cercare un altro lavoro senza dover revocare la misura e espiare in istituto penitenziario il resto della pena. (18)

Il secondo accorgimento è appunto l'introduzione della ricerca di un impiego tra le condizioni d'ammissibilità: si concede una peines aménagées anche se non c'è un lavoro o una qualsiasi attività risocializzante, ma proprio per mettersi alla sua ricerca. Non c'è dubbio che si tratti di un forte incentivo alla concessione delle peines aménagées. (19) Si dà la possibilità a chi non lavora, di non rinunciare al trattamento rieducativo delle alternative al carcere, e di cercare proprio quel bene la cui assenza è molto spesso un incentivo alla reiterazione del reato. Il Jap dovrà però trovare un modo di dare attuazione a questa misura, innanzitutto delimitando bene le ore in cui al soggetto è permesso di andare alla ricerca di un impiego e quando deve tornare in istituto di pena o nella propria abitazione. Dovrà anche valutare attentamente la persona e la sua reale determinazione a trovare un lavoro, con l'aiuto dei servizi sociali, oppure si rischia che si risolva in una misura senza nessun'attività risocializzante, in un istituto quasi indulgenziale. (20)

Sono accorgimenti sicuramente importanti, che tengono presente la realtà economica e del mercato del lavoro in particolare. Tuttavia, credo che dovremmo vedere quanto nella prassi vengano accolte queste richieste, perché subordinare una misura alternativa ad un'attività che non esiste perché è la ricerca dell'attività stessa non dà molte garanzie alla magistratura, che pertanto credo che accolga raramente le richieste basate su questi presupposti.

2- La pena detentiva ancora in primo piano. Le semidetenzioni: sanzioni alternative che non superano la centralità carceraria. La detenzione domiciliare: una misura che non rieduca

Le disfunzioni nella prassi della concessione delle misure alternative non rispondono ancora al quesito di fondo: perché nel nostro Paese è così accentuato il fenomeno del sovraffollamento nelle carceri? La colpa sta negli automatismi del legislatore, negli emarginati che non hanno lavoro né domicilio, nella magistratura che utilizza troppo frequentemente la custodia cautelare? Queste non sono certo le cause del sovraffollamento, sono soltanto malfunzionamenti nella disciplina delle alternative al carcere che vengono fuori quando vengono applicate in concreto. Impegnarsi a risolvere queste imperfezioni può indubbiamente diminuire di qualche unità le presenze in carcere, ma non spiega il perché del fenomeno.

La risposta più ovvia, più banale sta nel fatto che le strutture carcerarie sono inadeguate. È molto semplice: la capienza degli istituti penitenziari è insufficiente perché non ci sono abbastanza strutture. Ma abbastanza rispetto a cosa? È un dato di fatto che, in tutti i Paesi occidentali, la popolazione detenuta è andata sempre ad aumentare, dal dopoguerra ad oggi. In particolare, questo incremento della popolazione penitenziaria non va affatto di pari passo con l'aumento della popolazione residente in Italia, anzi lo supera in maniera esponenziale. (21) La risposta non si può certo trovare nell'idea che il mondo stia diventando sempre più cattivo, di anno in anno, ma risiede in ben precise politiche criminali, che alimentano una penalizzazione crescente delle condotte, e favoriscono una repressione rigida e soprattutto discriminatoria. La riprova sta negli effetti dell'indulto del 2006, l. 31 luglio 2006, n. 241, un provvedimento adottato proprio per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri, ma che ha esaurito i suoi effetti in pochi anni. Già nel 2009 la popolazione era tornata, anzi aveva nuovamente superato, quella presente prima dell'emanazione dell'indulto. (22) Come si spiega che in così poco tempo abbiamo nuovamente superato i 60 mila detenuti? Come si spiega che l'allargamento delle condizioni di accesso alle misure alternative per scopi meramente deflazionistici non abbia minimamente influito sul tasso di carcerazione crescente? Ancora una volta la risposta è più semplice di quello che sembra. Il punto nodale è la centralità che la pena detentiva riveste nel nostro ordinamento. Il ricorso alla pena detentiva non cessa perché fondamentalmente è l'unica sanzione che abbiamo. I numeri delle sanzioni sostitutive le rendono assolutamente ininfluenti, quasi inesistenti, nel panorama delle pene. Le sanzioni del giudice di pace sono a sé stanti, perché riguardano solo quei reati che sono stati depenalizzati, probabilmente anche qui senza troppo coraggio da parte del legislatore.

Restano solo le misure alternative alla detenzione, che hanno sicuramente un forte impatto sul sistema sanzionatorio. Ma le misure previste nell'ordinamento penitenziario non sono delle vere alternative alla pena detentiva, sono comunque istituti che vengono presi in considerazione in un secondo momento, dopo che è intervenuta la sentenza di condanna, nella fase dell'esecuzione penale. Perciò, invece di creare degli strumenti che releghino ad ultimo ricorso la pena detentiva, continuano ad affermarne la centralità. Un sistema basato sulle misure alternative, oltre ad accrescere i poteri discrezionali della magistratura, continua a perpetrare l'idea della centralità del carcere. (23) La pena detentiva è ancora la sola e unica sanzione penale, e può essere rivista e corretta solo in un secondo momento, nella fase dell'esecuzione. Anche se ormai tutte le alternative alla detenzione possono essere concesse ab initio, è comunque necessario passare dalla condanna alla pena detentiva, ed è sempre possibile tornare in carcere in caso di revoca. (24) Siamo ben lontani dall'attuazione del principio di extrema ratio della pena detentiva.

Analizzando, poi, nello specifico le misure oggetto della ricerca, si capisce meglio perché la pena detentiva continua ad avere un ruolo di primo piano nel panorama sanzionatorio italiano. Da questo punto di vista, criticare le misure semidetentive è troppo facile. Le modalità stesse della loro esecuzione, caratterizzate dall'alternarsi di ore trascorse in istituto penitenziario e ore trascorse in libertà, legittimano il primato del carcere sulle altre sanzioni. L'afflittività di queste misure è concepita negli stessi termini della pena detentiva: attraverso la restrizione in carcere, anche se parziale. Ma è difficile comprendere in quali casi risulti proporzionata al fatto commesso: a seconda del reato commesso o della personalità del suo autore, la sanzione detentiva o risulta adeguata o appare eccessiva, ma non può considerarsi adeguata e eccessiva nello stesso arco di una giornata! Non è un caso che la semilibertà sia stata introdotta proprio in quei paesi che avevano un codice penale piuttosto vecchio: Italia, Francia (prima della riforma del '95, il codice penale era quello promulgato da Napoleone), Belgio. I codici più risalenti risentono, infatti, di un'impronta più autoritaria, con pene più severe. Perciò, si cerca di attenuare il regime detentivo, sproporzionato rispetto al nuovo sistema di valori, con una sanzione solo parzialmente detentiva. (25)

Le scarse attrattive delle misure semidetentive si riscontrano nell'applicazione in concreto: se i semidetenuti sono solo 11, i soggetti che hanno ottenuto la misura della semilibertà sono 896, numero sensibilmente più basso rispetto al numero di persone sottoposte alle altre misure alternative. I condannati in affidamento ai servizi sociali sono, infatti, più di 11 mila, mentre 10.760 sono le persone che hanno ottenuto di scontare la pena in detenzione domiciliare. (26) Tuttavia, va detto che per poter accedere al regime della semilibertà sono necessarie delle strutture apposite, istituti o apposite sezioni autonome che, ovviamente, sono poche e con pochi posti disponibili.

Le detenzioni domiciliari si basano su dei presupposti, che solo in apparenza sembrano facili da realizzarsi e a cui ho già accennato nel corso della trattazione. Innanzitutto, c'è il problema dell'effettività e idoneità del domicilio. Tra senzatetto, nomadi e stranieri si raggiunge sicuramente un numero non proprio irrilevante di persone a cui è precluso l'accesso alla misura domiciliare. Senza contare che l'idoneità del domicilio implica l'assenza di pregiudicati o complici del reato nella stessa abitazione, l'assenza o anche solo la lontananza da casa della persona offesa; a volte anche la zona o il quartiere in cui si trova l'abitazione può influenzare la decisione del giudice. L'obbligo di restare nel proprio domicilio ha poi due conseguenze: la prima, è la necessità di avere qualcuno che provveda alle indispensabili esigenze del quotidiano, come banalmente fare la spesa; la seconda, è l'importanza di trovarsi in una situazione di stabilità economica che permetta di sopravvivere, quindi, o una somma di denaro messa da parte, oppure qualcuno che possa mantenere la persona ristretta in casa. Altrimenti, ma in via eccezionale, il magistrato di sorveglianza può autorizzare il domiciliato a uscire per andare a lavoro, quando ciò gli sia necessario per sopravvivere, ma in questo caso si apre il discorso sulla disponibilità di un lavoro. La presenza di queste due condizioni non è richiesta dalla legge, ma la loro assenza rende difficile valutare positivamente il futuro rispetto delle prescrizioni. Se il beneficiario non ha soldi per vivere o qualcuno che esca al suo posto, la magistratura non può non ignorare le forti probabilità di violazione dell'obbligo di permanenza e addirittura del rischio di reiterazione del reato.

Tuttavia, la detenzione domiciliare è la misura alternativa che il legislatore ha più spesso utilizzato negli ultimi anni per raggiungere l'obiettivo della deflazione carceraria. Esaminando, inoltre, le proposte di riforma del codice penale si assiste al tentativo di "promuovere" la detenzione domiciliare a pena principale. La Commissione Grosso, ad esempio, istituita nel 1998 affinché redigesse un progetto di riforma del codice penale, proponeva di ampliare il ventaglio delle sanzioni penali, facendo assumere veste di pena principale, tra l'altro alle interdizioni, e appunto alla detenzione domiciliare. (27) La stessa previsione è stata inserita pure nel progetto elaborato dalla commissione Nordio, istituita nel 2001. (28)

Il primo vantaggio di una previsione del genere è quello di superare le critiche sull'assenza di contenuti risocializzanti della misura: laddove si configurasse la detenzione domiciliare come pena principale, la prevalenza degli aspetti punitivi e neutralizzanti sulle esigenze di recupero del condannato apparirebbe del tutto giustificata. Il contenuto principalmente afflittivo e contenitivo sarebbe una conseguenza della stessa natura di pena della detenzione domiciliare. Inoltre, si creerebbe un'alternativa al carcere da poter considerare tale, una sanzione che si sostituisce effettivamente alla pena detentiva. Come ulteriore conseguenza si otterrebbe l'eliminazione degli effetti desocializzanti nel quadro di una più efficace lotta alle pene brevi, evitando i rischi di "contagio criminale" e facendo defluire parte della popolazione carceraria fuori dai penitenziari. (29)

Tuttavia, il superamento del problema riguardante l'assenza di contenuti risocializzanti, a mio avviso, si basa su una premessa sbagliata: che la sanzione edittale debba essere irrogata solo in funzione di prevenzione generale, mentre alla funzione rieducativa è riservato largo spazio solo in fase esecutiva. La dislocazione delle funzioni della pena in momenti diversi della sottoposizione alla giustizia penale è il risultato della storia e dell'evoluzione del diritto penale nel nostro Paese. (30) Mentre la funzione di prevenzione generale scandisce la fase delle previsioni edittali come conseguenza dell'ideologia retribuzionista con cui è stato redatto il codice Rocco, la finalità special-preventiva della pena è la protagonista della fase dell'esecuzione penale. Si è già parlato dell'obiettivo di riequilibrio delle finalità della pena in base ai principi costituzionali che ha accompagnato la riforma penitenziaria del '75. Tuttavia, l'applicazione delle teorie polifunzionali della pena non dovrebbe limitarsi a questo. Il recupero sociale del colpevole di un reato non va perseguito soltanto in un secondo momento, ma deve essere un obiettivo costante, presente sia nella mente del legislatore che predetermina il trattamento sanzionatorio, sia nella valutazione del giudice della cognizione che procede alla commisurazione della pena in concreto, sia nel riesame della magistratura che adegua la sanzione ai progressi del condannato ottenuti grazie al trattamento penitenziario. Anticipare la detenzione domiciliare con lo scopo, tra le altre cose, di far cadere la discussione sull'assenza di contenuti risocializzanti della misura, si basa su premesse sbagliate, come sbagliata è la dislocazione delle funzioni della pena in fasi differenti. D'altronde, è la Corte costituzionale stessa che afferma che la detenzione domiciliare, in quanto misura alternativa, ha lo scopo di attuare la finalità rieducativa della sanzione. La legge 27 maggio 1998, n. 165, ha infatti sancito il cambiamento di finalità della detenzione extramuraria: l'introduzione della detenzione domiciliare ai sensi del comma 1-bis dell'art. 47-ter ord. pen. ha comportato che la finalità non sia più soltanto umanitaria e assistenziale, ma anche propriamente rieducativa, laddove l'alternativa al carcere viene applicata non a soggetti deboli che necessitano di una particolare tutela da parte dell'ordinamento, ma a tutti coloro che devono scontare una pena non superiore a due anni, anche se residuo di maggior pena, purché non sussista il pericolo di reiterazione del reato, al solo fine di realizzare il passaggio graduale dalla detenzione alla libertà piena. (31) È proprio il fatto che si tratti di una misura detentiva meno afflittiva del carcere che concretizza le esigenze di recupero sociale del condannato. Pertanto, la domanda da porsi dovrebbe essere, invece, in quale modo si possa riformulare la detenzione domiciliare nel rispetto della necessaria funzione rieducativa della pena. A questo quesito, si può rispondere prendendo come esempio l'ordinamento francese e allargando le attività risocializzanti anche al domiciliato. La finalità rieducativa della misura non si limiterebbe più ad evitare gli effetti desocializzanti del carcere, ma assumerebbe un contenuto positivo, attivo, di partecipazione del condannato stesso al suo reinserimento nella società.

La detenzione domiciliare è una sanzione limitativa della libertà personale. Se non si può dire che alimenta l'idea del carcere come pena per eccellenza, si può affermare che comunque continua a giustificare l'idea che la libertà personale sia il bene da sacrificare in conseguenza della violazione della legge penale. La detenzione domiciliare si può dire che fa parte della "famiglia" delle pene detentive, tiene viva l'opinione che la restrizione, la limitazione della libertà personale sia l'unico modo di concepire la sanzione penale. Allora, il vero motivo per cui la pena detentiva ha ancora un ruolo centrale, è perché in realtà si ritiene che non esista nessun'altra alternativa.

Ma, in verità, la pena detentiva è una sanzione recente, ha solo duecento anni, che nella storia dell'umanità non sono poi tanti. (32) Se per secoli si è fatto a meno della detenzione in carcere, se la storia delle pene insegna che la costante evoluzione dell'uomo è accompagnata da una progressiva evoluzione del sistema sanzionatorio, perché non pensare ad un'alternativa che non sia privativa del tempo da trascorrere in libertà? Certo "i tempi non sono maturi", ma questo non significa che non sia comunque giunto il momento d'iniziare a pensare che possono essere cercate delle vere alternative alla detenzione.

L'idea del carcere come ultima ratio non passa dunque attraverso l'individuazione delle alternative migliori possibili, ma dal cambiamento della stessa mentalità penalistica. Già il fatto che si definiscano misure alternative o sanzioni sostitutive rimanda all'idea che ogni pena presa in considerazione ha come presupposto la pena detentiva. Anche quando le misure alternative vogliono surrogarsi alla pena carceraria, il carcere rimane il punto di partenza. Mi rendo conto che la scelta di utilizzare la libertà personale come bene da sacrificare per aver commesso un illecito penale ha una sua logica, una sua ragion d'essere non facilmente superabile: la libertà personale è l'unico bene che tutti hanno. La pena detentiva ha quindi l'indubitabile pregio di garantire la stessa punizione a chiunque; è una pena concettualmente egualitaria. È questo il motivo per cui in Italia la pena pecuniaria non riesce a erodere gli spazi occupati dalla pena detentiva. Le sanzioni alternative che vengono comunemente ipotizzate si trascinano dietro il rischio di accentuare le disuguaglianze, invece che appianarle. C'è il fondato timore che chi ha beni ulteriori possa offrirli in cambio della privazione della libertà personale, chi non ne ha non potrà che continuare a subire la pena detentiva. (33)

I dubbi sono tanti, e i pericoli non sono da meno. Ma in una materia in cui entrano in gioco i diritti fondamentali dell'individuo è ancora più importante, anzi necessario, interrogarsi su quali siano le soluzioni migliori possibili.

3- La prassi in Francia: tante soluzioni, ma gli stessi problemi dell'Italia sul sovraffollamento

La ricerca nell'ordinamento francese di misure alternative alla pena detentiva corrispondenti alle nostre è stata piuttosto agevole, in primo luogo per la "corrispondenza linguistica". Ma anche le modalità con cui si eseguono la semilibertà e la sorveglianza elettronica, gli obblighi principali che le caratterizzano, sono assolutamente identici ai nostri. Eppure analizzando a fondo gli istituti si notano delle profonde, sostanziali differenze. Innanzitutto, la natura eterogenea delle peines aménagées, a volte giuridica, altre volte d'amministrazione giudiziaria. L'ambiguità stessa del termine aménagement costituisce un'indubbia differenza con le nostre misure alternative: racchiude, infatti, in una sola categoria le modalità d'esecuzione della pena detentiva, escludendo pertanto le misure sospensive e prescrittive, ma al contempo viene usato anche quando le misure sono irrogate dallo stesso giudice della cognizione, assumendo più propriamente la veste di pene principali o almeno di sanzioni alternative alla detenzione, determinando una certa confusione dovuta all'indifferenziazione semantica del termine. (34) La fungibilità tra semilibertà, sorveglianza elettronica e placement à l'éxtérieur, conseguenza del medesimo contenuto, delle scelte pragmatiche condivise, relative alla sottoposizione ad alcune attività, esprime una disciplina più semplice e meno dettagliata, che amplia sì i poteri discrezionali del giudice, ma è capace di limitare le disparità di trattamento che invece caratterizzano le nostre misure alternative. Introdurre strumenti del trattamento rieducativo al fine di tutelare una determinata situazione particolare, una determinata categoria di soggetti deboli, impone ogni volta di creare una nuova misura a tutela di una diversa categoria di persone o di una diversa situazione meritevole di tutela, alimentando invece le disparità di trattamento. L'indeterminatezza che caratterizza le peines aménagées accentua, anzi vuole accentuare, la discrezionalità giudiziale in materia di sanzioni, perché solo il giudice può scegliere, di volta in volta, quali siano le situazioni che in concreto meritano di essere tutelate. Il nostro ordinamento impallidisce di fronte alla grande attenzione per l'individualizzazione delle pene, espressa nel principio di personnalisation, che si traduce nell'ampia discrezionalità concessa al giudice in tutti i momenti che riguardano la sanzione: dalla previsione edittale alla comminatoria in concreto, alla fase dell'esecuzione. Ma, in fondo, l'ampliamento delle condizioni per accedere alle misure alternative ha portato all'estensione dei poteri discrezionali anche della magistratura italiana. Tuttavia, questa discrezionalità è male incanalata in precisi limiti legali, è estesa e ridotta a seconda del beneficio preso in esame, o anche dell'ipotesi all'interno di una stessa misura alternativa, a seconda della persona, del reato che ha commesso, di quante volte l'ha commesso. Si configura una disciplina rigidissima in apparenza, ma che poi si dimostra facilmente aggirabile. È sufficiente guardare alla detenzione domiciliare per rendersi conto che non sono necessarie tutte quelle ipotesi differenti. Inoltre, una normativa così complicata non fa che alimentare il ricorso alla legge, per correggere gli errori, le sviste, della legge precedente.

È indubitabile il prestigio di cui gode la pénologie in Francia, è sufficiente consultare il code pénal per rendersene conto: nel Libro primo della parte legislativa, il Titolo dedicato alle pene è spropositato rispetto agli altri due riguardanti la parte generale. Il risultato è un sistema sanzionatorio molto complesso, e assolutamente variegato. Tuttavia, anche il Paese d'oltralpe si trova ad affrontare il problema del sovraffollamento nelle carceri. I dati raccolti dal ministero della Giustizia parlano di poco meno di 68 mila detenuti nelle carceri francesi. (35) Si fa riferimento soltanto ai soggetti presenti nelle carceri, poiché generalmente nel calcolo dei "ristretti" vengono considerati anche i soggetti non detenuti in carcere, come appunto i sottoposti a sorveglianza elettronica; tuttavia, sono considerati anche i minori detenuti. Una delle principali cause di questo alto numero è l'applicazione della legge 10 agosto 2007 che ha introdotto le cosiddette "peines planchers", soglie minime di pena detentiva che devono essere inflitte ai soggetti in stato di recidiva. Si tratta di un principio opposto all'obbligo di "modulare" le pene, all'aménagement delle sanzioni, poiché s'impone, viceversa, al giudice d'irrogare sempre un minimo di pena detentiva ai recidivi. E questa previsione aumenta certamente gli ingressi in carcere. In senso contrario è invece andata la legge penitenziaria del 2009, che ha esattamente raddoppiato i limiti di pena per accedere alle peines aménagées, da un anno a due, oltre a rafforzare le procedure semplificate per accedervi. Tuttavia, l'acceso ai recidivi è permesso solo quando il limite di pena non sia superiore ad un anno. Ma neanche gl'interventi della legge penitenziaria hanno avuto un effetto deflazionistico, anzi, la popolazione penitenziaria ha continuato a crescere.

Se si confrontano le cifre delle misure alternative, si può notare una certa corrispondenza con i nostri dati. I semiliberi sono in realtà più del doppio che in Italia, ma credo che ciò si spieghi con la maggiore disponibilità di posti nei quartieri o nelle sezioni create appositamente per questi soggetti, mentre le persone sottoposte a sorveglianza elettronica sono praticamente le stesse. (36) Per quanto riguarda le misure alternative comunque afflittive, le differenze sono poche. Dunque, nonostante le peines aménagées possono essere irrogate anche dal giudice della cognizione non si registra affatto un diverso, e maggiore utilizzo di queste misure. Si è già accennato al fatto che anche in Francia, nonostante tutto, la capienza degli istituti penitenziari è inferiore alla popolazione carceraria. Se il tasso di sovraffollamento al 119% è inferiore al nostro 137%, è comunque superiore alla media europea che riferisce di 99 detenuti ogni 100 posti regolamentari. (37)

Ma se si guardano i dati relativi alle persone che sono prese in carico da parte dei servizi penitenziari d'inserimento e probation (quindi, il sursis, il lavoro d'interesse generale, la liberazione condizionale) si rimane sbalorditi: il numero di concessioni arriva addirittura a 175.200. (38) Mettendo insieme i numeri dell'affidamento in prova, del lavoro di pubblica utilità e della sospensione condizionale della pena in Italia, non si arriva neanche ad un decimo del numero dei beneficiari di queste misure in Francia. La lotta alla pena detentiva allora avviene non tanto con le misure comunque restrittive della libertà personale, ma con le misure effettivamente alternative alla detenzione, e da questo punto di vista non siamo affatto allineati con gli altri grandi Paesi europei. (39) Le accuse di indulgenzialismo al legislatore italiano sembrano quasi cadere se si guarda alla prassi e ci si confronta con altri ordinamenti. Tuttavia, le opportunità, i servizi e l'assistenza offerti dagli operatori dell'esecuzione penale esterna devono essere massici, continui, altrimenti le forme di probation con presa in carico da parte dei servizi sociali si risolvono in mere misure sospensive. E in Italia le carenze di risorse e di personale investono tutti gli operatori della fase esecutiva. Dunque, le differenze riguardano non la semilibertà e le misure domiciliari, che si considerano mere modalità alternative di esecuzione della pena detentiva, ma le vere e proprie alternative alla detenzione, le misure che si eseguono in piena libertà. Se ci si allineasse a questi numeri, aumentando la concessione delle vere alternative al carcere, si realizzerebbe in maniera più effettiva l'idea della pena detentiva come ultimo ricorso. Ma soprattutto scomparirebbero i problemi legati al sovraffollamento delle carceri (anzi, scomparirebbero i detenuti!).

A livello comparatistico, è interessante notare che in Francia i detenuti che devono scontare una condanna a pena detentiva inferiore ad un anno sono il 49% del totale (40): se si considera la clausola di extrema ratio prevista dall'articolo 132-24 del codice penale, che impone di ricorrere in primo luogo alle sanzioni alternative al carcere, e se ciò non è possibile di ricorrere almeno ad un aménagement della pena, ci si stupisce del fatto che circa la metà delle pene scontate in istituto penitenziario sono sicuramente pene brevi, pene che i vari meccanismi introdotti nell'ordinamento dovrebbero evitare che si traducessero in detenzione carceraria.

Il fenomeno del sovraffollamento è un problema, dunque, anche in Francia. La questione è oggetto di un dibattito e ha portato all'introduzione della legge del 2009, che però non ha prodotto risultati visibili. Anzi, la popolazione detenuta ha continuato a crescere anche negli ultimissimi anni, anche se di poco. Le cause, lì come qui, si riscontrano nella penalizzazione crescente; nell'individualizzazione delle pene, professata ma non applicata, a cui fanno riscontro gli automatismi legali, come le peines planchers, che andrebbero soppresse per restituire al giudice la possibilità di decidere quale sia la sanzione adeguata; nella dipendenza dell'esecuzione penale dalla disponibilità e diligenza dei servizi giudiziari e di polizia. (41) L'inflazione legislativa, pure, ha conseguenze nocive sulla qualità e sulla autorità della legge penale, che perde di coerenza e razionalità. (42)

La veloce analisi su cosa accade quando si applicano in concreto le misure semidetentive e detentive non carcerarie, ha mostrato, a mio avviso, che come alternative alla pena detentiva, queste misure non funzionano molto bene. Perfino in Francia, dove semiliberté e surveillance électronique possono essere adottate sia dal giudice della cognizione che dal giudice dell'esecuzione, e sono disciplinate in maniera da lasciare ai giudici un significativo potere discrezionale, non sono queste le misure a cui è demandato il compito di ridurre il ricorso alla pena carceraria. Ciò non toglie che la proposta di anticipare alla fase della cognizione la possibilità di concedere la detenzione domiciliare, ma anche la messa alla prova del condannato, non debba essere accolta: pur dubitando che possa contribuire a ridurre la popolazione penitenziaria, come testimoniato dall'esempio francese, è comunque una decisione che permette di allinearci ai principi dettati dalla nostra Carta fondamentale. Sembra, dunque, che sia proprio l'afflittività, il contenuto restrittivo di queste alternative alla detenzione, a rendere difficile pensare ad una loro applicazione generalizzata. La limitazione della libertà personale è ciò che rende la detenzione domiciliare iniqua in concreto. Paradossalmente, si potrebbe affermare che l'unica vera alternativa alla totale privazione della libertà personale è la libertà piena, quindi le misure sospensive della pena, che sono quelle che presentano minori difficoltà nell'applicazione in concreto, e che perciò permettono una loro concessione generalizzata. Ma le restrizioni presenti nelle misure paradetentive hanno il pregio di neutralizzare, in parte, la pericolosità del condannato, garantendo un minimo la tutela della collettività e allargando la concessione a soggetti che non potrebbero accedere ad una misura meramente sospensiva. Dunque, la limitazione della libertà personale è, al contempo, il pregio e il difetto delle misure alternative semidetentive o detentive non carcerarie: infatti, da una parte serve a delineare il contenuto afflittivo, punitivo, della misura, che permette di considerarle non meramente clemenziali e di applicarle a persone in parte pericolose socialmente; dall'altra, però, complica la struttura di queste misure, che in concreto trovano maggiori difficoltà applicative che alimentano le disparità nel trattamento rieducativo.

Note

1. Eusebi L., Ergastolano "non collaborante" ai sensi dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit. e benefici penitenziari: l'unica ipotesi di detenzione ininterrotta, immodificabile e senza prospettabilità di una fine?, op. cit., p. 1220 ss.

2. Sovraffollamento carceri: una proposta per affrontare l'emergenza, Relazione della Commissione Mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza, istituita con delibera dall'Assemblea plenaria del 4 maggio 2011, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, 2013 p. 12 ss.

3. Giostra G., Sovraffollamento carceri: una proposta per affrontare l'emergenza, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2013, p. 60.

4. Fiorentin F., Legge svuotacarceri: esecuzione domiciliare se la condanna è di durata inferiore a un anno, op. cit., p. 61.

5. Corte Cost., 11 giugno- 8 luglio 1993, n. 306, in Corte costituzionale della Repubblica Italiana.

6. Giostra G., Sovraffollamento carceri: una proposta per affrontare l'emergenza, op. cit., p. 58 s.

7. Di Gennaro G., Breda R., La Greca G., Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione: commento alla Legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni, con riferimento al regolamento di esecuzione e alla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, op. cit., p. 32 ss.

8. Scomparin L., Stranieri e carcere. Tra diritto e realtà, in Legislazione penale, 2005, p. 83 ss.

9. Di Gennaro G., Breda R., La Greca G., Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione: commento alla Legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni, con riferimento al regolamento di esecuzione e alla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, p. 33.

10. Bricola F., Le misure alternative alla pena nel quadro di una "nuova" politica criminale, (Relazione all'XI convegno Enrico De Nicola su "pene e misure alternative nell'attuale momento storico", lecce, 3-5 dicembre 1976), op. cit., p. 69 s.

11. Dati forniti dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Ministero della Giustizia, secondo il quale i detenuti non definitivi sono 23.649, di cui 11.280 in attesa di primo giudizio, situazione aggiornata al 31 luglio 2013.

12. Tribisonna F., Ansia da carcere? No alla detenzione domiciliare, (Nota a ord. Trib. Sorveglianza Cagliari 20 ottobre 2007, n. 591), op. cit., p. 145.

13. Giostra G., Sovraffollamento carceri: una proposta per affrontare l'emergenza, op. cit., p. 57.

14. Morire di carcere: dossier 2000-2013, in Ristretti Orizzonti.

15. Dolcini E., Carcere, surrogati del carcere, diritti fondamentali. Ricordando Vittorio Grevi, in Riv. It. Dir. E proc. Pen., 2012, p. 37 s.

16. Regole penitenziarie europee, Raccomandazione R(2006)2 del Consiglio d'Europa, articolo 102, comma secondo.

17. Giostra G., Sovraffollamento carceri: una proposta per affrontare l'emergenza, op. cit., p. 61.

18. Leblois-Happe J., Fasc. 20: Personnalisation des peines. - Généralités. Semi-liberté. Placement à l'extérieur, op. cit.

19. Herzog-Evans Martine, Droit de l'exécution des peines, op. cit., p. 530.

20. Herzog-Evans Martine, Droit de l'exécution des peines, op. cit., p. 524.

21. Dolcini E., Carcere, surrogati del carcere, diritti fondamentali. Ricordando Vittorio Grevi, op. cit., p. 35 s.

22. La popolazione detenuta al 30 giugno 2006 era di 61.264 unità, scendendo a 39.005 al 31 dicembre 2006; al 30 giugno 2009 la popolazione arriva a contare 63.630 detenuti. Dati forniti dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Ministero della Giustizia.

23. Palazzo F. C., Riforma del sistema sanzionatorio e discrezionalità giudiziale, op. cit., p. 101.

24. Palazzo F., riforma del sistema sanzionatorio e discrezionalità giudiziale, op. cit., p. 99 ss.

25. Padovani T., Evoluzione storica ed aspetti di diritto comparato nelle misure alternative, (relazione al Convegno sul tema "Depenalizzazione e misure alternative nel nuovo disegno di legge "Modifiche al sistema penale", Prato, 27 gennaio 1979), in Cassazione penale, 1979, p. 498.

26. Dati forniti dal dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, aggiornati al 31 luglio 2013, Ministero della Giustizia.

27. Commissione per la riforma del codice penale istituita con d.m. 1 ottobre 1998 e presieduta da C.F. Grosso., Il sistema delle pene nella relazione della commissione Grosso, in Questione Giustizia, 1999, p. 886 s.

28. Niro M., Le misure alternative tra deflazione carceraria e revisione del sistema sanzionatorio, op. cit., p. 234.

29. Padovani T., Evoluzione storica ed aspetti di diritto comparato nelle misure alternative, op. cit., p. 494.

30. Neppi Modona G., Il sistema sanzionatorio: considerazioni in margine ad un recente schema di riforma, op. cit., p. 342.

31. Corte cost., 27 ottobre-4 novembre 1999, n. 422, in Corte costituzionale della Repubblica Italiana.

32. Penaud B., De l'inflation législative à la surpopulation carcérale : pour une réforme des peines, In Gazette du Palais, 2009, p. 2845.

33. Bricola F., Le misure alternative alla pena nel quadro di una "nuova" politica criminale, op. cit., p. 18.

34. Poncela P, Medici C., La semi-liberté: contours d'une sanction pénale multiforme et détour par le quartier de semi-liberté de Versailles- Chronique de l'exécution des peines, op. cit., p. 153 s.

35. Dati forniti dal Ministère de la Justice, aggiornati al 1 giugno 2013.

36. I semiliberi sono 2000 esatti, mentre le persone sottoposte a sorveglianza elettronica sono 10.886, dati forniti dal Ministère de la Justice, aggiornati al 1 giugno 2013.

37. Dati forniti dal Consiglio d'Europa, Annual penal statistics, Space I, 2011.

38. Les chiffres clés de l'administration pénitentiaire, au 1er Janvier 2013, in Ministère de la Justice.

39. In Germania, il totale delle persone in misura alternativa alla detenzione sono 156.440, in Gran Bretagna sono 162.674, in Spagna 56.111; dati forniti dal Consiglio d'Europa, Annual penal statistics, Space II, 2011.

40. Dati forniti dal Consiglio d'Europa, Annual penal statistics, Space I, 2011.

41. Senna E., Des moyens de combattre le fléau de la surpopulation carcérale, in Gazette du Palais, 2012, p. 2594 s.

42. Penaud B., De l'inflation législative à la surpopulation carcérale : pour une réforme des peines, op. cit., p. 2845.