ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo III
Pluralismo normativo e risposta giurisprudenziale alle richieste di riconoscimento degli istituti della 'tradizione' rom

Elisa Marchi, 2011

SOMMARIO: 3.1 Introduzione. 3.2 Quadro generale relativo alla struttura sociale rom. 3.2.1 Riposta romané alle politiche statali. 3.2.2 La famiglia come perno del sistema sociale e culturale rom. 3.3 Si può parlare di un ordinamento e di un diritto rom? 3.3.1 Pluralismo normativo e rom.- 3.4 Il ruolo del giudice nel riconoscimento delle specificità culturali: un'introduzione. 3.4.1 Il ruolo della CEDU nel riconoscimento delle specificità culturali rom. 3.5 Il matrimonio rom: incontro tra la normativa statale e un'istituzione 'tradizionale rom'. 3.5.1 Ricostruzione del matrimonio rom in chiave antropologica. 3.5.2 Il caso Muñoz Díaz c. Regno di Spagna. 3.5.3 Riconoscimento del matrimonio rom in Italia. 3.5.3.1 Alcuni spunti di riflessione sul matrimonio rom in Italia, a seguito della sentenza Muñoz Díaz c. Regno di Spagna della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.

3.1 Introduzione

Prima di analizzare la risposta formulata dalla giurisprudenza alla richiesta di riconoscimento del matrimonio rom, mi sembra utile ricostruire, brevemente, da un punto di vista sociologico e antropologico, gli elementi che connotano la struttura sociale rom. Questo ci dovrebbe consentire la comprensione dell'effettiva portata del problema che stiamo andando ad affrontare. Solo attraverso una corretta analisi delle strutture sociali rom è possibile inquadrare le richieste di riconoscimento che i rom avanzano verso l'ordinamento statale, per poter, così, prospettare delle soluzioni che tengano conto delle effettive esigenze dei richiedenti. Nel nostro caso, la ricostruzione in chiave antropologica della società rom, è volta a comprendere il punto di vista dell'altro, superando quei pregiudizi e timori che, spesso, ci portano a dare una lettura 'sbagliata' ai modi di vita altrui, proprio perché interpretati ricorrendo a categorie valoriali che connotano la nostra società. Il ruolo dell'antropologia dovrebbe essere quello di rendere intellegibili due modi diversi di vivere, offrendo gli strumenti per una comprensione reciproca.

3.2 Quadro generale relativo alla struttura sociale rom. Tra interpretazioni antropologiche e politiche

Liégeois, sociologo francese ed esperto di studi rom, ci offre un'approfondita analisi della struttura sociale romané. Secondo l'autore, il panorama rom si presenta molto variegato, composto di gruppi tra loro differenti, tanto da ricorrere alla metafora di un mosaico dove, ogni gruppo, rappresenta un tassello avente, una propria peculiarità linguistica, culturale e sociale. Come nel mosaico, ogni tassello è diverso dagli altri tanto che, l'analisi della singola parte non può essere generalizzata all'insieme dell'organizzazione. Nonostante questa eterogeneità, l'autore, ci offre una lettura della società rom organica, volta a dimostrare una relazione tra le varie comunità sparse sulla terra. Il risultato della sua analisi fotografa una rete relazionale, più o meno stretta, tra i vari gruppi, che è data da spostamenti, matrimoni e allontanamenti, paventando, così, le tesi di chi considera i rom come un gruppo/popolo transnazionale. (1)

Secondo Liégeois ciascun gruppo, è calato in una rete di relazioni con altri gruppi e con la società dei gagé. Questo determina, per i singoli gruppi, continui mutamenti e adattamenti strutturali. Nella sua dimensione globale, la struttura sociale rom si presenta come una sorta di rete mobile, dove i gruppi possono avvicinarsi o allontanarsi secondo l'esigenza; il movimento e la posizione di ciascun gruppo influiscono e modifica quella degli altri. Le interrelazioni tra i vari gruppi mantengano il dinamismo e l'equilibrio del sistema; i gruppi esistono l'uno mediante l'altro e l'uno per l'altro, in una perpetua cooperazione e lotta d'influenze. È alla luce di questo quadro di riferimento, che si hanno le alleanze matrimoniali e gli accordi economici tra gruppi diversi che creano equilibri di potenza e influenza. (2)

"L'organizzazione sociale passa attraverso l'articolazione reciproca delle diverse frazioni che compongono la società, malgrado il loro sparpagliamento sociale e geografico, e passa attraverso l'adesione a valori comuni, malgrado l'apparente diversità." (3)

I rapporti tra due o più gruppi si possono fondare sulla condivisione di una serie di aspetti come la giurisdizione, le regole e i legami matrimoniali. Tali elementi, però, non legano rigidamente e posso essere modificati. L'organizzazione sociale risulta, così, duttile e mutevole, capace di adattarsi alle circostanze, alla varietà delle condizioni di vita e agli incontri.

Inoltre, le trasformazioni sociali non conducono all'uniformità; anche se gruppi diversi s''incrociano', ad esempio, tramite matrimoni, la società non è un melting pot, in cui dovrebbero fondersi gruppi di diversa origine, ma "dato il valore e il ruolo attribuiti alle distinzioni, si tratta tanto di un insieme che si diversifica, quanto di una diversità che si connette." (4) Le modifiche della società circostante, gli spostamenti, le diverse dinamiche tra i gruppi, trasformano il mosaico in un caleidoscopio dove, il movimento cambia la configurazione, ma le relazioni rimangono. (5)

Possiamo, quindi sostenere che, nella visione di Liégeois, il 'pluralismo della realtà rom' può essere ricondotto a due dimensioni, che s'intrecciano e influenzano vicendevolmente:

a) Pluralismo intra-rom: che consiste nelle relazioni che s'istaurano tra i diversi gruppi rom. L'indagine su tali relazioni è funzionale a ricostruire la dimensione sociale e culturale della singola comunità. "Il mosaico è costituito da una serie di elementi collegati l'uno all'altro. Il legame che percorre questo insieme, contribuisce a organizzarlo, strutturarlo, anche se in questo caso la struttura non è rigida ma mutevole". (6) L'organizzazione sociale del singolo gruppo è il risultato delle interazioni con altri gruppi.

b) Pluralismo di diversità: con questa espressione possiamo indicare la dimensione del rapporto tra gruppi rom e ordinamento statale. Quest'ultimo, con le sue politiche di espulsione, assimilazione e integrazione rivolte ai rom, ha determinato dei profondi mutamenti nella struttura sociale dei singoli gruppi.

È su quest'ultimo pluralismo che intendo porre la mia attenzione.

3.2.1 Riposta romané alle politiche statali

È interessante analizzare come le comunità rom reagiscano alle politiche che la società gagé attuata nei loro confronti. I rom dicono: "Dimo gal kote ka le love" (7) ma anche "Kon besi kokoro page jag hilo samo cororo". (8) Questi due detti, riportati da Piasere, esprimono due intenzioni fondamentali dei rom che possiamo utilizzare come chiave di lettura delle politiche, da loro intraprese, nei confronti della società dei gagé: vogliamo sopravvivere come manusa, come uomini; ma vogliamo vivere come rom. (9) Gran parte degli antropologi, nel parlare di rom, pone l'accento sulla volontà di 'questo popolo' di conservare il loro stile di vita romané, pur vivendo all'interno di società che, da sempre, hanno promosso politiche assimilazioniste nei loro confronti. I rom vengono, così, qualificati, come un popolo-resistenza, il quale ha saputo escludere dal proprio orizzonte culturale le istituzioni politiche, religiose, culturali ed economiche delle società gagé ma, contemporaneamente, ha saputo usarle strumentalmente in un rapporto che Piasere chiama di disimpegno. (10) I rom non si sono assoggetti passivamente alle politiche dello Stato ma,

essi danno impulso a un processo per mezzo della loro stessa esistenza, attraverso la loro perennità [...] i popoli-resistenza sono produttori di "un'egemonia dell'interno", erigendo in permanenza come valori universali i valori particolari che assicurano la propria sopravvivenza. I popoli resistenza sono quelli la cui coscienza storica di sé risiede nella capacità di formulare perennemente ogni elemento di contatto tra sé e l'altro per elaborare una politica di sopravvivenza. (11)

Alla luce di questo, cercherò di tracciare, in modo molto rapido, la risposta che la società rom ha formulato nei confronti delle politiche intraprese dai gagé. I rom, per secoli, hanno vissuto a cavallo tra due sistemi, quello dei gagé da una parte e quello rom dall'altra. Le evoluzioni del primo e le diverse politiche intraprese verso i rom, hanno determinato, in questi ultimi, dei mutamenti nella struttura sociale che gli hanno consentito un continuo adattamento alla società circostante, al fine di mantenere la propria 'identità culturale'.

Nel corso della fase della negazione territoriale, (12) dove le politiche statali sono volte a una loro espulsione fisica che, come abbiamo visto nel capitolo precedente, trova giustificazione nella loro condotta di vita nomade, la risposta romané è consistita prevalentemente nella ricerca di una giustificazione della loro vita errante attraverso strumenti riconosciuti dalla società gagé. Alcuni documenti testimoniano che gruppi rom, nel corso del Cinquecento, si presentavano alle porte delle città esponendo atti 'ufficiali' (13) firmati dal Papa o da altre autorità politiche nei quali, la loro itineranza, trovava giustificazione in una condanna da loro subita, o in una particolare dispensa a loro concessa o nella necessità di raggiungere Roma. (14) Un'altra strategia di risposta alle politiche di negazione territoriale, è consistita nell'insediarsi presso le regioni di confine, che sono i luoghi più 'fragili' dell'organizzazione politica statale. (15) Il luogo di confine, infatti, favorisce spostamenti funzionali a sottrarsi, di volta in volta, alle politiche persecutorie intraprese dai vari Stati.

Piasere, uno dei più esperti antropologi in materia, mostra come la risposta più interessante che i rom hanno elaborato nei confronti delle politiche gagé, è stata realizzata attraverso la loro struttura sociale. Il rapporto con l'ordinamento statale porta le singole comunità rom ad intraprendere strategie di resistenza e di sopravvivenza, in relazione al contesto in cui si trovano immerse, attuando quello che Piasere chiama "un capolavoro d'ingegneria sociale". (16) I gruppi rom si dotano di una struttura sociale a 'polvere', che è volta ad abbassare il grado di conflittualità con i gagé, reagendo in modo flessibile alle politiche che, di volta in volto, gli Stati intraprendono nei loro confronti. Si parla di organizzazione sociale a polvere poiché, come i granelli di polvere, le varie famiglie si sparpagliano, si rincontrano e si disperdono in un certo territorio. I granelli, cioè le unità locali fluide, tendono a essere formate da famiglie imparentate, la parentela, infatti, è un legame sociale forte la cui rottura è sentita come molto dolorosa e può continuare a funzionare bene anche nella lontananza e nella dispersione. (17) Questo tipo di organizzazione sociale ha il vantaggio di trasformarsi e mutare in funzione delle politiche intraprese dalle istituzioni statali e locali, consentendo, ai rom, di attuare delle politiche di 'immersione' e 'mimetizzazione' all'interno della società maggioritaria. Questo fa si che, i vari gruppi, si ritrovino a essere come 'sparpagliati' in mezzo ai gagè.

Questa struttura è funzionale a resistere ai tentativi di sterminio, tanto fisico che sociale, consentendo il mantenimento di una coesione nella dispersione, attraverso le relazioni famigliari. Inoltre, questa 'immersione' nella società gagé, fa si che, ciascun gruppo rom, risenta dei vari legami che di volta in volta instaura, tanto con le altre comunità rom, che con la società gagé, portandolo ad avere una propria specificità socio-culturale, frutto delle diverse relazioni che è stato capace di instaurare. Questa è la ragione per la quale non si può che parlare dei rom come di un mondo di mondi (18) variegato, cioè formato da tanti gruppi che presentano una propria specificità.

Oggi, con la nascita di una società democratica e con l'avvento di una sua 'lettura' in chiave multiculturale, assistiamo ad un processo di adeguamento delle politiche romané ai nuovi spazi offerti, soprattutto, dal livello internazionale. La principale risposta al processo di democratizzazione della società gagé è la costituzione, da parte dei rom, di organizzazioni (19) capaci di rappresentare i loro interessi, (20) ricorrendo ai canali di partecipazione democratica offerti loro dalle istituzioni internazionali e regionali come: l'O.N.U, la U.E e il Consiglio d'Europa. Non a caso i primi riconoscimenti dei rom come gruppo o minoranza, provengono da organismi internazionali e regionali: nel 1969 abbiamo la prima raccomandazione del Consiglio d'Europa concerete i rom, (21) nel 1979, l'O.N.U procede al riconoscimento di un'organizzazione rom Romano Ekhipe poi divenuta Romani Unia.

Si apre così il periodo dell'inquadramento dei rom come minoranza trans-nazionale, portatrice di una propria specificità, meritevole di riconoscimento. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, il principale strumento elaborato, tanto a livello internazionale che nazionale per la recezione, nel contesto legislativo, della specificità culturale rom, è quello di minoranza. L'esigenza d'inquadrare i rom all'interno dei rigidi criteri previsti da questo concetto, ha portato molti autori a dare una lettura organica alla società rom, (22) in modo da ricondurre, quel mosaico culturale del quale parlava Liégeois, in un'unità, funzionale ad una sua trasposizione nella categoria di minoranza. È proprio in relazione a questa esigenza di dare un'uniformità culturale ad un contesto connotato da gruppi differenziati, che dobbiamo leggere le costruzioni identitarie essenzialiste; un esempio è quello di fondare l'identità rom sulla lingua romané, che ha portato molti autori a ricercare una base linguistica comune alla grande varietà dei dialetti romané. (23)

3.2.2 La famiglia come perno del sistema sociale e culturale rom

Secondo studi condotti da antropologi, (24) la società rom si presenta acefala cioè mancante di un potere centralizzato e totalizzante, questo porta a spostare il centro economico e politico verso la famiglia. Infatti, al di là del gruppo domestico, non vi sono istituzioni dotate di autorità sui membri della comunità. Per i rom non esistono classi sociali come s'intendono comunemente. Le uniche distinzioni all'interno delle comunità sono quelle tra i sessi (maschi-femmine) e una differenziazione data dall'età (giovane-anziano). Come sostiene Liégeois, "L'organizzazione sociale è organizzazione politica: la vita politica è diffusa, presente in tutti gli atti sociali, in tutte le relazioni oppositive e associative." (25)

Piasere, sulla base dei suoi studi condotti presso i rom xoracané, individua tre forme di famiglia: quella coniugale che indica come famiglia, il gruppo ampio di consanguinei, definita come la familja e la barì familja letteralmente 'grande famiglia'. (26)

La familja è composta da tutti gli individui della linea paterna e materna fino alla terza generazione di ascendenti e discendenti. Il ricordo di una discendenza comune diviene elemento d'inclusione nel gruppo. Piasere rileva che questa struttura presenta una certa elasticità, dato che, generalmente, la memoria dei rom arriva fino alla terza generazione ma solo di parenti in linea retta, mentre i collaterali sono presto dimenticati. La familja non è un gruppo isolato dal resto della società, né è un gruppo corporato, cioè perpetuo, questo perché essa è costruita intorno ad un ego, per cui essa cessa di esistere alla morte di questo. Data questa struttura, ogni individuo rom ha una propria familja distinta da quella degli altri (fatto salvo per due fratelli germani). Questa centralità del parentado porta ad escludere una struttura sociale di clan e lignaggio, che avrebbe comportato irrigidimenti eccessivi, non funzionali agli adattamenti sociali tipici di una struttura a polvere.

La bari familja è la famiglia estesa che può indicare:

  1. il gruppo formato da tutti i discendenti di una persona vivente;
  2. il gruppo formato dai discendenti di una persona vivente che abbia in comune, con questa, la residenza. (27)

Oltre alla famiglia estesa esiste la Kumpánia, cioè l'insieme di più famiglie, non necessariamente unite fra loro da legami di parentela, ma tutte appartenenti allo stesso gruppo o allo stesso sottogruppo o a sottogruppi affini. La sua formazione è legata a motivi di ordine economico di un dato ambiente sociale, prevalentemente urbano, dove le singole famiglie convivono per lo svolgimento delle proprie attività. La Kumpánia si caratterizza per una forte solidarietà tra i diversi nuclei familiari, che si manifesta concretamente con la condivisione, in caso di necessità, di guadagni ed eventuali perdite o danni.

All'interno della Kumpánia non esistono gerarchie; i suoi membri, per la loro rappresentanza all'esterno, eleggono uno di loro, che viene scelto per alcune qualità personali, quali la saggezza, l'esperienza, l'abilità a trattare con i Gagè, l'equilibrio. Questa carica, essendo fondata sulle qualità dell'eletto, non è ereditaria, e il 'rappresentante' può essere rimosso dall'incarico qualora si ritenga che non sia più in grado di svolgere tale compito.

Oggi la Kumpánia è sostituita da una struttura territoriale imposta dall'esterno: il campo sosta, che ha portato a rivedere le strutture sociali alla luce di una convivenza forzata tra gruppi che, in alcuni casi, si pongono in una posizione di conflittualità. Questo si è verificato in ragione del fatto che le leggi regionali, istitutrici dei campi-sosta, non hanno tenuto conto, nel momento della regolazione dell'accesso al campo, della suddivisione del 'popolo rom' in gruppi portatori di proprie specificità. Questo rende sempre più difficile, per i rom, vivere secondo le logiche parentali che sono peculiari della loro cultura. (28)

Nella comunità rom le relazioni sono prevalentemente relazioni tra famiglie, poco spazio è lasciato all'individuo. Le famiglie giocano un ruolo fondamentale anche nel contesto migratorio. Sono reti di congiunzione tra le diverse zone, esse consentano di mettere in contatto gruppi e persone, favorendo la migrazione da un luogo o l'altro. Ad esempio i rom che vivono presso il campo dell'Omatello di Firenze, hanno legami socio-parentali con famiglie che vivono a Brescia, le quali, hanno costituito il tramite, negli anni Novanta, dal Kosovo all'Italia.

Al fine di comprendere il ruolo che l'individuo riveste all'interno della società rom, mi sembra utile ricorrere alla rappresentazione proposta da Liégeois, il quale, rappresentata la struttura sociale rom come una piramide rovesciata dove al vertice è situato l'individuo che rappresenta il livello 5 delle relazioni sociali e alla base è posta la società dei gagè, che rappresenta il livello 0 delle relazioni sociali. (29)

Il livello 0, che rappresenta le relazione con i gagé, si caratterizza per la maggiore distanza sociale e la minore integrazione, i non rom sono esclusi dall'organizzazione sociale. Passando dalla base al vertice il livello d'integrazione e il sentimento di appartenenza è sempre più forte, il grado di omogeneità sociale è inversamente proporzionale al numero di famiglie che formano la comunità al livello considerato. Il livello della comunità famigliare è quello che si caratterizza per la maggiore omogeneità e appartenenza.

L'individuo si trova, così, calato in una struttura sociale che si connota per livelli. Secondo la ricostruzione offerta da Liégeois, ogni individuo appartiene ad un gruppo (rom, sinti, kalè), ad un sottogruppo (es. Kalderásha, lavora curara), ad un insieme di denominazione storico-culturale (serbijaja, moldivaja, grerkuria), ad una vica cioè discendenza che prende il nome del capostipite (es. Minéshti, Demoni, Bedoni), e ad una famiglia (es. Demítro, Marcovitch). (30)

3.3 Si può parlare di un ordinamento e di un diritto rom?

Come abbiamo analizzato nel capitolo I, il modello del pluralismo giuridico ha avuto il grande merito di porre l'attenzione dei giuristi sull'esistenza dei gruppi che compongono il panorama sociale, superando il modello ereditato dal positivismo giuridico che rappresentava il soggetto come disancorato dal contesto sociale, sancendo un rapporto diretto tra Stato e individuo. La riemersione dei gruppi all'interno dello Stato, ha portato, soprattutto l'antropologia giuridica, ad interrogarsi sulla possibilità che questi, potessero secernere un proprio diritto, in concorso con quello statale. Ovviamente, come abbiamo messo in luce prima, il diritto del quale si parla non è quello della concezione giuspositivista, ma quello della tradizione antropologica. (31) L'antropologia giuridica decostruisce il concetto di diritto positivo, classificandolo come prodotto culturale, favorendo la riemersione di una serie di forme di giuridicità che traggono il loro fondamento nei gruppi sociali. Alla luce di queste teorie, il diritto esiste anche al di fuori dello Stato, ed esiste a prescindere da un suo riconoscimento formale.

Il problema che qui vado ad affrontare riguarda la possibilità di riconoscere, secondo la metodologia e i parametri antropologici, l'esistenza di un ordinamento o un diritto romanì.

Tra i primi studiosi che hanno considerato i rom come gruppo capace di dotarsi di un proprio sistema di regole, ricordiamo Weyrauch e Bell, che hanno dedicato un intero articolo, pubblicato negli Stati Uniti nel "Yale Law Journal", (32) all''ordinamento giuridico' rom.

Gli autori, in linea con la tradizione antropologica che riconosce l'esistenza di un diritto anche fuori dallo Stato, mostrano l'esistenza di codici di condotta, di un proprio sistema di risoluzione delle controversie e di un sistema sanzionatorio all'interno della cultura rom. L'immagine che gli autori trasmettano del 'diritto rom', è quella di un diritto orale, ignaro della distinzione tra diritto, morale e consuetudine. Gli autori offrano anche una ricostruzione delle regole sostanziali che dirigono la vita dei membri del gruppo rom. Queste regole si fondano sulla dicotomia tra puro-impuro (o contaminato). L'idea dell'esistenza di una serie di atti contaminati, da vita ad una fitta rete di precetti relativi all'igiene personale, all'espressione corporea, al rapporto tra i sessi, alla solidarietà tra i membri del gruppo e ai rapporti con i gagé, ritenuti intrinsecamente pericolosi poiché impuri. (33) Se da una parte l'opera di Weyrauch e Bell ha avuto il grande merito di porre l'attenzione del mondo giuridico sulla questione dei rapporti tra ordinamento statale e diritto informale rom, dall'altra però è stata oggetto di una serie di critiche. Dal punto di vista tecnico-metodologico i due autori hanno realizzato un tipo di etnologia che possiamo definire pre-malinowskiana, poiché hanno utilizzato, come fonti della loro analisi, scritti concernenti i rom redatti da altri autori, non ricorrendo ad un contatto diretto con le stesse comunità studiate, come richiederebbe, invece, la tecnica dell'osservazione partecipante. Da un punto di vista dei modelli pluralisti elaborati dall'antropologia, possiamo dire che i due autori hanno abbracciato l'idea di un ordinamento rom chiuso rispetto alla società circostante, attento alla difesa della propria specificità culturale, ponendo poco l'accento sull'importanza delle relazioni con l'ambiente gagé. Quest'opera risente dello stesso vizio dei primi studi sul pluralismo, come quelli di Llewellyn e Hoebel, che lasciano poco spazio alle interrelazioni tra i diversi ordini che percorrono la società. Un altro vizio che si può contestare all'opera consiste nell'aver identificato il tutto con una delle sua parti cioè, l'ordinamento rom è stato costruito in base agli studi condotti nei confronti di un solo gruppo rom, i vlax, questo ha portato eccessive generalizzazioni rispetto ad un panorama che si presenta diversificato e plurale.

Al di là dei limiti della ricostruzione offerta da Weyrauch e Bell di ordinamento giuridico rom, dobbiamo riconoscere l'importanza del lavoro dei due studiosi che hanno saputo porre l'attenzione dei giuristi sull'esistenza di norme rom che influenzano la condotta dei singoli.

"Dopo anni che gli antropologi lo predicavano, finalmente anche i giuristi riconoscono l'importanza della 'legiferazione autonoma' degli zingari, ossia riconoscono l'importanza dell'esistenza di sistemi legali autonomi e incastonati all'interno dello Stato." (34)

Questo momento segna l'inizio di una serie di studi volti a ricostruire le linee essenziali di un sistema giuridico autonomo rom. Molti autori, (35) in linea con la tradizione antropologica, mostrano l'esistenza di un ordinamento rom partendo dallo studio delle modalità di risoluzione delle controversie. Come mostra oramai una metodologia consolidata in antropologia, (36) partendo dallo studio degli istituti preposti alla risoluzione dei conflitti, è possibile ricavare le regole che dirigono la vita sociale all'interno del gruppo rom. (37) L'istituto preposto alla risoluzione dei conflitti diviene una sorta di perno dal quale ricostruire e dimostrare l'esistenza di un ordinamento giuridico.

Da questo punto di vista Mancini ci offre una ricostruzione sistematica dei vari istituti di risoluzione delle controversie operanti all'interno dei gruppi rom. Ovviamente si tratta di una ricostruzione generalizzata di un panorama molto più complesso, dove, ogni gruppo, si connota per l'elaborazione di proprie tecniche di risoluzione. La ricostruzione della Mancini parte dagli studi su tre gruppi rom: i rom Xoraxané in Italia (38), i Kalé in Finlandia, (39) i Vlax (40) stanziati tanto in Europa che in America del Nord e Canada.

Le modalità di ricomposizione delle dispute possono essere ricondotti a due tipologie 'ideali': triadica e diadica. (41)

  • Triadica: in questa modalità di risoluzione della disputa si vede l'intervento di un terzo rispetto alle parti.

    Un esempio è costituito dalla Kris che è quello strumento utilizzato dalle comunità per ricomporre un conflitto e riportare l'equilibrio nel gruppo, generalmente attraverso il pagamento di una somma di denaro o l'espulsione del 'colpevole' dal gruppo stesso. Si tratta di un meccanismo non permanete e temporaneo, convocato ogni qual volta si verifichino dei contrasti all'interno della comunità. La Kris è una sorta di 'tribunale' composto di un certo numero di soggetti, esclusivamente uomini, che godono di una stima particolare all'interno del gruppo e che, in virtù della saggezza acquisita con l'esperienza, assolvono il compito di amministrare la giustizia. Questi sono detti Krisnitori.

    Ho raccolto, presso il campo dell'Olmatello di Firenze, la testimonianza riguardante un caso nel quale la disputa aveva avuto origine per effetto della relazione che un membro della comunità aveva intrapreso con moglie del cugino. La questione fu risolta convocando la Kris. Nel caso di specie furono convocati anziani di Brescia e nominati due rappresentanti di fiducia per ciascuna famiglia. Il colpevole fu condannato o al pagamento di una somma di denaro a favore della vittima, o a lasciare il campo. Nel caso di specie il 'reo' scelse il pagamento della somma. Se nessuna di queste due prescrizioni fosse stata adempiuta, avrebbe avuto inizio la faida tra le due famiglie coinvolte.

    Un altro meccanismo triadico è il divano, nel quale è sempre coinvolta la figura del terzo ma a differenza della kris la sua decisione non vincola le parti. Si tratta di una sorte di mediazione, dove il terzo aiuta le parti nella ricerca di un compromesso.

    Entrambi questi 'sistemi di giustizia' sono stati ricavati dagli studi condotti presso i rom vlax.

  • Diadico: in questo sistema di giustizia una delle parti manifesta direttamente all'altra le proprie pretese. Rientrano in questa tipologia la faida e la rinuncia.

    La faida è un meccanismo, riconosciuto dal gruppo, attraverso il quale si risolve una disputa. La faida consiste in uno scontro fisico, anche con uso di armi, che può durare giorni. "Essa è un'azione di rappresaglia socialmente accettata che si configura come un momento organizzativo del gruppo". (42) Piasere distingue la vendetta dalla faida. Definendo la prima come "la rappresaglia di un individuo che decide di farsi giustizia da solo in mancanza di norme e doveri riconosciuti". (43) La faida, invece, è un meccanismo legittimo poiché è socialmente riconosciuto. Nella faida è fondamentale il coinvolgimento del gruppo, anche se la vicenda ha riguardato i singoli individui. Sono i gruppi di appartenenza che si scortano e trovano una soluzione al conflitto. La faida non è, però, accettata dall'ordinamento statale che la riconosce sotto forma di particolari reati. Ad esempio rissa, lesioni, percosse e omicidio.

    Una delle alternative più praticate alla faida è la rinuncia. La composizione della disputa attraverso questo meccanismo segue precise regole che pongono le parti ad evitare ogni contatto reciproco, sia fisico che sociale. (44) Questa modalità può esplicarsi con una dichiarazione dei parenti della persona offesa, rivolta a quelli dell'autore del fatto, della loro volontà di vendicarsi, dando così a quest'ultimi il tempo di allontanarsi. L'allontanamento assume un significato sociale ben preciso: è il modo attraverso il quale il soggetto si dichiara colpevole, ammettendo la propria responsabilità.

Queste due modalità di soluzione dei conflitti si ricavano partendo dagli studi condotti presso kalé e i rom xoraxané.

Partendo dalle modalità di risoluzione dei conflitti, gli studiosi hanno cercato di ricostruire il 'diritto rom'. Nella ricostruzione offerta da Mancini, il diritto rom si caratterizza per la sua oralità e per fondarsi su valori tramandati da padre a figlio. Si tratta di una trasposizione di valori, accettati dal gruppo, in norme, che, se violate, determinano una sanzione sociale per opera del gruppo stesso. L'organizzazione basata su piccole comunità, fa sì che, il controllo sia informale ma continuo sui suoi membri. Questo controllo produce l'effetto di ordinare la condotta dell'individuo secondo i valori e le norme del gruppo. I diritti e doveri dell'individuo derivano dalla posizione che lui riveste in ambito famigliare. Tendenzialmente le persone anziane e il 'capofamiglia' sono quelle legittimate a prendere decisioni, sia sulle questioni che riguardano i rapporti con i non-rom, sia su quelle che possono emergere all'interno del gruppo. (45)

Generalmente, nel tentativo di ricostruire un sistema giuridico rom, si attribuisce poco peso all'influenza esercitata sulle comunità dall'ambiente circostante, per cui si tende a ricostruire i gruppi rom come chiusi verso l'esterno. Ad esempio nel parlare della kris si sottolinea come essa sia una 'istituzione tradizionale' che i rom 'custodiscono gelosamente' impedendo qualsiasi forma di influenza con l'ambiente esterno. In realtà alla luce dei recenti studi e delle interviste, da me condotte, tanto presso la comunità dei rom xorakanè, situata nel campo dell'Olmatello di Firenze, che presso operatori sociali, ciò che emerge è che, anche la kris, non è un'istituzione impermeabile all'esterno.

Adem, uno dei rom kosovari, da me intervistato, sostiene che, quando le forme di mediazione interne al gruppo falliscono, viene coinvolta l'autorità pubblica e sono presentate denunce-querele per aggressione. Questo significa che alcuni gruppi hanno assimilato le nostre forme di risoluzione delle controversie. Ci sono casi di persone che si sono presentate al quartiere quattro di Firenze denunciando le lesioni subite a seguito delle dispute 'tradizionali'. Il rivolgersi a un'istituzione che opera al di fuori del proprio gruppo, mostra un mutamento in certi tratti della loro tradizione. (46) Interessante è la testimonianza di Colacicchi, ex Presidente dell'associazione Osservazione, il quale in un'intervista da me condotta, ha sostenuto di essere stato chiamato come krisnitore nel corso di una kris tenutasi presso il campo dell'Olmatello, sfatando il mito dell'inacessibilità dell'istituto ai gagé.

Alla luce di questo, reputo che il concetto di ordinamento giuridico sia un concetto superato, legato alle prime costruzioni antropologiche che ponevano l'accento su gruppi pensati come chiusi verso l'esterno. La realtà rom è ben diversa, infatti, si connota per continue relazioni con l'ambiente esterno, il quale può essere rappresentato, tanto da altri gruppi rom, che dalla società gagé. Da questo punto di vista, come abbiamo visto, anche l'istituzione che per eccellenza è stata considerata alla base dell'ordinamento rom, la kris, non è passata indenne ai rapporti con la società gagé.

Questo mi porta a reputare che lo schema interpretativo nel quale inquadrare le dinamiche di relazione tra rom e gagé è quello delle nuove correnti di pluralismo giuridico, in particolare, del pluralismo normativo.

3.3.1 Pluralismo normativo e rom

Riprendendo brevemente quanto già detto nel primo capitolo, cerchiamo di capire come un modello di pluralismo normativo (47) possa essere funzionale alla lettura della realtà contemporanea.

Questa prospettiva di analisi parte dal presupposto che il singolo individuo è soggetto ad una pluralità di norme promanate da sistemi o ordini differenti. Questo significa superare la concezione di pluralismo classico, costruito sull'idea di ordinamenti chiusi, statici e autoreferziali, per passare all'ottica dell'inetrlegalità. In questo modello i vari ordini o sistemi non operano in modo chiuso e autoreferenziale ma interagiscono tra loro, creando uno spazio poroso d'interconnessione, dove si realizzano una serie di contatti tra sistemi normativi, rapporti di potere e modalità di reciproca influenza tra due o più sistemi. (48) In questa prospettiva lo Stato rappresenta uno dei vari ordinanti capaci di regolare la dimensione sociale, (49) perdendo il suo carattere monistico ed esclusivo.

L'individuo si trova calato in una dimensione giuridica fatta di norme che rinvengono la loro fonte in ordinamenti differenti ma che hanno capacità di influenzare le sue scelte.

Nel caso rom, questa pluralità è rappresenta da norme che rinvengono la loro fonte sia nella propria comunità, che come si è visto riguardano prevalentemente la disciplina delle relazioni famigliari, sia nel sistema statale, locale, europeo e sovranazionale. In questo sistema d'interlegalità, risulta assumere rilevanza la prospettiva del singolo attore il quale, operando all'interno di questa porosità giuridica, è chiamato ad effettuare continue scelte tra norme diverse, le quali, possono anche essere espressione di diversi sistemi valoriali. Questo significa che, ogni qual volta l'individuo pone in essere una scelta tra norme espressione di diversi sistemi valoriali, è costretto anche a rimettere in discussione propri valori e comportamenti. L'identità personale risulta, così, essere frammentata, il prodotto dell'appartenenza a più ordini. Quest'approccio al pluralismo, che s'incentra sul soggetto, sulle sue scelte e sull'interazione tra più norme, trova maggiore rispondenza sul piano giuridico e amministravo che su quello legislativo, proprio perché richiede agli operatori giuridici la ricerca di compromessi tra il diritto vigente e le esigenze dei rom. (50) Come sottolinea Facchi, il fenomeno del pluralismo normativo si deve affrontare sotto due punti di vista: quello del soggetto appartante alla comunità, nel nostro caso quella rom, che richiederà un approccio antropologico al fine della comprensione delle norme e valori a cui si riferisce, e quello istituzionale chiamato a risolvere i problemi sociali, etici, politici e giuridici e ad analizzare l'interazione sociale e normativa e proporre direttive di azione pubblica. (51)

In questo contesto, dove sempre più spazio è riconosciuto all'individuo e alle sue scelte, un ruolo crescente nel riconoscimento dei diritti, è attribuito ai giudici. Questi sono chiamati ad adeguare il diritto positivo alle mutate condizioni socio-giuridiche, divenendo una sorta di nuovo legislatore posto sulla linea di frontiera tra i diversi sistemi normativi. Il giudice si presenta come mediatore tra le varie norme che s'incontrano o si scontrano, ponendo, però, al centro della sua valutazione non l'esigenza dei sistemi in sé (ad esempio quello statale o quello rom) ma le richieste di tutela avanzate dall'individuo.

3.4 Il ruolo del giudice nel riconoscimento delle specificità culturali: un'introduzione

Alla luce di quanto detto sopra, possiamo sostenere che un ruolo fomentale nel riconoscimento delle specificità culturali rom è rivestito dai giudici, in generale, e dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo in particolare. Il giudice europeo, tra le righe delle sue pronunce, sottolinea l'importanza che la diversità culturale ha per la tutela dell'identità personale. Il giudice prende coscienza che le norme, prodotte dal gruppo al quale appartiene l'individuo e da lui seguite, non possono essere estromesse dal quadro giuridico, qualora si voglia garantire un'effettiva tutela al soggetto. La cecità alla differenza, che ha caratterizzato, sin dalla sua nascita, lo Stato moderno, oggi deve essere superata alla luce dei nuovi indirizzi del pluralismo giuridico, i quali, mostrarono l'individuo, calato in una pluralità di ordini e soggetto a una pluralità di norme, molte delle quali, rinvengono la loro fonte fuori dal contesto statale. I valori, la cultura e lo stile di vita riconosciuti dallo Stato e tutelati con leggi, non possono più essere gli unici degni di un riconoscimento. La diversità, che per secoli è Stata combattuta con la spada dell'assimilazionismo, oggi, a livello europeo, sembra finalmente trovare un riconoscimento. (52) Questo riconoscimento, però, passa e si esprime attraverso una serie d'interrogativi che rischiano di mettere definitivamente in crisi idee e valori che la cultura occidentale aveva dato ormai per assodati. Questo perché, l'apertura verso la diversità implica necessariamente un'interazione con l'altro portatore di patiche e valori differenti, dando luogo a uno scambio reciproco, che porta alla messa in discussione di valori pensati come assoluti. Le arene di questo 'scontro-inconto' sembrano essere i tribunali e le Corti, dove gli individui rendono, palesi, le loro richieste di riconoscimento, chiedendo al giudice di vestire i panni di arbitro, chiamato a mediare tra i loro valori culturali e gli interessi statali che possono ostacolarli. Sempre più spesso le Corti sono chiamate a pronunciarsi in procedimenti nei quali emerge un conflitto tra le norme espressione di una cultura e quelle statali. A titolo di esempio prossimo ricordare i 'conflitti' che si possono realizzare tra le norme tradizionali che regolano la faida tra i gruppi rom e le norme di diritto penale che inquadrano queste condotte alla stregua di delitti. In queste ipotesi il giudice, che intenda tener in debita considerazione la differenza culturale, è chiamato a porre in essere un bilanciamento tra interessi diversi, i quali, trovano fondamento in due sistemi culturali e valoriali differenti. Questo nuovo ruolo di giudice-arbitro tra le diverse istanze culturali, porta i giudici a doversi confrontare con una serie di temi che da sempre sono la croce e la delizia di antropologi, sociologi e filosofi.

Il primo problema che il giudice è chiamato ad affrontare riguarda il corretto inquadramento del contesto socio-culturale nel quale è calato il soggetto. Questo è funzionale a comprendere l'importanza che, per l'individuo, riveste una certa regola culturale, oltre a comprendere il suo effettivo contenuto, superando pregiudizi e stereotipi. Questo è sicuramente un aspetto essenziale, poiché come abbiamo visto nel capitolo precedente, spesso i giudici, al fine di adottare una decisione nel caso concreto, attingono a stereotipi e pregiudizi, i quali, tendono a offrire un'immagine distorta della 'cultura' di un certo gruppo. Nel caso dei rom è necessario superare tutti quegli stereotipi che rimandano l'immagine della loro cultura a pratiche criminali, illegali, (53) o non corrispondenti alla realtà empirica. (54) Il giudice che voglia emanciparsi da queste costruzioni è chiamato a confrontarsi con discipline diverse da quella giuridica, come la sociologia e l'antropologia, che gli possono offrire quegli strumenti utili alla comprensione dello stile di vita e dei valori altrui.

Il secondo problema con il quale questo giudice-arbitro è chiamato a confrontarsi, è l'individuazione delle regole che dominano la partita di questo scontro culturale tra individuo, portatore di una propria specificità, e il sistema statale. Questo porta una serie d'interrogativi, che in questa sede posso solo accennare, poiché coinvolgono grandi temi che ancora oggi sono profondamente dibattuti e riguardano campi del sapere diversi da quello giuridico, come la filosofia e la teoria politica. Pensiamo al grande dilemma che pervade l'età contemporanea e che riguarda i limiti entro cui si è disposti ad accettare e riconoscere l'altro, (55) e quindi i limiti entro i quali il giudice può accogliere le richieste di riconoscimento delle specificità degli individui.

Un altro tema che ci riguarda più da vicino, e che costituisce uno strumento essenziale nelle mani dei giudici che affrontano le questioni sulla diversità culturale, è quello dell'uguaglianza. Tale principio necessita di una revisione al fine di potere rispondere alle richieste di un soggetto che non è più pensato come astratto dal contesto sociale ma immerso in esso. Da questo punto di vista, un contributo teorico importante perviene da Gianformaggio. L'autrice ci mostra l'importanza che ha una nuova interpretazione di questo concetto, qualora si vogliano affrontare, seriamente, i temi delle differenza. Il problema è capire se il concetto di uguaglianza può, in sé, accogliere quello di differenza. Come sostiene Gianformaggio essere uguali non significa essere identici, l'uguaglianza è una relazione che può porsi solo tra due entità diverse. Due entità distinte si dicono uguali se possiedono la stessa caratteristica rilevante nel contesto o universo di discorso al cui interno il giudizio di eguaglianza viene espresso. (56) Per cui, essere diversi significa che una delle due entità, poste a confronto, non possiede la caratteristica rilevante nel contesto di riferimento. L'autrice individua due specie di uguaglianza: quella descrittiva e quella prescrittiva. Nel caso dell'uguaglianza descrittiva il discorso è formulato in termini di essere, per cui due entità A e B sono uguali se possiedono una stessa caratteristica fattuale rilevante. Nell'ipotesi dell'uguaglianza prescrittiva il discorso è formulato in termini di dover essere, per cui A e B sono uguali se la caratteristica rilevante che hanno in comune consiste nell'aver titolo, in virtù di una regola allo stesso trattamento. (57) Per Gianformaggio i due concetti di uguaglianza sono determinabili esclusivamente con riferimento ad un contesto particolare e a un parametro, per cui, sono entrambi relativi. Ad esempio nel caso dell'uguaglianza prescrittiva, due entità distinte posso essere tanto prescrittivamente uguali quanto diverse, dipende dalla regola che si assume come parametro per la parità di trattamento. Per cui, il concetto di uguaglianza come quello di differenza si presentano come relativi, relativi a un parametro o unità di misura. Dire che A e B sono uguali significa averle rapportate allo stesso modello, misurate con lo stesso metro.

Le critiche all'uguaglianza che provengono dal 'pensiero della differenza' riguardano un terzo tipo di uguaglianza, quella che Gianforamgio qualifica come valutativa. Per inquadrare correttamente il concetto di uguaglianza valutativa, dobbiamo partire dall'analisi del concetto di differenza. Secondo Gianforamaggio, dire che 'A è diverso da B' non è la stessa cosa di dire che 'B è diverso da A' così come dire che 'A e B sono diversi'. L'essere 'diverso' rappresenta, in questo caso, una proprietà assoluta e non relativa ad un contesto poiché continente già in sé il parametro, criterio di riferimento. In questa ipotesi la proprietà, di cui secondo questo uso si fa questione, non è 'essere diverso, la differenza' ma è 'l'essere diverso da B, la differenza da B'. In questo caso B rappresenta tanto l'ente che viene comparto che il criterio della comparazione. (58) Tornando al concetto di uguaglianza, mentre l'uguaglianza descrittiva e prescrittiva sono relazioni comparative tra due entità diverse che presuppongono un'unità di misura comune, nell'uguaglianza valutativa i termini 'eguaglianza' e ' differenza' si riferiscono sempre ad un'operazione di misurazione già compiuta, che esprime la relazione di comparazione tra entità misurata e l'unità di misura. In questo caso il secondo termine della relazione (es. A è uguale a B) e l'unità di misura vengono a coincidere fenomenologicamente. (59)

Tornando alla critica mossa dal 'pensiero alla differenza' nei confronti dell'eguaglianza valutativa possiamo dire che nel caso dell'uguaglianza di trattamento, per molto tempo il concetto di trattamento paritario, che fonda le sue radici nell'idea che tutti gli individui sono uguali senza distinzioni, è stata costruita rispetto al modello imposto dalla maggioranza (o gruppo dominate). Dato che il modello di riferimento, ai fini di una parità di trattamento, è costruito partendo dai valori e dalle specificità del gruppo dominate, dire che, A (un gruppo minoritario) è uguale a B (la maggioranza) significa dire che A può essere trattato in modo uguale a B se si conforma al modello costruito da B. Se B costruisce il modello, non può essere detto né diverso né uguale poiché essere uguale o diverso in questo modo acquista un senso assoluto e non relativo e una connotazione di valore positiva per l'uguaglianza e negativa per la differenza: essere diverso significa essere inferiore. (60) Secondo la 'teoria della differenza', l'origine della diversità si rinviene nel rapporto di domino/oppressione posto in essere dalla maggioranza nei confronti delle minoranze. La relazione sociale di dominio/oppressione tra gruppi costruisce come norma le specificità de gruppo domante e come scarto, alterità assoluta, le specificità de gruppo oppresso. (61) In questo contesto i valori sottostanti le norme giuridiche rispecchino le peculiarità e specificità della maggioranza, senza tener conto, nel caso delle minoranze culturali, del loro particolare stile di vita, della loro visione del mondo, anzi, queste sono considerate come inferiori. Pensiamo ad esempio alle norme in materia di edilizia popolare che non tengono conto della particolare 'struttura famigliare rom' nell'assegnazione degli alloggi poiché, queste norme, sono costruite in base al concetto di famiglia elaborata dalla maggioranza. Alla luce di questo, come sostiene Gianformaggio il principio di uguaglianza elaborato dalla maggioranza rientra nella categoria di uguaglianza come sameness, dove l'idea di non discriminazione e le azioni positive sono elaborate in funzione del raggiungimento del modello imposto dalla maggioranza, in un'ottica che promuove l'assimilazione di A al modello costruito da B.

La riflessione sull'appartenenza del soggetto a un gruppo culturale, avente un proprio stile di vita e propri valori, porta a rilevare l'inadeguatezza del concetto di uguaglianza come sameness, la quale, è costruito sui bisogni e sui valori del gruppo dominate. La rilettura del principio di uguaglianza si fonda sull'esigenza di superare la portata assimilazionista dell'uguaglianza come identità di trattamento. Come sostengono alcuni autori, (62) l'uguaglianza come sameness porta a trattare in modo eguale solo coloro che divengono eguali e costituisce il presupposto di politiche che permettono di raggiungere obbiettivi e stili di vita del gruppo dominate solo a quegli individui disposti, e in grado, di rinunciare alla propria identità culturale. (63)

Valorizzare e riconoscere le differenze, significa che un trattamento differenziato non può trovare fondamento solo nell'esigenza di bilanciere e superare le disuguaglianze che di fatto un soggetto subisce in quanto membro di un gruppo culturale, ma anche predisporre strumenti volti a valorizzare tali differenze. (64) "Insomma gli uomini nascono diversi e per trattarli da eguali bisogna ammettere dei trattamenti differenziati." (65)

Alla luce di questi spunti di riflessione andiamo ad analizzare le sentenze pronunciate dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo a seguito di procedimenti che hanno visto coinvolti come ricorrenti rom. Questo, al fine di comprendere quali sono gli strumenti giuridici ai quali il giudice europeo ricorre per rispondere alle richieste di riconoscimento della diversità culturale. In particolare, interessante è analizzare come il giudice utilizzi il principio di uguaglianza e il diritto all'identità personale, come strumenti funzionali al riconoscimento delle diversità culturali.

3.4.1 Il ruolo della CEDU nel riconoscimento delle specificità culturali rom

In alcuni casi tra le norme espressione della cultura rom e quelle statali o europee si possono realizzare dei conflitti, pensiamo alle ipotesi in cui le norme statali, sanzionando o vietando certe condotte, di fatto, condannano o limitano un comportamento che si ascrive ad una data cultura.

Procediamo analizzando alcune sentenze della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che hanno visto coinvolti, come ricorrenti, rom, per comprendere quali siano le soluzioni prospettate dal giudice europeo nell'ipotesi in cui una norma, che incide e dirige la vita del singolo e che trova fondamento nel sistema culturale al quale questo appartiene, sia in contrasto con le leggi statali.

Nei casi che andrò ad analizzare, la confliggenza si realizza tra uno stile di vita del ricorrente, riconducibile alla cultura rom, consistente nello stanziarsi in terreni di proprietà vivendo in strutture mobili come i caravan, e la legge britannica che vieta questo tipo di stanziamento.

Le norme della CEDU che rilevano sono l'art. 8 e l'art. 14.

L'articolo 8 sancisce il 'diritto al rispetto della vita privata e familiare'.

Secondo questo articolo:

ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. Non può esservi ingerenza di un'autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per il benessere economico del paese, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui.

Questa norma esprime un diritto inviolabile, il quale, però, può subire delle limitazioni nei casi stabiliti dal secondo comma della stessa disposizione.

Quest'articolo protegge quattro diritti: il diritto al rispetto della vita privata, famigliare, del domicilio e della corrispondenza. L'importanza che quest'articolo ha, rispetto al tema della tutela dell'identità culturale, deriva dall'interpretazione che la Corte ha dato al concetto di 'vita privata'. Questa, infatti, ad avviso della Corte, ricomprende: "l'integrità psicofisica della persona", cui si deve rispetto al fine di garantire "lo sviluppo, senza interferenze esterne, della personalità di ogni individuo nel suo rapporto con gli altri esseri umani" (66)

Inoltre, anche le questioni concernenti: i diritti sessuali, (67) l'inquinamento ambientale, (68) le barriere fisiche al movimento, (69) l'accesso a files (70) e informazioni sulla propria salute (71) stanno rientrando nella portata di questo articolo. Questa norma risulta, così, avere un potenziale di tutela molto ampio che può lasciare spazio, anche, al rispetto di un 'traditional lifestyle'.

L'articolo 8, inoltre, impone agli Stati, tanto obblighi negativi, che positivi. Così, oltre ad astenersi da interferenze, lo Stato deve adottare delle azioni positive per garantire il rispetto della vita privata e familiare.

L'altra norma della CEDU che viene in rilevo nei casi riguardanti i rom, è l'art. 14, cioè il divieto di discriminazione:

Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l'origine nazionale o sociale, l'appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione. Inoltre tale diritto tutela il diritto degli individui e non dei gruppi.

Il divieto di discriminazione contemplato dalla CEDU non può operare autonomamente, ma i suoi effetti si manifestano unicamente in combinato disposto con altre disposizioni contenute nel testo o rispetto a diritti che, pur non essendo affermati in modo esplicito nella CEDU, trovano in essa la loro base giuridica. L'articolo 14, tutela i diritti degli individui, non dei gruppi. Così, rom, donne, o appartenenti a gruppi entico-culturali, possono presentare ricorso alla Corte solo se sono individualmente interessati, non nell'interesse di un intero gruppo. Per cui, ciascun richiedente deve essere in grado di dimostrare che lui/lei è personalmente la vittima di una violazione.

Il principio di non discriminazione è diffusamente riconosciuto come manifestazione del più generale principio di eguaglianza, facendo rientrare nella sua portata tanto il principio, secondo cui, situazioni simili devono essere trattate in modo uguale che il principio per cui, situazioni diverse devono essere trattate in modo differente. In caso contrario, e in assenza di ragionevoli giustificazioni, il trattamento deve considerarsi discriminatorio. (72)

La sentenza Chapman c. Regno Unito, del 18 gennaio 2001 della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, contiene alcune affermazioni significative rispetto alla portata applicativa dell'articolo 8 della CEDU che riguardano il contenuto, tanto della fattispecie tutelata che degli obblighi che da esso scaturiscono in capo agli Stati.

Nel caso di specie la ricorrente rom, lamentava, di fronte alla Corte, una violazione dell'art. 8 perpetuata dalla legislazione britannica, che impediva a lei e alla sua famiglia di vivere in modo stanziale in un caravan situato presso un terreno di proprietà. (73) La Corte riconosce che la vita in caravan fa parte integrante dell'identità rom, infatti, essa:

reflecting the long tradition of the minority of following a travelling lifestyle [...] even though, under the pressure of development and diverse policies or from their own volition, many Gypsies no longer live a wholly nomadic existence and increasingly settle for long periods in one place in order to facilitate, for example, the education of their children. (74)

Secondo il giudice europeo, il vivere presso strutture 'mobili' come i caravan, costituirebbe un 'residuo' dello stile di vita nomade che contraddistingue questo gruppo. Al di là delle critiche che si possono muovere a questa modalità di ricostruire i caratteri identitari di un gruppo, dobbiamo prendere atto che in questo caso la Corte riconosce l'esistenza di una norma di tipo culturale che influenza la condotta della donna (vivere in un caravan). La Corte non si ferma ad una semplice costatazione, ma stabilisce che l'articolo 8 della CEDU, tutela il diritto dei rom di godere di un tradizionale stile di vita, ampliando quindi le maglie applicative di questo articolo, (75) trasformandolo in uno strumento, attraverso il quale garantire le espressioni culturali del singolo fondate su tradizioni e norme ereditate dal gruppo di appartenenza. Si cera, quindi, un legame tra tutela del diritto individuale e appartenenza ad un gruppo etnico-culturale. (76)

Quest'aspetto sembra essere confermato nel proseguo della sentenza, nella quale, la Corte, sancisce che la vulnerabilità dei rom, dovuta al fatto di appartenere ad una minoranza, implica la necessità di accordare un'attenzione speciale ai loro bisogni ed al loro modo di vivere. Di conseguenza, l'art. 8 della CEDU fa scaturire in capo agli Stati contraenti l'obbligo di adottare misure e azioni positive volte a consentire ai rom di seguire il loro 'stile di vita'. (77)

La Corte afferma che le misure prese nei confronti della ricorrente da parte del Regno Unito, hanno delle conseguenze, non soltanto rispetto al diritto al domicilio, ma coinvolgono la facoltà di conservazione dell'identità rom e di condurre una vita privata e familiare conforme a questa. Tuttavia, nel merito, la Corte rifiuta di garantire tale diritto al punto di far nascere, a carico dello Stato, applicando in via diretta e congiuntamente l'art. 8 e l'art. 14 della CEDU, l'obbligo di adottare delle misure discriminatorie "positive", (78) che siano funzionali a garantire l'effettivo godimento del diritto al rispetto della vita familiare. Per cui, nel caso esaminato dalla Corte, il diritto del singolo viene dichiarato soccombente rispetto all'interesse generale.

Nel dettaglio, la Corte, come si verificò nel caso Buckley, non ha riconosciuto una violazione dell'articolo 8 CEDU, reputando che il caso sottoposto alla sua attenzione ricadesse in una delle ipotesi previste del secondo comma della norma. Quest'ultimo, prevede i casi in cui è consentito, in una società democratica, apportare, per opera degli Stati, dei limiti al diritto alla vita privata, che nel nostro caso si traducano in limiti al 'diritto all'identità culturale'. Ad avviso della Corte, le interferenze poste in essere dalla legge britannica nei confronti del diritto alla vita privata (da leggersi come diritto all'identità culturale) della ricorrente, sono proporzionate, alla luce dello scopo legittimo di tutela ambientale e paesaggistica realizzato da tale legislazione, che impedisce di situare strutture mobili in terreni privati.

La Corte, inoltre, non ravvisa, nel caso Chapman una violazione dell'art. 14 della Convenzione. Nel caso di specie il divieto di non discriminazione rileva nell'accezione di "non trattare in modo diverso persone le cui situazioni sono significativamente differenti senza una giustificazione obiettiva e ragionevole". (79) Come abbiamo visto sopra, per la Corte l'apparenza ad una minoranza giustifica, anzi fa scaturire in capo agli Stati un obbligo positivo di promozione delle differenze culturali. Di fatto, però, la Corte ha sancito che, nel caso di specie, si ricadesse in una di quelle ipotesi in cui la tutela dell'interesse generale costituisce una ragionevole giustificazione al mancato trattamento differenziato.

Nonostante il riconoscimento da parte del giudice europeo dell'esistenza di uno stile di vita gitano, degno di una tutela, alla prova dei fatti, nelle sentenza della Corte, si è stabilito una supremazia dell'interesse statale sulla tutela del tratto culturale. Uno spunto di riflessione molto interessante perviene da Colaianni, il quale critica la modalità con cui la Corte, nei casi esaminati, ricostruisce l'identità rom. Ad avviso dell'autore, questa aderirebbe ad una concezione identitaria statica, ancorata allo stereotipo del nomadismo, tanto che la sentenza, nel non riconoscere la violazione dell'art. 8 e 14, fa presente che qualora la donna avesse voluto si sarebbe potuta stanziare presso i siti appositamente creati per i rom dalle leggi britanniche, al contrario, stanziandosi stabilmente, avrebbe dovuto conformarsi alle regole previste per tutti, non riconoscendo quindi, l'esigenza di un trattamento differenziato che le avrebbe consentito di mantenere il suo stile di vita romané, (80) riconoscendo, così, un diritto all'identità culturale attenuato. Attenuato, poiché, è lasciato al legislatore un ampio margine di apprezzamento nello stabile quando e dove esprimere la propria identità. Per il legislatore essere rom significa essere nomade, per cui, l'espressione di questo tratto identitario viene garantito esclusivamente attraverso la legislazione speciale del Caravan Sites Act. (81) Questo però porta ad ancorare la cultura rom alle sole ipotesi previste dalla legge, chi intende condurre uno stile di vita romané al di fuori di quanto previsto dal legislatore, può farlo solo se il suo stile di vita non contrasta con le leggi statali. E questo apre uno dei problemi più profondi della materia che stiamo trattando poiché, nel momento in cui la Corte sancisce che non vi è stata violazione art. 8, adducendo il fatto che la ricorrente si era stanziata illegittimamente, per cui il suo interesse a condurre uno stile di vita romané doveva soccombere sotto il peso dell'interesse generale alla tutela paesaggistica, la Corte omette di considerare che le stesse disposizioni di legge possono presentare una disciplina che, seppur in linea con i valori della maggioranza, possono, di fatto, essere in contrasto con le tradizioni e la cultura degli aderenti a certe tradizioni. Nei casi dei quali abbiamo parlato, la Corte sembra avere risolto il conflitto tra norma 'tradizionale' e norma statale a favore di quest'ultima, lasciando al legislatore un ampio margine di apprezzamento nel limitare l'art. 8, quando questo è declinato alla tutela di uno stile di vita culturalmente orientato. Ciò non toglie, però che, la giurisprudenza della CEDU, presenti una certa apertura nei confronti della dimensione culturale del ricorrente, infatti dal caso Chapman in poi la Corte ha posto le richieste avanzate dai ricorrenti rom in termini di una rivendicazione al diritto dell'identità culturale, ponendo le premesse per riconoscere un diritto alla differenza per la maggior parte delle minoranze. (82) Il porre l'accento sul tratto culturale come elemento essenziale per la tutela dell'individuo segna un punto a favore di tutte quelle correnti di pensiero che, da tempo, sollevavano il problema dell'appartenenza 'comunitaria' del soggetto, anche se ancora siamo lontani dell'ammettere che la tutela dell'identità culturale e dello stile di vita di una persona siano elemento indispensabile per garantire una sua effettiva uguaglianza, richiedendo allo Stato un trattamento differenziato funzionale ad una sua effettiva tutela. Ancora sembra prevalere una lettura del principio di eguaglianza come sameness, dove è il legislatore, espressione di una maggioranza, a stabilire i limiti nel riconoscimento e nell'esercizio della diversità. Al di là di questo, però, dobbiamo prendere atto che è in corso un mutamento, che, anche se solo allo stato embrionale, potenzialmente può condurre verso un'effettiva tutela delle diversità. Le sentenze della CEDU costituiscono la prova che i giudici stanno iniziando a prendere coscienza che, la mancata possibilità di esprimere la propria cultura può comportare delle limitazioni nei diritti del soggetto, tanto da inquadrare la tutela dello 'stile di vita gitano' nella portata applicativa di un articolo della CEDU.

3.5 Il matrimonio rom: incontro tra la normativa statale e un'istituzione 'tradizionale rom'

"Non ti offendere sai, ma io non sposerei mai un italiano [...] io con gli italiani ci scherzo ci rido ci mangio insieme, ma non posso sposali."

Questa frase è tratta da un'intervista, da me condotta, ad una ragazza rom di cittadinanza italiana e origini croate. Questa frase rappresenta il sunto dell'incomprensione tra due mondi rappresentati in modo statico dai due interlocutori: io che con la mia domanda sul loro modo di concepire il matrimonio, mi sono già posta in una posizione di distanza, e lei che, alla luce delle sue precedenti relazioni e rappresentazioni trasmesse, ha un'immagine distorta del mondo gagé.

I: "Perché non lo sposeresti?"

A questo punto aspettavo una risposta tipica 'da manuale sulla cultura rom', del tipo: "perché per una questione di purezza non posso sposarmi con loro". Ed invece:

P: "Perché il vostro matrimonio è troppo burocratico. Ci sono atti, il divorzio insomma [...]"

I: "Sì, ma anche il vostro matrimonio ha dei vincoli forti."

P: "Sì, ma non ci sono tutte quelle cose burocratiche, io se mi voglio lasciare vado da mio padre e mi lascio. Mio fratello ha avuto quattro matrimoni in pochi anni. Non capisco ... se due persone si vogliono bene possono stare insieme nella stessa casa senza avere l'obbligo di sposarsi."

I: "Sono d'accordo con te."

A questa risposta lei mi guarda stupita.

P: "ma come farai allora?"

I: "Vado a convivere senza sposarmi." (83)

Io e Patrizia, anche se le costruzioni esterne ci dividono, se il nostro sistema valoriale di riferimento può essere diverso, siamo unite su una questione: lo Stato non riconosce, a livello legislativo, il nostro modo di vivere una relazione affettiva. Forse a Patrizia la questione interessa molto meno di quanto possa interessare a me perché il gruppo relazionale e familiare nel quale lei è inserita, prevede tutta una serie di strumenti che sopperiscono a tale carenza. Lei stessa mi racconta il modo con cui si procede ad un divorzio nella sua comunità, alle relazioni esistenti tra padre e figlia, tra nuora e suoceri, delle tutele garantite dal gruppo nei confronti del singolo. Ovviamente il sistema non è chiuso, ma è fatto di continue relazioni con il mondo dei gagé che ha, inevitabilmente, condotto a dei mutamenti all'interno della comunità. Patrizia mi racconta che due delle sue cugine hanno voluto sposare degli italiani: un calabrese e un napoletano. Patrizia giustificava la decisione delle cugine affermando che essere calabrese e napoletano "è essere simili ai rom e diversi dagli italiani". Questo mostra come sia facile porre dei paletti, fatti generalmente di rappresentazioni negative e stereotipate, tra noi e l'altro, e di come questi paletti tendino a svanire e cambiare attraverso la conoscenza e l'interazione con l'altro. Dato che questa non è la sede per affrontare questioni così complesse, mi pare opportuno evidenziare i temi che questa vicenda mette in risalto rispetto alla questione giuridica. In primo luogo la vicenda evidenzia problemi d'incomprensione tra culture. Questi portano ad interrogarci sulla possibilità di in riconoscimento giuridico del matrimonio rom da parte dell'ordinamento statale. Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo prima capire cosa è quello che noi chiamiamo 'matrimonio rom', che cosa implica per la comunità di riferimento e se vi sono degli aspetti che confliggono con il diritto statale. Una volta risposto a questi interrogativi dobbiamo chiederci se esistano dei riconoscimenti a livello statale o europeo di questo rito, e in caso di esito negativo, cosa questo comporta per la posizione giuridica del singolo.

3.5.1 Ricostruzione del matrimonio rom in chiave antropologica

La famiglia, come abbiamo visto sopra, assolve una funzione fondamentale tanto nelle relazioni tra i vari gruppi rom che nella vita dell'individuo. Il matrimonio assume, così, una rilevanza portante all'interno della cultura rom. Cercherò di procedere ad una ricostruzione, di stampo antropologico, degli aspetti fondamentale della ritualità matrimoniale romanè, premettendo che la mia analisi parte tanto dall'opera Williams (84), che ha proposto una ricostruzione sistematica del mariage tsigane a seguito di un lavoro sul campo condotto tra i rom kalderas di Parigi, che delle interviste da me condotte presso i rom kosovari e macedoni dell'Olmatello di Firenze.

Possiamo dire che esistono due procedure matrimoniali seguite all'interno delle comunità rom: la procedura 'negoziata' e la procedura 'per fuga'. (85)

La procedura negoziata, presso i kalderas, ha inizio con il mangimos, che è un incontro tra i gruppi parentali dei due sposi in assenza di questi ultimi. Di fronte a quest'assemblea i due capi famiglia formalizzano, attraverso una serie di passaggi rituali, il loro accordo al matrimonio. L'accordo consiste nell'impegno, di una delle due parti, di dare una donna, che cambierà status (da figlia a sposa), mentre l'altra s'impegna a corrispondere una somma di denaro come 'prezzo della sposa'. Presso i rom Kosovari prima del matrimonio c'è il compromesso che consiste in un impegno solennizzato dalla dazione di un anello. In questo momento la famiglia del futuro marito paga una 'caparra'. Il matrimonio può avvenire anche dopo un anno o due se la ragazza è molto giovane.

In linea generale, il matrimonio rom viene classificato come un matrimonio 'per compera', dove è la famiglia della sposa a fare il prezzo. In origine erano i genitori o i nonni a combinare il matrimonio. Dalle testimonianze che ho raccolto tra coloro che hanno contratto matrimonio venti anni fa, risulta che era l'uomo ad indicare la donna prescelta come sposa alla sua famiglia, la quale poi procedeva alla contrattazione del 'prezzo' con quella della futura sposa. Il valore della donna, alla luce delle testimonianze raccolte, è dato da una serie di connotati fisici, ad esempio, altezza, lunghezza dei capelli o da particolari sue abilità.

Il prezzo pagato dalla famiglia del marito a quello della sposa è, da una parte, un ristoro per la perdita di una figlia e dall'altra una garanzia per la famiglia della sposa, poiché dimostra l'agiatezza della famiglia del marito presso la quale lei transiterà. Presso i Macedoni, invece, il prezzo pagato non è volto ad acquistare le donne ma a pagare la cerimonia nuziale.

L'altra procedura matrimoniale è il matrimonio per fuga. In caso di contrarietà delle famiglie al matrimonio, i due innamorati fuggono (una 'tradizione' diffusa anche nel meridione d'Italia) e poi ritornano insieme, ottenendo il perdono delle famiglie.

Una volta compiuti tutti gli atti preliminari, si procede alla celebrazione del rito matrimoniale. Il matrimonio ha una valenza sociale fondamentale, è il momento in cui la donna transita nella famiglia del marito. Nelle comunità kosovara il rito matrimoniale ha durata di tre giorni, si caratterizza per banchetti, musica e balli. Dai suggestivi racconti delle persone che ho intervistato, emerge che si tratta di una festa che coinvolge l'intera comunità, è un rito volto a portare alla conoscenza di tutti la nascita di una nuova famiglia.

Fondamentale è la verginità della donna al momento del matrimonio, tanto che, il primo giorno dopo le nozze, si realizza un rituale volto ad accertarla. Dopo che i due coniugi hanno consumato per la prima volta, le donne del gruppo familiare, che abbiano compiuto cinquanta anni, entrano nella camera coniugale e accertano la verginità femminile. Questo è un momento fondamentale del matrimonio perché la verginità è garanzia della successiva paternità del marito. Se, a seguito del controllo, la donna non risultasse vergine, il marito può abbandonarla, in questo caso lei ritorna nella famiglia di origine oppure può comunque accettarla dichiarando che è con lui che ha perso la verginità. La procreazione di un figlio diviene una questione che riguarda l'intera comunità che vuole una garanzia sulla paternità del futuro nato. Le donne trasmettano alle loro figlie il valore della verginità ancora oggi. Ho raccolto testimonianze di donne che, se pur accettano che le loro figlie possano vestire e uscire in modo libero, pretendono da loro la verginità.

Il divorzio si realizza quando la donna abbandona o è costretta ad abbandonare, la casa del marito per ritornare in quella familiare. In questo caso suo padre dovrà pagare un prezzo alla famiglia del marito. Taluni, che ho intervistato, sostengono che deve pagare il doppio altri la metà del prezzo che era stato pagato per l'acquisto. La figlia divorziata è subito ridata in sposa. L'abbandono della famiglia da parte della moglie è un elemento di disonore per cui, generalmente, le figlie sono risposate all'estero lontano dalla comunità dove si è realizzata la separazione. E' comune che le separazioni avvengano prima del concepimento di figli. Nel caso di divorzio alla presenza di figli, la regola è che i figli maschi restino con la famiglia del marito. Per le figlie femmine, pur vigendo la stessa regola, ci sono margini di contrattazione. Alla luce di questo, la donna rom, che aderisca completamente a questa regola, non può fruire delle tutele riconosciute dal nostro ordinamento che spesso le consentirebbero di avere l'affidamento dei figli.

Uno dei temi più controversi, quado si parla di matrimonio rom, è quello dell'età dei due sposi. I rom si sposano una volta raggiunta la pubertà, intorno ai 12-15 anni, i maschi possono essere anche più grandi. Dobbiamo però precisare che negli ultimi anni si è assistito ad un innalzamento dell'età matrimoniale e che tale regola non vale e non è condivisa da tutti i gruppi. L'aspetto dell'età matrimoniale è quello che crea maggiore confliggenze tra la 'norma rom' e la legge italiana, infatti, l'età in cui è consentito contrarre matrimonio presso i rom, è diversa rispetto a quella prevista dal diritto italiano. In Italia è possibile contrarre matrimonio una vola raggiunta la maggiore età con una sola eccezione, quella del minore emancipato. Una volta raggiunti i sedici anni, il Tribunale per i Minorenni, su istanza dell'interessato, accertata la sua maturità psico-fisica e la fondatezza delle ragioni addotte, sentito il pubblico ministero, i genitori o il tutore, può, con decreto emesso in camera di consiglio, ammettere per gravi motivi al matrimonio chi abbia compiuto i sedici anni.

Il matrimonio celebrato con rito Rom, non è riconosciuto dallo Stato italiano, ma è l'unico che conta per la comunità rom, infatti, è da questo momento che ha inizio la vita matrimoniale. Ovviamente questo mancato riconoscimento ha portato molti gruppi rom ad adeguarsi ad esempio tra i rom kosovari è oramai abituale procedere alla registrazione dell'unione in comune, ma questa ha scarsa rilevanza, "è una formalità richiesta dai gagé". Quest'adeguamento, seppur formale, alle regole gagé, costituisce una conferma di quanto dicevamo prima riguardo alla non impermeabilità del 'mondo rom a quello gagé', che ci ha portato a concludere che, nel caso dei rom, non ci troviamo di fronte ad un ordinamento giuridico chiuso. Infatti, le norme tradizionali, vanno a disciplinare solo alcuni ambiti della vita relazionale del singolo, ad esempio quelli famigliari, per il resto il soggetto è chiamato a rispondere e a rivolgersi, anche ai fini di una tutela, ad altre norme come quelle statali, comunali, regionali, europee.

I problemi si pongono nelle così dette 'zone di confine' tra due sistemi, come nel caso in cui il legislatore statale riconosca taluni diritti, subordinandoli all'esistenza di un matrimonio civile (o ad esso equiparato). In questo caso il soggetto che celebri il matrimonio rituale senza procedere alle formalità previste dallo Stato italiano, si trova escluso dalla possibilità di accedere a tali diritti.

3.5.2 Il caso Muñoz Díaz c. Regno di Spagna

Procediamo all'analisi dalla giurisprudenza della CEDU in materia di matrimonio rom, al fine di valutare il ruolo che questa pronuncia può avere rispetto al sistema italiano. Il giudice europeo ha avuto una sola occasione per pronunciarsi sulla questione: il caso Muñoz Díaz contro Regno di Spagna del 2009. Rispetto agli altri casi che hanno riguardato i rom, qui la Corte è stata chiamata a pronunciarsi in relazione ad un istituto della tradizione rom, che prossimo definire strutturato, poiché si fonda su regole e formalità rigide. In questo caso un eventuale riconoscimento da parte del giudice, può portare all'ammissione dell'esistenza di regole e istituti che rinvengono la loro fonte fuori dallo Stato ma che possano produrre effetti giuridici all'interno del sistema statale. Per cui, alla luce delle nuove politiche in materia di diversità intraprese a livello europeo, è interessante analizzare la posizione assunta dal giudice della CEDU, nel caso in cui, una realtà estranea al contesto Statale come il matrimonio rom, 'richieda' un riconoscimento.

Riassumendo brevemente i fatti, la signora Maria LuisaMuñoz Díaz, cittadina spagnola, contrae, nel 1971, matrimonio con rito rom senza procedere ad una sua registrazione presso i pubblici registri di stato civile. Dall'unione nascono sei figli, e negli anni Ottanta la donna ottiene benefici economici che la legge spagnola (86) prevedeva a favore delle famiglie numerose. Nel 2000, la donna rimane vedova e chiede all'Instituto Nacional de la Seguridad Social (INSS), il versamento della pensione di reversibilità, a lei spettante poiché il marito aveva provveduto ai versamenti contributivi per diciannove anni. L'INSS nega il beneficio pensionistico in quanto, la donna non aveva contratto alcun matrimonio ai sensi del diritto spagnolo, andando così a mancare un requisito indispensabile per la maturazione della pensione. La donna impugna la decisione di fronte all'autorità giudiziaria spagnola che, rispetto a questo caso, ha tenuto due diverse posizioni.

  • Il Tribunal Central de Trabajo, il quale accoglie le pretese della signoraMuñoz Díaz. Il giudice argomenta la sua decisione sul fatto che il mancato riconoscimento di effetti civili al matrimonio gitano da parte del legislatore spagnolo, è contrario alle norme di diritto internazionale (87) e comunitario (88) sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza, di parità di trattamento e di non discriminazione. Il tribunale pone l'accento sul fatto che in Spagna riti religiosi estranei alle tradizioni spagnole sono contemplati dal diritto, mentre quello gitano non trova nessun riconoscimento.
  • Tribunal Supremo de España e Tribunal Constitucional: queste due giurisdizioni respingono le pretese della signoraMuñoz Díaz, revisionando la decisione del tribunale di primo grado, poiché, ad avviso di questi giudici, la disciplina matrimoniale spagnola non contiene nessuna disparità di trattamento. Infatti, in base all'art 49 del codigo civil, ogni cittadino spagnolo può optare per una unione civile. Per cui, non vi è alla base della disciplina previdenziale alcuna discriminazione raziale o etnica, ma semplicemente la volontà di fondare il sistema previdenziale sulla libera scelta dei cittadini di formalizzare o meno le loro unioni seguendo le regole matrimoniali civili o religiose.

Muñoz Díaz, ricorre alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, facendo valere: tanto, una violazione dell'art. 14 CEDU in relazione all'art. 1 del Protocollo n. 1, che una violazione dell'art. 14 in combinato disposto con l'art. 12.

Alla luce del ricorso presentato dalla donna, la Corte di Strasburgo è chiamata a giudicare se il diniego, relativo alla prensione di reversibilità, integri o meno una violazione del divieto di discriminazione per motivi di razza (art 14 CEDU) in relazione alla lesione del diritto di proprietà (art. 1 Prot. n.1), dovendosi ricondurre, nell'ambito di tale diritto, le prestazioni sociali e previdenziali garantite dallo Stato. (89)

La Corte nell'analizzare la fattispecie sottoposta al suo giudizio, reputa che in quest'ipotesi l'art. 14 rilevi nella sua accezione di 'divieto di trattare diversamente fattispecie analoghe in mancanza di un'obbiettiva e ragionevole giustificazione.'

Ad avviso della Corte, l'assimilazione fatta dall'autorità spagnola del matrimonio gitano ad una mera convivenza more uxorio integra gli estremi di una discriminazione ai danni della donna. La Corte rilava una difformità di trattamento ingiustificata da parte della giurisprudenza spagnola che, in passato, ha qualificato fattispecie, del tutto analoghe, alla stregua del matrimonio nullo assistito dalla convivenza in buona fede di avere contratto un matrimonio pienamente valido: ipotesi questa, prevista e ammessa dalla disciplina in materia di pensione di reversibilità. (90)

Ad avviso della Corte, depongano a favore della buona fede della ricorrente una serie di circostanze oggettive e soggettive: il comportamento dell'amministrazione spagnola che per molti anni ha garantito i benefici economici per le famiglie numerose, raccogliendo i versamenti del sig. Muñoz, e riportando nei vari documenti la dicitura 'sposa/o'; l'ammissibilità, negli anni Ottanta, del solo matrimonio con rito cattolico; ed infine, la convinzione diffusa all'interno della comunità rom, radicata da tempi immemorabili sul territorio spagnolo, che il matrimonio celebrato secondo riti rom sia valido e non contrario ai principi di ordine pubblico e moralità.

Alla luce di questi elementi la Corte riconosce la violazione dell'art. 14 in combinato disposto con l'art 1 del protocollo n.1.

La Corte, però, reputa che il mancato riconoscimento giuridico da parte dell'ordinamento spagnolo del matrimonio rom, non costituisce di per sé una violazione dell'art 14. in relazione al diritto a contrarre matrimonio ex art 12. (91) Infatti, ad avviso dei giudici la disciplina spagnola, in materia di matrimonio civile consente a tutti, senza alcuna limitazione su base razziale o etnica, di unirsi in matrimonio.

Questa sentenza, anche se non si spinge sino a riconoscere in capo agli Stati un obbligo di provvedere a disciplinare riti matrimoniali che trovano il loro fondamento in altri sistemi valoriali e culturali, rappresenta sicuramente un'apertura, rispetto alla totale indifferenza verso il fattore etnico, senza però spingersi sino ad un suo totale riconoscimento.

Come sottolinea Casabona, tra le righe della sentenza emerge un altro aspetto rilevante, infatti "da una lettura attenta della decisione, pare emergere -seppur non enunciato espressamente- l'argomento discriminatorio per differenza." (92)

Per cui, in questo caso, l'art 14 deve leggersi come 'trattare in modo diverso situazioni diverse' riconoscendo che l'appartenenza ad una comunità rom, deve rilevare per garantire un'effettiva uguaglianza della persona di fronte al diritto. Per cui, l'eguale trattamento degli individui in situazioni analoghe rischia di negare le loro peculiarità identitarie, omologandoli alla cultura della maggioranza. La Corte, quindi sembrerebbe, seppur tra le righe, aver superato l'idea di un'uguaglianza come sameness, andando a considerare la differenza come aspetto necessario, del quale, si deve tener conto per la tutela del singolo. Nel caso di specie l'indifferenza normativa rispetto alle differenze culturali delle minoranze, si traduce in un trattamento discriminatorio. (93)

Andiamo ad analizzare i passi della sentenza che confermerebbero tale aspetto: "se è vero che l'appartenenza ad una minoranza non comporta di per sé eccezioni nella disciplina generale del diritto matrimoniale, tale affiliazione può avere qualche effetto nell'applicazione pratica di tale normativa." (94) La Corte aggiunge, come aveva già affermato in casi precedenti, (95) che "la vulnerabilità della comunità gitana impone una particolare attenzione alle necessità e al peculiare stile di vita della stessa, tanto nella disciplina legale quanto nell'applicazione del diritto al caso concreto" (96)

Questa pronuncia suona come un invito tanto rivolto al legislatore a provvedere ad una disciplina legale che tenga conto delle peculiarità di questo gruppo, dall'altra ad un invito rivolto ai giudici e operatori giuridici di tener conto del contesto culturale del soggetto rom nel momento applicativo delle norme giuridiche.

Ancora più rilevante è la posizione generale espressa dalla Corte rispetto al tema della diversità, che sembra confermare il mutamento paradigmatico che si sta attuando a livello europeo e cioè un passaggio da un'eguaglianza come sameness, costruita su valori omologati della maggioranza, alla tutela della diversità come interesse pubblico da perseguire, aprendo la strada a letture più 'avanguardistiche' del principio di eguaglianza. La Corte, richiamando la Convenzione Quadro per la Protezione delle Minoranze Nazionali, si spinge ad affermare che una speciale tutela va accordata non solo per salvaguardare gli interessi delle minoranze, ma "per preservare la diversità cultuale che è un valore dell'intera comunità". (97)

3.5.3 Riconoscimento del matrimonio rom in Italia

Il problema che andiamo ad affrontare riguarda la posizione assunta dal nostro ordinamento, rispetto al riconoscimento del matrimonio rom. Quest'ultimo è un istituto che rinviene le sue radici nella cultura rom, per cui in un sistema valoriale e culturale estraneo a quello statale.

I problemi emergono quando la legge italiana considera il matrimonio, ovviamente quello celebrato con le formalità previste dalle norme statali, come condizione per l'accesso ad alcuni diritti. Pensiamo ad esempio alla materia dell'immigrazione, qualora i componenti della coppia siano stranieri o apolidi (ricongiungimento familiare, divieto di espulsione); alla materia previdenziale; all'accesso ad alcuni servizi sociali, come l'alloggio di edilizia residenziale pubblica.

La mancata rilevanza del matrimonio rom, nel sistema statale, comporta quindi delle limitazioni, spesso anche concernenti diritti fondamentali, per quelle persone che scelgono di aderire alla propria tradizione, senza provvedere alla formalizzazione del matrimonio come richiede la legge italiana.

La giurisprudenza ha avuto alcune occasioni per pronunciarsi sulla questione della validità del rito matrimoniale rom ai fini del nostro ordinamento. Dalle pronunce delle più alte giurisdizioni, emerge la volontà dei giudici di non riconoscere alcuna efficacia a tale rito, equiparandolo ad una convivenza more uxorio.

La questione del riconoscimento del matrimonio rom, da parte dello Stato italiano, è una questione che rileva in materia d'immigrazione, in particolare, al fine di evitare l'espulsione, ai sensi dell'articolo 19 comma 2 lett. D del D.Lgs 286/98 (novellato da Corte costituzionale 376/00.) (98). Questa disposizione sancisce il divieto di espulsione nei confronti di una donna in stato gravidanza e nei sei mesi successivi dalla nascita del figlio, divieto esteso anche a favore del marito a seguito della novellazione della Corte Costituzionale del 2000.

La Corte di Cassazione (99) ha avuto occasione di pronunciarsi in un caso, che vedeva coinvolto un cittadino rom rumeno, D.H, nei confronti del quale il prefetto aveva disposto, con decreto, l'espulsione ai sensi dell'art 13.3 let b del D.Lgs 286/1998 e avverso il quale D.H aveva presentato ricorso al tribunale. Il tribunale accoglie il ricorso adducendo che nel caso di specie non si può procedere all'espulsione, in quanto, il ricorrente era sposato, anche se con rito rom, con donna in stato di gravidanza. Il prefetto di Pescara presenta ricorso in Cassazione. Questa stabilisce che ai fini dell'espulsione il matrimonio rom deve essere registrato nello Stato di provenienza. "Gli extracomunitari nomadi che non sono in regola con il permesso di soggiorno non possono evitare di essere espulsi facendo presente lo stato di gravidanza della moglie sposata con rito 'rom'". Il tribunale avendo ritenuto sufficiente, per la sussistenza del matrimonio, il rito rom, senza ulteriori accertamenti presso lo Stato di origine, ha dato luogo ad "un'interpretazione irragionevolmente estensiva della norma, a danno dell'interesse nazionale al controllo dell'immigrazione". Secondo la Suprema Corte, il divieto di espulsione deve essere applicato al "rapporto che di fatto e di diritto possa qualificarsi come coniugio". La sola "documentazione di matrimonio celebrato con il rito 'rom'" non è sufficiente: il matrimonio "deve trovare il suo riconoscimento nell'ordinamento giuridico dello Stato di appartenenza". (100)

La Corte Costituzionale, nella sentenza nella quale ha esteso il divieto di espulsione anche a favore del marito di donna incinta, ha rilevato che la ratio della norma si rinviene nell'esigenza di tutelare la salute della donna nel periodo immediatamente susseguente al parto e di proteggere il rapporto che in tale periodo, necessariamente, si svolge tra madre e figlio. La norma rientra tra quelle che prevedono il divieto di espulsione dello straniero per ragioni di carattere umanitario che si giustifica, oltre che alla luce delle ragioni sopra addotte, anche per "l'esigenza di assicurare una speciale protezione alla famiglia in generale, e ai figli minori in particolare, che hanno il diritto di essere educati all'interno del nucleo familiare per conseguire un idoneo sviluppo della loro personalità". La Corte, infine, rileva come "il diritto e il dovere di mantenere, istruire e educare i figli, e perciò di tenerli con sé, e il diritto dei genitori e dei figli minori ad una vita comune nel segno dell'unità della famiglia, sono diritti fondamentali della persona che perciò spettano in via di principio anche agli stranieri". (101)

Il problema che la sentenza della Corte di Cassazione pone è se un matrimonio che, se pur non riconosciuto nel nostro ordinamento, trova fondamento e rilevanza in una comunità culturalmente radicata come i rom, debba essere trattato alla stregua di una unione di fatto.

La Cassazione ha reputato che, la ratio dell'intervento additivo della Corte Costituzionale dovesse rinvenirsi nell'esigenza di proteggere e tutelate un matrimonio riconosciuto dall'ordinamento giuridico e non il semplice legame di convivenza fondato su rito non riconosciuto. Dichiarando di non accettare un'interpretazione estensiva della norma, ha sancito una supremazia dell'interesse nazionale al controllo dell'immigrazione su quello degli affetti, della famiglia, anche se per il nostro ordimento solo di fatto, e soprattutto ha prevaricato l'interesse del nascituro a vivere con entrambi i genitori. La Cassazione ha reputato che l'interesse nazionale potesse essere sacrificato solo a fronte di un matrimonio formalizzato e non a fronte di un matrimonio informale anche se sostanzialmente identico. Questa pronuncia mette in luce come il nostro ordinamento sia ingessato e legato a formalismi, incapace di mediare con culture diverse dalla nostra, che attribuiscono valore alla consuetudo vitae piuttosto che alla formalità matrimoniale, con il paradosso di non riconoscere un legame familiare, in comunità dove questo è sentito in modo forte, dove i rapporti sono prevalentemente famigliari. Tutto questo porta ad erigere delle barriere tra culture che creano incomprensioni e confitti.

Questa posizione della Cassazione è stata confermata dal Consiglio di Stato che ha sancito la legittimità del diniego del permesso di soggiorno ad una donna rom. Nel caso di specie, il giudice ha considerato decisivo che la ricorrente non avesse dimostrato il rapporto di parentela o coniugio con uno straniero o con un cittadino comunitario regolarmente soggiornante in Italia, reputando, al riguardo, semplicemente irrilevante l'appartenenza all'etnia rom da parte della donna. (102)

Queste due pronunce mettono in luce una totale indifferenza da parte del giudice italiano dell'appartenenza culturale del ricorrente, scegliendo la strada più facile della supremazia indiscussa del dettato legislativo, senza interrogarsi sulle questioni che concernano le differenze culturali ed una eventuale violazione del principio di uguaglianza 'declinato alla differenza'(trattare diversamente situazioni diverse).

3.5.3.1 Alcuni spunti di riflessione sul matrimonio rom in Italia, a seguito della sentenza Muñoz Díaz c. Regno di Spagna della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo

Partendo dall'inquadramento giurisprudenziale del matrimonio rom come mera convivenza more uxorio, andiamo, ad analizzare gli eventuali mutamenti o spunti che la sentenza Muñoz Díaz della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, può apportare nel nostro ordinamento. Come sappiamo, la Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali, nell'interpretazione che di essa fornisce la Corte di Strasburgo, condiziona la legittimità costituzionale delle leggi interne, costituendo parametro interposto di costituzionalità, (103) e obbliga quindi il legislatore ad adeguarvisi. Tuttavia, dalla sentenza Muñoz Díaz non sembra doversi trarre alcuna indicazione nel senso della contrarietà alla Convenzione Europea della legislazione italiana per il mancato riconoscimento di effetti civili al matrimonio rom, non ponendo così nessun obbligo in capo al legislatore. La pronuncia, però, sembra aprire uno spiraglio per qualche forma di riconoscimento, superando la politica della totale indifferenza verso le diversità che sino ad oggi, il nostro ordinamento ha seguito.

In Italia, come abbiamo visto sopra, il matrimonio rom è equiparato ad una convivenza more uxorio, senza poter produrre nessun effetto giuridico, neppure quello di un matrimonio putativo. Le sentenze sopra analizzate, che negano una qualsiasi rilevanza del rito matrimoniale rom, mettono in luce una questione di difficile soluzione giuridica e cioè, come l'ordinamento deve porsi intorno al concetto di famiglia. La famiglia è una realtà metagiuridica è il primo momento di esperienza collettiva per l'individuo, da qui, la difficoltà, per l'ordinamento, circa il modo di considerarla. Da una parte c'è chi sostiene, in nome di una libertà individuale, l'esigenza da parte del legislatore di astenersi da una regolamentazione, significative sono le parole di Jemolo che, nel rilevarne l'essenza metagiuridica, sostiene che:

La famiglia appare [...] come un'isola che il mare del diritto può lambire soltanto [...] la famiglia è la rocca sull'onda, ed il granito che costituisce la sua base, appartiene al mondo degli affetti, agl'istinti primi, alla morale, alla religione, non al mondo del diritto. (104)

Dall'altra abbiamo chi sostiene l'esigenza, per lo Stato, di regolare tutto ciò che è al suo interno.

La questione di come l'ordinamento percepisce e recepisce il concetto di famiglia è fondamentale, nella misura in cui questa rilevi in leggi, come quelle in materia di immigrazione, nelle quali, sono in gioco diritti umani, valori dell'uguaglianza e della sicurezza pubblica. Da questo punto di vista il riconoscimento della validità del rito rom dovrebbe essere funzionale ad una effettiva tutela del singolo, soprattutto se pensiamo al fatto che generalmente si contrae tale matrimonio in giovanissima età. Ma la questione non si frema qui. Infatti, il matrimonio rom, trovando fondamento in un sistema culturale, estraneo a quello statale, solleva la questione della posizione che il nostro ordinamento intende adottare rispetto al tema delle diversità culturali.

La posizione assunta dalla giurisprudenza italiana, non può essere soddisfacente, infatti, come sottolinea Morozzo della Rocca, il matrimonio rom non è una consuetudine formatasi all'interno dell'ordinamento giuridico italiano, come tale in primo luogo inapplicabile perché contra legem, ma piuttosto una consuetudine vincolante all'interno di un diverso ordinamento, il quale esiste in fatto, sebbene non goda di riconoscimento attraverso gli strumenti del diritto internazionale e italiano. Questa è la ragione prima che dovrebbe condurre a riconoscere al matrimonio rom una posizione differenziata rispetto alla semplice convivenza. Ciò nel senso, almeno, di una sorta di putatività del matrimonio rom, magari limitata ad effetti, per così dire periferici o, secondo una certa terminologia internazional-privatista, attenuati, nell'ambito ad esempio del diritto dell'immigrazione, (105) oppure funzionali a riconoscere l'accesso ad alcuni diritti sociali.

Da questo punto di vista, la giurisprudenza della CEDU sembra aver aperto degli spiragli nell'attribuire un qualche effetto al matrimonio rom. Gli aspetti rilevanti della pronuncia sono due:

  • il riconoscimento, da parte del giudice, che gli effetti che il gruppo rom attribuisce al matrimonio gitano, possono portare il singolo a ritenere in buona fede, di aver contratto un matrimonio valido e non contrario all'odine pubblico, conferendo, così, a questo matrimonio una valenza fattuale superiore rispetto ad una mera convivenza. La Corte Europeo attraverso la tutela dell'affidamento soggettivo fa penetrare nel contesto giuridico statale l'appartenenza culturale del soggetto, la quale, non può più essere indifferente per il giudice chiamato a decidere nel caso concreto.
  • La presa di coscienza, da parte della Corte di Strasburgo del fatto che "la vulnerabilità della comunità gitana impone una particolare attenzione alle necessità e al peculiare stile di vita della stesa, tanto nella disciplina legale quanto nell'applicazione del diritto al caso concreto", (106) ponendo la questione del matrimonio rom nell'ambito della tutela, seppur indiretta, di un gruppo che ha dei connotati culturali particolari, dei quali l'istituto matrimoniale ne costituisce un esempio.

Questa pronuncia fa venir meno, in prima battuta, l'impossibilità di considerare il matrimonio rom come un istituto consuetudinario, in quanto l'eventuale consuetudine sarebbe contra legem, la Corte infatti ritiene che la buona fede del singolo è fondata sulla valenza che la comunità rom attribuisce al suo rito matrimoniale. Alla luce della sentenza Muñoz Díaz, una consuetudine che fonda le sue radici in un sistema estraneo a quello Statale, penetra in quest'ultimo, attraverso l'affidamento soggettivo, aprendo la strada ad interessanti applicazioni da parte del giudice.

Oltre all'aspetto della buona fede, la sentenza Muñoz Díaz introduce altri interessanti spunti di riflessione. Secondo la Corte, alla luce delle peculiarità culturali e sociali del gruppo rom, sarebbe opportuno, da parte degli Stati, provvedere a modificare, tanto il dettato legislativo, che la modalità di applicazione della legge esistente, in modo da tener conto della particolare situazione in cui questi si trovano. La Corte, come abbiamo visto sopra, fra le righe, sancisce che l'uguaglianza nei confronti dei rom, in quanto portatori di una propria specificità culturale e sociale, si può realizzare solo attraverso un trattamento differenziato. Alla luce di questa posizione, gli Stati non possono più essere indifferenti nei confronti del fenomeno matrimoniale che si realizza all'interno della comunità rom, e che si esplica con ritualità e credenze che fondano le loro radici in secoli di storia. La posizione che equipara il matrimonio rom a una mera convivenza more uxorio non è più soddisfacente alla luce degli indirizzi della Corte Europea.

Allo stato attuale, una possibile via per riconoscere l'esistenza giuridica del matrimonio rom nel nostro ordinamento, è quella di ricorrere a criteri tecnico-teorici elaborati in via dottrinale e giurisprudenziale. La materia della riconoscibilità di riti matrimoniali, che fondano le loro radici in comunità culturali estranee all'ordinamento italiano e da questo non riconosciti, non è un argomento estraneo alla giurisprudenza italiana e non riguarda solo i rom. Da questo punto di vista un'interessante spunto di riflessione ci previene da una pronuncia della Corte di Cassazione del 2000, (107) nella cui motivazione pare emergere l'esigenza di tenere in vita, in ogni modo, un rapporto matrimoniale anche se costituito senza l'osservanza delle norme sulla celebrazione. (108)

La vicenda della quale andiamo a trattare riguarda un matrimonio celebrato in Italia, secondo il rito religioso ebraico, tra un cittadino israeliano e una cittadina italiana, in violazione dell'allora vigente art. 26 disp. prel. c.c., poiché celebrato davanti a un celebrante non legittimato dalla legge italiana (come i due sposi ben sapevano) e perciò, ovviamente, mai stato trascritto nei registri dello stato civile italiano. In questo caso ci troviamo di fronte ad un'ipotesi molto simile a quella del matrimonio rom poiché, i due protagonisti della vicenda, avevano contratto un matrimonio perfettamente valido per la comunità ebraica alla quale appartenevano, ma non riconosciuto dallo Stato, mancando le formalità previste dalla legge.

Nel caso di specie la Cassazione ha sancito che "il matrimonio tra una cittadina italiana e un cittadino israeliano celebrato in Italia con il rito religioso ebraico", senza il rispetto della forma, così come richiede la legge, "deve ritenersi nullo, ma non inesistente". (109)

Per comprendere l'importanza che questa pronuncia può avere nel caso del matrimonio rom, dobbiamo guardare alla ratio che ha spinto il giudice ad adottarla. Il giudice è ricorso alla discussa distinzione dottrinale tra inesistenza e nullità del matrimonio, (110) al fine di attribuire una rilevanza giuridica ad una unione, che, nel caso di specie, durava da più di trent'anni, seppur mancante dei requisiti formali richiesti dallo Stato italiano per la sua esistenza.

Ad avviso del giudice di legittimità, "la categoria dell'inesistenza, per distinguerla da quella dell'invalidità, richiede necessariamente dei riferimenti ad aspetti fattuali e ricorre pertanto quando manchi 'quella realtà fenomenica che costituisce la base naturalistica della fattispecie.' (Cass. 1808-76) e che nel matrimonio è ravvisabile in assenza dei requisiti minimi essenziali, costituiti dal fatto che due persone di sesso diverso abbiano manifestato la volontà matrimoniale davanti ad un ufficiale celebrante." (111) Nella fattispecie sottoposta alla sua analisi, la Corte ha stabilito che vi fossero i requisiti minimi, "per la giuridica configurabilità del matrimonio": volontà matrimoniale, diversità di sesso e presenza di un ufficiale celebrante. Per cui, il matrimonio produce parimenti i suoi effetti a nulla rilevando, nel caso di specie, la violazione dell'art. 26 disp. prel. (ora abrogato dalla l. 31 maggio 1995 n. 218, sulla riforma del diritto internazionale privato).

Alla luce di questa posizione assunta dal giudice di legittimità, dobbiamo chiederci se, nella ritualità del matrimonio romané, vi siano i tre requisiti che fondano 'la base naturalistica della fattispecie matrimoniale', funzionali a ravvisare nel nostro ordinamento l'esistenza di un istituto matrimoniale, anche in assenza delle formalità richieste dal legislatore. Nel caso del matrimonio rom sicuramente, ci troviamo di fronte a due persone, di sesso opposto, che esprimono la volontà di sposarsi. Per quanto riguarda il terzo requisito indicato dalla Cassazione come necessario per ravvisarsi la base naturalistica della fattispecie funzionale a riconoscere l'esistenza dell'istituto, e cioè, la presenza di un pubblico celebrante, la questione è più dibattuta. Nella sentenza sopra esaminata, la celebrazione di fronte ad un Rabbino non era tale da condurre all'applicazione dell'art. 131 c.c, (112) però, date le circostanze, (113) la presenza del religioso era tale da "ravvisare l'esistenza, "nella realtà fenomenica" del luogo in cui è avvenuta la celebrazione, di un ufficiale celebrante e cioè di uno dei requisiti minimi richiesti, come si è già evidenziato, per la sua esistenza." (114)

Nel caso del matrimonio rom, una parte della dottrina reputa che sia difficile ravvisare la presenza di un ufficiale celebrante poiché, "nel caso di quel matrimonio ebraico celebrato nel 1960 il rabbino capo di Genova possedeva ben altra apparenza e dignità di celebrante che non quell'anarchico negoziare e festeggiare dei campi rom sotto lo sguardo compiaciuto dei capifamiglia." (115) Questa posizione, che io non condivido, è dettata dal fatto che la materia che stiamo analizzando si pone in una, così detta, 'zona di confine' tra due sistemi culturali e valoriali che ci porta a dover analizzare la vicenda nel più ampio quadro delle tematiche sul multiculturalismo, portandoci ad una riflessione concernete le scelte di fondo che il nostro ordinamento intende assumere in relazione al grande tema del pluralismo sociale e culturale esistente nel nostro territorio.

La posizione di chi sostiene che la presenza di un ministro di culto religioso abbia più dignità della ritualità rom, si fonda su un'incomprensione culturale cioè, sul voler leggere una realtà estranea all'orizzonte culturale della maggioranza, con criteri, valori ed idee espressione di quest'ultima. Come abbiamo analizzato nel capitolo precedente, il nostro costituente, aderendo a quello che Pastore chiama un 'pluralismo culturale tipizzato', attribuisce rilevanza giuridica esclusivamente a due aspetti culturali: la lingua e la religione. In linea con questa posizione, il nostro legislatore riconosce la possibilità che, matrimoni celebrati secondo ritualità religiose estranee all'ordinamento statale, possano produrre effetti civili. (116) Il matrimonio rom non può rientrare in questa categoria perché trova il suo fondamento non in un rito religioso ma sociale, nel quale è la presenza e il coinvolgimento del gruppo ad attribuire validità ad esso. Questo però non significa, che ci troviamo di fronte ad un rito 'anarchico'. Come ho messo in luce nel paragrafo 3.5.1, esso è dominato da una ritualità e da regole precise che i componenti del gruppo sono tenuti a rispettare affinché il matrimonio sia riconosciuto dalla loro comunità. In questo caso la figura dell'ufficiale celebrante è sostituita da una serie di condotte che i due sposi sono tenuti a rispettare.

Alla luce delle ricostruzioni antropologiche e sociologiche non si può certo negare, dal punto di vista fenomenologico, l'esistenza di un istituto matrimoniale rom. Questa esistenza è riconosciuta anche dalla CEDU, la quale, fonda la prova della buana fede della ricorrente sul valore attribuito dalla comunità rom al matrimonio gitano, inoltre, invita gli Stati ad un suo riconoscimento (non si può chiedere il riconoscimento di qualche cosa che non esiste). Una volta sostenuto che il matrimonio rom può essere considerato giuridicamente esistente nel nostro ordinamento, il giudice italiano, non può più limitarsi a considerare il matrimonio rom come una mera convivenza.

Questa argomentazione, però, desta alcune perplessità. Infatti, ciò che con essa si vuole dimostrare è la presenza, nella ritualità del matrimonio rom, di tutti quei requisiti necessari per potertelo riconoscere esistente in relazione alle categorie teorico-argomentative previste dal nostro sistema. In questo caso la prova dell'esistenza del matrimonio rom nel nostro ordinamento, si realizza attraverso un argomento teorico-dottrinale, volto a dimostrare l'esistenza del matrimonio rom sulla base gli stessi criteri di forma considerati costituitivi del matrimonio all'interno dell'ordinamento statale e cioè: volontà espressa da due persone di sesso diverso di fronte ad un ufficiale celebrante. Questi criteri di valutazione però, trovando fondamento nel nostro sistema valoriale, facilmente non si adattano al rito rom, basti pensare al problema sopra evidenziato della possibilità di ravvisare la presenza di un pubblico celebrante. L'adattamento di questi criteri alla realtà rom, richiede un'apertura dei giudici alla disciplina antropologica la quale, favorendo una conoscenza del 'mondo matrimoniale' rom, consente di fatto, di trovare degli escamotage intellettuali per adattare un criterio (come quello della presenza di un pubblico celebrante), ad una realtà estranea al nostro orizzonte culturale. Quest'argomentazione tecnico-teorica offre la possibilità di rileggere il matrimonio rom alla luce dei criteri di validità richiesi dall'ordinamento statale, consentendo al giudice di riconoscerne l'efficacia. Nonostante questo, porre la questione del matrimonio rom in termini rigidamente formalistici è eccessivamente riduttivo.

Al di là di questa argomentazione teorico-dottrinale, il riconoscimento del matrimonio rom può trovare fondamento nella materia più ampia e discussa, del rispetto delle differenze culturali. Sono da leggersi proprio in questo senso gli inviti, rivolti dalla Corte Europea agli Stati, di intervenire al fine di promuovere e riconoscere le specificità culturali dei rom. L'appartenenza ad una minoranza non può più destare indifferenza nel legislatore, qualora si voglia garantire un'effettiva tutela al soggetto. Come sostiene la Corte di Strasburgo "se è vero che l'appartenenza ad una minoranza non comporta di per sé eccezioni nella disciplina generale del diritto matrimoniale, tale affiliazione può avere qualche effetto nell'applicazione pratica di tale normativa". Da qui l'invito agli Stati ad adeguare la propria legge e l'interpretazione che di questa se ne danno, alle peculiarità della minoranza rom.

Un altro spunto di riflessione deriva dall'art 8 della CEDU. Come abbiamo visto sopra la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, pronunciandosi in alcuni casi, ha sancito che, nelle maglie dell'art 8. CEDU, che riconosce il 'diritto al rispetto della vita privata e famigliare', trova tutela anche il rispetto di un 'traditional lifestyle'. In varie sentenze, la Corte ha riconosciuto, attraverso l'art. 8, una tutela allo 'stile di vita romané' che, nei casi esaminati è sempre stato ricondotto al nomadismo. (117) Alla luce dell'importanza che il matrimonio rom ha all'interno della sua comunità, mi sembrerebbe opportuno ricomprendere nel concetto di 'stile di vita romané' questa piratica. Dall'art. 8, inoltre, deriva un obbligo positivo in capo allo Stato di adottare azioni volte a consentire e garantire l'effettivo godimento di questo diritto. Alla luce di questo possiamo sostenere che il riconoscimento del matrimonio rom si può inscrive nell'esigenza di tutelare il diritto alla vita privata 'declinato alla differenza', invitando gli Stati ad adottare delle misure per renderlo effettivo.

Dati tutti questi inviti provenienti dal livello europeo, non mi sembra più sostenibile la posizione del giudice nazionale di ricondurre il matrimonio rom alla mera convivenza more uxorio. Le richieste di riconoscimento delle specificità rom provenienti dalla Corte di Strasburgo, potrebbero essere utilizzate dai giudici nazionali per riconoscere una qualche efficacia al matrimonio rom, nei casi concreti sui quali il giudice è chiamato a pronunciarsi. Oggi, tanto alla luce degli indirizzi europei volti alla tutela della diversità che dell'invito rivolto dalla Corte di Strasburgo agli Stati di tener conto dell'apparenza del soggetto alla comunità rom nel momento applicativo della norma, probabilmente, un'interpretazione estensiva, a favore del matrimonio rom, di quelle norme che subordinano al rapporto di coniugio l'accesso ad alcuni diritti, non solo non sarebbe più irragionevole (118) ma è auspicabile. Questo apre la strada, per i giudici e gli operatori giuridici, alla possibilità di tener conto della condizione di apparenza del soggetto a una minoranza nel momento applicativo della legge, adeguando il suo dettato al caso concerto. Pensiamo all'importanza che questo può avere per l'accesso ad alcuni diritti sociali come la pensione di reversibilità, all'edilizia popolare, gli assegni famigliari, ai fini dei quali il matrimonio rom potrebbe essere riconosciuto come valido in sede applicativa. Ovviamente queste sono delle conclusioni estremamente ottimistiche che non reputo possano trovare un consenso immediato nel nostro sistema alla luce del pregiudizio negativo sul quale, in Italia, è stato costruito il gruppo rom.

Questo mi porta, ai fini di una conclusione, a presentare una serie di spunti di riflessione rispetto a una materia, quella del riconoscimento del matrimonio rom in particolare e del tema della diversità culturale in generale, che si presenta in continua evoluzione, grazie, anche ai nuovi indirizzi provenienti dal livello europeo e internazionale. La questione del matrimonio rom può essere letta in due distinte prospettive: la prima riguarda la possibilità di un espresso riconoscimento di questo istituto da parte dello Stato, l'altra prospettiva è quella che riguarda la tutela dell'identità culturale del soggetto.

Per quanto riguarda la prima prospettiva, i problemi che concernano il mancato riconoscimento del matrimonio rom ad opera del legislatore statale, non derivano dalla difficoltà di ravvisare, nella ritualità rom, la presenza di un pubblico celebrante che possa portare ad un riconoscimento del rito matrimoniale romané al pari di un rito religioso, ma si legano ai pregiudizi e alla distanza culturale dello Stato italiano nei confronti di questa comunità. (119) Alla luce di questo, a mio avviso, solo un'opera di mediazione tra Stato e comunità rom può garantire un giusto inquadramento del matrimonio rom nell'ordinamento statale, per due ragioni:

  1. Un riconoscimento del rito matrimoniale rom in via unilaterale da parte dello Stato senza coinvolgere i diretti interessati, rischia di condurre a strumenti che male si coniugano con le esigenze dei rom. Ad esempio, pensiamo ad una eventuale richiesta di registrazione, presso gli uffici pubblici, che potrebbe risultare una procedura difficilmente praticabile dai rom, oppure il subordinare il riconoscimento di questo rito all'abbandono di certe pratiche che potrebbero essere considerate, unilateralmente da parte dello Stato, come contrarie all'ordine pubblico.
  2. La distanza culturale percepita dalla maggioranza, rispetto all'universo culturale romané, è dovuta ad alcuni aspetti della loro vita matrimoniale, ad esempio l'età degli sposi, i diritti della donna in caso di divorzio, che creano forti confliggenze con i valori che la maggioranza reputa una 'conquista di civiltà', come la parità tra i sessi e la tutela dei fanciulli. Una possibile soluzione a questo 'scontro culturale' potrebbero derivare da un confronto, nel quale, entrambe le parti siano disposte a mettere in discussione i propri valori, per trovare una compromesso sulla disciplina da adottare per un riconoscimento dell'istituto matrimoniale rom nell'ordinamento statale, il tutto in funzione di garantire un'effettiva tutela al soggetto, in termini di accesso ai diritti. (120)

Il secondo spunto di riflessione consiste nel trattare la questione del matrimonio rom ponendo al centro dell'analisi l'individuo e non la comunità alla quale apparitine.

Prendiamo l'esempio di un rom avente cittadinanza italiana. Conducendo l'analisi nell'ottica del pluralismo normativo, questo soggetto si trova sottoposto contemporaneamente, tanto alle norme dettate dal proprio gruppo per quanto riguarda la materia matrimoniale che alle leggi statali per quanto concerne il riconoscimento dei diritti che gli spettano in qualità di cittadino. La legge statale, essendo omologata ai valori della maggioranza, non riconosce efficacia al matrimonio romané. Nel caso in cui la legge subordina l'accesso a un diritto, alla condizione dell'esistenza di un matrimonio validamente stipulato secondo le regole statali, il soggetto, che abbia contratto matrimonio rom, è costretto, al fine di accedere ai diritti che gli spettano in qualità di 'cittadino', a procedere alla registrazione civile del matrimonio o a rinunciare a tali diritti. Sottostante a questa esigenza di procedere alla registrazione civile del matrimonio rom, vi è un mancato riconoscimento, se non addirittura un misconoscimento, (121) da parte della maggioranza del valore che quel rito ha per la comunità alla quale il soggetto appartiene. In questo caso ci troviamo di fronte ad un individuo che vive a cavallo tra due sistemi, quello rom, che disciplina e influenza la sua personalità e alcuni aspetti della sua vita come le relazioni famigliari, e quello statale, nel quale il soggetto si trova ad esistere nella qualità di cittadino titolare di diritti e verso il quale avanza pretese di veder riconosciuta la sua specificità. L'art. 2 della Costituzione, come abbiamo analizzato precedentemente, riconosce che la personalità dell'individuo si forma all'interno di un contesto sociale, per cui, tutelare il diritto all'identità personale del soggetto significa necessariamente, anche, riconoscere quegli istituti che si fondano nelle tradizioni del gruppo al quale appartiene. Il matrimonio rom è parte integrante dell'identità personale del soggetto il quale, cresciuto e vissuto in un certo sistema valoriale. Per cui, riconoscere il matrimonio rom, significa garantire il diritto all'identità personale del soggetto. L'importanza del riconoscimento del matrimonio rom non si ferma qui, poiché, nell'ipotesi in cui il matrimonio sia condizione per l'accesso ad alcuni diritti, entra in gioco il principio di uguaglianza. E qui si apre la più annosa questione con la quale, chi si occupa dei temi del pluralismo normativo è costretto a scontrarsi. Quando la Corte Europea nella sentenza Muñoz Díaz non ravvisa nessuna violazione per dell'art. 14 e 12 da parte della legislazione spagnola poiché questa consentiva a chiunque, senza distinzioni di razza, di contrarre matrimonio secondo il rito civile, aderisce ad una concezione di uguaglianza che Gianforamaggio chiama uguaglianza come sameness cioè, ci troviamo di fronte ad un principio di uguaglianza creta e costruito sui valori e i modi di vita di chi detiene il potere. Questo tipo di uguaglianza garantisce la parità di accesso ai diritti solo a chi è disposto a conformarsi ad un certo modello valoriale che è dettato dalla maggioranza. Prendere sul serio la differenza significa declinare il principio dell'uguaglianza alla differenza, aprendosi così ad un riconoscimento delle specificità di cui è portatore il soggetto. Il soggetto rom non può considerarsi uguale se per accedere ai suoi diritti è costretto a rinunciare o a nascondere la propria peculiarità culturale.

Note

1. J. Liégeois, Zingari e Viaggianti, Centro studi zingari, Consiglio d'Europa, 1995, pp.26-38.

2. Ivi, pp. 34-38.

3. Ivi, p. 45.

4. Ivi, p. 58.

5. Per un approfondimento si veda: J. p. Liégeois, Roms en Europe, Council of Europe Publishing, Strasbourg, 2007, pp. 51-65.

6. J. Liégeois, Zingari e Viaggianti, cit., p. 50.

7. "Il fumo va dove c'è il denaro". Traduzione di Leonardo Piasere in: L. Piasere, Popoli delle discariche, cit., p.120.

8. "Chi sta da solo presso il fuoco è solo un poveretto". traduzione di Leonardo Piasere in: Ibid.

9. Ibid.

10. Ivi, p.125.

11. H. Asseo, Pour une histoire des peuples-resistance, In P. Williams (a cura di): Tsiganes: identité, evolution, Syros, Paris, 1989, p. 123.

12. Per un approfondimento, rimando a quanto già trattato nel capitolo II, paragrafo 2.2.1.

13. Oggi si discute sull'autenticità di questi atti, in particolare sui documenti emessi dal Papa contenti un invito rivolto ai gruppi rom a recarsi a Roma in visita alla Santa Sede. Per un approfondimento di veda: F. Vaux de Fouletier (de), Mille ans d'historie des Tsiganes, cit., p.56.

14. Per un approfondimento si veda: F. Vaux de Fouletier (de), op. cit., pp. 51-67.

15. L. Piasere, I rom d'Europa, cit., p.63.

16. L. Piasere, Popoli delle discariche, cit., p.120.

17. L. Piasere, I rom d'Europa, cit., p. 70.

18. 'Un mondo di mondi', è il titolo di una delle più note opere di Leonardo Piasere, il quale, sottolinea come non si possa parlare di un popolo rom in termini omogenei, ma esso si presenta fortemente variegato, formato da gruppi portatori di proprie specificità.

19. Per una ricostruzione storica delle associazioni rom e sinte si veda: J. Liégeois, Zingari e Viaggianti, cit., pp. 182-192.

20. L. Piasere, I rom d'Europa, cit., p. 112.

21. Raccomandazione n. 563 del 1969 del Consiglio d'Europa, "Sulla situazione dei gruppi rom e di altri gruppi nomadi".

22. Sul punto si veda: J. Liégeois, Zingari e Viaggianti, cit.

23. Sul punto si veda l'opera di: D. Halwachs, Could we say that Roma are one linguistic minority?, "Convegno Internazionale la Condizione Giuridica di Rom e Sinti in Italia", Milano, 16-18 Giugno 2010, Università degli Studi Milano-Bicocca.

24. Sul punto si veda: J. Okely, The traveller-Gypsies, Cambridge università press, Cambridge, 1983 -1998; L. Piasere, Popoli delle discariche, cit.

25. J. Liégeois, Zingari e Viaggianti, cit., p. 57.

26. Leonardo Piasere, riporta l'esito dei suoi studi condotto presso i rom xoracané in: L. Piasere, Popoli delle discariche, cit.

27. L. Piasere, Popoli delle discariche, cit., p. 18.

28. L. Mancini, Società multiculturale e diritto. Dinamiche sociali e riconoscimento giuridico, CLUEB, Bologna, 2000, p. 45.

29. Sul punto si veda: J.P. Liégeois, Zingari e viaggianti, cit.

30. J.P. Liégeois, Zingari e viaggianti, cit., p. 53.

31. Per un approfondimento rimando a quanto già trattato nel capitolo I paragrafo 2.

32. W.O. Weyrauch, M. A. Bell, Autonomus Lawmaking: The Case of the Gypsies, in "Yale Law Journal", 103, 1993.

33. A. Simoni, Il giurista e gli zingari: lezioni dalla common law, in "Politica del diritto", n.4, 1999, p. 632.

34. L. Piasere, Un mondo di mondi, cit., p.19.

35. Tra questi ricordiamo: M. Mazza, I metodi di risoluzione delle controversie nel diritto degli zingari. Profili di antropologia della giustizia, in "Sociologia del diritto", n.1, 2000; L. Mancini, op. cit.; L. Piasere, Popoli delle discariche, cit.

36. Per un approfondimento rimando a quanto già trattato nel capitolo I paragrafo 1.2.

37. Sul punto si veda: L. Mancini, op. cit., p. 47.

38. Si tratta di studi condotti da Leonardo Piasere presso gruppi rom Xoraxané. Sul punto si veda tra le sue opere: L. Piasere, Popoli delle discariche, cit.; Un mondo di mondi. Antropologia delle culture Rom, Napoli, L'Ancora, 1999.

39. Si tratta di studi condotti da Marrti Gronforrs presso i gruppi Kalé in Finlandia. M. Gronforrs, Social Control and Law in Finnish Gypsy Community: Blood feuding as a system of Justice, in "Journal of Legal Pluralism and Unofficial Law", n. 24, 1986, p. 112.

40. Inizialmente, queste termine era utilizzato per indicare quei gruppi parlanti dialetti del romané che presentavano forti influenze rumene. Oggi si utilizza, prevalentemente, per indicare gruppi rom provenienti dalla Romania e stanziati in molti paesi europei e del Nord America in particolare: kalderasa, cirara, lovara e machavaya. Sul punto si veda: L. Piasere, Comunità girovaghe, comunità zingare, cit.

41. L. Mancini, Il diritto zingaro. Note di antropologia giuridica, in A. Simoni (a cura di), Stato di diritto e identità rom, L'Harmattan Italia, Torino 2005, pp. 183-189.

42. L. Piasere, (a cura di), Comunità girovaghe, comunità zingare, cit., p.41.

43. L. Piasere, Popoli delle discariche, cit., p. 41.

44. M. Gronforrs, op. cit., p. 112.

45. L. Mancini, Il diritto zingaro. Note di antropologia giuridica, cit., pp. 183-185.

46. La mia è una valutazione eccessivamente superficiale, che richiederebbe un'indagine più accurata, infatti, si dovrebbe analizzare se i Rom, che si sono rivolti al quartiere quattro, appartenevano o no allo stesso gruppo etnico di quello con cui erano in conflitto e se tra i due gruppi c'era comunanza di regole o no.

47. A. Facchi, I diritti nell'Europa multiculturale: Pluralismo normativo e immigrazione, cit.

48. G. Rocher, Les "phénomènes d'internormativité": faits et obastacles, in "Droit et Societé", vol. 16, 1995, pp. 19 e ss.

49. N. Rouland, Aux confins du droit, édition Odile Jacob, Paris, 1991, p. 24.

50. A. Facchi, I diritti nell'Europa multiculturale: Pluralismo normativo e immigrazione, cit., p 48.

51. Ivi, p. 49.

52. Secondo Ruggiu, oggi a livello europeo la differenza ha acquisito la valenza di un bene pubblico, che ha portato ad una presa di coscienza del ruolo che la diversità culturale ha per lo sviluppo e la tutela dell'identità personale del singolo, che risulterebbe gravemente compromessa in assenza di un riconoscimento. Gli elementi che, secondo l'autrice, portano a ravvisare tale mutamento di prospettiva sono: a- la scelta del Trattato dell'Unione di parlare di popoli al plurale, che testimonierebbe la vocazione multiculturale dell'Europa; b- i recenti atti adottati a livello europeo, soprattutto dal Consiglio d'Europa che testimoniano la centralità della diversità come valore es: la Dichiarazione sulla diversità culturale (2001) e il Final report che conclude il Cultural policy and Culturaldiversity project. A questi due elementi, messi in risalto dalla Ruggiu, aggiungerei anche, l'art. 22 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea secondo il quale: "L'Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica", in quest'articolo, infatti, la diversità è tutelata come bene a sé, sganciata dal suo essere espressione di un gruppo. Per approfondimenti si veda: I. Ruggiu, La diversità come bene pubblico tra Europa e Stati costituzionali, cit., p. 100.

53. Sul punto rimando a quanto ho già trattato nel capitolo II paragrafo: 2.4.1.

54. Su questo punto si pensi a come il nomadismo sia da sempre stato eretto a tratto peculiare della cultura rom, nonostante il dato empirico che mostra il contrario (il 60% dei rom pratica una vita sedentaria). Per approfondimenti si veda: Capitolo II, paragrafo: 2.1.2.

55. Sul punto Giovanni Sartori individua la tolleranza come possibile criterio attraverso il quale leggere il rapporto con l'altro. Egli sostiene che il concetto di pluralismo si è sviluppato lungo la traiettoria che va dall'intolleranza alla tolleranza, dalla tolleranza al rispetto del dissenso e poi, tramite questo rispetto, al credere nel valore della diversità. sul punto si veda: G. Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei, Rizzoli, Milano, 2000, pp. 37-47.

56. L. Gianformaggio, Eguaglianza, donne e diritto, (a cura di) A. Facchi, C. Faralli, T. Pitch, Il Mulino, Bologna, 2005, p 37.

57. Ivi, p. 38.

58. Ivi, p. 40.

59. Ivi, p. 40-41.

60. Ivi, p. 41.

61. Ivi, p. 50.

62. A. Facchi, op. cit., p. 54; I.M. Young, Justice and the Politics of Difference, Princeton U.P., Princeton, 1990, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1990.

63. A. Facchi, op. cit., p. 54.

64. Prendere sul serio le differenze significa consentire ai membri del gruppo oppresso o discriminato di prendere parte alla fase della statuizione della regola giuridica al fine di promuovere la propria diversità, rifiutando la mera assimilazione.

65. A. Facchi, op. cit., p.56.

66. Vedi: Botta c. Italia, 24 febbraio1998.

67. Vedi: Norris c. Ireland, 26 maggio 1988.

68. Vedi: Hatton c. Regno Unito, 8 luglio 2003.

69. Vedi: Botta c. Italia, 24 febbraio 1998.

70. Vedi: Gaskin c Regno Unito, 7 giugno1989.

71. Vedi: McGinley & Egan c. UK, 9 giugno 1998.

72. C. Danisi, Il principio di non discriminazione dalla CEDU alla Carta di Nizza: il caso dell'orientamento sessuale, p. 1.

73. La donna, che dalla sua nascita aveva condotto una vita nomade fatta di spostamenti costanti, aveva optato, con il marito, a favore di una vita stanziale al fine di favorire l'istruzione dei figli.

74. Chapman c. Regno Unito, 18 gennaio 2001, § 73.

75. Vedi anche: Jane Smith c. Regno Unito, 18 gennaio 2001, § 138; Coster c. Regno Unito, 18 gennaio 2001, § 141; Lee c. Regno Unito, 18 gennaio 2001, § 129; Beard c. Regno Unito, 18 gennaio 2001, § 132.

76. Alla luce di questo una parte della dottrina ha considerato quest'articolo come uno strumento capace di offrire una tutela indiretta alla minoranza alla quale appartiene il soggetto. Sul punto si veda: C e J.P. Marguenaud, La cour européenne des droits de l'homme et les droits revendiqués au profit del minorités, in N. Rouland, (a cura di), Le droit à la différence, Press Universitaires D'Aux-Marseille, 2002, p. 207.

77. Si veda: Connors v. Regno Unito, 27 maggio 2004; Chapman c. Regno Unito, 18 gennaio 2001, § 33 e 96.

78. Sul riconoscimento delle discriminazioni positive, e cioè sul principio secondo cui, il divieto di discriminazione è violato anche quando senza giustificato motivo gli Stati non applicano un trattamento differente ad individui la cui situazione personale o sociale necessita di misure specifiche, si veda la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, Thlimmenos c. Grecia, 6 aprile 2000.

79. Thlimmenos c. Grecia, 6 aprile 2000, § 44.

80. N. Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose, Il Mulino, Bologna, 2006, pp. 23-24.

81. Il Caravan Sites Act è un atto normativo adottato dal Regno Unito nel 1968. Con tale atto s'istituiscono delle zone di sosta autorizzate volte ad accogliere i rom. In realtà questa disciplina ha determinato una rigida distinzione per i rom tra stanziamenti legittimi, presso le zone autorizzate, e illegittimi, al di fuori di esse, che consentono alle autorità locali, che siano in regola con l'attuazione della normativa, di provvedere ad azioni penali e sgomberi. Per approfondimenti si veda: A. Simoni, Tra "problema di una gente vagabonda" e "gypsy law": le mutevoli reazioni dei giuristi europei alla presenza rom, in A. Simoni, (a cura di), Stato di diritto e identità rom, L'Harmattan Italia, Torino, 2005, pp. 41-51.

82. J.P. Marguenaud, La cour européenne des droits de l'homme et les droits revendiqués au profit del minorités, cit., p. 214.

83. Nel trattare l'istituto matrimoniale sono partita da questa intervista, non perché reputo che essa possa avere una qualche rilevanza etnografica. Si tratta, infatti, semplicemente di un'esperienza che mi è capitata per caso ma che ha destato, in me, una serie di riflessioni che mi hanno portato a scegliere il matrimonio come oggetto di analisi.

84. P. Williams, Mariage tsigane. Une cérémonie de fiancailles chez les Rom de Paris, L'Harmattan-Selaf, Paris, 1984.

85. A. Simoni, I matrimoni degli 'zingari'. Considerazioni a partire dal recente dibattito sulla 'gypsy law', in "Daimon", n.2, 2002, pp. 117-123.

86. Ley 25/1971, De Proteccion a la Familia Numerosa.

87. In particolare la "Convenzione Internazionale sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale" del 1965.

88. Direttiva 2000/43/CE, 29 giugno 2000, "Parità di trattamento delle persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica".

89. Ciò risponde a un orientamento consolidato dalla corte. Si veda: Stec and Others c. Regno Unito, 12 aprile 2006.

90. Ley General del la Seguridade social, Real Decreto Legislativo n. 1, 1994, art 174 comma 2: "nel caso di matrimonio nullo, il diritto alla pensione dei reversibilità spetterà al coniuge superstite in buona fede e sempre che non abbia contratto un nuovo matrimonio, in proporzione al periodo di coabitazione con il soggetto assicurato".

91. L'art. 12 della CEDU sancisce che "a partire dall'età minima per contrarre matrimonio, l'uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l'esercizio di tale diritto".

92. S. Casabona, Il matrimonio gitano tra regole nazionali e regole culturali: il caso della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, Muñoz Díaz c. Spagna, in "Giurisprudenza Italiana", Giugno 2010, p. 1291.

93. Ibid.

94. Sentenza Muñoz Díaz c. Spagna, 8 dicembre 2009, § 61.

95. Sul punto si veda: Buckley c. Regno Unito, 25 settembre 1996, §§ 76, 80, 84; Chapman c. Regno Unito, § 96; Connors c. Regno Unito, 27 maggio 2004, § 84.

96. Sentenza Muñoz Díaz c. Spagna, 8 dicembre 2009, § 61.

97. Sentenza Muñoz Díaz c. Spagna, 8 dicembre 2009, § 60.

98. Con questa sentenza la Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 17, comma 2, lettera d della legge 6 marzo 1998, n. 40 (Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), ora sostituito dall'art. 19, comma 2, lett. d) del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nella parte in cui non estende il divieto di espulsione al marito convivente della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio per contrarietà agli articoli 2, 3, 10, 29e 30 della Costituzione.

99. Corte di Cassazione Sezione I Civile con sentenza del 10 marzo 2006, n. 5223.

100. Cassazione Civile, Sez. I, 10-03-2006, n. 5220.

101. Corte Costituzionale, sent. n. 376, del 12 luglio 2000.

102. Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 244, del 24 gennaio 2007.

103. Art. 117, primo comma, Cost., nell'applicazione ormai consolidata che ne fornisce la giurisprudenza costituzionale. Si veda, in particolare: Corte Cost., sent. n. 348 e n. 349 del 2007 e Corte Cost., sent. n. 311 e 317 del 2009.

104. C. A. Jemolo, La famiglia e il diritto, in Annali della facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Catania, 1948, II, 57.

105. P. Morozzo Della Rocca, Il diritto alla vita privata e familiare, i diritti dei bambini rom e sinti e la loro tutela, "Convegno Internazionale La Condizione Giuridica Di Rom E Sinti In Italia", Milano, 16-18 Giugno 2010, Università degli Studi Milano-Bicocca, p. 9.

106. Sentenza Muñoz Díaz c. Spagna, 8 dicembre 2009, § 60.

107. Cassazione Civile Sez. I n. 7877, 9 giugno 2000.

108. L. Lacroce, Concezione giuridica del matrimonio e vecchie e nuove forme di celebrazione, in "Giustizia Civile", 2000, 11, 2897.

109. Cassazione Civile Sez. I n. 7877, 9 giugno 2000.

110. La distinzione dogmatica tra nullità ed inesistenza attiene alla teoria generale del negozio giuridico. Essa, tra l'altro, ha tratto origine proprio dal diritto matrimoniale, per giustificare la produzione di effetti giuridici di un negozio matrimoniale nullo. Per approfondimenti si veda: L. Lacroce, op. cit.

111. Cassazione Civile Sez. I n. 7877, 9 giugno 2000.

112. L'art. 131 c.c. riconosce, al possesso di stato conforme all'atto di celebrazione del matrimonio, effetto sanante di ogni difetto di forma. Nell'ipotesi sottoposta al giudizio della Cassazione, nel Rabbino non può essere ravvisata la figura di un ufficiale di stato civile apparente, richiesta dall'art. 131, il qual è posto a tutela dell'affidamento incolpevole dei due sposi. Nel caso di specie, infatti, i due nubendi erano perfettamente a conoscenza del fatto che il celebrante non avesse ricevuto il nulla-osta richiesto dalle norme italiane.

113. Le circostanze sono date dal fatto che il matrimonio trovava un riscontro all'interno di un altro ordinamento giuridico che gli attribuiva validità quello della Stato di Israele, presso il quale i due sposi avevano provveduto all'iscrizione nei relativi registri.

114. Cassazione Civile Sez. I n. 7877, 9 giugno 2000.

115. P. Morozzo della Rocca, op. cit., p.8.

116. Per il matrimonio concordatario si veda: l'art. 82 cod. civ. e l'art. 8 della l. 25 marzo 1985, n. 121; per il matrimonio religioso delle altre confessioni religiose si veda: l'art. 83 cod. civ. e gli artt. 11 della l. 11 agosto 1984, n. 449 (Tavola valdese); 18 della l. 22 novembre 1988, n. 516 (Chiese cristiane avventiste); 12 della l. 22 novembre 1988, n. 517 (Assemblee di Dio); 14 della l. 8 marzo 1989, n. 101 (comunità ebraiche italiane); 10 della l. 12 aprile 1995, n. 116 (Unione Cistiana Evangelica battista d'Italia); 13 della l. 29 novembre 1995, n. 520 (Chiesa Evangelica Luterana).

117. Si veda: Buckley c. Regno Unito, 25 settembre; Chapman c. Regno Unito, 18 gennaio 2001.

118. Nella sentenza del 10 marzo 2006, n. 5223, la Corte di Cassazione pronunciandosi in materia di rilascio del permesso di soggiorno a persona sposata con donna incinta, aveva reputato che il tribunale, avendo ritenuto sufficiente, per la sussistenza del matrimonio, il rito rom, senza ulteriori accertamenti presso lo Stato di origine, avesse dato luogo ad "un'interpretazione irragionevolmente estensiva della norma, a danno dell'interesse nazionale al controllo dell'immigrazione".

119. Su questo punto rinvio alle ricostruzioni in termini criminale della cultura rom che sono condivise tanto dal legislatore che dall'opinione e che si fondano su stereotipi e pregiudizi.

120. Ovviante qui i problemi riguardano il luogo dove quest'opera di interazione tra rom e maggioranza deve realizzarsi. Auspicabile sarebbe un incontro nel luogo, che per eccellenza, è volto al confronto tra posizioni diverse, cioè il parlamento. Questa via è poco percorribile dato che, anche se la maggior parte dei rom presenti in Italia ha cittadinanza italiana, in realtà le discriminazioni alle quali questo gruppo è soggetto, impediscono un effettivo esercizio del diritto di voto e di conseguenza non possono far valere i propri interessi e valori nelle sedi istituzionali preposte a ciò. Un'altra strada è quella di delegare nello svolgimento di quest'opera di mediazione, le organizzazioni che rappresentano rom e sinti. Anche questa opzione però non è libera da insidie, ponendo il problema dell'effettiva capacità di rappresentanza che queste organizzazioni hanno rispetto al variegato panorama culturale in Italia.

121. Spesso il rito matrimoniale rom, viene descritto in termini dispregiativi, come violante le più elementari regole di civiltà.