ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo secondo
Le misure detentive non carcerarie

Irene di Valvasone, 2013

1- Le detenzioni non carcerarie: la prigione in casa propria

Questo capitolo è dedicato all'analisi delle misure detentive non carcerarie. Con questo termine intendo racchiudere tutte quelle misure accomunate da due particolari caratteristiche: l'afflittività e l'assenza di restrizione in carcere. Si tratta di sanzioni o misure alternative di tipo coercitivo, ma che si distaccano, questa volta nettamente, dalla pena detentiva tradizionale. L'afflittività di queste misure è data dalle particolari modalità di esecuzione delle misure detentive non carcerarie, modalità che permettono, generalmente, pochi spazi di libertà e un rilevante grado di privazione della libertà personale. Ed è proprio chi pone l'accento su questa caratteristica a ritenere che anche in questo caso non siamo in presenza di vere e proprie alternative alla pena carceraria, ma siamo di fronte a “strumenti di diversificazione non alternativa all'esecuzione delle sanzioni penali”, (1) sottolineando il carattere detentivo di queste misure. Tuttavia, la loro esecuzione si svolge in luoghi diversi dagli istituti di pena, ovvero nella propria abitazione o dimora, o in altro luogo indicato dalla legge, come ad esempio in luoghi pubblici di cura, assistenza o accoglienza.

In questo capitolo, dunque, tratterò della detenzione domiciliare nelle sue svariate forme, compresa l'ipotesi temporanea, introdotta dalla legge 26 novembre 2010, n. 199, del funzionamento del “braccialetto elettronico” in Francia, e infine della permanenza domiciliare di competenza del giudice di pace. Tutte queste misure per la verità condividono poco più delle caratteristiche iniziali reclamate; perfino, nella “grande famiglia” delle detenzioni domiciliari si riscontrano ipotesi che si accomunano giusto per il nome. Tuttavia, le somiglianze nelle modalità con cui si eseguono, rendono più semplice analizzarle insieme.

2- La detenzione domiciliare: una misura in espansione

La detenzione domiciliare è stata introdotta per la prima volta in Italia con la legge “Gozzini”, l. 10 ottobre 1986, n. 663. Dopo quest'intervento del legislatore, si sono succeduti tutta una serie di ulteriori interventi volti ad espandere la misura domiciliare. Si tratta di un'espansione che è andata in tutte le direzioni: dall'aumento dei limiti edittali, all'inclusione di ulteriori soggetti beneficiari di questa misura, dall'individuazione di nuove finalità alla differenziazione delle condizioni d'ammissibilità. Tanto che si può dire che attualmente la detenzione domiciliare è la misura alternativa preferita dal legislatore, soprattutto in tempi recenti, da quando la preoccupazione principale di chi fa le leggi è di far fronte al problema del sovraffollamento carcerario. (2) D'altronde, il carattere afflittivo della detenzione domiciliare consente di estrinsecare le esigenze di neutralizzazione di soggetti anche, in parte, pericolosi. Sicuramente, dà più garanzie dell'affidamento in prova al servizio sociale, dove mancano completamente prescrizioni di tipo contenitivo, ma si considera più afflittiva anche della semilibertà, dove, per parte della giornata, non è previsto nessun controllo sulla persona del condannato.

In sintesi, gli interventi volti ad espandere il campo di applicazione della detenzione domiciliare sono, per primo, la legge n. 165 del 1998, che ha introdotto la detenzione generica e l'ipotesi surrogatoria del differimento dell'esecuzione della pena. La legge 251/2005 ha invece creato una figura di detenzione specifica per ultrasettantenni. La legge 8 marzo 2001, n. 40, ha introdotto una detenzione domiciliare indirizzata alle condannate madri, mentre la possibilità di applicare una misura alternativa ai soggetti affetti da HIV risale alla legge 231/1999. Infine, la legge n. 199 del 2010 ha disposto, anche se dovrebbe avere carattere temporaneo, l'esecuzione presso il domicilio delle pene detentive fino a 18 mesi. Si contano allora 7 forme differenti di detenzione domiciliare, differenti sotto tutti i punti di vista. L'unico contenuto comune rimane la previsione che impone l'esecuzione della misura presso l'abitazione del condannato o in altro luogo, pubblico o privato, indicato dalla legge.

Ad ogni modo, la detenzione domiciliare è una misura alternativa, che quindi viene concessa nella fase dell'esecuzione dal Tribunale di sorveglianza. A differenza della semilibertà, la detenzione domiciliare è effettivamente alternativa alla pena detentiva, poiché appunto elimina del tutto la permanenza in carcere dalle sue modalità di svolgimento. (3) Non è però alternativa alla privazione della libertà personale, poiché il beneficiario della detenzione domiciliare si considera comunque ristretto, anche se in casa sua. Tuttavia, la legge precisa che non si applica il regime penitenziario e che nessun onere grava sull'amministrazione penitenziaria. Il fatto che il condannato viva “a sue spese” e non a spese dello Stato è sicuramente un altro dei motivi per cui il legislatore guarda con tanto favore questa norma. Dunque, si può ritenere che anche la detenzione domiciliare sia una misura alternativa che introduce un regime detentivo ma attenuato, stessa definizione data al regime della semilibertà. (4) Ed è per questo che anch'essa è considerata una modalità alternativa d'esecuzione della pena detentiva. (5) Ma a differenza della semilibertà è carente di contenuti risocializzanti, realizzando piuttosto esigenze di difesa sociale e scopi deflativi. Si differenzia anche dall'altra misura alternativa, l'affidamento in prova al servizio sociale, che è invece un istituto sospensivo, una forma di probation da scontare in libertà. Tuttavia, come l'affidamento in prova, anche la detenzione domiciliare ha il pregio di trattarsi di una misura alternativa avente la finalità di evitare “l'inutile sofferenza del carcere”. (6) Si considera, insomma, una misura alternativa intermedia tra il regime di semilibertà da una parte, e l'affidamento in prova o la liberazione condizionale dall'altra, (7) una misura che coniuga «la pretesa punitiva dello Stato con l'esigenza di non sradicare il singolo dal suo ambiente». (8)

3- La detenzione domiciliare ordinaria ex art. 47-ter O.P.

La detenzione domiciliare è disciplinata all'art. 47-ter della legge sull'ordinamento penitenziario. La sua introduzione ha risposto all'esigenza di creare un coordinamento tra la misura preventiva degli arresti domiciliari e la pena detentiva definitiva. Si è creata una misura intermedia, di raccordo: laddove le esigenze cautelari non sono così forti, o riguardano categorie di soggetti per le quali le esigenze umanitarie sono comunque più forti di quelle cautelari, lo stesso ragionamento può essere valido anche nel momento in cui viene pronunciata una sentenza irrevocabile di condanna. Anche perché si trattava di soggetti che erano già stati considerati meritevoli di una misura cautelare meno gravosa del carcere, e che poi invece erano costretti ad entrarvi rischiando di non poter accedere ad una misura alternativa. (9) Pertanto, praticamente alle stesse condizioni degli arresti domiciliari, si è creata una misura domiciliare da concedere nella fase dell'esecuzione.

La detenzione domiciliare consiste nell'obbligo di trascorrere nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora o in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, il periodo di tempo che andrebbe scontato in istituto penitenziario. Dal 2011, ai luoghi dov'è possibile eseguire la detenzione domiciliare sono state aggiunte le case famiglia protette, strutture pensate per accogliere le detenute madri e i loro figli minori. In realtà, se in ambito cautelare costituisce un'alternativa alla custodia cautelare davvero innovativa, in materia di misure alternative ha una portata molto più circoscritta. Si aggiunge infatti ad un elenco di luoghi alternativi in cui dimorare, senza specificarne le peculiarità e le differenze con le strutture già esistenti. Ma soprattutto l'accesso alle case famiglia protette è rimesso non solo alla disponibilità di posti letto, ma anche alla loro istituzione sul territorio. (10)

La competenza nella concessione e nella revoca della detenzione domiciliare è del Tribunale di sorveglianza, come per le altre misure alternative, mentre le concrete modalità di attuazione della misura possono essere modificate dal magistrato di sorveglianza, con un procedimento semplificato e più celere. Si tratta delle prescrizioni, la cui osservanza è controllata dalla polizia giudiziaria e che riprendono le prescrizioni dettate per gli arresti domiciliari ex art. 284 del codice di procedura penale, e delle disposizioni, a carico invece dei servizi sociali, i cui contenuti e finalità sono però oscuri. (11)

Il magistrato di sorveglianza può stabilire che in alcune ore del giorno al condannato sia permesso uscire dall'abitazione, di solito per motivi di lavoro. Tuttavia, questa possibilità è limitata ai soli casi in cui il beneficiario risulti essere assolutamente indigente oppure debba provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita. L'obbligo di permanenza domiciliare è quindi il contenuto precipuo della detenzione domiciliare, e solo raramente e per motivi eccezionali può essere scalfito dal permesso di uscire dall'abitazione.

Il contenuto della detenzione domiciliare è quindi riempito da divieti e obblighi, confermato anche dal rinvio all'art. 284 c.p.p. sugli arresti domiciliari, mentre mancano del tutto le prescrizioni positive. Questa è una riprova della finalità minimamente rieducativa della detenzione domiciliare, nonostante sia una misura alternativa. (12) Se si vuole proprio rintracciare una ratio di prevenzione speciale, anche se negativa, si può solo guardare alla funzione neutralizzante della detenzione domiciliare, che la rende idonea a limitare il rischio di commissione di ulteriori reati.

Dopo l'emanazione del decreto legge 24 novembre 2000, n. 341, convertito in legge 19 gennaio 2001, n.4, il Tribunale di sorveglianza può prevedere nelle modalità di verifica dell'osservanza delle prescrizioni l'utilizzo di strumenti elettronici di controllo, che erano già stati previsti per gli arresti domiciliari. In questo modo, si mira a garantire, oltre all'afflittività della misura, anche l'effettività dei controlli. Come si vedrà più avanti, questa disposizione si può quasi considerare lettera morta.

3.1- La prima ipotesi di detenzione domiciliare. Il fine umanitario-assistenziale: la tutela delle situazioni particolari a giustificazione dell'assenza di contenuti risocializzanti

La prima versione dell'art. 47-ter ord. pen. era stata redatta come una continuazione degli arresti domiciliari e un coordinamento fra i due istituti. S'introduce un regime attenuato per alcune categorie di soggetti, meritevoli di un'alternativa alla detenzione tradizionale, proprio perché si trovano in determinate situazioni particolari. Per questa ragione, inoltre, le finalità di prevenzione, sia generale che speciale, lasciano il posto a finalità di tipo assistenziale e umanitario.

Le peculiarità delle situazioni, oltre a richiamare la necessità di una tutela dettata da esigenze umanitarie, contribuiscono anche ad allentare le esigenze general-preventive. In pratica, si guardano con meno sospetto questi soggetti, si ritiene meno probabile il rischio di reiterazione dei reati e il pericolo di fuga, perché versano in situazioni problematiche tali da renderli meno pericolosi. (13)

La concessione della detenzione domiciliare ex articolo 47-ter, comma uno, ord. pen., è ammessa per pene, anche residue, fino ai 4 anni di reclusione, oppure per l'intera pena dell'arresto. Si tratta di pene lunghe, che quindi possono essere state inflitte anche per reati di una certa gravità. La finalità umanitaria di questa detenzione domiciliare giustifica pure l'assenza di contenuti risocializzanti. (14) Non sono dettate, infatti, prescrizioni positive, come lo svolgimento di attività risocializzanti, ma soltanto l'obbligo di non uscire dalla propria abitazione. Se d'altronde il fine della misura non è rieducativo, bensì di tutela del rapporto genitori-figli oppure di tutela della salute in particolari situazioni o per le esigenze legate all'età, non si sollevano obiezioni a riguardo.

Le cinque situazioni particolari in cui è permesso l'accesso alla detenzione domiciliare sono contemplate nel primo comma dell'art. 47-ter. La lettera a) si riferisce alle donne incinte o madri di prole inferiore a 10 anni con lei convivente; mentre alla lettera b) si parla del padre nelle stesse condizioni richieste alla madre, che abbia la potestà sui figli e sempre che la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata ad assistere la prole. Quindi, le prime persone a cui pensa la norma sono i genitori di minori di anni 10, se conviventi, al fine di tutelare il diritto del fanciullo ad essere accudito dalla propria madre, o in sua assenza, dal padre.

Un'altra condizione d'ammissibilità riguarda la persona in condizioni di salute particolarmente gravi e che necessiti di contatti costanti coi presidi sanitari. In questo caso, emerge la necessità di tutelare il diritto alla salute, ma non in maniera assoluta. Come autorevolmente affermato dalla Corte costituzionale, (15) la detenzione domiciliare non nasce per fronteggiare le ipotesi d'incompatibilità assoluta tra regime carcerario e condizioni soggettive della persona, ma costituisce, invece, una modalità di attenuazione del regime di esecuzione della pena, da prendere in considerazione quando si realizzano i presupposti oggettivi e soggettivi indicati dalla legge. Inoltre, proprio perché costituisce un regime detentivo attenuato, realizza una generica finalità risocializzante collegabile all'esclusione della detenzione carceraria, quando risulti non necessaria. «Le condizioni di salute particolarmente gravi», afferma inoltre la Corte di Cassazione, «non necessariamente devono consistere in patologie incompatibili con lo stato di detenzione o comunque dalla prognosi infausta, ben potendo essere ravvisate in una o più alterazioni della funzionalità psico-fisica dell'imputato, caratterizzate da un elevato grado d'intensità e idonee a rendere ancora più afflittiva l'espiazione della pena in istituto». (16)

Per quanto riguarda il tipo di patologia, la norma non distingue tra malattie fisiche o psichiche, perciò vi si fanno rientrare anche le malattie mentali. Tuttavia, pure l'infermità psichica deve essere tale da richiedere contatti regolari coi presidi sanitari. (17) Dunque, la gravità della malattia, fisica o psichica, non è valutata di per se stessa, ma sempre in relazione alla regolarità delle cure e dell'assistenza che richiede, e fintanto che tali cure non possano essere efficacemente adottate in carcere. (18)

La lettera d) richiede per l'accesso alla detenzione domiciliare del primo comma che un soggetto abbia superato i sessant'anni di età e che sia inabile anche parzialmente. Qui, si collegano i problemi dell'età coi problemi di salute, anche se non necessariamente gravi. La mancanza di riferimenti alla gravità dell'infermità permette un'applicazione estesa della misura. (19) L'inabilità è definita comunque dalla presenza di problemi fisici e tali da riflettersi nella vita quotidiana dell'individuo non tanto nel senso di limitare le sue capacità lavorative, quanto nel senso di limitare la sua autonomia e autosufficienza. (20) Viene definita pertanto come “un'apprezzabile menomazione fisica”, che però abbia un carattere non temporaneo ma duraturo. (21) L'infermità fisica viene dunque collegata ad una perdita di autosufficienza a carattere non transitorio. Tuttavia, in questo caso il dato letterale esclude le patologie psichiche o psichiatriche, a meno che non siano così gravi da riflettersi in un'infermità di tipo fisico. (22)

L'ultima condizione d'ammissibilità riguarda i minori di anni ventuno per comprovate esigenze di studio, di lavoro o di famiglia. La formula della legge è molto generica, ma si può ben comprendere la volontà di limitare l'ingresso in carcere a soggetti molto giovani, anche se non più minorenni, che potrebbero venire irreparabilmente influenzati dal contatto con l'ambiente carcerario.

Dopo aver esaminato le situazioni particolari per accedere alla misura domiciliare, si capisce un po' meglio la previsione di un limite di pena così ampio. C'è chi ritiene che sia una misura quasi obbligatoria, automatica: se il giudice riscontra la presenza di queste condizioni d'ammissibilità, non può esimersi dal concedere l'alternativa alla detenzione. (23) Probabilmente è una visione un po' forzata, il Tribunale di sorveglianza ha sempre e comunque il potere/dovere di valutare non solo se ci sono le condizioni per accedere ad una qualsiasi misura alternativa, ma anche se la concessione di questa risponda alle esigenze di recupero del condannato e di difesa sociale. Altrimenti si trasformano le misure alternative in mere occasioni di fuga dalla pena detentiva. (24) Si tratta di una valutazione che, tra l'altro, i tribunali non dimenticano mai di fare attentamente, anche per la consapevolezza della bufera mediatica a cui vanno incontro ogni volta che qualcosa va storto.

3.1.1- La giurisprudenza costituzionale

Non si può non ricordare il notevole contributo che la Corte costituzionale ha dato non tanto nell'espandere, quanto nel rendere più umana e meno discriminatoria la detenzione domiciliare del primo comma dell'art. 47-ter ord. pen. Il primo intervento costituzionale ha portato all'introduzione della figura del padre detenuto. Era sicuramente lesivo del principio di uguaglianza il fatto che la legge tutelasse soltanto la madre di prole inferiore ai 10 anni. La Corte costituzionale ha quindi dichiarato illegittimo costituzionalmente l'articolo 47-ter laddove concedeva la detenzione domiciliare soltanto alla madre condannata e non anche al padre, se la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata. (25) La formula è molto più restrittiva rispetto a quella usata per la madre: il padre può vedersi concessa la detenzione domiciliare soltanto se la madre è deceduta o assolutamente impossibilitata. D'altronde, la Consulta si è dovuta basare sul caso che le era stato presentato, e probabilmente ha ritenuto giusto non stravolgere la legge, non essendo suo compito. Purtroppo, la legge Simeone-Saraceni ha aggiunto la lettera b) all'art. 47-ter mantenendo le disparità di trattamento tra madre condannata e padre condannato. Viene imposta inoltre un'ulteriore condizione, la sussistenza della patria potestà sul figlio. Infatti, la Corte costituzionale non si era posta il problema dell'indegnità del padre ad accudire la prole (ad esempio, se ha ucciso lui la madre). Il legislatore ha deciso di aggiungere questo presupposto, ma solo per il condannato padre, cosa francamente inspiegabile. (26) Perciò, il padre può accedere alla detenzione domiciliare umanitaria soltanto se ha la potestà sul figlio, inferiore agli anni dieci e con lui convivente, e se la madre è deceduta o assolutamente impossibilitata ad assisterlo. La giurisprudenza di merito, inoltre, tende spesso a considerare in maniera restrittiva le ipotesi d'impossibilità assoluta. Ad esempio, non ha ritenuto sufficiente il fatto che la madre lavori, neanche se si tratta di un impiego che comporta lo svolgimento di turni di notte. (27) In particolare, la Cassazione ritiene che il fatto che la madre svolga attività lavorativa non possa essere considerato, automaticamente, un motivo d'impossibilità assoluta della stessa ad accudire il figlio, ma è rimesso alla valutazione, discrezionale e insindacabile in sede di legittimità se opportunamente motivata, del giudice di merito. (28) In pratica, non potendo affermare in maniera generale e astratta quali sono i casi d'impossibilità assoluta ad assistere la prole, la decisione non può che spettare al giudice del merito, che compierà una valutazione caso per caso.

Il secondo intervento della Corte costituzionale è certamente encomiabile. (29) La Consulta ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 47-ter, primo comma, alla lettera a), laddove non consente di concedere la detenzione domiciliare alla madre, o al padre nelle condizioni di cui alla lettera b), di figlio invalido al 100% anche maggiore degli anni dieci. L'estensione della norma è stata resa possibile grazie all'attestazione della medesima ratio di tutela nell'ipotesi prevista nella detenzione domiciliare umanitaria e nell'ipotesi del figlio totalmente invalido, permettendo così l'applicazione in via analogica dell'articolo 47-ter alle situazioni oggetto del ricorso. (30) Il ragionamento si basa sul fatto che la norma tutela il rapporto tra genitori e figli, ma non dalla parte del genitore, bensì da quella del figlio. (31) Ciò significa che è il diritto del figlio alle cure materne che va garantito, in base agli art. 30 e 31 Cost., non tanto il diritto della madre a stare vicino al figlio. Nel figlio invalido, tuttavia, il riferimento all'età rimane del tutto indifferente, poiché l'esigenza di garantire le cure materne a causa dei gravi problemi psico-fisici, non spariscono certo con il raggiungimento dei 10 anni, ma neanche col compimento della maggiore età. Non è «indifferente per il disabile grave, a qualsiasi età» dice la Consulta «che le cure e l'assistenza siano prestate da soggetti diversi dal genitore». Pertanto, non è giustificata una disparità di trattamento tra il figlio, minore di anni dieci, ma comunque dotato di un po' di autonomia, e il figlio gravemente disabile, che a qualunque età non è capace di provvedere a se stesso.

Emergono, poi, il principio d uguaglianza e il dovere di solidarietà, che impongono lo sforzo di promuovere l'integrazione sociale fra gli individui. Laddove la cura e l'assistenza del genitore sono fondamentali per lo sviluppo della personalità del figlio, è compito dello Stato rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che invece impediscono questo sviluppo. (32) È in questo senso che viene in gioco il principio di uguaglianza, ai sensi del secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.

In conclusione, la Consulta aggiunge tra le condizioni di accesso alla detenzione domiciliare anche la posizione della madre condannata, o del padre nelle condizioni dell'art 47-ter comma 1, lettera b), conviventi con un figlio portatore di handicap totalmente invalidante, qualunque sia la sua età.

3.2- La detenzione domiciliare per ultrasettantenni. Un'estensione umanitaria?

La legge 5 dicembre 2005, n. 251, ha aggiunto il comma 01 all'art. 47-ter dell'ordinamento penitenziario, introducendo un'ipotesi di detenzione domiciliare a favore di coloro che abbiano compiuto il settantesimo anno di età. A parte il requisito dell'età, non si richiede nessun'altra condizione per la sua concessione. (33) Non si contemplano, ad esempio, problemi relativi alla salute della persona, come se il raggiungimento di una certa età prefigurasse una presunzione d'incompatibilità col carcere. (34)

Il legislatore permette di usufruire della misura domiciliare qualunque sia la durata della pena della reclusione inflitta. La norma infatti parla soltanto di reclusione, pertanto sarà possibile la concessione della detenzione domiciliare a fronte della condanna per la commissione di un delitto, qualunque durata abbia la reclusione inflitta, ma un beneficio equivalente non è previsto se è stata commessa una qualsiasi contravvenzione. Si crea una disparità di trattamento proprio nei confronti di coloro che hanno commesso reati meno gravi, e tale svista del legislatore non è colmabile attraverso l'interpretazione. Tuttavia, in questi casi si può applicare la detenzione domiciliare ordinaria, che appunto non prevede nessun limite per quanto riguarda la pena dell'arresto, ma si deve verificare l'ulteriore condizione dell'inabilità anche parziale. (35)

A fare da contrappasso all'assenza di requisiti positivi e limiti edittali ci sono un nutrito elenco di preclusioni basate sul titolo di reato o sulla carriera criminale del condannato. La legge infatti esclude dalla detenzione domiciliare per ultrasettantenni chi ha commesso un delitto contro la personalità individuale, tra quelli previsti nel libro II, titolo XII, capo III, sezione I, o un delitto sessuale, o uno dei delitti elencati all'art. 51, comma 3-bis c.p.p. oppure all'art. 4-bis ord. pen. Si noti la confusione nello stilare l'elenco delle esclusioni per titoli di reato, con alcuni delitti ripetuti, come il reato di schiavitù e la tratta che sono presi in considerazione per ben tre volte.

Tra le esclusioni basate sulla carriera criminale del soggetto troviamo la dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza, e l'applicazione in condanna della recidiva, qualunque capoverso dell'art. 99 c.p. sia stato preso in considerazione. Insomma, una lunga serie di preclusioni che vorrebbero sopperire alla mancanza di presupposti volti alla rieducazione del condannato. Tuttavia la giurisprudenza di legittimità ci tiene a chiarire che, anche se un condannato non ha commesso uno dei reati ostativi indicati nell'art. 47-ter, comma 01, ord. pen., né è stato dichiarato recidivo oppure delinquente abituale, professionale o per tendenza, la concessione della detenzione domiciliare per ultrasettantenni non deve essere considerata automatica, per il solo fatto che l'individuo ha raggiunto una determinata soglia d'età. È comunque sempre necessario ed opportuno che il giudice della sorveglianza compia una valutazione, per sua natura discrezionale, sulla meritevolezza del condannato e sull'idoneità della misura alternativa a favorire il reinserimento sociale. (36) Dunque, neppure in questo caso si crea una misura automatica, obbligatoria, ma si tratta comunque di un'alternativa al carcere rimessa alla valutazione discrezionale della magistratura di sorveglianza.

Si può rintracciare anche in questa ipotesi di detenzione domiciliare una finalità, non certo risocializzante, ma dettata da esigenze umanitarie. Il superamento di una certa soglia di età comporta delle difficoltà maggiori per chi si trova costretto in carcere. Tuttavia, non si può ignorare la pessima tecnica legislativa. Inoltre, da una parte, si afferma che il raggiungimento di una certa età faccia presumere che il condannato sia un soggetto meno pericoloso socialmente, (37) dall'altro, invece, si crea un lungo elenco di esclusioni automatiche. Ma soprattutto si crea una sovrapposizione con la detenzione domiciliare prevista alla lettera d) del primo comma dell'art. 47-ter, che s'indirizza agli ultrasessantenni. In questo caso, però, la concessione è subordinata oltre che al raggiungimento di una certa età, anche alla sussistenza di un'inabilità perlomeno parziale. Si dovrà comunque ricorrere alla detenzione domiciliare ex art. 47-ter del primo comma quando la persona che ha superato il settantesimo anno di età ha commesso il reato in stato di recidiva, qualunque recidiva, se rientri nelle ulteriori condizioni dettate da questo articolo. Probabilmente, per non considerarla un vero e proprio doppione, l'ipotesi del condannato ultrasettantenne poteva essere semplicemente aggiunta all'elenco delle situazioni tutelate dal primo comma. In questo modo, si subordinava la sua concessione anche alla sussistenza del limite di pena di 4 anni, già di per sé non basso. Se ne deduce che forse la vera finalità del legislatore non era la creazione di un'ulteriore ipotesi di detenzione domiciliare a fini umanitari, ma il tentativo di trovare un nuovo strumento sanzionatorio a soli scopi deflativi. (38)

3.3- La detenzione domiciliare generica. Il cambiamento di finalità: lo scopo deflativo della misura

Il comma 1-bis dell'art. 47-ter dell'ordinamento penitenziario è stato aggiunto dalla legge n. 168 del 1998, la legge “Simeone -Saraceni”, che ha aggiunto inoltre l'ipotesi di detenzione domiciliare alternativa al rinvio. Il termine “generica” si riferisce all'assenza di condizioni soggettive per accedervi: non si tratta più di tutelare alcune categorie di persone, ma la concessione di questa forma di detenzione domiciliare è assolutamente generalizzata. (39)

Si può dire che è con la legge Simeone-Saraceni che s'inaugura la stagione dell'allargamento a dismisura del regime alternativo domiciliare, poiché è la misura che più di tutte è in grado di svolgere l'unico compito che veramente interessa al legislatore ultimamente: l'obiettivo deflazionistico, appunto. (40) Infatti, la detenzione domiciliare nella sua carenza di contenuti risocializzanti, è però capace di realizzare l'altra componente della prevenzione speciale che è la neutralizzazione della pericolosità del soggetto, (41) il quale rimane comunque ristretto, anche se in casa propria. Più che rieducativa si afferma, pertanto, che la detenzione domiciliare generica ha una finalità antidesocializzante, (42) permettendo di attenuare il regime della pena detentiva quando è di una certa brevità, oppure quando ne rimane da scontare solo una parte non considerevole. Se si aggiungono il contenuto pur sempre afflittivo della detenzione domiciliare e l'assenza di oneri, in primis fiscali, da parte dell'amministrazione penitenziaria, si capisce perché è la misura prediletta e più incentivata di questi anni. Dunque, la detenzione domiciliare generica ha perso la ratio umanitaria, caratteristica della prima ipotesi di detenzione domiciliare, in favore di finalità soltanto deflazionistiche. Da tutto ciò emerge che la misura alternativa prevista dall'art. 47-ter dell'ordinamento penitenziario si distingue nettamente dalle altre misure per essere caratterizzata da profili polifunzionali del tutto peculiari. (43)

L'assenza di presupposti soggettivi e il vuoto di fini risocializzanti hanno anche un altro riflesso: la determinazione dell'istituto viene rimessa alla discrezionalità del giudice. (44) È compito del giudice stabilire quando in concreto sia opportuno concedere la misura domiciliare. Sembra un paradosso, ma più l'alternativa alla pena è generica e generalizzata, più il suo contenuto appare indefinito, e di conseguenza maggiore è il potere discrezionale del giudice. Se veramente il legislatore vuole frenare l'aumento della popolazione penitenziaria, allora, forse, invece di “aggiungere” norme e commi alle misure alternative, a mio avviso dovrebbe togliere qualcosa dalla disciplina attuale dell'esecuzione penale esterna. Troppe previsioni normative, troppe ipotesi differenti all'interno dello stesso istituto, piuttosto che amplificare gli strumento deflativi a disposizione del giudice, creano un sistema delle pene incoerente, ingessato e difficile da conoscere nella sua globalità.

La detenzione domiciliare generica si può concedere quando il limite di pena, anche residua, non supera i 2 anni. Il suo contenuto è espresso interamente in negativo: è richiesto infatti che, indipendentemente dalle condizioni del primo comma, non ci siano i presupposti per l'affidamento in prova al servizio sociale, e non sussista il pericolo che il condannato commetta ulteriori reati. Il carattere residuale rispetto all'affidamento in prova giustifica la possibilità di concedere la detenzione domiciliare anche a soggetti non pienamente affidabili. Ne è una riprova il divieto di concedere un'ulteriore misura alternativa sulla pena che residua dalla revoca della detenzione domiciliare generica. Questa previsione ricorda il divieto espresso dall'art. 67 della legge n. 689/1981, (45) solo che in quel caso si era in presenza di una pena a tutti gli effetti, e quindi il divieto si giustificava col carattere punitivo che deve avere la conseguenza scatenata dal mancato rispetto di una sanzione penale; qui, invece, siamo nel campo delle misure alternative. Il legislatore sembra ritenere che la detenzione domiciliare generica sia quasi un premio, un test che prova la capacità del condannato di vivere nel mondo libero. Se il beneficiario fallisce questa prova, che non ha nessuna prescrizione se non quella di non commettere ulteriori reati, si dimostra immeritevole di accedere ad una qualsiasi altra misura alternativa.

Dalla detenzione domiciliare generica sono esclusi, in assoluto, i soggetti che hanno commesso uno dei reati dell'art. 4-bis, l. 354/1975: “in assoluto” sta a significare che la preclusione non può essere superata neanche con la collaborazione, effettiva o impossibile, del condannato. La Corte di cassazione ha infatti rilevato che il rinvio che l'art. 47-ter, comma 1-bis, fa alla norma sul divieto di concessione di benefici penitenziari, deve essere inteso come un rinvio al catalogo dei reati tassativamente indicati, e non al contenuto della disposizione. Ne consegue che la commissione di uno di questi delitti costituisce causa ostativa alla concessione della detenzione domiciliare generica, a nulla rilevando l'insussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. (46) Dato che lo scopo non è rieducativo ma deflativo, si preclude del tutto l'accesso ai soggetti ritenuti inaffidabili a priori. Ma la verità è che non si può valutare la personalità di un condannato solo sulla base del reato che ha commesso, tanto più che qui c'è un limite edittale già più contenuto. Ancora una volta, si mantiene il “doppio binario” per determinati soggetti.

3.4- La detenzione domiciliare alternativa al rinvio dell'esecuzione: un'alternativa all'inesecuzione della pena

L'ultima ipotesi di detenzione domiciliare, contemplata dall'art. 47-ter al comma 1-ter, viene considerata un'alternativa al rinvio, obbligatorio o facoltativo, dell'esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 del codice penale. La norma prevede, infatti, che negli stessi casi in cui potrebbe essere disposto il differimento dell'esecuzione, il Tribunale di sorveglianza possa disporre, invece, la detenzione domiciliare. La sua concessione è permessa, peraltro, oltre il limite di pena previsto dal primo comma, quindi anche per pene sopra i 4 anni. Ciò significa che non è neanche previsto un tetto massimo, in pratica non c'è nessun limite di pena. Addirittura, si può concedere agli ergastolani, senza che sia necessario aver già espiato un certo quantum di pena.

La disposizione in esame ha voluto creare una sorta di misura intermedia tra la pena detentiva eseguita in carcere, eccessivamente afflittiva, e la sua sospensione concessa attraverso gli articoli 146 e 147 del codice penale, eccessivamente clemenziale. La legge 27 maggio 1998, n. 165, che l'ha introdotta, ha voluto creare uno strumento a metà strada tra il carcere e il rinvio dell'esecuzione della pena, che fosse anche in grado di prendere in considerazione l'eventuale pericolosità del condannato. (47) Ne consegue una certa polifunzionalità della detenzione domiciliare alternativa al rinvio: da un lato, risponde alle esigenze d'inderogabilità della pena e di controllo di soggetti pericolosi; dall'altro, introduce un regime detentivo attenuato per renderlo compatibile col principio di umanità delle pene. (48) È la stessa Corte di Cassazione a sottolineare il carattere polifunzionale del regime detentivo domiciliare: «l'innovazione, chiaramente mirata a colmare una lacuna legislativa esistente nella previgente normativa, per la quale si imponeva un'alternativa secca tra carcerazione e libertà senza vincoli in presenza dei presupposti di fatto indicati dagli artt. 146 e 147 cod. pen., configura la polifunzionalità del regime detentivo mirato, per un verso, dall'esigenza di effettività dell'espiazione della pena e del necessario controllo cui vanno sottoposti i soggetti pericolosi e, per altro verso, a una sua esecuzione mediante forme compatibili con il senso di umanità, quale quella della detenzione domiciliare a termine, in presenza di negativa condizione soggettiva del condannato che non ne consente la piena liberazione derivante dall'applicazione dell'istituto della sospensione, obbligatoria o facoltativa, dell'esecuzione della pena». (49)

Le ipotesi contemplate dagli articoli 146 e 147 c.p. riguardano infatti soggetti che versano in particolari condizioni. Il rinvio obbligatorio dell'esecuzione della pena è previsto quando la sanzione è stata inflitta nei confronti di donna incinta o di madre di prole inferiore ad un anno, e nei confronti di persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria. Il rinvio facoltativo può essere pronunciato nei confronti di madre di prole inferiore a tre anni, se la persona si trova in gravi condizioni d'infermità fisica o nel caso sia pendente una domanda di grazia. Si torna di nuovo ad una finalità umanitaria e assistenziale, che richiede al giudice di fare un bilanciamento tra il diritto alla salute e il dovere di eseguire la sanzione penale. (50)

Il rinvio alla disciplina degli istituti penalistici comporta la non applicazione del divieto di concessione dei benefici penitenziari espresso nell'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, riguardante i soggetti che hanno commesso fatti di rilevante gravità. D'altronde, rileva la giurisprudenza di legittimità, se le medesime gravi circostanze possono portare al differimento dell'esecuzione della pena, che comporta la piena liberazione del condannato, senza distinzione fra soggetti autori di determinati delitti, non c'è dubbio che agli stessi autori possa essere adottato il regime più restrittivo della detenzione domiciliare. (51) Per le stesse ragioni, perciò basandosi sul rinvio alle disposizione contenute agli artt. 146 e 147 c.p. e sul fatto che la detenzione domiciliare surrogatoria costituisce “un'opzione supplementare” all'alternativa secca tra esecuzione della pena e sospensione dell'esecuzione in grado di far fronte anche alle esigenze di tutela della collettività, si ritiene non applicabile all'art. 47-ter, comma 1-ter, ord. pen., il divieto di concessione dei benefici penitenziari al condannato a cui è stata revocata una misura alternativa analoga, come stabilisce l'art. 58-quater, comma secondo, (52) mentre si ritiene possibile applicare d'ufficio anche la detenzione domiciliare, quindi senza una richiesta specifica da parte del condannato. (53)

La misura in esame è definita anche detenzione domiciliare “a termine”, perché il Tribunale deve fissare un termine finale di durata della misura, alla data del quale valuterà se farla proseguire o meno, se sussistono ancora le esigenze di tutela che hanno portato alla sua concessione oppure no.

La particolarità delle situazioni, che non a caso in parte ricalcano quelle del primo comma, giustificano una fuga dalla pena carceraria, ma non è detto che sia necessario interrompere del tutto l'esecuzione della pena. Tanto più che la detenzione domiciliare permette comunque di espiare la pena inflitta, cosa che non accade se viene concesso il differimento dell'esecuzione. La mancata esecuzione di una pena inflitta, per quanto giustificata da gravi motivi, porta comunque sempre ad un conflitto col principio d'inderogabilità della pena. Inoltre, la concessione della detenzione domiciliare al posto del rinvio, obbligatorio o facoltativo, è vantaggiosa anche in ragione della sua maggiore afflittività, poiché la misura alternativa comunque limita la libertà personale e quindi permette un qualche controllo sul condannato, capace di limitare i rischi di reiterazione del reato e, al contempo, di mantenere un carattere punitivo. Non si può non aggiungere che il regime domiciliare partecipa in qualche modo del finalismo rieducativo proprio delle misure alternative, mentre gli artt. 146 e 147 c.p. hanno il solo fine della tutela della salute e del rispetto del senso di umanità. (54) Questi sono i vantaggi della detenzione domiciliare sul differimento dell'esecuzione della pena, ma manca di sapere quand'è che in concreto il giudice decide di concedere la detenzione domiciliare. In verità, la giurisprudenza non è univoca al riguardo, soprattutto quando si parla più precisamente delle gravi condizioni di salute.

Innanzitutto, è necessario vedere in concreto se ci sono le possibilità di usufruire delle cure adeguate all'interno del carcere. L'incompatibilità tra malati e carcere non è mai assoluta, consegue non solo dalla gravità della malattia, ma anche dalle possibilità di assistenza e cura che variano da un istituto penitenziario all'altro. (55) Anche in presenza di una patologia sicuramente grave, la concessione della detenzione domiciliare, o addirittura il differimento dell'esecuzione della pena, non sono automatici, ma è sempre necessario verificare che la situazione patologica sia o meno fronteggiabile in ambiente carcerario. (56) Partendo dal presupposto che la pena non deve consistere in trattamenti disumani e degradanti in base all'art. 3 della Convenzione EDU, la Corte di Cassazione si è dimostrata leggermente più flessibile negli ultimi anni. Ha affermato infatti che lo stato di salute incompatibile col regime carcerario, comportante il differimento dell'esecuzione della pena detentiva o la concessione della detenzione domiciliare, non è solo la patologia che consiste in un pericolo per la vita, «andando comunque considerato contrario al senso di umanità ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare una situazione di esistenza al di sotto di quella soglia di dignità che pure in carcere si richiede debba essere rispettata». (57) La giurisprudenza è giunta a stabilire che neanche la possibilità, che si realizza all'interno del carcere, di sottoporre a monitoraggio continuo lo stato di malattia del detenuto impedisce di definire violate le esigenze di tutela della dignità della persona, potendo considerarsi trattamento contrario al senso di umanità anche l'assenza di cure appropriate, cure che potrebbero essere meglio adottate altrove. (58) Praticamente l'assistenza adeguata non è quella che assicura la mera sopravvivenza in istituto penitenziario del detenuto, ma quella che in ogni caso tutela il valore della persona umana. (59) Per quanto riguarda, invece, la scelta fra detenzione domiciliare e rinvio dell'esecuzione, la giurisprudenza, in caso di condizioni così gravi da far presagire la morte imminente del condannato, preferisce applicare le norme sul rinvio dell'esecuzione della pena. (60) La prognosi infausta, infatti, comporta che la protrazione della detenzione si consideri contraria al senso di umanità e renda privo di significato il principio di rieducazione. La detenzione domiciliare non si ritiene a priori contraria al senso di umanità, anche nel caso in cui il soggetto soffra di una grave malattia; se inoltre residuano delle possibilità che la concessione della misura permetta comunque di partecipare ad un processo rieducativo, non c'è dubbio che si debba preferire questa al differimento della pena, considerati anche i maggiori vantaggi che comporta. Tuttavia, se la malattia è di una gravità tale da ridurre drasticamente le aspettative di vita dell'individuo, un percorso rieducativo perde di significato e le esigenze umanitarie sono tali da rendere disumana anche la detenzione domiciliare. In questo caso, il giudice preferirà sospendere l'esecuzione della pena attraverso la concessione del differimento della pena.

Gli articoli 146 e 147 del codice penale riguardano soltanto infermità di tipo fisico. Il rinvio che il comma 1-ter fa a questi articoli, porta ad escludere che anche nella concessione della detenzione domiciliare vi rientrino le malattie di natura mentale. Il problema è che allora di patologie psichiche o psichiatriche parla soltanto l'art. 148 c.p., che sospende l'esecuzione della pena detentiva sottoponendo però il soggetto al ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario oppure in casa di cura e custodia. Se già il rinvio dell'esecuzione è meno vantaggioso della detenzione domiciliare perché il periodo trascorso non si computa nell'espiazione della pena, nel caso delle infermità mentali non si prevede neanche una vera e propria sospensione ma un camuffato ricovero coatto della persona malata. La detenzione domiciliare alternativa al rinvio può essere concessa solo se la malattia di tipo mentale determina delle conseguenze sulle condizioni di salute fisica del condannato. (61) L'unico modo per concedere una misura alternativa a chi soffre di patologie psichiche o psichiatriche è previsto al comma 1, lettera c) dell'art. 47-ter, dove, però, si richiede anche di aver bisogno di tenere contatti regolari coi presidi sanitari. A mio avviso, ne emerge una sorta di discriminazione tra il malato nel corpo e il malato nella mente, che non tiene neanche conto delle teorie scientifiche più avanzate che non distinguono più tra malattie fisiche e psichiche, quando queste comunque provocano sofferenza.

3.5- Le novità introdotte dal “decreto carceri”, il decreto legge n. 78 del 2013

Il decreto legge 1 luglio 2013, n. 78, convertito con modificazioni in l. 9 agosto 2013, n. 94, ha introdotto alcune modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e al codice di procedura penale, al fine di far fronte all'emergenza carceraria, e per questo motivo è stato rinominato “decreto carceri”. Per quanto sia sicuramente accompagnato da buone intenzioni, ancora una volta si tratta di semplici modifiche al sistema, nuovi incisi alle norme dell'ordinamento, rinvii o abrogazioni, che complicano il sistema invece di semplificarlo, e risolvono poco. L'emergenza a cui si assiste in questi anni, emergenza che per la verità investe tutti i settori dell'ordinamento, giustifica l'utilizzo, che è diventato ormai la regola, della decretazione d'urgenza. Al di là del dibattito sulla liceità o meno di questa nuova prassi, quello che sicuramente non si può fare con le leggi di emergenza è una riforma globale, complessiva del diritto penale. Si continua a costruire sopra un edificio che è instabile dalle fondamenta, in questo modo si peggiora la situazione, rendendolo ancora più precario.

Il “decreto carceri”, per quanto riguarda le modifiche apportate all'ordinamento penitenziario, è andato in una ben precisa direzione: ha eliminato le norme, non tutte, introdotte dalla legge “ex Cirielli”, l. 5 dicembre 2005, n. 251, precisamente, ha eliminato le norme che rendevano precluso o comunque più difficoltoso l'accesso ai benefici da parte di coloro che sono stati dichiarati recidivi reiterati in sentenza di condanna.

In particolare, ha soppresso il comma 1.1 dell'articolo 47-ter che regolava l'accesso alla detenzione domiciliare del primo comma, e che aveva abbassato il limite edittale a 3 anni al condannato a cui fosse stato applicato l'art. 99, comma quarto, c.p. Ha eliminato, inoltre, l'inciso inserito nel comma 1-bis che escludeva l'accesso alla detenzione domiciliare “generica” alla stessa categoria di persone. Lo stesso discorso vale per la semilibertà, come accennato nel primo capitolo, ma non per i permessi premio, per i quali la proposta di abrogare l'art. 30-quater, inserita nel decreto legge, non è stata approvata nella legge di conversione. Per quanto riguarda la disciplina dell'art. 47-ter ord. pen., l'unica ipotesi che continua a rimanere preclusa ai recidivi reiterati è la detenzione domiciliare per ultrasettantenni.

Quindi, si può affermare che il “decreto carceri” ha inteso riportare la valutazione sulla meritevolezza o meno dei recidivi reiterati ad accedere ai benefici penitenziari alla discrezionalità della magistratura di sorveglianza. Elimina “il doppio binario” dell'art. 99, comma quarto, nel rispetto dei principi costituzionali dell'ordinamento, in base ai quali il percorso rieducativo di una persona non può essere precluso automaticamente, per la sola appartenenza ad una categoria di autori o per il titolo di reato. In pratica, ha dichiarato il fallimento della legge 251 del 2005. Ciò non vuol dire che tutti i soggetti che sono stati dichiarati recidivi ai sensi del quarto comma dell'art. 99 debbano essere ammessi alle misure alternative, ma che non devono esserne esclusi a priori. Queste disposizioni avranno sicuramente un impatto sul fenomeno del sovraffollamento nelle carceri, permettendo una rivalutazione di quelle situazioni che prima, ex lege, non potevano essere prese in considerazione ai fini della concessione dei benefici.

Nella conversione in legge del decreto è stato soppresso l'articolo che abrogava il comma 7-bis dell'art. 58-quater. Pertanto, è rimasta in vigore la norma che vieta di concedere più di una volta, ai recidivi qualificati, l'affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare oppure la semilibertà. La Corte di Cassazione ha però interpretato questa norma nel senso che la preclusione riguarda solo la concessione, più di una volta, dello stesso beneficio, non di un altro. (62) Pertanto, al recidivo ai sensi del quarto comma dell'art. 99 c.p., che ha, ad esempio, usufruito della semilibertà, può comunque essere concessa la detenzione domiciliare. La Corte costituzionale, a sua volta, ha cercato di limitare la portata di questa disposizione, affermando che l'interpretazione costituzionalmente legittima del comma 7-bis dell'art. 58-quater porta alla preclusione assoluta dell'accesso ai benefici penitenziari solo quando il reato, espressione della recidiva reiterata, sia stato commesso dopo aver fruito della misura alternativa, durante l'esecuzione di una pena che a sua volta era stata irrogata per un reato a cui era stata applicata l'aggravante dell'art. 99, comma quarto, del codice penale. (63) Ciò significa che la preclusione sarebbe assoluta solo quando l'individuo dopo aver sperimentato una misura alternativa pur essendo stato dichiarato recidivo reiterato, commetta un ulteriore reato, manifestando un'intolleranza verso il rispetto delle regole e l'inutilità delle misure alternative nel prevenire la commissione di ulteriori reati. Dunque, la giurisprudenza, sia di legittimità che costituzionale, ha cercato di limitare la rigidità, l'automatismo dell'art. 58-quater, comma 7-bis, tuttavia la norma esiste ancora e costituisce tutt'ora un freno notevole al trattamento rieducativo dei recidivi qualificati, perciò, sarebbe stato meglio rimettere anche questa decisione alla discrezionalità giudiziale.

Un'altra novità introdotta dal decreto 78/2013 ha ad oggetto l'articolo 656 del codice di procedura penale, che si occupa dell'esecuzione delle pene detentive. L'articolo in commento, al quinto comma in particolare, disciplina l'ipotesi in cui una persona sia stata condannata ad una pena detentiva non superiore ai 3 anni, oppure ai 6 anni nei casi di cui agli articoli 90 e 94 del Testo unico sugli stupefacenti, ovvero quando la persona sia tossicodipendente. Se ricorrono queste condizioni, il pubblico ministero emette l'ordine di esecuzione, ma contestualmente lo sospende al fine di permettere al condannato e al suo difensore, di presentare istanza, entro 30 giorni, al Tribunale di sorveglianza con cui richiedere la concessione di una misura alternativa. In questo modo, è possibile l'accesso alle alternative alla detenzione direttamente dalla libertà, evitando al condannato di entrare in carcere, anche per pochi giorni, quando la brevità della pena che gli è stata inflitta porta a presumere che potrebbe essergli concessa una misura alternativa. È il meccanismo, introdotto dalla legge n. 165 del 1998, volto a incentivare la concessione ab initio delle alternative al carcere. Tra l'altro non c'è nessuna discrezionalità nell'obbligo di sospendere l'ordine di esecuzione. (64) La norma si rivolge ai condannati liberi e si estende alle persone agli arresti domiciliari, realizzando il coordinamento tra la misura cautelare degli arresti e la possibilità di far proseguire la sanzione, se ricorrono le altre condizioni, sotto forma di detenzione domiciliare. In base al comma 10, inoltre, non c'è bisogno dell'istanza delle persone agli arresti domiciliari, ma è il pubblico ministero a inviare gli atti direttamente al Tribunale di sorveglianza, affinché provveda all'eventuale applicazione di una misura alternativa.

Ci sono, però, dei soggetti che sono esclusi dalla possibilità di usufruire della sospensione dell'ordine di esecuzione, e sono i condannati per uno dei delitti previsti all'articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975 e i condannati che si trovano in custodia cautelare per il fatto oggetto della condanna. Tra questi esclusi erano stati aggiunti i soggetti a cui è stata applicata in condanna la recidiva aggravata ai sensi del quarto comma dell'art. 99 c.p., che il “decreto carceri” ha provveduto ad eliminare. Perciò, questa categoria di soggetti potrà nuovamente attendere fuori dal carcere la decisione del tribunale sulla concessione di una misura alternativa, sempre che la pena detentiva non sia superiore a 3 anni, oppure 6 se si tratta di persona tossicodipendente.

Inoltre, è stato modificato il comma 5 dell'articolo 656, permettendo che nei casi in cui si rientri nelle ipotesi particolari previste dal comma 1 dell'articolo 47-ter la pena detentiva da sospendere può arrivare fino a 4 anni. In questo modo, si supera una discrasia presente nell'ordinamento, che prevedeva la possibilità di sospendere l'ordine di esecuzione solo per le pene fino a tre anni, senza considerare che la misura della detenzione domiciliare prevista al comma uno dell'art. 47-ter si può ottenere per pene fino a 4 anni.

La novità più rilevante, tuttavia, è un'altra. Il nuovo comma 4-bis dell'articolo 656 c.p.p. prevede la possibilità di tenere in considerazione le eventuali detrazioni derivanti dalla liberazione anticipata nel calcolo della pena che può essere sospesa. Il pubblico ministero, se verifica la sussistenza di periodi di custodia cautelare o di pena dichiarata fungibile, che permettano un'eventuale detrazione per mezzo della liberazione anticipata, tale da far rientrare la pena nei limiti del comma 5, invia gli atti del magistrato di sorveglianza affinché provveda, quando lo ritenga opportuno, prima ancora di aver emesso l'ordine di esecuzione. Si permette dunque di scomputare i giorni che potrebbero essere detratti tramite la liberazione anticipata, per far rientrare la pena detentiva nei termini per la sospensione. Se però il condannato si trova in custodia cautelare per lo stesso fatto oggetto della condanna, il pubblico ministero emette prima l'ordine di esecuzione e poi trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza, se ricorrono gli ulteriori presupposti anzidetti. Accade che, quando il condannato è libero o agli arresti domiciliari, i tempi per l'emissione dell'ordine di esecuzione sospeso, vengano dilatati in attesa che il magistrato di sorveglianza si pronunci sulla liberazione anticipata. Infatti, la norma precisa che l'invio degli atti al magistrato di sorveglianza avvenga prima dell'emissione dell'ordine di esecuzione, in questo modo si aggiunge un passaggio ulteriore che rischia di allungare non poco i tempi per la messa ad esecuzione della pena. Anche se mi domando quanti saranno i casi in cui funzionerà questo meccanismo. Infatti, perché scatti la nuova disciplina, è necessario che il soggetto abbia scontato in custodia cautelare, e poi sia uscito, o comunque abbia a disposizione un periodo di pena dichiarata fungibile che arrivi almeno a 6 mesi di pena su cui richiedere la verifica della possibilità di ottenere la liberazione anticipata. Probabilmente, gli unici casi un po' più frequenti saranno quelli in cui il soggetto si trovi agli arresti domiciliari, da almeno sei mesi però.

Si tratta dunque di un ulteriore meccanismo volto ad evitare le carcerazioni specialmente di una certa brevità, ed è un buon obiettivo; ma non sono sicura che nella prassi avrà un impatto numericamente rilevante.

In conclusione, le novità introdotte dalla legge 9 agosto 2013, n. 94 si muovono lungo due direttrici: da una parte, cercano di limitare gli ingressi in carcere, attraverso le modifiche apportate all'art. 656 del codice di procedura penale (oltre alle modifiche introdotte all'art. 280 e all'art. 274 c.p.p. volte a limitare il ricorso alla custodia cautelare in carcere); dall'altra parte, cercano di ampliare il numero di persone che possono uscire dal carcere, attraverso l'eliminazione, in alcuni casi, delle preclusioni all'accesso ai benefici da parte dei soggetti dichiarati recidivi ai sensi del quarto comma dell'art. 99 c.p. (65) Certamente non si può non guardare con favore a questa inversione di tendenza negli interventi legislativi, sembra che il legislatore abbia finalmente deciso di non precludere, ma di includere condannati nell'accedere ai benefici penitenziari. Ma la verità è che fin'ora si è fatto poco di più che tornare indietro, alla disciplina precedente alla legge 5 dicembre 2005, n. 251.

3.6- La surveillance électronique in Francia: una mera modalità di esecuzione della pena. Il potere del giudice di adeguare la pena alle esigenze di vita del condannato

La misura del placement sous surveillance électronique è stata introdotta in Francia, come sanzione sperimentale, nel 1997 con legge 97-1159 del 19 dicembre 1997, ma per la sua applicazione generalizzata bisogna aspettare l'inizio del ventunesimo secolo.

È la prima volta che una misura d'aménagement viene considerata misura giurisdizionalizzata, nel senso che per la sua applicazione è previsto un procedimento contraddittorio, la decisione del giudice deve essere motivata, ed è possibile proporre appello. (66) Il processo di “giurisdizionalizzazione” verrà poi ampliato alle altre peines aménagées e completato nel 2004, con la loi Perben II, anche se si registra un'inversione di tendenza negli ultimi interventi legislativi.

Inizialmente, la sorveglianza elettronica era prevista nella sola fase dell'esecuzione, come aménagement de peine, avente la finalità di fornire una migliore prevenzione nella lotta alla recidiva e di contribuire alla riduzione del sovraffollamento nelle carceri. Infatti, uno dei motivi del successo del PSES, acronimo con cui è spesso abbreviato, è che permette di controllare l'individuo al momento dell'uscita dal carcere, e allo stesso tempo gli permette di reinserirsi, di riabituarsi a svolgere le attività del quotidiano. In questo modo, si evitano les sorties sèches, il passaggio troppo brusco dallo stato detentivo alla libertà, anche perché alcuni studi dimostrano che una progressione nel recupero della libertà influenza al ribasso il tasso di recidiva. (67)

Più tardi, viene data anche al giudice della cognizione la possibilità di disporre la sorveglianza elettronica, ab initio dunque. In questo modo, la sua finalità si trasforma nella lotta alle pene brevi, permettendo di ridurre gli effetti desocializzanti del carcere quando la pena detentiva non si dimostri adeguata alla capacità criminale del condannato. (68) Inoltre, la surveillance électronique può essere concessa prima di concedere la liberazione condizionale, come misura probatoria e preliminare al secondo beneficio.

Il placement sous surveillance électronique viene considerato una modalità di esecuzione della pena detentiva, un regime detentivo attenuato, (69) che è la definizione comune a tutte le misure d'aménagement.

Il PSES comporta l'interdizione di non assentarsi dal proprio domicilio o da altro luogo stabilito dal giudice, al di fuori dagli orari prestabiliti, come recita l'art. 132-26-2 del codice penale francese. Si tratta dunque di un'ipotesi di detenzione domiciliare, caratterizzata dall'obbligo di permanenza in casa, piuttosto che in istituto di pena. A livello comparatistico, è interessante constatare come questa misura sia stata pensata e introdotta dal legislatore francese come indissolubilmente legata ai mezzi elettronici di controllo. Non è concepita come una detenzione domiciliare, che poi può svolgersi con modalità all'avanguardia come il cosiddetto “braccialetto elettronico”, ma è nata proprio come uno strumento di controllo tramite l'utilizzo della tecnologia. La concessione della surveillance électronique comporta l'obbligo d'indossare il dispositivo elettronico che permette il controllo a distanza del soggetto. Non si concepisce l'obbligo di non allontanarsi dall'abitazione senza l'obbligo di essere sottoposti al controllo elettronico. La misura può essere concessa dal giudice della cognizione oppure dal Jap, il giudice dell'applicazione delle pene, e può riguardare pene nel massimo fino a due anni, anche considerate come parte residua di una pena maggiore. Il limite è di un anno se la persona si trova in stato di recidiva legale, peraltro è sufficiente che si tratti di recidiva semplice. Il limite di pena può sembrare breve in confronto al nostro, eppure la dottrina francese lo considera anche troppo lungo se viene messo in relazione con l'elevata afflittività che connota il regime domiciliare. La sorveglianza elettronica è vista infatti come una misura molto restrittiva, contraignante. Non a caso, la dottrina francese utilizza frequentemente locuzioni che sottolineano questo particolare aspetto: infatti, il beneficiario viene definito il “guardiano di se stesso”, (70) che si tiene da solo dietro le sbarre, (71) mentre la misura è definita “la prigione in casa propria” o il “carcere a domicilio”. (72)

Le statistiche dimostrano che dopo alcuni mesi, le persone sottoposte a controllo elettronico possono manifestare insofferenza verso i pesanti obblighi loro imposti. Tuttavia, per quanto liberticida sia, si dimostra pur sempre più umana della pena detentiva. (73) Le caratteristiche della sorveglianza elettronica ci spiegano perché si subordina la sua concessione alla prestazione del consenso da parte del condannato, peraltro in presenza del suo avvocato o comunque di un avvocato d'ufficio. La particolare afflittività della surveillance électronique è dimostrata anche dal fatto che il beneficiario viene considerato effettivamente in stato detentivo, tanto che viene iscritto nel registro dei detenuti dello stabilimento penitenziario che dipende dal centro della sorveglianza. (74)

L'obbligo di restare nella propria abitazione, o in altro luogo stabilito dal giudice, non è assoluto. Si è già visto infatti come la concessione della misura sia subordinata ad una delle condizioni previste dalla legge e uguali anche per la concessione della semi-liberté: motivi professionali, d'istruzione oppure familiari. La possibilità di svolgere, anzi la necessità di svolgere, una di queste attività si spiega con la concezione più elastica dell'obbligo di permanenza domiciliare. La legge stessa si esprime dicendo che l'interessato ha l'obbligo di non allontanarsi al di fuori degli orari fissati dal giudice. (75) Questa flessibilità permette quindi di mantenere effettivamente i contatti con l'ambiente esterno, e soprattutto di continuare a lavorare, possibilità che a sua volta consente di mantenersi economicamente e riduce le probabilità di cadere nuovamente nel reato. Anche i motivi familiari ne risultano avvantaggiati: in Francia mancano del tutto le misure a favore delle condannate madri, nessun beneficio è previsto appositamente per la tutela dei diritti dell'infanzia e del rapporto tra genitori e figli. La flessibilità accordata al regime domiciliare permette alle beneficiarie madri, o anche padri, di organizzare gli orari in cui poter uscire dal domicilio in base alle esigenze della prole, ad esempio per accompagnare i bambini a scuola o a fare altre attività. (76) In questo modo, la partecipazione del genitore alla crescita del figlio è garantita in maniera più effettiva, in confronto alla sola possibilità di restare a casa con i propri figli.

Le concrete modalità di esecuzione della surveillance électronique sono rimesse alla competenza del Jap, sia che si tratti di pena applicata ab initio sia che si consideri aménagement di pena. Il giudice si ritrova ad avere un indiscutibile potere discrezionale, molto più ampio che da noi. Tuttavia, senza questa discrezionalità non si potrebbero tenere in considerazione proprio quelle esigenze reali che la legge non può conoscere in astratto.

Il “braccialetto elettronico” consente di monitorare gli spostamenti del condannato, non solo quando si allontana dall'abitazione fuori dagli orari stabiliti dal giudice, ma anche ad esempio se accede a luoghi o località che gli sono interdetti. La concreta possibilità di controllare il rispetto delle prescrizioni e degli obblighi imposti al condannato contorna il placement sous surveillance électronique di un'aurea di effettività che manca alla nostra detenzione domiciliare. Se è proprio l'elettronica a garantire l'effettività di questa misura, la possibilità di svolgere delle attività ne garantisce la finalità risocializzante e non soltanto meramente non desocializzante.

Il mancato rispetto delle modalità di esecuzione della misura o di altre condizioni particolari, l'intervento di una nuova condanna, oppure il rifiuto del condannato di una modifica necessaria delle modalità esecutive possono esporre il sorvegliato alla revoca del PSES, con conseguente ripristino della pena detentiva. Anche la richiesta da parte del condannato può portare alla cessazione della misura.

Il delitto di evasione viene, inoltre, arricchito di un'ulteriore condotta penalmente rilevante: oltre al mancato rientro nella propria abitazione, commette evasione chi, in qualche modo, manomette il dispositivo elettronico che permette di controllare a distanza gli spostamenti del condannato. (77)

Ciò che colpisce nello studio del placement sous surveillance électronique, ma lo stesso discorso si può estendere anche alla semi-liberté, è la semplicità della sua disciplina. Le sole condizioni d'ammissibilità riguardano i limiti di pena, uguali in entrambe le misure. Il contenuto della misura è arricchito da alcune attività da svolgere o comunque motivi che giustifichino la sua concessione; d'altronde, oltre ai motivi familiari o professionali, di studio o di salute, non è necessario prevedere altro. Non sono previste esclusioni né soggettive né basate sul titolo di reato, per i recidivi è solo previsto un limite di pena inferiore. Non sono previste ipotesi diverse all'interno della stessa misura, anche perché una differente finalità della sanzione è diretta conseguenza della scelta in concreto dell'attività da svolgere. In altri termini, non è necessario prevedere una forma diversa di sorveglianza elettronica a seconda della ratio con la quale è introdotta, perché sarà il motivo che giustifica la sua concessione a individuare, di volta in volta, il fine che la misura intende perseguire. Perciò, una peine aménagé avrà una finalità più propriamente risocializzante quando è concessa per svolgere un'attività professionale, mentre sarà più propriamente assistenziale quando è concessa ad una condannata madre al fine di accudire suo figlio. Le modalità con cui la pena viene eseguita dipendono invece dalla pericolosità sociale del soggetto, e forse anche dalle sue concrete possibilità. Ed è proprio la semplicità normativa che amplia il potere discrezionale concesso al giudice, perché è soltanto il giudice che può adattare la sanzione alle situazioni concrete. Sicuramente, il sistema delle alternative alla pena, in Francia, non raggiunge gli elevati gradi di tutela che in Italia sono invece accordati ad alcune categorie di soggetti deboli. La tutela dell'infanzia, ad esempio, o il diritto alla salute, non vengono protetti come nel nostro ordinamento. Tuttavia, ne guadagnano in coerenza e razionalità della disciplina, e soprattutto riducono le disparità di trattamento che sono invece il principale rischio di una normativa dettagliata e costruita “per stratificazioni”.

4- La detenzione domiciliare speciale a tutela delle condannate madri o dei condannati padri

All'art. 47-quinquies dell'ordinamento penitenziario viene disciplinata un'ipotesi di detenzione domiciliare, detta appunto “speciale”, introdotta appositamente a tutela delle condannate madri, e dei condannati padri se la madre è deceduta o impossibilitata ad assistere la prole. La sua introduzione si deve alla legge 8 marzo 2001, n. 40, recante misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenuti e figli minori, una legge emanata allo scopo di dare attuazione ai principi dettati in Costituzione e abolire la carcerazione dei minori, che si trovano ancora adesso a passare i loro primi anni di vita sì accanto alla loro madre, ma in condizione di ristretti in carcere.

Se forse l'intento della legge era nobile, ha creato però ancora più confusione. Si sono moltiplicate, infatti, le norme di favore per le detenute madri, complicando la disciplina invece di semplificarla.

La detenzione domiciliare speciale può essere concessa alle condannate madri di prole non superiore a 10 anni, e ai condannati padri non solo se la madre è deceduta o impossibilitata, ma anche se non vi è modo di affidare ad altri la prole. Da una parte, la formula della legge ammette che l'impossibilità della madre di accudire i figli non sia più assoluta come nell'art. 47-ter ord. pen., ma dall'altra parte aggiunge la necessità che non ci sia nessun'altro disposto a prendersi cura della prole. Si registra nuovamente un atteggiamento discriminatorio nei confronti del padre, che viene quasi considerato l'ultimo a cui chiedere di accudire i propri figli. Se, infatti, è la madre a richiedere la concessione della misura si presume che lei sia la prima persona in grado di assistere la prole durante la crescita, se però è il padre a richiedere la detenzione domiciliare speciale, riuscirà ad ottenerla non solo se la madre non può farlo, ma anche se non c'è nessun'altro, ad esempio i nonni del bambino, disposti a prendersi cura di suo figlio. (78) Per accedere alla misura domiciliare è necessario che sia possibile ripristinare la convivenza coi propri figli. L'inciso vuole evitare che il condannato chieda di usufruire di questa misura tanto vantaggiosa, quando in realtà non ha rapporti coi figli, in particolare non vive più insieme a loro, anche per cause indipendenti dalla sua volontà, come ad esempio l'affidamento temporaneo oppure la decadenza della potestà sui figli a norma dell'art. 330 del codice civile. (79)

L'art. 47-quinquies ord. pen. snocciola poi una serie di ulteriori requisiti per la concessione della detenzione, condizioni precise e particolari, che però analizzate un po' più a fondo, lasciano fuori pochi casi in cui non è possibile chiedere la detenzione domiciliare speciale. Innanzitutto, la norma si pone in rapporto di sussidiarietà con la detenzione domiciliare ordinaria; infatti il primo inciso precisa che, allorquando non ricorrano le condizioni di cui all'art. 47-ter, si può richiedere la detenzione domiciliare speciale. In questo modo, si allargano le possibilità per le detenute madri di espiare nel proprio domicilio la pena detentiva. (80) Più specificamente, anche se la pena supera i 4 anni, i soggetti interessati possono accedere al beneficio dopo aver espiato un terzo della pena complessiva, oppure quindici anni nel caso di condanna all'ergastolo. Se ne deduce che la norma è pensata per pene sicuramente lunghe, e inoltre sembra indirizzarsi alle detenute madri, a coloro che diventano genitori proprio in istituto di pena. (81)

Tra le condizioni oggettive, si richiede poi la valutazione in concreto che non sussista il pericolo di reiterazione del reato, oltre alla già menzionata possibilità di ristabilire la convivenza coi figli.

È importante sottolineare la maggiore discrezionalità che è stata affidata al magistrato di sorveglianza nella determinazione delle prescrizioni. Infatti, è stato eliminato il rinvio al comma 3 dell'art. 284 del codice di procedura penale, che subordina la possibilità di uscire dal domicilio per il soddisfacimento delle indispensabili esigenze di vita o per la necessità di far fronte all'assoluta indigenza del soggetto. (82) In questo modo, si permette al magistrato di stabilire gli orari di uscita e di rientro dall'abitazione in maniera più elastica, affinché risultino compatibili con le più svariate esigenze che comporta l'assistenza ai figli minori. Quindi, non solo si ampliano le attività per cui è possibile allontanarsi dal domicilio, ma le si dipingono come strutturali e non più eccezionali. (83)

Trattandosi di detenzione domiciliare, è necessario che la donna abbia la disponibilità di un'abitazione. Per evitare che però non possano usufruire di questa misura le donne che si trovino in disagiate condizioni economiche, e più che altro che non abbiano un posto dove andare, sono state istituite le case famiglia protette, che accolgono appunto le detenute con figli minori.

La legge 21 aprile 2011, n. 62, ha aggiunto il comma 1-bis all'articolo 47-quinquies, dove vengono menzionati gli ICAM, gli istituti a custodia attenuata per detenute madri. Questi istituti dovrebbero nascere con una concezione diversa della detenzione carceraria, poiché sono finalizzati ad ospitare le condannate madri e i loro figli, alzando tra l'altro la soglia di età fino a 6 anni. S'ispirano al modello della comunità, e dovrebbero essere costruiti in modo da camuffare al loro interno i sistemi di sicurezza, affinché i bambini non li riconoscano. (84) È comunque un dato di fatto che ad oggi, in Italia, è presente un solo ICAM, che tra l'altro era stato costruito precedentemente alla pubblicazione della legge 62/2011. (85) La menzione degli istituti a custodia attenuata serve a permettere alla detenute madri di espiare in questi luoghi oppure, se non vi è pericolo di commissione di ulteriori reati o di fuga, nella propria abitazione o privata dimora, o in luogo di cura, assistenza, accoglienza, oppure infine nelle case famiglia protette, proprio quel quantum di pena che deve essere espiato per accedere al beneficio di cui al comma uno. In questo caso, sono escluse le condannate che hanno commesso uno dei delitti dell'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975. Questa precisazione conferma che sul primo comma il divieto di concessione dei benefici penitenziari opera anche se non è affermato esplicitamente, ma coi limiti ordinari previsti nello stesso articolo 4-bis, senza dunque prevedere l'espiazione di un quantum di pena maggiorato. (86)

Non si escludono, invece, coloro che sono stati dichiarati recidivi ai sensi del quarto comma dell'art. 99 c.p., né coloro che hanno subito la revoca di una precedente misura alternativa o sono stati puniti ai sensi dell'art. 385 c.p., come stabilisce per le altre misure alternative l'art. 58-quater ord. pen.

Riepilogando, il comma 1-bis dell'art. 47-quinquies ammette che le condannate per un delitto diverso da quelli elencati all'articolo 4-bis possano espiare un terzo di pena, oppure 15 anni se la condanna è all'ergastolo, non solo negli ICAM, ma anche nel proprio domicilio, con la sola condizione dell'assenza del rischio di reiterazione dei reati e del pericolo di fuga. Quindi, la madre di prole di età non superiore ai dieci anni può espiare la pena in detenzione domiciliare praticamente per tutta la sua durata, qualunque essa sia, a patto che non risulti particolarmente pericolosa. Perfino, l'intera condanna all'ergastolo, se non è stata inflitta per un reato indicato nel 4-bis, può eseguirsi fuori dal carcere.

Si prevede inoltre la possibilità di prorogare il beneficio. Dato che al compimento del decimo anno di età del figlio, la madre non rientrerebbe più nelle condizioni per proseguire la misura domiciliare, l'ultimo comma dell'art. 47-quinquies ha previsto due deroghe alla disciplina ordinaria. Il Tribunale di sorveglianza può o disporre la proroga del beneficio della detenzione domiciliare, qualora ricorrano le condizioni per accedere alla semilibertà, ovvero se sia stata espiata almeno metà della pena; oppure può ammettere la madre ad assistere all'esterno i figli minori in base all'art. 21-bis ord. pen., norma che, riprendendo le disposizioni previste dall'articolo 21 sul lavoro all'esterno, disciplina la possibilità di partecipare alla vita familiare durante la giornata per poi rientrare in istituto penitenziario la sera.

Insomma, l'art. 47-quinquies introduce una norma complessa a tutela del rapporto tra condannate madri e figli minori, oppure i padri a determinate condizioni. Ma i problemi maggiori sorgono quando si cerca di coordinare questa disciplina con le altre norme di favore che, via via, il legislatore ha emanato a tutela dell'infanzia e del diritto dei figli alle cure materne.

Innanzitutto, le donne incinta e le madri di prole inferiore ad un anno possono ottenere il differimento obbligatorio dell'esecuzione della pena, sotto i 3 anni possono ottenere il rinvio facoltativo. In alternativa al rinvio, c'è appunto la detenzione domiciliare surrogatoria del differimento, che ha il vantaggio di rispettare il principio d'inderogabilità della pena, permettendone l'espiazione anche se in regime attenuato. Sempre quando il figlio non supera i 3 anni si ricorderà che l'art. 50 dell'ordinamento penitenziario dà diritto alle detenute madri di usufruire della casa delle semilibertà. In confronto al regime della semilibertà, non c'è dubbio che la detenzione domiciliare offre vantaggi maggiori: concede la possibilità di passare tutto il tempo, e non solo parte della giornata, con la propria famiglia e in casa propria, l'età della prole è superiore perché si arriva a 10 anni, e non è necessario valutare i progressi compiuti nel corso del trattamento. Tuttavia, non tutte le detenute madri hanno la disponibilità di un domicilio, e anche le case famiglia protette sono poche e con pochi posti letto, pertanto in questi casi si potrà accedere solo alla semilibertà.

Quando il figlio è minore degli anni 10, condannate madri e condannati padri hanno la possibilità di essere ammessi all'assistenza all'esterno dei figli minori ex art. 21-bis, alla detenzione domiciliare ordinaria per pene fino ai 4 anni, oppure alla detenzione domiciliare speciale senza limiti di pena, alle condizioni ovviamente previste nelle singole norme. Sopra i 10 anni, la condannata madre che ha ottenuto la detenzione domiciliare speciale, può chiedere una proroga se rientra nelle condizioni per accedere alla semilibertà oppure può farsi autorizzare ad assistere all'esterno i figli. (87)

Questo è un quadro sintetico della disciplina delle misure alternative previste in nome della tutela dell'infanzia e del rapporto genitori-figli. Al di là del mancato coordinamento tra le norme che comporta la sovrapposizione fra i vari istituti, (88) per cui in certi casi è possibile accedere, non ad uno, ma a 3 o 4 benefici allo stesso tempo, è l'onnipervasività delle norme a favore delle condannate madri a rendere perplessi. Sembra che in ogni caso, per qualunque reato (o quasi), a qualunque costo sia possibile per la madre detenuta evitare la pena detentiva carceraria e accedere ad una misura alternativa. Tra l'altro, l'accesso ai benefici è caratterizzato da una totale assenza di sistematicità e di progressione nel trattamento, prevedendo anzi misure parzialmente detentive dopo aver usufruito della misura domiciliare, come stabilisce il comma otto dell'art. 47-quinquies. (89) Sicuramente, i valori sottesi a queste norme di favore sono d'importanza fondamentale, ma il rischio è che invece di tutelare il diritto del bambino ad avere accanto sua madre nella delicatissima fase della crescita infantile, si crei un reticolato di norme che si traducano in impunità per il delitto commesso e in fuga senza limiti dalla detenzione carceraria.

In conclusione, se lo scopo della legge soprannominata “8 marzo” era di porre fine alla “carcerizzazione” dei bambini, va registrato che alla data del 31 dicembre 2012 i minori di anni 3 che si trovano in istituto penitenziario accanto alle loro madri sono ancora 41, oltre a 5 donne in gravidanza. Al 31 dicembre 2000, cioè prima che entrasse in vigore la legge n. 40 del 2001, le detenute in gravidanza erano 33 e i bambini 78. (90) Sicuramente, il numero si è sensibilmente ridotto, ma non si può certo dire che è stato eliminato il fenomeno della “carcerizzazione” dei figli delle donne detenute. Quello che è sicuro, invece, è che si è aggiunta un'ulteriore misura alternativa, speciale nel senso che è indirizzata ad una sola categoria di soggetti, e mal inserita nel contesto di norme che erano presenti già prima della sua introduzione.

5- La disciplina della revoca nelle detenzioni domiciliari: un'incompleta correzione degli automatismi

La disciplina della revoca della detenzione domiciliare è stata modificata più volte, soprattutto grazie agli interventi della Corte costituzionale. All'art. 47-ter, comma sesto, ripreso alla lettera dall'art. 47-quinquies, stesso comma, si afferma che la misura è revocata se il comportamento del soggetto, contrario alla legge oppure alle prescrizioni, appare incompatibile con la sua prosecuzione. Non è sufficiente quindi che il soggetto non abbia rispettato una prescrizione o abbia violato la legge, ci vuole comunque una valutazione del Tribunale di sorveglianza sulla incompatibilità del comportamento del condannato con il mantenimento in detenzione domiciliare. Come per la semilibertà, si tratta quindi di un giudizio discrezionale, e non di una disciplina automatica, poiché il fine ultimo delle misure alternative è il reinserimento sociale del condannato ed è questo che il Tribunale deve prendere in considerazione: la possibilità o meno che la misura possa ancora apportare benefici in termini di recupero del condannato.

La seconda causa di revoca della detenzione domiciliare si ha in caso di allontanamento dal domicilio. Se un soggetto si allontana dal luogo in cui si trova a dover risiedere, oppure vi fa ritorno in ritardo rispetto agli orari stabiliti dal magistrato, si configura il delitto di evasione. La condotta di chi si allontana dal proprio domicilio è equiparata a quella formulata nell'art. 385 del codice penale. Già dal 1997 la Corte costituzionale ha affermato che per procedere anche solo alla sospensione della misura domiciliare, è necessaria una valutazione del magistrato di sorveglianza. (91) La sospensione, dunque, non può derivare automaticamente dalla presentazione della denuncia per evasione, ma deve essere valutata. Gli automatismi, però, permangono laddove si configura il delitto di evasione per il solo fatto di essersi allontanati dall'abitazione, senza prevedere giustificati motivi o un periodo di tempo minimo che può essere considerato penalmente irrilevante.

Per la detenzione domiciliare speciale è stabilita, invece, una diversa disciplina. L'art. 47-sexies dell'ordinamento penitenziario prevede, infatti, che la madre detenuta che si allontani, senza giustificato motivo, dal domicilio per un periodo di tempo non superiore alle 12 ore può essere proposta per la revoca della misura; mentre se l'allontanamento superi le 12 ore viene denunciata per evasione, e la misura viene revocata al momento della condanna definitiva. In questo caso, la disciplina della revoca assomiglia a quella prevista per la semilibertà. La revoca diventa automatica soltanto se si superino le 12 ore di assenza dal domicilio, entro questa fascia oraria la decisione se revocare o meno la concessione della detenzione domiciliare speciale spetta al Tribunale di sorveglianza, che dovrà valutare se, in assenza di un motivo che giustifichi il ritardo, il comportamento della donna appaia ancora compatibile con la prosecuzione della misura. (92)

La diversità di disciplina sembra essere giustificata dalla necessità di tenere in considerazione, nel regime domiciliare speciale, le esigenze imprevedibili che comporta la cura dei figli minori. Eppure, anche la detenzione domiciliare ordinaria ha tra le sue condizioni d'ammissibilità l'assistenza ai figli minori degli anni dieci. Tralasciando le difficoltà di accertare se un allontanamento superi o meno le 12 ore, per l'improbabilità che la polizia giudiziaria riesca a scoprire precisamente quando un soggetto si è allontanato e quando è rientrato, (93) non si può non rilevare la rigidità, l'automatismo della disciplina della revoca della misura ex art. 47-ter a confronto con la disciplina della revoca prevista per la detenzione domiciliare speciale. Per questo motivo, la Corte costituzionale è stata nuovamente chiamata a pronunciarsi sulla questione. (94) Nel caso sottoposto all'esame della Corte, una donna, madre di un figlio infradecenne, ammessa al regime domiciliare ordinario, era stata condannata per evasione per aver accumulato un ritardo di 40 minuti. La Consulta accoglie il ricorso della donna e ammette l'interpretazione analogica per cui la detenuta madre in detenzione domiciliare subisce la revoca automatica della misura solo se l'allontanamento dall'abitazione superi le 12 ore, com'è previsto dall'art. 47-sexies ord. pen. L'estensione della disciplina della revoca è possibile per l'identità di ratio fra la detenzione domiciliare speciale e la detenzione ai sensi della lettera a) dell'art. 47-ter, primo comma, introdotte dal legislatore in tempi diversi ma aventi come obiettivo comune la tutela dei minori in tenera età e del loro diritto di beneficiare delle cure materne. La sentenza elimina pertanto il paradosso che proprio il trattamento sanzionatorio previsto per le donne che hanno commesso reati più gravi era più flessibile, più vantaggioso rispetto alla disciplina della detenzione domiciliare ordinaria, nella quale è presente almeno un limite di pena. (95)

Questa pronuncia però, proprio perché si è basata sull'identità di finalità tra i regimi domiciliari a favore delle condannate madri, non ha toccato la disciplina riservata alle altre ipotesi di detenzione domiciliare ordinaria. Pertanto, per tutte le altre ipotesi di detenzione domiciliare delineate dall'art. 47-ter ord. pen. è ancora valida la disciplina della revoca automatica in caso di allontanamento o mancato rientro nel domicilio.

Tuttavia, il decreto legge 1 luglio 2013, n. 78, è intervenuto a modificare anche la disciplina della revoca della detenzione domiciliare. Inizialmente, addirittura aveva previsto l'abrogazione dell'intero comma 9 dell'art. 47-ter, il quale stabiliva che la denuncia per il delitto di evasione comporta la sospensione della misura, e la condanna ne importa la revoca. L'eliminazione di questa norma avrebbe rimesso interamente al Tribunale di sorveglianza la decisione se revocare o meno la misura in caso di condanna per il delitto di evasione. In sede di conversione, però, il comma 9 è stato sostituito dal seguente: “la condanna per il delitto di cui al comma 8 (il delitto di evasione), salvo che il fatto non sia di lieve entità, importa la revoca del beneficio”. Si prospetta una disciplina automatica, ma che prevede una sorta di scusante quando il fatto non si dimostri grave. Dato che la valutazione sulla gravità o meno del fatto che integra la condotta di evasione è comunque rimessa alla discrezionalità del giudice, forse sarebbe stato meno problematico lasciare, in ogni caso, la decisione al giudice. Ad ogni modo, si è aperto uno spiraglio nel muro dell'obbligatorietà della disciplina della revoca della detenzione domiciliare.

La condanna per evasione ha pure un'altra importante conseguenza: infatti, in base all'art. 58-quater ord. pen., comma uno, comporta il divieto di durata triennale di usufruire di una qualsiasi altra misura alternativa. La norma si applica a chiunque commetta il delitto di evasione, giudizialmente accertato, mentre si trovava in misura alternativa, oppure durante un permesso premio o il lavoro all'esterno ai sensi dell'art. 21 dell'ordinamento penitenziario. Per precisione, il divieto non sembra estendersi a chi ha usufruito della detenzione domiciliare speciale e della misura a beneficio dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da altra grave deficienza immunitaria.

Tuttavia, la Corte costituzionale sempre più frequentemente manifesta insofferenza verso gli automatismi della legge, specialmente quelli previsti nell'ordinamento penitenziario e che precludono a priori l'accesso ai benefici penitenziari. D'altronde, l'ordinamento penitenziario è il campo dove si dà attuazione al principio di rieducazione della pena, principio per sua natura dinamico, mutevole, indissolubilmente legato alle peculiarità della situazione concreta e del soggetto che ha diritto di parteciparvi. Nella sentenza n. 189 del 2010, sembra che la Consulta abbia assestato un duro colpo agli automatismi nella fase dell'esecuzione penale. (96) La questione d'illegittimità costituzionale che viene sollevata ha ad oggetto proprio l'art. 58-quater, comma 1, il divieto di concessione di benefici a chi è stato dichiarato colpevole del delitto di evasione. La Corte costituzionale dichiara la questione inammissibile e propone un'interpretazione costituzionalmente orientata. L'art. 27, comma 3, della Costituzione impone un'interpretazione che rifiuta ogni automatico divieto di concessione di un beneficio e richiede invece di procedere, caso per caso, ad una valutazione individualizzata, escludendo che possa essere stabilita una prevalenza assoluta delle esigenze di prevenzione su quelle di recupero del condannato. Il fatto che ci sia stata un'evasione, precedente alla richiesta di concessione di una nuova misura alternativa, comporta anzi un'analisi ancora più approfondita della personalità dell'individuo. La Consulta afferma che deve essere considerato un principio costituzionale quello che esclude i rigidi automatismi in materia di benefici penitenziari. Così facendo, restituisce autonomia decisionale alla magistratura di sorveglianza. (97) La Corte cita inoltre alcune sentenze della giurisprudenza di legittimità che affermano lo stesso principio, ma che non erano state emanate al momento della rimessione della questione alla Corte stessa. La Cassazione, infatti, contemporaneamente esclude l'automaticità della preclusione delle misure alternative a chi è stato riconosciuto penalmente responsabile del delitto di evasione, e impone invece al giudice di svolgere un approfondito esame della personalità del condannato e della sua perdurante pericolosità. (98)

Un'ulteriore ipotesi di revoca interviene quando vengono meno le condizioni per accedere alla detenzione domiciliare stessa. In particolar modo, se non sussistono più le condizioni indicate dal comma 1 e dal comma 1-bis dell'articolo 47-ter, la misura dovrà essere revocata. In questo caso si parla di revoca incolpevole, perché appunto il venir meno, ad esempio, dei problemi di salute oppure dei limiti di età della prole, non deriva certo dalla volontà del soggetto, non è a lui imputabile. Per questo motivo, nella prassi, si parla di cessazione della misura, piuttosto che di revoca. (99) Se però sussistono le condizioni per accedere ad un'altra variante della detenzione domiciliare, si può far proseguire la misura.

Occorre infine aggiungere che la revoca non ha effetto retroattivo: dato che un giorno trascorso in detenzione domiciliare si fa corrispondere ad un giorno di pena detentiva, per il calcolo del residuo pena, che deriva dalla revoca e che va scontato in istituto penitenziario, non si pone nessun problema.

6- La detenzione domiciliare per soggetti affetti da AIDS: esigenza di tutela o permanenza del pregiudizio?

La legge del 12 luglio 1999, n. 231, ha stabilito alcune disposizioni a favore dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria. Tra le varie disposizioni, c'è l'introduzione dell'art. 47-quater, che prevede la concessione di misure alternative a favore di questi soggetti gravemente ammalati. La norma quindi non tratta soltanto della detenzione domiciliare, ma prevede anche l'affidamento in prova ai servizi sociali.

La finalità è chiaramente la tutela del diritto alla salute, si cerca di rendere meno afflittiva l'esecuzione della pena per esigenze umanitarie. Data la gravità delle situazioni, e il rango costituzionale del diritto alla salute, non è previsto alcun limite di pena, anzi la norma è stata introdotta proprio per superare i limiti imposti dagli art. 47 e 47-ter dell'ordinamento penitenziario. Le misure possono rivolgersi sia agli internati che ai condannati, così stabilisce l'ultimo comma dell'articolo in esame. Non opera invece il divieto di cui all'art. 4-bis, se non in casi di pericolosità comprovata e derivante da riscontrati collegamenti con la criminalità organizzata, come affermato esplicitamente dal comma nove dell'art. 47-quater ord. pen.

Per poter richiedere e ottenere queste misure è necessaria la certificazione dello stato di malattia ai sensi dell'art. 286-bis del codice di procedura penale. È inoltre necessario che il soggetto abbia intrapreso o abbia intenzione d'intraprendere un programma terapeutico. In pratica, si subordina la concessione della misura alla volontà di curarsi, sperimentando uno schema che funziona da incentivo al trattamento sanitario. (100) Se il soggetto risulta imputato oppure sottoposto a misura cautelare per aver commesso un reato, dopo la concessione della misura, tra quelli previsti dall'art. 380 del codice di procedura penale, che elenca i reati per cui è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza di reato, il giudice può revocare la misura concessa ex art. 47-quater. La revoca, se è avvenuta da meno di un anno, è ostativa alla concessione di un beneficio analogo. L'uso dell'espressione “misura analoga” sembra contemplare tutte le ipotesi di detenzione domiciliare e tutte le ipotesi di affidamento in prova, ma sembra lasciare fuori il regime di semilibertà. Perciò il giudice potrebbe concedere la misura prevista dall'articolo in esame, anche se il soggetto ha subito la revoca della semilibertà meno di un anno prima. S'impone il problema di capire quando concedere l'affidamento in prova oppure quando concedere la detenzione domiciliare alla persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria. Il diritto alla salute è il motivo che deve ispirare la scelta tra le due misure alternative. (101) La detenzione domiciliare si considera misura residuale, subordinata rispetto all'affidamento in prova. I motivi sono facilmente comprensibili: nell'ottica del favor libertatis e della graduazione delle misure alternative, la scelta del beneficio deve ricadere sulla misura più vantaggiosa possibile. (102) Pertanto, se le condizioni di salute sono particolarmente gravi e l'affidabilità del reo lo consente, si dovrà preferire la misura dell'affidamento in prova. Se, viceversa, residui il rischio di reiterazione del reato ma le condizioni di salute lo consentano, si dovrà concedere la detenzione domiciliare. In pratica, il giudice dovrà valutare quale delle due misure tuteli maggiormente il diritto alla salute, pur essendo sufficiente ad evitare il pericolo di commissione di ulteriori reati. (103)

Per quanto non ci siano dubbi sulla gravità delle situazioni trattate dalla norma e sulla nobiltà delle intenzioni che tutelano il diritto alla salute, non si può non notare una certa disparità di trattamento tra i soggetti affetti da AIDS o da altra grave deficienza immunitaria, e i soggetti affetti da qualsiasi altra malattia comunque molto grave. Esistono per la verità altre norme che tutelano i malati gravi in generale, come la detenzione domiciliare alternativa al rinvio dell'esecuzione, la detenzione domiciliare in base al primo comma dell'art. 47-ter, il rinvio stesso dell'esecuzione della pena. Allora non si capisce per quale motivo i malati di AIDS siano stati i destinatari, unici, di un'ulteriore norma di favore. Tanto più che per quanto riguarda la misura domiciliare, questa misura appare veramente un inutile doppione della detenzione surrogatoria del rinvio. (104) Infatti le condizioni soggettive sono le stesse, e la previsione non serve neanche a superare gli ordinari limiti perché neanche la detenzione domiciliare alternativa al rinvio prevede un limite di pena. Le uniche differenze sembrano riguardare il fatto che per una è previsto un termine, come se fosse concepita come una misura provvisoria, fino al miglioramento delle condizioni di salute; nell'altra invece è indispensabile sottoporsi ad un programma di cura, che invece potrebbe rendere più difficile l'accesso. Rispetto invece alla concessione del rinvio obbligatorio ai sensi dell'articolo 146 c.p., la scelta ricadrà su questa norma quando il malato sarà talmente grave da rendere l'esecuzione della pena non soltanto scevra da qualunque possibilità di recupero sociale, ma anche disumana, come abbiamo visto per la detenzione surrogatoria del differimento. (105)

Sta di fatto, che l'introduzione di queste nuove, ulteriori forme di detenzione domiciliare, se sono mosse da esigenze apprezzabili e finalità meritevoli, non sembrano però del tutto necessarie. Non hanno, a mio avviso, coperto un vuoto di tutela, poiché sia il rapporto tra detenuti e figli minori, sia il diritto alla salute erano già ampiamente tutelati dal nostro ordinamento. Anzi, sono proprio le situazioni particolari, che coinvolgono soggetti più deboli di altri, che all'inizio hanno portato all'introduzione della detenzione domiciliare. Quest'espansione della tutela verso alcune categorie di soggetti deboli, se da un lato si può ammirare, dall'altro rischia di accentuare le disparità di trattamento con altre categorie di soggetti che meriterebbero lo stesso alto grado di tutela. Soprattutto quando le innovazioni legislative non sono accompagnate da un riordino e un coordinamento con la previgente disciplina. Per arrestare questa espansione delle disuguaglianze, forse sarebbe più utile tornare ad una disciplina più generale invece che specifica/speciale per certi soggetti, meno ampia ma forse anche meno discriminatoria. Invece di creare misure alternative che abbiano dei destinatari ben precisi, ritengo che sarebbe più utile lasciare alla discrezionalità del giudice la scelta di quale siano, in concreto, le situazioni da tutelare attraverso un regime detentivo attenuato.

7- L'esecuzione delle pene presso il domicilio introdotta dalla legge 199/2010: un tentativo di ridurre il sovraffollamento carcerario

La legge 26 novembre 2010, n. 199, ribattezzata “legge Alfano” oppure “svuotacarceri”, ha introdotto un'ulteriore misura alternativa nel nostro ordinamento, che consente di eseguire la pena presso l'abitazione del condannato, o altro luogo, pubblico o privato, di cura, assistenza o accoglienza. Inizialmente, la misura riguardava le pene detentive fino a 12 mesi, anche costituenti parte residua di una pena maggiore, ma il d.l. 211/2011, convertito in l. 17 febbraio 2011, n. 9, ha portato il limite a 18 mesi.

La finalità di quest'alternativa alla detenzione, nient'affatto celata, è la creazione di uno strumento che permetta rapidamente la riduzione della popolazione carceraria, essendo arrivati ad insopportabili livelli di sovraffollamento carcerario. La scelta di far eseguire presso il domicilio pene di una certa brevità si deve alla constatazione che un rilevantissimo numero di detenuti si trova ad espiare una pena detentiva non superiore a 18 mesi, oltre al fatto che permette di indirizzare la misura ai condannati considerati meno pericolosi. (106) Lo scopo unicamente deflativo spiega la temporaneità di questa misura alternativa: infatti, l'esecuzione presso il domicilio dovrebbe rimanere in vigore fino alla completa attuazione del piano straordinario penitenziario, finalizzato alla creazione o ristrutturazione degl'istituti di pena, in attesa di una riforma di più ampio respiro delle misure alternative (che il precedente governo non è riuscito a far approvare prima di cadere) e comunque non oltre il 31 dicembre 2013.

Dunque, si tratta di un'alternativa al carcere concepita come rimedio temporaneo al sovraffollamento delle carceri, uno strumento “svuota carceri”, appunto.

Il primo compito è quello di cercare d'inquadrarla tra le misure già esistenti. In effetti, nonostante qualche dubbio iniziale, si ritiene che l'esecuzione presso il domicilio sia una variante della detenzione domiciliare, seppur con qualche differenza di disciplina. Infatti, le modalità con cui si svolge sono le stesse della detenzione domiciliare: la pena è eseguita presso l'abitazione o altri luoghi previsti dalla legge, invece di venire espiata in istituto penitenziario. Una riprova dell'appartenenza alla “famiglia” delle detenzioni domiciliari sta nel cospicuo numero di rimandi alla disciplina dell'art. 47-ter, oltre ai rinvii ad altre norme dell'ordinamento penitenziario, in quanto compatibili. Tuttavia, la competenza è stata affidata al magistrato di sorveglianza: il motivo di ciò sta nel fatto che in questo modo si cerca di rendere la procedura di concessione della misura più celere e più semplice, a contraddittorio differito, e applicabile d'ufficio. (107) In realtà, nonostante i dubbi iniziali, si ritiene che l'esecuzione presso il domicilio delle pene fino a 18 mesi non sia applicabile d'ufficio da parte del magistrato di sorveglianza, ma necessiti sempre di un'istanza, se non da parte dell'interessato, almeno da parte del pubblico ministero. La conferma di questa tesi è arrivata con il d.l. 211/2011, che al comma 1 aggiunge che il magistrato di sorveglianza “provvede senza ritardo sulla richiesta”, implicando che sia necessaria pertanto una richiesta.

Le somiglianze si notano soprattutto confrontando l'esecuzione presso il domicilio con la detenzione domiciliare generica. Non a caso, quest'ultima è la misura che più di tutte è stata ispirata da esigenze deflazionistiche e non più assistenziali-umanitarie. (108) Infatti, anche l'esecuzione presso il domicilio è “generalizzata”, è svincolata cioè da presupposti soggettivi.

Le uniche condizioni richieste sono pertanto le esclusioni soggettive e oggettive, quest'ultime riprese sostanzialmente dalle esclusioni previste nel cosiddetto “indultino”, legge 1 marzo 2003, n. 207. La 199/2010 è preclusa a chi è stato condannato per uno dei delitti di cui all'art. 4-bis O.P., ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, e ai soggetti sottoposti al regime di sorveglianza particolare ai sensi dell'art. 14-bis dell'ordinamento penitenziario. Queste esclusioni non ci stupiscono più di tanto, si basano sulla presunzione di pericolosità di alcuni soggetti, in parte comprensibile come quando si tratta di reati indicati nell'art. 4-bis o di delinquenti abituali, un po' meno comprensibile quando si parla di un detenuto sottoposto al regime di sorveglianza speciale, confondendo in questo caso la pericolosità sociale con il comportamento tenuto in istituto.

Le esclusioni soggettive impongono al magistrato di sorveglianza di non concedere la misura se c'è la concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga o possa commettere ulteriori delitti, nonché per l'inidoneità o ineffettività del domicilio. La prognosi di non reiterazione del reato e dell'assenza del rischio di fuga è un'altra costante, specialmente quando si tratta di misure alternative prive di contenuti risocializzanti e di specifici presupposti per la loro concessione. Si dà al giudice il compito di valutare l'opportunità di concedere una determinata misura e l'affidabilità del soggetto, valutazioni che il legislatore non può svolgere a priori, neppure attraverso la previsione di tutte le esclusioni soggettive e oggettive possibili.

È richiesto infine al magistrato di sorveglianza l'accertamento dell'idoneità e dell'opportunità del domicilio dove si vuole far eseguire la misura. In realtà, il giudice ha sempre proseguito a fare questa valutazione, anche laddove non era esplicitato dalla legge. Tuttavia, non suona ridondante o superflua. È giusto porre l'accento sull'idoneità del domicilio, che per esempio porta a escludere abitazioni con altri coimputati oppure in zone ad alto rischio criminologico. Probabilmente, rischia però di ridurre ulteriormente l'accesso a questa alternativa alla detenzione. L'idoneità del domicilio va inoltre valutata in funzione delle esigenze di tutela della persona offesa: è questa una delle poche volte in cui viene menzionata la vittima del reato. Per quanto sia auspicabile una più ampia attenzione della giustizia penale nei confronti delle vittime, forse il campo dell'esecuzione penale non è proprio la scelta migliore; anche se diventa necessario prendere in considerazione la parte offesa quando si tratta di reati che colpiscono una persona appartenente allo stesso nucleo familiare, o addirittura convivente con l'autore. Si teme tuttavia un allungamento dei tempi della decisione poiché in qualche modo il magistrato dovrà raccogliere anche informazioni sulle circostanze con cui è stato commesso il reato e sulla persona offesa. (109)

La misura si può applicare pure in favore dei soggetti alcooldipendenti o tossicodipendenti, con la relativa documentazione che attesti il programma di recupero che hanno in corso o intendono intraprendere.

D'importanza centrale è la non inclusione tra le categorie di soggetti esclusi dall'esecuzione presso il domicilio dei recidivi in base al quarto comma dell'articolo 99 c.p. Questa era l'unica, vera differenza con la detenzione domiciliare generica, almeno fino a pochissimo tempo fa, poiché l'entrata in vigore del decreto n. 78 del 2013 ha eliminato dalla disciplina dell'art. 47-ter, comma 1-bis, il riferimento ai recidivi con l'aggravante del quarto comma dell'art. 99 c.p. Ci si è resi conto che una rilevante causa del sovraffollamento delle carceri sta nel regime differenziato e aggravato creato per i recidivi ex art. 99, comma quarto, del codice penale, un “doppio binario” che si aggiunge a quello previsto per chi commette un delitto indicato nell'articolo 4-bis ord. pen. Prima ancora di sopprimere queste norme di “sfavore” verso i recidivi, si è creata una misura alternativa che non fosse loro preclusa. L'accesso alle misure alternative è ulteriormente limitato a causa del divieto di una seconda concessione delle stesse ad un soggetto a cui è stata applicata la recidiva reiterata, come si evince dal comma 7-bis dell'articolo 58-quater ord. pen., e questa disposizione non è stata eliminata neppure dal “decreto carceri”. La legge n. 199 del 2010, invece, rinvia alla disciplina dell'articolo 58-quater, escludendo proprio il comma 7-bis; pertanto l'esecuzione presso il domicilio può essere concessa più volte anche al recidivo ai sensi del quarto comma dell'articolo 99 c.p.

Quello che è stato creato allora è una detenzione domiciliare “generalizzata” che però non prevede l'esclusione dei recidivi qualificati, unica concreta differenza con la detenzione domiciliare del comma 1-bis, fino a poco tempo fa. È come se venisse “smentita” la legge 251 del 2005, che è stata l'artefice di questo “doppio binario” per i condannati con applicazione della recidiva. (110) In pratica, è stata la prima previsione che è andata in senso contrario rispetto alla legge “ex Cirielli”.

L'accesso all'esecuzione presso il domicilio è disciplinato in maniera differente a seconda che l'interessato provenga dalla libertà o dallo stato detentivo. Nel primo caso, se l'arresto o la reclusione non superano i 18 mesi è il pubblico ministero a inviare direttamente al magistrato di sorveglianza l'istanza in base alla legge n. 199 del 2010, emanando contestualmente l'ordine di esecuzione sospeso, e accompagnandoci il verbale di accertamento dell'idoneità del domicilio. La facoltà data al magistrato di sorveglianza di disporre d'ufficio, senza cioè istanza del condannato, l'esecuzione presso il domicilio dovrebbe accelerare la procedura. L'iniziativa del pubblico ministero, però, è considerata residuale rispetto alle ipotesi in cui funziona il meccanismo di sospensione dell'ordine di esecuzione ai sensi del comma quinto dell'art. 656 del codice di procedura penale, anche perché in questi casi si potrà accedere alle ulteriori misure alternative previste dall'ordinamento e non solo all'esecuzione presso il domicilio. Ciò significa però che i casi in cui il PM trasmette l'istanza al magistrato di sorveglianza vanno ricercati fra quelli in cui è esclusa la procedura ordinaria di sospensione, che sono dettati al comma nove dell'articolo 656 c.p.p. Si tratta della condanna per uno dei reati del 4-bis, che però è condizione ostativa anche alla concessione dell'esecuzione presso il domicilio, oppure della custodia cautelare per il fatto oggetto della condanna, e anche qui il PM non potrà comunque procedere alla sospensione. Allora, residua soltanto l'ipotesi in cui è stata applicata la recidiva reiterata. In pratica, il pubblico ministero procederà alla sospensione dell'ordine di carcerazione e alla trasmissione d'ufficio degli atti al magistrato di sorveglianza nel solo caso in cui la pena sia inferiore ai 18 mesi e il soggetto sia stato dichiarato recidivo reiterato. (111) Con l'eliminazione della lettera c) del nono comma dell'art. 656 c.p.p. sembra, tuttavia, non residuare più nemmeno questa ipotesi.

Se il soggetto è detenuto, spetta alla direzione dell'istituto penitenziario informare il magistrato di sorveglianza, inviandogli anche una relazione sulla condotta tenuta dal condannato durante la detenzione e corredata dal verbale di accertamento dell'idoneità del domicilio. L'ordinanza che accoglie o rigetta la concessione dell'esecuzione presso il domicilio può essere impugnata, entro dieci giorni, tramite reclamo al Tribunale di sorveglianza, in cui non dovrà essere presente il magistrato che ha emesso l'ordinanza. Se l'unico vero scopo dell'esecuzione presso il domicilio è la riduzione della popolazione carceraria, non resta che chiedersi se i risultati ottenuti sono stati soddisfacenti. In verità, l'innalzamento del limite di pena a 18 mesi è stato deciso proprio a causa degli scarsi risultati ottenuti inizialmente. Infatti, al 31 dicembre 2011, all'indomani dell'entrata in vigore del decreto legge n. 211 del 2011, i condannati usciti per mezzo della legge 199 erano circa 4 mila, (112) nonostante dalle previsioni del Governo ci si aspettasse una cifra corrispondente circa al doppio. Ad oggi, invece, i detenuti che sono usciti dagli istituti penitenziari per effetto della legge Alfano, dal momento della sua entrata in vigore sono poco più di 11mila. (113) Il numero di coloro che invece hanno avuto accesso alla misura dallo stato di libertà sono solamente 3 mila, (114) segno che il meccanismo virtuoso affidato al magistrato di sorveglianza, per evitare l'ingresso in carcere a chi è stato condannato ad una pena detentiva breve, non funziona poi così bene.

Le ragioni di questo parziale insuccesso sono molteplici, ma a ben guardare sono sempre le stesse ragioni, quelle che ci spiegano i motivi del continuo aumento della popolazione carceraria e gli scarsi effetti prodotti dall'ampliamento delle misure alternative. Innanzitutto, molto spesso l'esecuzione presso il domicilio non viene concessa per l'inidoneità o ineffettività del domicilio. Non è necessario sottolineare l'altissima presenza in carcere di emarginati, senza domicilio o persone che vivono con altri pregiudicati. Poi c'è il problema dei detenuti in custodia cautelare: come tutte le misure alternative, non si applica agli imputati, che nel nostro paese superano il terzo della popolazione detenuta. Altro motivo dell'insuccesso è la permanenza di molte esclusioni oggettive e soggettive, soprattutto i condannati per aver commesso uno dei reati indicati dall'art. 4-bis: le preclusioni automatiche e le presunzioni di pericolosità non sono compatibili con le esigenze deflazionistiche. (115) Inoltre, non si può non notare la sovrapposizione con le altre misure previste dal nostro ordinamento, in particolare con le misure domiciliari. D'altronde, se le altre detenzioni domiciliari, in particolare la variante generica, non hanno funzionato, perché dovrebbe funzionare questa, basata sui medesimi presupposti? Quanti soggetti possono usufruire dell'esecuzione presso il domicilio di quelli che non hanno potuto accedere alla misura del comma 1-bis dell'art. 47-ter? Probabilmente, soltanto i recidivi. O comunque proprio quei soggetti che erano già stati valutati dalla magistratura di sorveglianza non idonei ad accedere ad una qualsiasi altra misura alternativa. (116) L'unica spiegazione all'introduzione di una nuova detenzione domiciliare è allora veramente la ricerca di una soluzione semplice al fenomeno del sovraffollamento carcerario. Soluzione che proprio per la sua semplicità ha risolto poco sul breve periodo, e non risolverà niente sul lungo. Probabilmente, sarebbe stato più sensato eliminare il riferimento alla recidiva reiterata direttamente dal comma 1-bis dell'art. 47-ter, invece di creare l'ennesima variante della detenzione domiciliare, peraltro prevista “a tempo determinato”.

Con l'emanazione del “decreto carceri”, si è eliminato il divieto di concessione della detenzione domiciliare generica ai recidivi ai sensi del comma quarto dell'art. 99 c.p., perciò la sovrapposizione con l'esecuzione presso il domicilio delle pene fino a 18 mesi si è ancora più accentuata. D'altronde, quest'ultima misura dovrebbe rimanere in vigore solo pochi altri mesi. Tuttavia, non ci si può non domandare se non fosse stato più semplice proseguire in questo senso fin da subito, invece di creare un'ulteriore ipotesi di detenzione domiciliare.

8- La permanenza domiciliare: una nuova pena principale nei reati di competenza del giudice di pace

Nell'attuale sistema vigente, le specie di pene principali, che sono tassativamente indicate all'art. 17 del codice penale, si arricchiscono di ulteriori strumenti sanzionatori, applicabili dal giudice di pace. Il D.lgs 28 agosto 2000, n. 274, introduce alcune disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, in contemporanea con altri interventi del legislatore volti ad operare una vasta depenalizzazione di reati di minore gravità. Si è creata una sorta di categoria intermedia d'illeciti, che si posiziona a metà strada tra gli illeciti penali e gli illeciti amministrativi. (117) In particolar modo, s'introducono delle sanzioni innovative, assolutamente nuove rispetto a quelle presenti fino ad allora, e si considerano pene principali: la permanenza domiciliare e il lavoro di pubblica utilità.

Il meccanismo d'introduzione delle nuove pene principali è garantito da una clausola generale di sostituzione. Non si modificano le singole fattispecie di reato, ma si adotta un sistema, per mezzo del quale le nuove sanzioni si sostituiscono a quelle edittali nei reati passati alla competenza del giudice onorario. (118)

La natura di pene principali delle nuove sanzioni di competenza del giudice di pace non è in discussione, anche se non sono presenti nelle singole fattispecie incriminatrici. Le nuove pene sono infatti irrogate direttamente in sentenza di condanna, ma questo per la verità accade anche per le sanzioni sostitutive. Tuttavia, sono obbligatorie, cioè devono essere per forza applicate in luogo della pena prevista originariamente, e sono del tutto indipendenti dalla pena detentiva, sia nel momento della loro commisurazione sia nel momento della violazione degli obblighi. Queste caratteristiche dimostrano la natura di sanzione autonoma della permanenza domiciliare. Le sanzioni sostitutive, viceversa, oltre ad essere facoltative, sono irrogate sulla pena detentiva comunque commisurata dal giudice e sono riconvertite in pena detentiva nel caso intervenga un motivo che comporta la revoca. (119)

L'innovazione più interessante è quindi l'assoluta abolizione della pena detentiva dai reati del giudice di pace, ovviamente ciò è possibile per la natura non togata del giudice e, di conseguenza, per la modestia dei reati di cui si occupa.

Si può dire che la sanzione maggiormente afflittiva è la permanenza domiciliare, infatti è prevista come residuale rispetto alla pena pecuniaria, va inflitta soltanto nei casi di maggiore gravità. Questa nuova pena principale consiste nell'obbligo di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo di cura assistenza e accoglienza nei giorni di sabato e domenica; il giudice però può stabilire che l'esecuzione avvenga in altri giorni della settimana, tenendo conto delle esigenze, in primis lavorative, della persona. È possibile, quindi, includere la permanenza domiciliare tra “gli arresti di fine settimana”, ovviamente non tanto perché generalmente la pena viene eseguita nei giorni di sabato e domenica, ma perché l'esecuzione frazionata della sanzione permette appunto di eliminare gli effetti desocializzanti delle sanzioni “paradetentive”, anche quando sono misure extramurarie. In verità, il fatto che gli “arresti di fine settimana” vengano scontati presso la propria abitazione oppure in istituto penitenziario, come avviene nell'ordinamento francese, è una differenza non di poco conto. Se appunto l'esecuzione frazionata della pena ha lo scopo di evitare gli effetti desocializzanti del carcere, l'unico modo per eliminarli veramente tutti, quindi non solo per permettere al condannato di non perdere il lavoro e gli affetti, ma anche per evitare qualsiasi contatto con l'ambiente carcerario, e per porsi come strumenti effettivi di lotta alla pena detentiva breve è strutturare la sanzione come una forma di domiciliari, limitati ad alcuni giorni della settimana. (120) Ed è appunto in questo modo che è stata concepita la permanenza domiciliare.

Il condannato può anche chiedere che l'esecuzione avvenga in maniera continuativa. Si tratta di una detenzione domiciliare ma che può essere eseguita saltuariamente, in maniera frazionata. La differenza con la detenzione domiciliare si riscontra nel fatto che il soggetto sottoposto all'obbligo di permanenza domiciliare non è considerato in stato di detenzione; ne consegue, l'impossibilità di configurare il reato di evasione. (121)

La sanzione ha una durata non inferiore ai 6 giorni e non superiore ai 45 giorni, e può essere aggravata dal divieto di accedere a specifici luoghi nei giorni in cui non sussiste l'obbligo di permanenza. Si tratta di un divieto a carattere accessorio, anche se è di tipo facoltativo, che non può superare il doppio della durata della permanenza domiciliare. (122)

Nella permanenza domiciliare vengono veramente soddisfatte le esigenze di non desocializzazione del condannato, (123) garantendo la possibilità di continuare a svolgere un'attività lavorativa durante la settimana. La permanenza domiciliare si considera comunque una sanzione “paradetentiva” perché limita in qualche modo la libertà personale di un individuo, (124) ma non c'è dubbio che abbia un carattere molto più attenuato rispetto alla detenzione domiciliare. Si può applicare indifferentemente ai delitti e alle contravvenzioni.

Come esplicitamente affermato nella Relazione governativa (125) che ha accompagnato il d.lgs n. 274 del 2000, la disciplina della competenza penale del giudice di pace è imperniata dei caratteri della mitezza e dell'effettività.

La mitezza si riscontra nella totale assenza della pena detentiva, d'altronde la permanenza domiciliare è una pena principale, non una sanzione alternativa alla detenzione in carcere. La non particolare afflittività delle sanzioni è giustificata dalla minore gravità degli illeciti, ma anche da un po' di sfiducia nei confronti del giudice onorario. Il carcere non è prospettato neanche nel momento in cui si violano le prescrizioni. In questo caso, si configura una nuova fattispecie di reato, che viene integrata dalla condotta inosservante delle prescrizioni inerenti alla permanenza domiciliare. Il condannato che senza giusto motivo si allontana dai luoghi in cui ha l'obbligo di permanenza o anche viola reiteratamente gli ulteriori obblighi o divieti inerenti alla misura, è punito con la reclusione fino ad un anno. Si noti il carattere necessariamente continuato delle violazioni: la legge stessa richiede che non sia sufficiente l'accertamento di una sola violazione, ma che il comportamento del soggetto sia del tutto insofferente verso il rispetto degli obblighi inerenti alla sanzione. È diversa la disciplina rispetto a quella della semidetenzione: non siamo di fronte ad una pena sostitutiva, ma ad una pena davvero principale, quindi la sanzione detentiva non può essere ripristinata, neanche nei momenti patologici.

Il secondo criterio è l'effettività: è giusto usare pene più miti, ma è altrettanto importante che queste siano effettive, altrimenti si disattendono del tutto le istanze di prevenzione generale. Pertanto, è fatto divieto al giudice di pace di concedere la sospensione condizionale della pena o anche di utilizzare le sanzioni sostitutive. Le sanzioni previste dalla legge 24 novembre 1981, n. 689, non si applicano non solo ai reati rientranti nella competenza del giudice di pace, ma sono anche escluse sulla pena irrogata per aver commesso il reato di violazione degli obblighi. In quest'ultimo caso, si vuole sanzionare il comportamento di un soggetto che si è già dimostrato incapace di gestire misure non detentive. A riguardo, è stata sollevata questione di legittimità costituzionale per rilevare la disparità di trattamento nel caso di chi è condannato per il delitto di evasione dagli arresti domiciliari o dalla detenzione domiciliare e che può vedersi la pena detentiva sostituita con altra prevista dalla legge 689/1981, e chi commette il delitto di violazione degli obblighi, che invece non ha questa possibilità. (126) La Consulta ha dichiarato la questione infondata in quanto le sanzioni “paradetentive” applicabili dal giudice di pace sono pene principali e sono il risultato di un'apertura fiduciaria verso i condannati, che viene disattesa nel momento della violazione. Inoltre, non essendo possibile il ritorno alla sanzione più afflittiva, l'effetto dissuasivo non può che rimettersi tutto alla nuova previsione di reato. (127) Anche il divieto di applicare la sospensione condizionale è stato previsto come garanzia di effettività della disciplina del giudice di pace: permette infatti che queste sanzioni, pur essendo miti, vengano interamente espiate, e non sia possibile, invece, che vengano sospese trasformando la pena in un provvedimento meramente clemenziale (come accade, invece, per le sanzioni sostitutive).

Non si può non notare la linearità e coerenza nella disciplina dettata dal legislatore. Dopo aver annunciato i criteri a cui si deve ispirare la competenza penale del giudice di pace, ne ha imperniato tutta la disciplina, senza mai smentirsi. Ne emerge una normativa razionale e all'avanguardia, che riesce a trovare un punto di equilibrio tra il rigorismo sanzionatorio del codice Rocco e il necessario clemenzialismo, inaugurato con le misure alternative, e costantemente oggetto di rimaneggiamenti. (128)

Sicuramente, questa piccola rivoluzione all'interno del sistema sanzionatorio si è potuta portare a compimento perché la materia interessata è limitata ai reati depenalizzati e passati alla competenza del giudice di pace. Tuttavia, non vuol dire che non possa essere estesa ad altri ambiti penali. Si potrebbe auspicare, ad esempio, la depenalizzazione di ulteriori reati, o addirittura si potrebbe ipotizzare di estendere il modello basato su mitezza ed effettività a tutte le contravvenzioni. Non saremmo certo i primi, nel quadro europeo, a eliminare la pena detentiva dai reati considerati meno gravi. In Francia, tra le pene contraventionnelles non si contempla la privazione della libertà personale; in altri Paesi, sono state addirittura eliminate le contravvenzioni stesse. Probabilmente, se si continua a non riuscire a portare a compimento una riforma complessiva del diritto penale, una riforma che in particolare riscrivi completamente la parte speciale per adeguare nuovamente il catalogo dei reati al sentire comune, forse apportare delle modifiche, ispirate alla disciplina del giudice di pace, che si limitino a riformulare le sanzioni applicate alle contravvenzioni è comunque un inizio.

Note

1. Canepa M., Merlo S., Manuale di diritto penitenziario, op. cit., p. 242.

2. Giunchedi F., La polifunzionalità della detenzione domiciliare a garanzia dell'assistenza ai figli invalidi: la portata innovativa della sentenza e le problematiche interpretative (Nota a C. Cost. 5 dicembre 2003, n. 350), in Giurisprudenza costituzionale, 2004, pag. 750.

3. D'Onofrio M., Sartori M., Le misure alternative alla detenzione, op. cit., p. 609.

4. Di Gennaro G., Breda R., La Greca G., Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, op. cit., p. 249.

5. Grevi V., Giostra G., Della Casa F., Ordinamento penitenziario commentato, op. cit., p. 643 s.; D'Onofrio M., Sartori M., Le misure alternative alla detenzione, op. cit., p. 215.

6. Cass., Sez. I, 1 ottobre 1996, n. 4837, in DeJure.

7. Nuzzo F., La Corte costituzionale estende i confini della detenzione domiciliare, (C. Cost. 5 dicembre 2003, n. 350), in Diritto penale e processo, 2004, p. 702.

8. Delehaye E., La detenzione domiciliare da beneficio per pochi a nuova specie di pena, in Dir. Pen. e Proc., 2000, p. 1397.

9. Delehaye E., La detenzione domiciliare da beneficio per pochi a nuova specie di pena, op. cit., p. 1398.

10. Fiorentin F., Tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, in Giurisprudenza di merito, 2011, p. 2620 ss.

11. Di Gennaro G., Breda R., La Greca G., Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, op. cit., p. 250.

12. D'Onofrio M., Sartori M., Le misure alternative alla detenzione, op. cit., p. 215.

13. Di Gennaro G., Breda R., La Greca G., Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, op. cit., p. 249.

14. Grevi V., Giostra G., Della Casa F., Ordinamento penitenziario commentato, op. cit., p. 643 s.

15. Corte cost., 16-24 maggio 1996, n. 165, in Corte costituzionale della Repubblica Italiana.

16. Cass., Sez. I, 25 giugno 1990, n. 1989, Bonifazi, in ItalgiureWeb.

17. Niro M., Signorini M., Arresti domiciliari e detenzione domiciliare, Assago, 2010, p.141.

18. Tribisonna F., Ansia da carcere? No alla detenzione domiciliare, (Nota a ord. Trib. Sorveglianza Cagliari 20 ottobre 2007, n. 591), in Rivista giuridica sarda, 2008, pag. 148 ss.

19. Niro M., Signorini M., Arresti domiciliari e detenzione domiciliare, op. cit., p.143.

20. Cass., Sez. I, 4 aprile 1991, in Cass. Pen., 1991, Rava, p. 1296.

21. Canepa M., Merlo S., Manuale di diritto penitenziario, op. cit., p. 318.

22. Cass., Sez. I, 21 novembre 1991, n. 4406, Bellitto, in Cass. Pen., 1993, p. 428, ha escluso infatti che la detenzione domiciliare fosse concedibile a soggetto affetto solo da epilessia o sindrome ansioso depressiva.

23. Grevi V., Giostra G., Della Casa F., Ordinamento penitenziario commentato, op. cit., p. 645; Nencini A., Arresti domiciliari- detenzione domiciliare- misure obbligatorie, Milano, 1989, p.70.

24. Iannuzzi L., Detenzione domiciliare ed entità della pena, in Giur. cost., 1996, p. 1527 s.

25. Corte cost., 4-13 aprile 1990, n. 215, in Corte costituzionale della Repubblica Italiana.

26. Grevi V., Giostra G., Della Casa F., Ordinamento penitenziario commentato, op. cit., p. 635.

27. Cass., Sez. I, 16 febbraio 1994, n. 849, in Cass. Pen., 1995, Rossetti, p. 705.

28. Cass., Sez. I, 28 ottobre 2011, n. 44910, Monti Condesnitt, in ItalgiureWeb; Cass., Sez. I, 28 gennaio 2009, n. 13021, Parrino, in ItalgiureWeb.

29. Corte cost., 24 novembre-5 dicembre 2003, n. 350, in Corte costituzionale della Repubblica Italiana.

30. Repetto G., La detenzione domiciliare può essere concessa anche alla madre di figlio disabile, ovvero l'irriducibile concretezza del giudizio incidentale, (Nota a C. Cost. 5 dicembre 2003, n. 350), in Giurisprudenza costituzionale, 2004, p. 754 ss.

31. Nuzzo F., La Corte costituzionale estende i confini della detenzione domiciliare, op. cit., p. 704.

32. Pittaro P., La Consulta estende la detenzione domiciliare alla madre convivente con il figlio invalido totale, (Commento a C. Cost. 5 dicembre 2003, n. 350), in Famiglia e diritto, 2004, p. 154.

33. Grevi V., Giostra G., Della Casa F., Ordinamento penitenziario commentato, op. cit., p. 653.

34. Niro M., Signorini M., Arresti domiciliari e detenzione domiciliare, op. cit., p.156.

35. Canepa M., Merlo S., Manuale di diritto penitenziario, op. cit., p. 314.

36. Cass Sez. I, 13 luglio 2006, n. 27853, Pintus, in ItalgiureWeb; conformi: Cass., Sez. I, 17 ottobre 2007, n. 42992, Parla; Cass., Sez. I, 18 giugno 2008, n. 28555, Graziano; Cass., Sez. I, 8 febbraio 2012, n. 8712, Tanzi, in ItalgiureWeb.

37. Degl'Innocenti L., Faldi F., Misure alternative alla detenzione e procedimento di sorveglianza, op. cit., p. 151.

38. Grevi V., Giostra G., Della Casa F., Ordinamento penitenziario commentato, op. cit., p. 653.

39. D'Onofrio M., Sartori M., Le misure alternative alla detenzione, op. cit., p. 225.

40. Comucci P., Problemi applicativi della detenzione domiciliare, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2000, p. 203 ss.

41. Grevi V., Giostra G., Della Casa F., Ordinamento penitenziario commentato, op. cit., p. 651.

42. D'Onofrio M., Sartori M., Le misure alternative alla detenzione, op. cit., p. 227 s.

43. Corte cost., ordinanza 6-18 dicembre 2002, n. 532, in Corte costituzionale della Repubblica Italiana.

44. Comucci P., Problemi applicativi della detenzione domiciliare, op. cit., p. 209 s.

45. Delehaye E., La detenzione domiciliare da beneficio per pochi a nuova specie di pena, op. cit., p. 1398 s.

46. Cass., Sez. I, 7 luglio 2006, n. 30804, Napolitano, in ItalgiureWeb; Cass., Sez. I, 14 ottobre 1999, n. 5600, Surace, in ItalgiureWeb.

47. Porcedda V. (a cura di), Detenzione domiciliare, (Nota a ord. C. Cost. 20 luglio 2005 n. 255), in Legislazione penale, 2005, p. 635.

48. Nuzzo F., La Corte costituzionale estende i confini della detenzione domiciliare, op. cit., p. 704.

49. Cass., Sez. I, 7 dicembre 1999, n. 6952, Saraco, in ItalgiureWeb.

50. Grevi V., Giostra G., Della Casa F., Ordinamento penitenziario commentato, op. cit., p. 648.

51. Cass., Sez. I, 19 febbraio 2001, n. 17208, Mangino, in ItalgiureWeb.

52. Cass., Sez. I, 13 febbraio 2008, n. 8993, Squeo, in ItalgiureWeb.

53. Niro M., Signorini M., Arresti domiciliari e detenzione domiciliare, op. cit., p. 145.

54. Delehaye E., La detenzione domiciliare da beneficio per pochi a nuova specie di pena, op. cit., p. 1399.

55. Degl'Innocenti L., Faldi F., Misure alternative alla detenzione e procedimento di sorveglianza, op. cit., p.159 ss.

56. Cass., Sez. I, 24 giugno 2008, n. 27313, Commisso, in ItalgiureWeb, Cass., Sez. I, 4 ottobre 2005, n. 41986, Veneruso, in ItalgiureWeb.

57. Cass., Sez. I, 24 gennaio 2011, n. 16681, Buonanno, in DeJure.

58. Cass., Sez. I, 17 maggio 2013, n. 23930, in DeJure.

59. De Francesco A., Carcere incompatibile con ogni stato morboso o fisico che determini una situazione di esistenza al di sotto della soglia di dignità umana, in Diritto e Giustizia, 2013, p. 638 ss.

60. Cass., Sez. I, 19 ottobre 1999, n. 5715, in DeJure.

61. Cass., Sez. I, 15 aprile 2004, n. 25674, in Diritto e giustizia, 2004, p. 102.

62. Cass., Sez. I, 22 novembre 2006, n. 42415, in ItalgiureWeb; Cass., Sez. I, 22 dicembre 2006, n. 5853, in DeJure.

63. Corte cost., 4-8 ottobre 2010, n. 291, in Corte costituzionale della Repubblica Italiana.

64. D'Onofrio M., Sartori M., Le misure alternative alla detenzione, op. cit., p. 372.

65. Della Bella A., Convertito in legge il “decreto carceri” 78/2013: un primo timido passo per sconfiggere il sovraffollamento, in Diritto penale contemporaneo.

66. Herzog-Evans M., Droit de l'exécution des peines, op. cit., p. 617.

67. Lazerges C., L'electronique au service de la politique criminelle : du placement sous surveillance electronique statique (PSE) au placement sous surveillance electronique mobile (PSEM), in Revue de science criminelle et de droit pénal comparé 2006, Nº 1, p. 183.

68. Herzog-Evans M., Droit de l'exécution des peines, op. cit., p. 620.

69. Bertrand B., Fasc. 20: Détention. - Exécution des peines privatives de liberté. - Placement sous surveillance électronique, op. cit.

70. Lavielle B., L'assignation à résidence sous surveillance électronique, ou de la difficulté d'être son propre gardien..., in Gazette du Palais, 2010, p. 214.

71. Janas M., Fasc. 20 : Placement sous surveillance électronique “ab initio” (ou prononcé par la juridiction de jugement), in JurisClasseur Pénal Code > Art. 132-26-1 à 132-26-3, 2011, in LexisNexis en France.

72. Bouloc B., Placement sous surveillance électronique, in Revue de science criminelle, 1998, p. 587; Bertrand B., Fasc. 20: Détention. - Exécution des peines privatives de liberté. - Placement sous surveillance électronique, op. cit.

73. Herzog-Evans M., Droit de l'exécution des peines, op. cit., p. 621.

74. Art. R57-20 code de procédure pénale.

75. Art. 132-26-2 code pénal.

76. Herzog-Evans M., Droit de l'exécution des peines, op. cit., p. 637 s.

77. Bouloc B., Placement sous surveillance électronique, op. cit., p. 588.

78. Fiorio C., Detenzione domiciliare speciale e padre detenuto: una pronuncia di manifesta inammissibilità che lascia irrisolte le questioni di fondo, (Nota a ord. C. Cost. 9 luglio 2009, n. 211), in Giurisprudenza costituzionale, 2009, p. 2452 s.

79. Canevelli P., Misure alternative al carcere a tutela delle detenute madri (commento a L. 8 marzo 2001, n. 40), in Diritto penale e processo, 2001, p. 810.

80. Canevelli P., Misure alternative al carcere a tutela delle detenute madri (commento a L. 8 marzo 2001, n. 40), op. cit., p. 810.

81. Grevi V., Giostra G., Della Casa F., Ordinamento penitenziario commentato, op. cit., p. 643 s.

82. Fiorio C., Detenzione domiciliare speciale e padre detenuto: una pronuncia di manifesta inammissibilità che lascia irrisolte le questioni di fondo, op. cit., p. 2450 s.

83. Pulvirenti A., Inosservanze degli orari di rientro nel domicilio: equiparato il regime della detenzione domiciliare generica (per la detenuta madre) a quello della detenzione domiciliare speciale, (Nota a C. Cost. 12 giugno 2009, n. 177), in Cass. pen., 2010, p. 479 s.

84. Fiorentin F., Tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, op. cit., p. 2619.

85. Comucci P., I benefici penitenziari a favore delle condannate madri, in Cass.pen., 2009, p. 2169: L'ICAM di cui si parla nel testo è una sezione distaccata dell'istituto penitenziario di San Vittore, a Milano.

86. Canevelli P., Misure alternative al carcere a tutela delle detenute madri, op. cit., p. 810.

87. Pulvirenti A., Inosservanze degli orari di rientro nel domicilio: equiparato il regime della detenzione domiciliare generica (per la detenuta madre) a quello della detenzione domiciliare speciale, op. cit., p. 472 s.

88. Comucci P., I benefici penitenziari a favore delle condannate madri, op. cit., p. 2167.

89. Canevelli P., Misure alternative al carcere a tutela delle detenute madri, op. cit., p. 812.

90. Detenute madri e asili nido - anni 1993/2012. Dati forniti dal dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Ministero della Giustizia.

91. Corte cost., 5-13 giugno 1997, n. 173, in Corte costituzionale della Repubblica Italiana.

92. Pulvirenti A., Inosservanze degli orari di rientro nel domicilio: equiparato il regime della detenzione domiciliare generica (per la detenuta madre) a quello della detenzione domiciliare speciale, op. cit., p. 476.

93. Degl'Innocenti L., Faldi F., Misure alternative alla detenzione e procedimento di sorveglianza, op. cit., p. 159 ss.

94. Corte cost., 10-12 giugno 2009, n. 177, in Corte costituzionale della Repubblica Italiana.

95. Pulvirenti A., Inosservanze degli orari di rientro nel domicilio: equiparato il regime della detenzione domiciliare generica (per la detenuta madre) a quello della detenzione domiciliare speciale, op. cit., p. 478.

96. Corte cost., 26-28 maggio 2010, n.189, in Corte costituzionale della Repubblica Italiana.

97. Cesaris L., Un ulteriore passo verso l'eliminazione dei divieti aprioristici di concessione dei benefici penitenziari, (Nota a: Corte Costituzionale, 28 maggio 2010, n.189), in Giurisprudenza Costituzionale, 2010, p. 2258 ss.

98. Cass., Sez. I, 6 maggio 2009, n. 22368, in DeJure; sentenze conformi: Cass., Sez. I, 22 ottobre 2009, n. 41956; e Cass., Sez. I, 10 novembre 2009, n. 44669, in DeJure.

99. Degl'Innocenti L., Faldi F., Misure alternative alla detenzione e procedimento di sorveglianza, op. cit., p. 183.

100. Comucci P., Problemi applicativi della detenzione domiciliare, op. cit., p. 213.

101. Grevi V., Giostra G., Della Casa F., Ordinamento penitenziario commentato, op. cit., p. 643 s.

102. D'Onofrio M., Sartori M., Le misure alternative alla detenzione, op. cit., p. 610.

103. Comucci P., Problemi applicativi della detenzione domiciliare, op. cit., p. 214 s.

104. Comucci P., Problemi applicativi della detenzione domiciliare, op. cit., p. 220.

105. Comucci P., Problemi applicativi della detenzione domiciliare, op. cit., p. 219 s.

106. Fiorentin F., Legge svuotacarceri: esecuzione domiciliare se la condanna è di durata inferiore a un anno (Commento a l. 26 novembre 2010, n. 199), in Guida al Diritto, 2011, p. 53.

107. Fiorentin F., Legge svuotacarceri: esecuzione domiciliare se la condanna è di durata inferiore a un anno, op. cit., p. 56.

108. Turchettti D., Legge svuotacarceri e esecuzione della pena presso il domicilio: ancora una variazione sul tema della detenzione domiciliare? Considerazioni a margine della l.26 novembre 2010 n. 199, in Diritto penale contemporaneo, 2010, p. 11.

109. Fiorentin F., Legge svuotacarceri: esecuzione domiciliare se la condanna è di durata inferiore a un anno, op. cit., p. 60.

110. Fiorio C., Detenzione domiciliare obbligatoria e sovraffollamento carcerario, op. cit., p. 1209.

111. Degl'Innocenti L., Faldi F., Le nuove disposizioni in materia di detenzione presso il domicilio, in Cassazione penale, 2011, p. 2821 ss.

112. I dati forniti dal dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Ministero della Giustizia, aggiornati al 31 dicembre 2010, parlano di un numero complessivo di detenuti usciti dagli istituti penitenziari per effetto della legge 199/2010 di 4.304 persone.

113. I dati forniti dal dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Ministero della Giustizia, aggiornati al 30 giugno 2013, parlano di un numero complessivo di detenuti usciti dagli istituti penitenziari per effetto della legge 199/2010 di 11.184 persone.

114. Dati forniti dal dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Ministero della Giustizia, relativi al periodo 16 dicembre 2010- 30 aprile 2013, riferiscono di 3.287 persone condannate a cui è stata concessa la detenzione domiciliare ex legge 199/2010 dallo stato di libertà.

115. Fiorio C., Sovraffollamento carcerario e tensione detentiva, in Diritto penale e processo, 2012, p. 413.

116. Fiorentin F., Legge svuotacarceri: esecuzione domiciliare se la condanna è di durata inferiore a un anno, op. cit., p. 59.

117. Leoncini I., Aspetti penali sostanziali: le sanzioni (commento a D. lgs. 28 agosto 2000, n. 274), in Diritto penale e processo, 2001, p. 194.

118. Gatto N., Le sanzioni applicabili dal giudice di pace, in il Giudice di pace, 2004, p. 349.

119. Leoncini I., Aspetti penali sostanziali: le sanzioni (commento a D. lgs. 28 agosto 2000, n. 274), op. cit., p. 193.

120. Dolcini E., Paliero C.E., Il carcere ha alternative? Le sanzioni sostitutive della detenzione breve nell'esperienza europea, op. cit., p. 173 s.

121. Gatto N., Le sanzioni applicabili dal giudice di pace, op. cit., p. 351.

122. Leoncini I., Aspetti penali sostanziali: le sanzioni, op. cit., p. 196 s.

123. Cerquetti G., La competenza penale del giudice di pace: aspetti sostanziali, (Relazione svolta al Convegno degli Ordini Forensi dell'Umbria su “La competenza penale del giudice di pace: aspetti processuali e sostanziali”, Piediluco 7 dicembre 2002), in Rivista penale, 2003, p. 279.

124. Gatto N., Le sanzioni applicabili dal giudice di pace, op. cit., p. 350.

125. Relazione governativa di accompagnamento al d.lgs 28 agostto 2000, n. 274, in Guida al diritto, 2000, p. 38 ss.

126. Corte cost., 6 maggio 2010, n. 187, in Corte costituzionale della Repubblica Italiana.

127. Cerqua L.D., Legittima la norma che sanziona con la reclusione la violazione degli obblighi concernenti la permanenza domiciliare e il lavoro di pubblica utilità, in il Giudice di pace, 2011, p. 80.

128. Leoncini I., Aspetti penali sostanziali: le sanzioni, op. cit., p. 189.