ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo II
I rom e lo Stato

Elisa Marchi, 2011

SOMMARIO: 2.1 Premessa funzionale all'inquadramento dell'analisi della questione rom. 2.1.1 Rom, Sinti, Zingari, Nomadi: non solo una questione di terminologia. 2.1.2 Presenza rom in Europa e in Italia: panoramica su tre livelli. 2.2 Quadro storico dei rapporti tra Stati e gruppi rom. 2.2.1 Lo Stato e i rom: una doppia negazione territoriale e sociale. 2.3 Uguaglianza e diversità. Il dibattito attuale sugli strumenti di tutela dell'individuo pensato come appartenente a una dimensione culturale. 2.4 I rom come minoranza culturale by force: le ragioni degli ostacoli nell'accesso ai diritti fondamentali. 2.4.1 Costruzione dei rom come gruppo deviante. 2.4.2 Costruzione negativa dei rom e principio di uguaglianza formale. L'analisi del contesto legislativo italiano. 2.4.3 Conclusioni. 2.5 Rom come minoranza by will. Fase del riconoscimento della diversità rom. 2.5.1 Il livello Europeo come motore del riconoscimento dei rom come minoranza. 2.5.2 Costruzione dei rom come gruppo culturale. 2.5.2.1 Ricostruzione del dibattito sociologico e antropologico, concernete l'identità rom. 2.5.3 La situazione italiana: una politica del riconoscimento trasformatrice di marginalità. 2.5.3.1 Lo stereotipo del nomadismo come codice interpretativo dellacultura rom: il caso dei rom kosovari. 2.6 Concetto di minoranza come strumento per la recezione nel dato legislativo della specificità culturale rom. 2.6.1 Minoranza come strumento di riconoscimento della diversità nell'ordinamento giuridico italiano. 2.6.1.1 Riconoscimento dei rom comeminoranza nel quadro giuridico italiano. 2.6.1.2 Conclusioni.

2.1 Premessa funzionale all'inquadramento dell'analisi della questione rom

Oggi la questione rom riempie le prime pagine di giornali e quotidiani, sia per casi di cronaca dove ci imbattiamo in 'zingari' come autori d'illeciti che vanno dai furti ai rapimenti di minori, sia per questioni di ordine pubblico tanto nazionale che internazionale, delle quali costituiscono un esempio, tanto i recenti sgomberi che hanno coinvolto i campi nomadi di Roma e Milano, che l'annoso caso francese dell''espulsione di massa' dei rom rumeni, il cui dibattito ha coinvolto l'intero contesto europeo. Nonostante la popolarità dell'argomento, pochi conoscono la realtà rom e le difficoltà che, per studiosi ed esperti giuristi, questa rappresenta.

Quando si tratta la questione rom la prima difficoltà che s'incontra è quella di definire l'oggetto di studio per due ordini di ragioni: dal punto di vista empirico, la complessità dell'oggetto è data dalla diversità e frammentarietà della realtà rom, da un punto di vista teorico, quest'ultima può essere letta sotto diversi punti di vista che si possono così sintetizzare:

  • piano storico-antropologico; (1)
  • piano giuridico-politico; (2)
  • piano linguistico e culturale. (3)

Nel corso della trattazione, cercherò di mettere insieme, tanto gli aspetti di carattere giuridico, che antropologico-culturali, in modo da analizzare il rapporto tra ordinamento italiano e cultura rom ampliando l'orizzonte d'indagine oltre lo sguardo giuridico-formale, tipico dell'ordinamento statale, per aprirmi ad una prospettiva capace di fare i conti con la dimensione dei vari pluralismi che caratterizzano l'età contemporanea. In questa parte del mio lavoro cercherò di individuare i diversi modi con i quali lo Stato ha risposto alla presenza rom, accentuando l'attenzione sulla costruzione dei rom come gruppo culturale che richiede un riconoscimento legislativo, sia in termini di accesso ai diritti e superamento delle discriminazioni, che in termini di riconoscimento di una propria specificità culturale.

2.1.1 Rom, Sinti, Zingari, Nomadi: non solo una questione di terminologia

Prima di addentrarci nella nostra analisi è opportuno porre in essere alcuni chiarimenti terminologici che ci consentiranno di inquadrare, in modo più corretto, il nostro oggetto. Nel trattare la questione rom, il primo problema con il quale lo studioso è chiamato a confrontarsi è quello terminologico-definitorio. Il termine zingaro, nomade, rom e sinto, sono spesso utilizzati nel linguaggio quotidiano come sinonimi, in realtà il loro significato si presenta fortemente differenziato, tanto che, basterebbe una trattazione approfondita delle origini e degli sviluppi di tali termini, per comprendere la complessità della nostra materia. Qui mi limiterò a mettere in luce le differenze più rilevanti al fine di evitare equivoci, ripromettendomi di specificare maggiormente, nel corso della trattazione, il ruolo che questi termini hanno e hanno avuto nella attuale costruzione identitaria dei rom.

Il problema definitorio emerge nel momento in cui, per finalità scientifico-classificatorie, è necessario ricondurre una serie di realtà, che come vedremo nel paragrafo successivo si presentano empiricamente diverse, in unità idonee ad essere tradotte nel contesto scientifico e nel dato legislativo. Muovendoci dalla prospettiva dei vari ordinamenti statali, le terminologie utilizzate per descrivere i 'gruppi rom' sono le più svariate; in l'Italia si parla prevalentemente di rom e sinti, anche se i termini zingaro e nomade persistono in alcune leggi regionali, ordinanze, atti ufficiali e sentenze; in altri paesi, come il Regno Unito, la Svizzera, l'Irlanda si utilizza il termine 'camminanti' (travellers), nella maggior parte dei Paesi balcanici si parla di rom, ashkhali ed egiziani, altri parlano semplicemente di rom (la maggior parte dei paesi). Per quanto riguarda le organizzazioni internazionali, il Consiglio d'Europa adotta l'espressione 'Roma e Traveller', mentre l'OSCE si riferisce a 'Roma e Sinti'.

La scelta di una terminologia non è mai un fatto neutro, ma si porta dietro una simbologia che, quando si tratta di rom, non possiamo sottovalutare. “Bisogna innanzitutto mettere ordine nelle parole stesse e ben definirle. [...] Decidere la parola è un po' decidere il metodo d'analisi [...] decidere la parola è stabilire una frontiera.” (4) Nel caso dei rom, questa frontiera incide, come si vedrà, sulla possibilità di accesso ai diritti, sulla costruzione dei rom come gruppo etnico, sull'immagine che il gruppo ha di sé stesso. Come ha sottolineato Gheorghe Nicolae, membro della Romani CRISS, nel corso del “Convegno Internazione sulla Condizione Giuridica in Italia di Rom e Sinti” tenutosi a Milano nel giugno del 2010, la questione della scelta terminologica in relazione ai rom ha sempre prodotto, e produce tutt'ora, una serie di effetti che si ripercuotano sui diritti delle singole persone e del gruppo stesso, ma soprattutto, la terminologia, alla quale si ricorre, è legata anche agli interessi che si perseguono. Per comprendere l'importanza che la scelta terminologica costituisce per il nostro argomento, procederò ad un rapido excursus delle questioni più importanti che connotano il dibattito terminologico concernete i rom.

“Il termine zingaro e nomade sono eteronomi, imposti ai destinatari dall'esterno, da chi, in una certa fase storica, ha avuto il potere di farlo.” (5)

Il termine zingaro presenta un richiamo diretto a una categoria di soggetti che, nei secoli, ha assunto connotati negativi. Non essendo questa la sede per riassumere più di Cinquecento anni di 'storia zinagara', che ci consentirebbe di comprendere la portata negativa che questo termine ha assunto, basti qui dire che, secondo molti studiosi, il connotato negativo del termine deriverebbe dalla sua stessa etimologia, infatti, la parola italiana zingaro, come il francese tsigane e il tedesco zigeuner, deriva dal greco athinganoi con il significato di 'intoccabili', con connotazione, secondo molti, negativa, dato che, trattasi dello stesso nome dell'infima 'casta-non casta' indiana da cui proverrebbero e in cui oggi sono inseriti, per esempio, i necrofori. In realtà più che l'aspetto etimologico, le ragioni della valenza negativa attribuita al termine zingaro si devono rinvenire nelle reazioni sociali che i 'tratti culturali rom', soprattutto il nomadismo, hanno ingenerato nelle varie società con le quali sono venuti in contatto; ad esempio, nel medioevo, gli zingari, sono stati etichettati come maledetti, poiché il nomadismo faceva pensare a una loro discendenza dalla stirpe di Caino. (6) Con la nascita degli Stati moderni, il nomadismo, da loro praticato, era considerato come devianza dall'ordine statale, tanto da divenire sinonimo di criminalità. (7) A tale fine, particolarmente eloquenti sono le parole di Kant secondo il quale: “L'uomo del non luogo è criminale in potenza”, (8) l'assenza di una fissa dimora diviene elemento di destabilizzazione sociale e di sospetto.

Questa breve ricostruzione storica ci mostra come il termine zingaro, nonostante sia il più utilizzato tanto nel linguaggio comune che in quello scientifico per rappresentare il variegato panorama rom, sia intriso di connotati negativi, che hanno portato molti studiosi a interrogarsi sulla necessità di un suo superamento. A titolo di esempio riportiamo il dibattito che, nel 1989, ha coinvolto i membri della Gypsy Lore Society, (9) i quali, in vista della ripresa della pubblicazione del famoso Journal of the Gypsy Lore Society, si interrogarono sulla necessità di sostituire il termine gypsy (zingaro) alla luce del connotato socialmente negativo che questo aveva assunto. Il dibattito si concluse con la decisione di mantenere inalterata la terminologia poiché, se pur vero che il termine zingaro nel linguaggio comune aveva acquisito connotati negativi, nel mondo scientifico aveva assunto una valenza classificatoria insostituibile, rappresentando un termine dai confini sfumati, capace di ricomprendere tutta la variegata realtà rom. (10)

Le ragioni dell'importanza che il termine zingaro ha assunto nel contesto scientifico-antropologico, sono spigate da Piasere, il più noto antropologo italiano esperto di studi 'zingari'. (11) Per l'autore, se il 'mondo' rom si presenta variegato e plurale, il linguaggio delle scienze positive, tra le quali l'antropologia, si fonda sull'esigenza di ricondurre, tale complessità, a categorie generiche e spesso riduzionistiche, che portino ad una costruzione, in termini unitari, dell'identità rom. Il termine zingaro è in antropologia una categoria trans-culturale poiché è volta a tradurre una realtà culturalmente differente (quella rom) in un dato classificatorio scientificamente utilizzabile.

Dal punto di vista empirico, gli antropologi si trovano di fronte una realtà rom che è fortemente variegata, segnata da gruppi che si auto-qualificano ricorrendo a terminologie differenti, questo perché “il nome di un gruppo è segno dell'incontro tra politiche gagé [locali] e politiche rom, dei rapporti che le comunità zingare hanno stabilito con un determinato territorio e, in qualche misura, delle disposizioni messe in atto nei loro confronti.” (12) D'altra parte, come sottolinea Liégeois, il nome attribuito ad un gruppo esprime, nella società rom, una volontà di diversificazione rispetto ad altri gruppi. La scelta del nome può fondarsi su criteri diversi, ad esempio: un antenato famoso, un criterio geografico (es: sinti emiliani), un criterio professionale (lavora: cavallo, rom kalderasa: [caldera:caldaia], curara: fabbricanti di stracci). Il nome consente al gruppo rom di porsi nel presente come particolare opponendosi, così, ad altri gruppi. Nell'incontro tra due individui rom la denominazione del gruppo al quale appartengono, diviene una sorta di confine mobile che, a secondo dei casi, può giocare un ruolo di inclusione o esclusione; così se i due intendono avvicinarsi potranno creare una denominazione suscettibile di inglobarli (ad esempio: attraverso antenati comuni) altrimenti, attraverso il nome, porranno l'accento su un vissuto diverso, favorendo il loro allontanamento. (13)

La prima difficoltà che incontriamo nel nostro lavoro è proprio quella di trasporre, nella ottica scientifica e poi legislativa, una situazione di eterogeneità empirico-terminologica, che ci costringe, sin da questo momento, a dover fare i conti con l'alterità che in questo caso si traduce nella diversa valenza che le terminologie hanno nella società rom rispetto alla nostra. Così come sottolinea Piasere, la parola zingaro è utilizzata, in antropologia, per distinguere certi uomini da altri, per distinguere un noi da un loro, gli zingari appunto. Al fine di poter condurre un'operazione così complessa gli studiosi sono costretti a ricorrere ad una categoria terminologica che gli antropologi definiscono 'politetica'. Le categorie politetiche non sono ben definibili, poiché non presentano dei tratti sufficienti e necessari a individuarle, ma si basa su associazioni mentali che ci consentono di creare delle 'arie di famiglia' molto ampie, divenendo funzionali a ricomprendere, al loro interno, realtà empiricamente diverse e variegate. (14) Il termine zingaro rientra in questa categoria poiché, elementi come nomadismo, lingua e tradizioni, non sono necessariamente condivisi da tutti i gruppi rom, nonostante questo, tutti i gruppi sono fatti rientrare nella categoria 'zingaro'; così, ad esempio, i sinti emiliani, i rom kosovari e i camminanti siciliani sono classificati come zingari nonostante non presentino tutti gli stessi caratteri: i sinti sono nomadi mentre i rom sedentari, ma entrambi parlano il romanè, i camminati siciliani condividono con i sinti il nomadismo ma non la lingua. Il termine zingaro è così ascritto a gruppi che non necessariamente presentano tratti comuni e che spesso si considerano culturalmente lontani.

Quest'opera di semplificazione, operata attraverso il termine zingaro, costituisce la ragione per la quale, per molto tempo, gli studiosi si sono valsi di questa categoria come oggetto per la loro analisi scientifica: essa, ha permesso di indicare in modo unitario, “una varietà abbastanza composita di persone, con diversità culturali anche notevoli, il cui unico tratto comune è consistito, forse, in una stigmatizzazione negativa da parte di chi non si considerava zingaro”. (15)

Oggi, alla luce della valenza negativa assunta dal termine zingaro, sia il mondo scientifico che quello dell'associazionismo rom chiedono un suo superamento, accusando questo termine di essere intriso di pregiudizi. A dimostrazione di questo mutamento di rotta, la Gypsy Lore Society nel 2000 ha mutato il nome del suo famoso giornale in Romani Studies: Continuing of Journal of the Gypsy Lore Society. Oggi le organizzazioni internazionali e le associazioni rom preferiscono ricorrere al termine roma o rom, (16) poiché, è il termine utilizzato dagli stessi gruppi rom per auto-qualificarsi, liberandosi così delle etichette terminologiche negative, imposte dall'esterno.

Le vicende del termine nomade sono molto più complesse, trattandosi di un connotato caratterizzante lo stile di vita di un gruppo, il quale, ha assunto valenza negativa divenendo, come si vedrà in seguito, sinonimo di vagabondaggio, delinquenza e devianza. In antropologia, nella descrizione delle peculiarità culturali dei gruppi rom, alcuni autori (17) preferiscono parlare di peripatetics (18) piuttosto che di nomadismo poiché, il primo termine, è uno strumento concettuale nuovo, più idoneo alla comprensione delle peculiarità culturali delle popolazioni rom. Questa non è la sede per analizzare il dibattito antropologico che ha connotato il concetto di peripatetics, basti qui sottolineare come nello studio dei gruppi rom, da un punto di vista antropologico, la categoria di nomadismo sia considerata superata proprio perché non idonea a descrivere la realtà attuale della società romané. Nonostante questa persa di coscienza degli antropologi, nel linguaggio comune il termine nomade è utilizzato come sinonimo di zingaro, per cui in un'accezione negativa e stereotipata, veicolando, nel contesto quotidiano, l'idea che i rom conducano uno stile di vita non sedentario (dato questo smentito, come vedremo, dalla realtà empirica).

Per quanto riguarda il dato normativo, il termine nomade è oggetto di un forte dibattito dal cui esito dipende l'effettiva tutela del gruppo rom. Nel dato legislativo italiano, nomade ha assunto la valenza di una categoria ombrello, cioè una categoria che, apparentemente neutra, perché legata a una certa peculiarità culturale non riconducibile in modo automatico a un gruppo di soggetti, in realtà nasconde un connotato etnico negativo. (19) Ricorrendo a questa categoria, nel contesto legislativo, si fa salvo il linguaggio dell'uguaglianza, ma contemporaneamente la sua azione va a creare una situazione di svantaggio per un certo gruppo di soggetti, nel nostro caso i rom. A titolo di esempio ricordiamo il dibattito che si è sviluppato introno alle ordinanze del 2008. (20) Queste ricorrono alla categoria comunità nomade per giustificare il ricorso ad un trattamento differenziato nei confronti di ceri soggetti. Questo punto sarà oggetto di una più approfondita trattazione nel paragrafo 2.4.1.

Per concludere questo rapido excursus concernete le questioni terminologico-definitorie, dato che la mia analisi si connota per un'apertura verso l'antropologia e per le tematiche che questa ha saputo portare nel contesto legislativo, è opportuno, sin da questo momento, porre alcune precisazioni al fine di aprirci al punto di vista dei rom.

Gli antropologi hanno evidenziato l'importanza che nella storia e nella cultura rom ha la contrapposizione con i non rom, i gagé. Con il termine gagio (21) (femminile gagi, plurale gagé) il rom designa il non rom o meglio, il non appartenente alla dimensione romanì. (22) Secondo la ricostruzione offerta da Piasere, questo termine non è univoco, ma assume significati che risentono della relazione con la società circostante. Esso è l'immagine dell'alterità che in origine si limitava a rappresentare il contadino non rom, assume, solo in secondo momento, un'accezione 'etnica', indicando la distinzione tra la dimensione romanì e gagikanì. Queste due dimensioni non sono marcate rigidamente ma “sono i poli di un continuum in cui ciascuno pone dei confini oppositivi dove gli conviene”. (23) I rom non conoscono un'identità essenzialista, ma essa è costruita su base relazionale, (24) questo significa che il termine gagio può essere utilizzato anche per indicare appartenenti ad altri gruppi rom, percepiti come estranei alla propria tradizione, (25) inoltre, si può riconoscere l'esistenza dei così detti gitanos apayados cioè di rom 'gagizzati', i quali, sono desiderosi di rimettere in discussione i rapporti con i gagé e tra rom stessi. (26)

Alla luce di questa breve ricostruzione storica, mi sembra opportuno abbandonare, in linea generale, il termine 'zingaro' in ragione della valenza negativa che ha assunto nei secoli. Ricorrerò all'utilizzo di tale termine solo nell'ipotesi in cui la trattazione riguarderà il modo con cui l'ordinamento statale costruisce il gruppo rom in termini negativi, riconducendolo nell'abito di politiche securitarie e di ordine pubblico, in questi casi si parlerà di problema o questione zingara, in tale contesto il termine zingaro assume le funzione di individuare l'altro negativo, dal quale 'difendersi'. In linea generale tenderò ad utilizzare il termine rom come termine generico includente anche i sinti. Rom è, infatti, spesso utilizzato per uscire da una concezione negativa dell'altro, per proiettarsi verso un'idea di riconoscimento all'interno dell'ordinamento statale. Oggi, nel mondo scientifico, il termine rom si sta sostituendo a pieno titolo al termine zingaro, divenendo la nuova categoria di riferimento. Questa, però, ha ereditato dalla precedente una serie di anomalie poiché, il termine rom, essendo il nome con il quale certi gruppi si auto-qualificano, non è inclusivo di quei gruppi che si riconoscono in altre terminologie come i sinti e i camminanti siciliani, dall'altra, però, esso ha il vantaggio di essere libero da pregiudizi, per cui, nonostante le resistenze, è la categoria maggiormente utilizzata.

Il termine romanì, ricorrente nel corso della trattazione, sarà utilizzato per enfatizzare il punto di vista dei rom rispetto alle varie questioni trattate: ad esempio, il loro modo di concepire il mondo, i rapporti con i gagé e la società in generale.

2.1.2 Presenza rom in Europa e in Italia: panoramica su tre livelli

Ai fini della nostra analisi è opportuno procedere ad una breve ricostruzione della presenza empirica dei rom ricorrendo a tre livelli di analisi: quello europeo, nazionale e locale.

In Europa si contano 10-12 milioni di rom. (27) Piasere (28) ci offre un'originale rilettura della suddivisione del territorio europeo ricorrendo a tre parametri: la densità di popolazione rom, la lingua e la sedentarietà-nomadismo. (29) Questa scelta consente un'analisi del territorio europeo in un'ottica romané superando, così, i rigidi confini nazionali con i quali siamo abituati a confrontarci. Sulla base dei tre paramenti individuati da Piasere, possiamo parlare di tre Europe rom: (30)

  1. Europa carpato-balcanica, che vede una percentuale di presenza rom che va dal 60% al 70% del totale dei rom che vivono in Europa. In questa parte d'Europa troviamo paesi come la Romania con il 26% della popolazione rom d'Europa e la Macedonia che presenta il rapporto più alto tra popolazione rom e non rom. In questa parte d'Europa troviamo prevalentemente gruppi che si auto-qualificano come rom, parlano dialetti romané (31) e praticano una vita prevalentemente sedentaria.
  2. Europa sud-occidentale (penisola Iberica e Francia) dove abbiamo tra il 15% e il 20% dei rom presenti in Europa. In questa zona troviamo: in Francia, gruppi sinti e manush che praticano prevalentemente il nomadismo, in Spagna calòs, i quali sono prevalentemente sedentari. Tutti questi gruppi sono accomunati dal parlare dialetti provenienti dal romané.
  3. Nel resto di Europa, risiede il rimanente 10-15% del totale dei rom. In questa parte, che ricomprende anche l'Italia, la situazione si presenta molto variegata: abbiamo sinti in Italia meridionale, Austria e Germania, romanicel in Inghilterra, kalè in Finlandia, questi gruppi sono accomunati dal parlare dialetti provenienti dal romanè. In questa terza Europa rom, incontriamo anche gruppi che, seppur qualificati come 'zingari', non parlano il romané, ne costituiscono un esempio i travaller in Irlanda e Scozia e i camminanti siciliani in Italia. (32)

Questi dati ci portano a concludere che la maggioranza dei rom in Europa è concentrata nel territorio carpato-balcanico, si auto-qualifica come rom, parla romané e da tempo conduce uno stile di vita sedentario. (33)

Per quanto riguardala situazione italiana, i rom sono presenti in Italia sin dal XV secolo (34) e rappresentano, nonostante che studi dimostrino che la loro presenza sia sovrastimata, solo lo 0,23% della popolazione italiana. (35) Le cifre non sono certe; (36) secondo alcune organizzazioni si aggirerebbero tra i 120.000-150.000 (di questi 70.000 cittadini italiani), (37) secondo una stima fatta nel 1995 dall'organizzazione non governativa Minority Rights Group, si contano circa 90,000-110,000 (38) rom, di questi, secondo alcune O.N.G italiane, 60,000-90,000 sarebbero cittadini italiani, 45,000-70,000 nati fuori dall'Italia o in Italia da genitori immigrati, per la gran parte dall'est europeo, specialmente dall'ex Jugoslavia. (39)

La loro presenza è il frutto di quattro flussi migratori. Il primo, verificatosi tra il X-XV secolo, ha riguardato gruppi rom e sinti. I sinti giunti prevalentemente via terra da nord, mentre i rom, insediatisi in Italia centro-meridionale, sono giunti via mare dai Balcani meridionali. Il secondo flusso ha avuto inizio a seguito della fine della schiavitù in Moldavia, a partire dalla metà del XIX secolo, e si è caratterizzato per un esodo dall'attuale Romania e Ungheria. La fine della seconda guerra mondiale ha determinato il terzo flusso migratorio che ha coinvolto gruppi tedeschi, sloveni, e croati. (40) A partire dagli anni Sessanta si è assistito ad un quarto flusso dovuto, sia a contingenze economiche e politiche che hanno riguardato l'Europa dell'est, che al conflitto bellico nei Balcani degli anni Novanta. (41) A queste quattro migrazioni storiche, dobbiamo aggiungere l'ultima ondata migratoria proveniente dalla Romania favorita dall'entrata di questa nella Comunità Europea.

La varietà della presenza rom si può meglio comprendere attraverso l'analisi del livello locale. Sul territorio fiorentino contiamo un variegato numero di gruppi, i quali hanno provenienza, condizione giuridica e sociale molto diversa. Tra questi annoveriamo:

Rom Xoraxané: l'aggettivo Xoracané è tradotto da alcuni autori come 'portatori del khorà, il corano', per altri come 'turchi'; in entrambi ci si riferisce all'influenza ricevuta a seguito di secoli di stanziamento presso i territori del ex Impero Ottomano. Sono di religione musulmana e si suddividono in tre sottogruppi: i Gambasa, provenienti dalla Macedonia, i Shiftarija provenienti dal Kosovo, i Cergarija (quelli delle tende, da cerga che in serbo-croato significa tenda). (42) La loro presenza a Firenze è dovuta alla terza ondata migratoria, soprattutto per effetto della guerra in ex Jugoslavia. Essi provengono dal Kosovo, Serbia, Macedonia, Montenegro e sono alloggiati presso il campo dell'Olmatello, il villaggio del Poderaccio 1 (provenienti dal Kosovo, Macedonia, Bosnia) e del Guarlone (provenienti dalla Macedonia). (43)

Rom Kanjarjia: di religione greca ortodossa e di lingua romané. Originari della Serbia e successivamente immigrati in Macedonia e Croazia, sono presenti in Italia da più di 30 anni ed è uno dei gruppi più endogamici e legati alla tradizione. (44) Questi sono presenti in un numero di circa 63 presso il campo di Sesto Fiorentino. (45)

Rom Ashkalija: presenti presso il villaggio del Poderaccio 1 e 2. La loro qualificazione come gruppo è fortemente dibattuta, essi sono menzionati come minoranza etnica presente in Kosovo nel sesto rapporto del giugno-luglio 2000 dell'UNHCR/OSCE. (46)

Rom Rumeni: presenti in insediamenti non autorizzati e di fortuna, come baracche, ripari notturni sia a Firenze che a Sesto Fiorentino. Le stime della Fondazione Michelucci circa la loro presenza, sono di circa 350 soggetti. (47) Questi sono stati sottoposti a sgomberi violenti presso il campo di Sesto Fiorentino.

2.2 Quadro storico dei rapporti tra Stati e gruppi rom

In questa parte del mio lavoro cercherò di descrivere i passaggi più rilevanti delle vicende che hanno connotato i rapporti tra Stato e rom. Lo studio dei gruppi rom, infatti, ci offre l'occasione per analizzare come i moderni Stati-nazione si siano rapportati all'altro antropologicamente costruito, mostrerò come, i vari strumenti legislativi ai quali l'ordinamento statale ricorre nei confronti di questo gruppo, risentano delle diverse classificazioni e dei diversi riconoscimenti che i rom, nel corso della storia, hanno ricevuto in relazione ai vari paradigmi che si sono susseguiti nelle scienze sociali.

Oggi, i rapporti tra gli Stati e i gruppi rom, sembrano configurarsi secondo due diverse modalità. Da una parte, i rom sono rappresentati dallo Stato come fattori negativi per la pacifica coesistenza sociale, incarnando l'idea dell'altro negativo dal quale difendersi. Questa costruzione giustifica l'adozione, nei loro confronti, di misure repressive e securitarie. Dall'altra, anche alla luce degli indirizzi provenienti dal livello internazionale, essi incarnano l'idea dell'altro culturale, che avanza, nei confronti dello Stato, un 'pretesa' di riconoscimento come gruppo portatore di una propria specificità meritevole di tutela, inserendo, così, la questione rom all'interno del dibattito multiculturalista. Ai fini di una corretta comprensione delle ragioni che hanno condotto a questo duplice e contrastante rapporto, è necessario procedere ad una ricostruzione storica delle vicende che hanno connotato le relazioni tra ordinamento statale e rom. (48)

Un tentativo di sintesi, circa i diversi modi con i quali la società dei gagé risponde alla presenza rom sul proprio territorio, è offerto da Piasere, il quale individua due modelli che denotano le strategie attuate dallo Stato verso i rom.

Modello balcano

“Chiamiamo modello balcano quello che vede l'inserimento dei Rom nelle strutture socio-economiche locali attraverso il sistema della tassazione e/o lo sfruttamento coatto della forza lavoro.” (49)

Sotto l'impero Ottomano del XIII-XIV secolo, i rom furono sfruttati attraverso una gravosa tassazione. Svolgevano attività prevalentemente artigianali, erano sarti, orefici macellai, ma eseguivano anche attività 'immonde', come quelle di boia. In Valacchia e Moldavia i rom furono oggetto di schiavitù e impiegati nei lavori più svariati, dalla coltivazione della terra alla protezione dei padroni.

In questo modello il rom può mantenere la propria cultura poiché è questa diversità culturale che giustifica il suo inserimento in attività degradanti e 'immonde'.

Modello occidentale

“chiamiamo modello occidentale quello che prevede il divieto ai Rom di inserirsi nelle strutture socio-economiche locali, salvo un loro previo annichilimento ereditario.” (50)

In questo modello è forte la contrapposizione tra gagé e rom. Questi ultimi, sono stati oggetto di una criminalizzazione di massa, poiché, facenti parte di quei gruppi che non vogliono proletarizzarsi o che semplicemente non vogliono entrare nel meccanismo di dominazione-subordinazione nei confronti dei gagé. “In qualità di sfruttati, in qualità di banditi, o in qualità di intermediari nelle reti distributive e dei servizi, essi sono sempre stati ipersensibili agli eventi storici dei gagé”. (51) Le politiche dei gagé hanno prodotto, nei rom, una serie di risposte i cui esiti si rinvengono prevalentemente sulla struttura sociale rom, che è divenuta una sorta di mezzo di 'reazione' agli attacchi provenienti dalle politiche gagé. Più queste politiche sono aggressive, violente e assimilazioniste, più forte è la spinta di chiusura dei rom attraverso le proprie strutture sociali e il proprio 'ordinamento'.

Limitandomi all'esperienza storica europea ed italiana, possiamo parlare di tre fasi che concernono le politiche intraprese dai gagé verso i rom: negazione territoriale, negazione sociale e riconoscimento culturale. (52)

2.2.1 Lo Stato e i rom: una doppia negazione territoriale e sociale

Chiameremo fase della negazione territoriale quella nella quale, in nome della necessità di favorire l'unità politica e territoriale dei nascenti Stati nazionali, si attuano politiche di espulsione fisica dei rom, categorizzati come stranieri. In questa fase le diversità, che nell'Ottocento l'antropologia qualificherà come culturali, sono percepite come un'estraneità ai modelli imposti dai nascenti Stati-nazione dando inizio alla contrapposizione tra società gagé e società romané.

Prima di questo momento la presenza rom era tollerata, in quanto, la loro vita errante era ricondotta a quella dei pellegrini e religiosi e, l'assenza di confini territoriali precisi e di poteri centralizzati, attenuò la possibilità di attuare politiche persecutorie organizzate. (53)

Sarà nel Cinquecento che avranno inizio le politiche di espulsone fisica dei rom dai territori dei nascenti Stati. Il tratto identitario messo in risalto con i bandi di espulsione, è quello del nomadismo; l'idea di non avere radici stabili in un luogo, è vissuta come una minaccia alla pretesa di unità territoriale dei nascenti Stati. L'essere zingaro-nomade, (54) presto, si trasformò in sinonimo di straniero. Lo zingaro diviene, così, lo straniero, l'altro che minaccia l'identità nazionale ma, dall'altra la crea e rafforza, offrendo quel termine di paragone esterno, che le moderne correnti antropologiche e sociologiche, considerano necessario per la creazione della propria identità, tanto da sostenere che la definizione di alterità preceda quella d'identità. (55)

La necessità di far nascere uno spirito di appartenenza, l'idea di nazione, che giustificasse la riduzione delle libertà personali in nome del benessere collettivo delinea automaticamente il concetto di nemico, come colui che non condivide le credenze, gli usi, la routine, la lingua della maggioranza e che quindi minaccia l'unità nascente. (56)

Molti bandi (57) presentano un doppio contenuto, da una parte prevedono un'intimazione, rivolta agli zingari, di abbandonare il territorio nazionale entro breve termine, dall'altra contemplano pene fisiche, inclusa la morte, in caso di mancata ottemperanza all'ordine. In alcuni casi si arriva a prevedere delle speciali 'scriminanti' in favore dei sudditi che reagiscano alla loro indebita presenza. Un esempio è rappresentato dalle ordinanze del Cinquecento, prese dall'assemblea del Sacro Romano Impero e dai diversi Stati tedeschi, nelle quali s'intima agli zingari di abbandonare il territorio prima di pasqua, e “nel caso che contravvengano a quest'ordine, dopo il tempo previsto non potranno ottenere soddisfazione se verranno molestati da qualcuno dei nostri sudditi, e costui non sarà imputato come se avesse commesso un delitto”. (58)

Con queste misure è la stessa esistenza degli zingari ad essere interdetta, se l'ordine è ciò a cui gli Stati vogliono pervenire, lo zingaro rappresenta il disordine e la turbativa, (59) esso rappresenta un nemico esterno dal quale difendersi poiché il nomadismo, da loro praticato, si presenta in contrasto con l'idea che sta alla base della costruzione dei moderni Stati-nazione, e cioè di ancorare l'esercizio del potere, che presto si farà assoluto e totalizzante, ad un territorio dato e definito attraverso confini precisi. In questa fase la costruzione identitaria esterna non si fonda su tratti culturali specifici, non importa negare l'esistenza degli zingari come gruppo etnico, (60) l'elemento che giustifica la politica di persecuzione nei confronti dei rom, è il nomadismo, per cui esso diviene il tratto identitario giustificante gli atti legislativi e perpetuante l'idea di straniero; a fondamento di questa tesi richiamiamo quelle politiche, intraprese da alcuni Stati, che distinguono tra zingari istallati e non, ad esempio Elisabetta d'Inghilterra, nel 1562, esclude dall'ordine di espulsione gli Egiziani (61) nati e stabilitosi nel regno; il re Pietro del Portogallo nel 1686 tollera la presenza dei Ciganos nati in Portogallo. (62)

Nel Settecento, con l'avvento dell'illuminismo, non è più pensabile la soluzione al 'problema zingaro' attraverso il ricorso a misure volte alla loro eliminazione fisica e violenta, sia per impossibilità oggettive, i rom non facevano altro che trasmigrare da uno Stato all'altro, sia perché la loro presenza diviene funzionale al modello capitalistico, inserendosi all'interno della dinamica dominazione-sfruttamento. (63)

Si apre così la strada alle politiche di negazione sociale, volte ad un'integrazione autoritaria e violenta dei rom. In questa fase assistiamo, alla negazione di un'identità etnica specifica, non si nasce zingari ma si diventa. (64) È l'essere strano, più che straniero, a divenire oggetto di legislazione; è l'essere o dichiararsi zingaro che rileva, non l'origine etnica. (65) È la scelta, di intraprendere una vita contro l'ordine statale, a venire sanzionata; (66) gli zingari vengono assimilati ai devianti e alle classi pericolose, il loro comportamento non è visto come espressione di un tratto culturale, ma devianza da un ordine statale. Ancora una volta il tratto identitario configgente con l'ordine statale è il nomadismo, il quale esprime uno stile di vita in antitesi con il principio di territorialità, di accentramento del potere e di unificazione nazionale intrapresa dallo Stato. In linea con quello che è il modello occidentale sopra descritto, se gli zingari sono esclusi dalla società dei gagé, ne sono responsabili alla luce della scelta da loro operata e della loro incapacità di adeguarsi ai valori imposti dalla società dominate. Lo Stato si presenta come il protettore dell'ordine minacciato, così facendo, rafforza la sua egemonia e porta ad accettare la forza dell'ordine che difende. (67) Esemplare, in tale direzione, è la politica intrapresa da Maria Teresa D'Austria, sovrana illuminata, che propone un vero e proprio programma d'inserimento forzato che prevede, da una parte l'abbandono di usanze come il nomadismo, gli abiti, la musica e dall'altra prevede un piano d'inserimento socio-economico offrendo case e attrezzi per lavorare. Questa politica è anche volta a colpire uno dei tratti tipici della cultura rom, la famiglia; infatti, la sovrana, impartì l'ordine di sottrarre alle famiglie rom i propri figli al fine di affidarli a famiglie contadine che gli avrebbero impartito un'educazione più conforme ai valori dominati nella società austriaca.

Tali politiche, però, furono fallimentari, poiché molti gruppi si diedero alla fuga verso le montagne. (68)

Dalla fine del Settecento-inizio Ottocento, i primi studi glottologici (69) e antropologici (70) gettano le premesse per un riconoscimento dei rom come gruppo avente propri tratti culturali, la cui diversità non deve essere più ricercata nella devianza sociale ma nell'apparenza ad un'altra 'razza'. Il riconoscimento delle diversità culturali s'inserisce, però, in un primo momento, all'interno delle correnti evoluzionistiche che si fondano su un'idea della storia e della società di tipo lineare; (71) se a livello sociale si parla con Maine del passaggio dallo status al contatto, a livello antropologico e culturale questo processo si traduce nel passaggio dalla società primitiva (successivamente dette tradizionali) a quella moderna o industriale. Secondo il paradigma evoluzionistico, la strada del mutamento di ciascuna società è segnata da un unico percorso e da un unico punto di arrivo: la società moderna. Ovviamente si tratta di una visione etnocentrica del mondo e della cultura, per cui, anche se la diversità del comportamento rom viene pian piano iscritta in tratti culturali, questi sono visti come inferiori, incivili e quindi da cambiare. La politica, che anche in questo caso è intrapresa, è di assimilazione forzata volta a conformare lo stile di vita rom a quello gagé. In questo caso è la diversità razziale a giustificare le politiche assimilazionistiche e persecutorie verso i rom, il tutto in un contesto dominato da etnocentrismo che rimanda all'idea di razze civili e superiori che divengono l'obiettivo a cui le razze incivili, come quella zingara, devono tendere. (72)

L'Ottocento è il periodo in cui le scienze positiviste danno un fondamento di scientificità alle atrocità e persecuzioni che gli Stati hanno messo in atto verso i rom. Lombroso, in una delle opere di antropologia criminale, L'uomo delinquente, descrive gli zingari così:

[...] sono l'immagine viva di una razza intera di delinquenti, e ne riproducono tutte le passioni e i vizi. Hanno in orrore [...] tutto ciò che richiede il minimo grado di applicazione; sopportano la fame e la miseria piuttosto che sottoporsi ad un piccolo lavoro continuato; vi attendono solo quanto basti per poter vivere [...] sono ingrati, vivi e al tempo stesso crudeli [...]. Amanti dell'orgia, del rumore, dei mercati fanno grandi schiamazzi; feroci, assassinano senza rimorso, a scopo di lucro; si sospettarono, anni orsono, di cannibalismo. (73)

Le correnti giuspenalistiche positivistiche, delle quali Lombroso è esponente, costruiscono, partendo dagli studi della ziganologia del secolo precedente, uno stereotipo razziale altamente negativo, portando a dare fondamento scientifico al binomio zingaro- delinquente che già da secoli si era affermato e, come sottolinea Sigona, (74) si era fondato sull'idea del nomadismo.

Il nomadismo viene così, da una parte assimilato a delinquenza e dall'altro ad una inferiorità culturale superabile attraverso un processo di assimilazione-inclusione. Nel primo caso, le politiche intraprese dallo Stato, saranno di tipo emergenziale e penale, volte tanto ad un allontanamento fisico che sociale del deviante, nel secondo di assimilazione-inclusione, con un ruolo chiave di enti assistenziali e sociali, con politiche in campo abitativo, scolastico e assistenziale.

Come sottolinea Liégeois, la politica di esclusione sociale nei confronti dei rom continua a perpetuarsi anche con la nuova organizzazione socio-politica del Welfare State. In questo caso, però, la parola chiave diviene inclusione, che non è altro che un sinonimo di assimilazione. L'inclusione è una forma di reclusione in uno spirito umanista ma è più radicale, infatti, mentre il recluso contesta poiché si sente imprigionato ed è punito per il suo mancato adeguamento all'ordine dato, l'incluso è preso in carico per un aiuto sociale e, se il suo comportamento si conforma ai principi dettati dalla maggioranza, è ricompensato per la sua normalizzazione. Quindi, se la reclusione allontana il deviante, l'inclusione è volta a reinserirlo nel contesto sociale. (75) Questo fa si che, anche all'interno delle politiche del Welfare State, non vi sia un reale riconoscimento della loro specificità culturale come dato da preservare e tutelare, anzi essa rappresenta un ostacolo ai fini dell''inclusione' all'interno della società gagé, i cui valori sono considerati come civili e superiori. (76) Nel momento in cui la diversità di condotta di vita dei rom è ascritta al dato culturale, esso, presentandosi come un elemento portatore di inferiorità e inciviltà, conduce i rom ad essere equiparati ai devianti sociali e ai marginali. La naturale conseguenza di questo processo è l'attuazione di politiche assimilazioniste nei loro confronti. Da questo punto di vista, le istituzioni statali offrono, ai rom, la possibilità di uscire dallo 'stadio di inferiorità e inciviltà culturale' attraverso una serie di politiche assistenziali, la cui riuscita dipende, proprio, dall'abbandono della cultura romané, per cui, il mancato abbandono del proprio stile di vita si traduce in devianza dall'ordine e dalla cultura statale. Come sostiene Liégeois: “l'interdizione dai loro costumi è l'interdizione della devianza.” (77)

Oggi, le politiche intraprese nei confronti dei rom trovano giustificazione sociale nelle loro precarie condizioni di vita, nella propensione alla devianza e anche nel timore provato nei loro confronti dalle popolazioni locali. I rom sono pensati dai gagé sulla base di stereotipi e pregiudizi che offrono, di loro, un'immagine di delinquenti, incivili, capaci di creare disagio alle popolazioni 'autoctone'. La questione zingara viene rappresentata come un problema sociale da attribuire alla competenza di educatori, assistenti sociali e forze dell'ordine, (78) piuttosto che essere inquadrata nell'ottica della diversità culturale e quindi di conflitto tra valori e culture diverse.

Per concludere possiamo dire che, in un primo momento si assiste ad una politica di eliminazione degli zingari, in quanto considerati estranei e stranieri alle società occidentali, zingaro è una categoria legislativa riconducibile all'idea di straniero, che diviene oggetto di dirette politiche di espulsione. In un secondo momento, quando si comprende che la loro eliminazione non era più possibile e auspicabile, lo zingaro è equiparato ad un deviante sociale e come tale deve essere, tanto rinchiuso e marginalizzato, che assoggettato a politiche di assimilazione volte ad integrarlo nel tessuto sociale. A partire dagli anni Settanta, a livello statale, questi due indirizzi coesistono e la questione rom è trattata, tanto come problema di ordine pubblico, attraverso leggi emergenziali che qualificano i rom come delinquenti, quanto attraverso azioni positive e sociali dominate dall'ottica dell'assimilazione. Come vedremo meglio in seguito, di recente queste linee hanno dovuto fare i conti con le politiche intraprese a livello internazionale, volte a favorire un riconoscimento delle diversità culturali. Questo ha portato il diritto statale a dover far fronte all'esigenza di una rilettura delle condotte rom, non più in chiave di devianza e marginalizzazione sociale, ma in un'ottica culturale. Dunque, oggi, la questione rom s'iscrive, non solo nell'ambito delle problematiche sociali ed emergenziali, ma anche nel dibattito multiculturalista, nel quale l'individuo viene pensato come appartenente ad una dimensione socio-culturale, aprendo la strada alla costruzione dei rom come gruppo portatore di una propria specificità che avanza richieste di riconoscimento all'interno del sistema statale.

2.3 Uguaglianza e diversità. Il dibattito attuale sugli strumenti di tutela dell'individuo pensato come appartenente ad una dimensione culturale

Per comprendere gli strumenti ai quali ricorre lo Stato al fine dell'inquadramento giuridico dei rom nell'ottica di un loro riconoscimento come portatori di una specificità culturale, dobbiamo procedere ad una rapida analisi del dibattito attuale concernerete concetti come uguaglianza, diversità, tutela delle differenze e dei gruppi.

La nascita dello Stato moderno è accompagnata dall'elaborazione di un diritto generale e astratto e dall'affermazione del principio di uguaglianza. La centralità dell'uguaglianza, come principio regolatore dell'organizzazione e delle funzioni dello Stato contemporaneo, si deve soprattutto all'eredità della rivoluzione francese, che nella triade liberté, égalité, fraternité ha consacrato il principio in esame fra i valori fondanti dell'organizzazione politica. (79) Dopo la seconda guerra mondiale, le Dichiarazioni Universali sanciscono il riconoscimento di una serie di diritti, che in un primo momento facevano capo esclusivamente ai diritti liberali, per poi ricomprendere, anche, i diritti sociali, culturali ed ecologici. (80) La principale novità apportata dalle dichiarazioni internazionali è costituita dal destinatario di questi diritti che diviene l'uomo in quanto tale, a prescindere dalle sue apparenze socio-culturali e dalla sua cittadinanza. Secondo queste dichiarazioni, è l'appartenere all'umanità che attribuisce all'individuo la titolarità dei diritti, non a caso, uno degli aspetti fondamentali presi in considerazione dai principali documenti internazionali sui diritti umani è il concetto di uguaglianza. Questo rileva sia per affermare l'uguale valore degli esseri umani, e quindi per 'fondare' l'intero sistema dei diritti da essi previsto, sia per stabilire regole giuridiche sulla tutela di tali diritti. La “Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo” del 10 dicembre 1948, infatti, pone a base del sistema dei diritti da essa previsto la solenne dichiarazione secondo cui “tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in libertà e diritti” (art. 1) e poi precisa che “tutti sono uguali dinanzi alla legge ed hanno diritto, senza alcuna discriminazione, a un'uguale tutela da parte della legge”. L'uguaglianza viene quindi ribadita a proposito dell'accesso a un giudice imparziale (art. 10), della posizione dell'uomo e della donna nel matrimonio (art. 16), dell'accesso ai pubblici impieghi nel proprio paese (art. 21), del diritto a un'uguale retribuzione per uguale lavoro (art. 23), dell'accesso all'istruzione (art. 26). Analogamente, il “Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici” del 1966 prevede l'uguaglianza nel godimento dei diritti da esso enunciati, “senza distinzione alcuna, sia essa fondata sulla razza, il colore, il sesso, la religione, l'opinione politica o qualsiasi altra opinione, l'origine nazionale o sociale, la condizione economica, la nascita o qualsiasi altra condizione” (art. 2). L'uguaglianza viene poi ribadita per vari profili, fra i quali la parità giuridica fra uomo e donna nel godimento dei diritti previsti dal trattato (art. 3) e il trattamento da parte dei tribunali (art. 14). Il coevo “Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali” precisa anch'esso (art. 3) che “gli stati parti del presente Patto s'impegnano a garantire agli uomini e alle donne la parità giuridica nel godimento di tutti i diritti economici, sociali e culturali enunciati nel presente Patto”. In tutti questi casi, l'uguaglianza, più che un ulteriore diritto umano, si configura come una modalità di garanzia dei diritti enunciati nei trattati sui diritti umani. A questa finalità si ispirano anche quei documenti di tutela dei diritti umani che prevedono articolate clausole di non discriminazione nel godimento dei diritti, come l'art. 14 della “Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo” del 1950. L'uguaglianza, come modalità di garanzia nell'accesso ai diritti, trova riconoscimento nell'ordinamento italiano nell'art 3 comma 1 della Costituzione secondo il quale: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”

In questo caso il principio di uguaglianza si esprime nella sua accezione formale; la diversità di sesso, razza e cultura non possono costituire un ostacolo nell'accesso ai diritti.

Come abbiamo visto nella prima parte del lavoro, gli strumenti del pluralismo giuridico hanno avuto il grande merito di offrire ai giuristi una nuova lente attraverso la quale leggere la realtà socio-giuridica, mostrando una società molto più complessa di quella ereditata dal pensiero liberale, rappresentata da un soggetto di diritto unico e astratto dalle sue apparenze sociali. La società contemporanea si presenta come una costellazione di ordini sociali nei quali si trova a essere calato l'individuo, il quale, nella teorie più recenti del pluralismo giuridico, (81) si fa portatore di multiculturalità. La diversità diviene, quindi, un aspetto connotante tanto la società che l'individuo, per cui, la nuova sfida che la società multiculturale lancia al diritto, e soprattutto al principio di uguaglianza, è quella di trattare in modo diverso situazioni diverse. L'interrogativo che tormenta il legislatore in età contemporanea è quello di individuare l'identikit del destinatario di un trattamento differenziato. La nuova categoria elaborata a livello statale, e ripresa da quello internazionale, capace di tradurre questa molteplicità di apparenze socioculturali del soggetto, messe in luce attraverso i modelli pluralistici, in un dato fruibile a livello legislativo, è quella di minoranza. Cerchiamo di fare rapidamente il punto sul dibattito dottrinale che si è creato intorno a questo concetto. Schematizzando possiamo dire che esistano tre tipi di minoranze:

  1. minoranze by force: in questo caso possiamo anche parlare di minoranze politiche cioè di quell'insieme d'individui che, in dipendenza dal voto, si trovano in una situazione d'inferiorità numerica rispetto ad altri individui entro il corpo elettorale, nelle assemblee rappresentative ecc. Queste minoranze sono giuridicamente tutelate, entro i sistemi democratici, attraverso i meccanismi procedurali del costituzionalismo moderno, contro lo strapotere della maggioranza. (82)
  2. Minoranze culturali by force: si tratta di quell'insieme d'individui che, anche se non sono necessariamente numericamente inferiori da altri (es. le donne) si trovano, per ragioni storiche, sociali, economiche, culturali, in una condizione di svantaggio rispetto ad altri individui all'interno della società. Tali minoranze sono, di regola, tutelate attraverso diposizioni di rango costituzionale contro la disuguaglianza di trattamento, la discriminazione e l'esclusione, da parte della maggioranza. (83)
  3. Minoranze by will: la cui diversità dalla maggioranza è data da una o più caratteristiche cui esse attribuiscono valore, esigendo il rispetto della loro differenza e della loro specificità da parte della maggioranza. In questo caso la tutela non si può limitare ad una tutela antidiscriminatoria, ma necessita di una serie di misure che siano capaci di garantire un effettivo rispetto della loro diversità. (84)

Interessante è analizzare come i rom possono essere ricondotti tanto alla categoria di minoranza by force che by will.

La diversità culturale rom, infatti, rileva in due momenti che interessano il nostro discorso:

  1. rapporto tra diversità culturale rom e principio di uguaglianza formale: questo principio vieta qualsiasi forma di trattamento differenziato in ragione dell'apparenza ad un gruppo culturale. In questo contesto, interessante è analizzare come le discriminazioni, protratte nei confronti dei rom, trovino un fondamento, più che in norme in contrasto con il principio di uguaglianza, in una forma di costruzione dei rom fondata su stereotipi e pregiudizi. Questa costruzione, essendo fortemente condivisa nella società gagé, opera nel momento applicativo della disposizione legislativa, producendo una discriminazione che si realizza in uno spazio extra-giuridico, al di fuori del contesto strettamente legislativo. In questo caso i rom possono essere qualificati come minoranza by force che rivendica il superamento delle discriminazione subite al fine che sia garantita un'effettiva applicazione del principio di uguaglianza formale.
  2. Diversità culturale rom e politica del riconoscimento. In questo caso la specificità culturale rom, legandosi al concetto di minoranza by will, si traduce in una richiesta di riconoscimento all'interno del sistema statale. In questo contesto, gli aspetti rilevanti del dibattito riguardano tanto la scelta degli strumenti giuridici attraverso i quali recepire tale diversità, che la risoluzione dei conflitti che si possono realizzare in caso di contrati tra norme statali e norme prodotte dal gruppo rom. A quest'ultimo punto sarà dedicato il terzo capitolo.

2.4 I rom come minoranza culturale by force: le ragioni degli ostacoli nell'accesso ai diritti fondamentali

Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, le dichiarazioni internazionali e le costituzioni moderne riconoscono il principio di uguaglianza formale come elemento imprescindibile per l'accesso ai diritti, soprattutto quelli fondamentali. Inoltre, da molti anni, la parola chiave, in Italia, in tema di politiche rivolte nei confronti delle comunità di immigrati e rom, è integrazione. Questo termine, in realtà molto dibattuto, è stato chiarito dal primo rapporto del 1999 della Commissione per le politiche d'integrazione degli immigrati, (85) la quale propone per l'Italia una nozione d'integrazione che sembra riferirsi a una 'buona vita', di cui fa parte il riconoscimento dei diritti fondamentali agli stranieri, il rispetto della loro identità culturale, la rassicurazione dei cittadini e l'accettazione della diversità che non leda i diritti fondamentali e non crei conflitti. (86) Se questo è il quadro generale sul quale fondare la nostra analisi, ci dobbiamo chiedere perché alcuni 'gruppi umani', come, nel nostro caso i rom, non godono, in concreto, della possibilità di un accesso paritario a tali diritti fondamentali? Perché come sostiene la Commissione Europea nel documento The social and economic integration of the Roma:

la maggior parte di loro vive in situazioni di estrema marginalizzazione sia in area urbana che nelle campagne e in condizioni socio-economiche di vera povertà [...] a loro è limitato l'accesso ai più alti gradi di istruzione, hanno difficoltà nell'integrazione nel mercato del lavoro, hanno bassi livelli di reddito e cattive condizioni di salute che determinano alti tassi di mortalità e una speranza di vita più bassa rispetto alla popolazione non-rom? (87)

Una prima risposta a questi interrogativi si potrebbe ricercare nello status giuridico dei rom in Italia. Partendo da questo si potrebbe formulare la tesi secondo cui il mancato accesso ai diritti è, per i rom, dovuto al loro status di stranieri. Anticipo, sin da questo momento, che, a mio avviso, gli ostacoli che i rom incontrano nell'accedere ai diritti, non rinvengono le loro radici nell'essere stranieri ma, nel pregiudizio e nello stereotipo sul quale si fonda la costruzione del gruppo rom. A sostegno della mia tesi riporto un dato empirico: in Italia, la maggioranza della popolazione rom e sinta ha cittadinanza italiana, come tale, in astratto, dovrebbe godere di tutti i diritti e le garanzie connessi a tale status. In realtà, nonostante la cittadinanza, questi continuano a vivere in una situazione di marginalità sociale. Inoltre, anche sostenendo la tesi che il mancato accesso ai diritti è dovuto al fatto che una certa percentuale di rom è straniera, (88) questo non giustifica, nel nostro ordinamento, l'esclusione nell'accesso ai diritti inviolabili dell'uomo. La Corte Costituzionale, alla luce di un indirizzo oramai consolidato a partire dalla prima sentenza del 1967, (89) ritiene che, dal combinato disposto del'art. 2 e 10, secondo comma, della Costituzione, i diritti fondamentali garantiti tanto dall'art. 2 che dalle consuetudini e dagli atti internazionali relativi ai diritti dell'uomo, sono applicabili anche agli stranieri irregolari. (90)

Allora perché, nonostante quanto detto sopra, i rom continuano a non godere neppure dei più elementari diritti?

Una risposta al nostro interrogativo si può trovare nelle parole di Rorty. Secondo l'autore noiviviamo in un'epoca nella quale il problema del fondamento dei diritti umani è ormai superato, tanto che:

non ha più senso chiedersi se gli esseri umani abbiano o meno i diritti elencati nella Dichiarazione di Helsinki [...] In realtà attribuire all''uomo' determinati diritti non è ancora risolutivo, perché coloro che violano i diritti umani ritengono precisamente 'non umani' coloro (neri, donne, appartenenti ad altre religioni o ad altre etnie, omosessuali e così via) i cui diritti sono negati. E la soluzione di questo problema non può essere data dall'individuazione di un qualche attributo che esprima l'essenza propria o la natura dell'uomo. La garanzia dei diritti aumenta solo quando si modificano i sentimenti morali, in un processo graduale nel quale grande rilievo ha l'aumento della sicurezza del gruppo e il superamento dell'indigenza. (91)

Queste parole di Rorty sembrano centrare bene il problema che si sta affermando nel contesto contemporaneo. Come sostiene Bobbio l'uguaglianza è “un concetto generico e vuoto, che se non è precisato o riempito, non significa nulla.” (92) Infatti, il concetto d'uguaglianza, che, a prima vista può sembrare avere un contenuto e un significato evidente, in realtà si rileva complesso nel momento in cui dal dato teorico e ideale s'intende passare al dato operativo. Quest'aspetto è particolarmente evidente in un'epoca di globalizzazione, nella quale, per effetto dei flussi migratori, lo Stato viene a contatto con gruppi sempre più differenziati tra i quali immigrati, ma anche minoranze culturali, che richiedono la possibilità di accedere, almeno, ai diritti fondamentali riconosciuti dalle Carte Internazionali. L'accesso a questi diritti, infatti, non è collegato a un'apparenza territoriale, ma all'apparenza all'umanità in quanto tale, per cui, il nuovo metro per l'esclusione e l'accesso ai diritti non è più rappresentato dalla cittadinanza ma dalla de-umanizzazione di alcuni soggetti. È proprio nel momento in cui ci accingiamo a trasporre il concetto di uguaglianza dal dato teorico-ideologico a quello operativo, che si può comprendere l'importanza che gli stereotipi e i pregiudizi hanno nell'accesso ai diritti.

Nel caso dei rom, l'esclusione dai diritti fondamentali non avviene attraverso criteri dettati dal legislatore ma in uno spazio extra-giuridico, cioè, nel processo di de-umanizzazione che si realizza attraverso gli stereotipi e i pregiudizi. Questa situazione ha portato Nicolae a sostenere che verso i rom si è realizzata “una forma di razzismo in cui è presente una componente biologica e che produce la de-umanizzazione dei rom. I rom sono visti come dei 'meno che umani', sono percepiti come non moralmente degni di essere titolari di diritti umani allo stesso modo del resto della popolazione.” (93)

2.4.1 Costruzione dei rom come gruppo deviante

Cerchiamo di ricostruire brevemente la modalità con cui operano stereotipi e pregiudizi nella costruzione identitaria del gruppo rom, al fine di comprendere come tale costruzione incida sulla dimensione legislativa e sull'accesso ai diritti.

Lippmann, nel suo libro Public Opinion sottolinea l'importanza che le 'piccole immagini' hanno dentro la nostra mente nella percezione degli eventi sociali e delle altre persone, esse sono delle rigide generalizzazioni riguardanti gruppi sociali dal contenuto illogico e inesatto. (94) Per pregiudizio intendiamo un'opinione precostituita, non fondata su un esame diretto e attento della realtà. Queste due categorie, però, sono strumenti necessari per semplificare la realtà sociale circostante. Allport scrive: “La mente umana per pensare ha bisogno dell'aiuto delle categorie. [...] Una volta formate, le categorie sono la base del normale pregiudizio. Non possiamo evitare questo processo. La vita ordinata dipende da esso.” (95) Lo stereotipo può essere considerato come uno schema mentale che opera consentendo ai soggetti di: identificare rapidamente uno stimolo, inserirlo in un'unità conoscitiva più ampia, colmare i vuoti d'informazione e far scegliere la strategia migliore da adottare in relazione al contesto. Tale schema crea delle aspettative rispetto alle caratteristiche che deve avere un soggetto o una situazione sociale e su come debba svolgersi un evento. (96) Se da una parte gli stereotipi e i pregiudizi appartengono al normale agire umano, quelli che rilevano per il nostro discorso e, che creano confini nell'accesso ai diritti, sono quelli negativi. Come sostiene Santoro:

Si è di fronte ad uno stereotipo pregiudizievole ogni volta che i diritti, le facoltà, o il trattamento concreto di un individuo è stabilito sulla base di uno stereotipo e non sulla base dei suoi effettivi meriti o demeriti individuali. In altre parole propongo di definire come stereotipo in senso negativo ogni rappresentazione generalizzante utilizzata in modo da conferire ad una persona uno status di inferiorità o da impedirle di essere trattata sulla base della propria individualità e di essere giudicata sulla base delle proprie azioni. (97)

Attraverso gli stereotipi e i pregiudizi negativi, si creano delle categorie riconosciute e condivise da un gruppo sociale maggioritario al fine di costruire l'identità di un altro gruppo, de-umanizzando i suoi membri e quindi impedendogli un effettivo riconoscimento sociale e giuridico.

Per meglio comprendere l'importanza di questo processo di 'costruzione sociale dell'altro' mi sembra utile ricorre alla nozione di mancato riconoscimento proposta da Taylor. Questo consiste nell'incapacità di un gruppo maggioritario di riconoscere che i membri di questa o quella minoranza, di questo o quel gruppo sottoprivilegiato, hanno un'identità, con un insieme di tradizioni e pratiche differenziate, una storia intellettuale ed estetica differenziate e il non riconoscere che tale identità culturale ha un'importanza ed un valore profondo. (98) Ovviamente questo mancato riconoscimento si ripercuote sulla costruzione dell'identità tanto del singolo che del gruppo minoritario al quale appartiene. Secondo Taylor “noi definiamo sempre la nostra identità dialogando, e qualche volta lottando, con le cose che gli altri significativi vogliono vedere in noi”. (99) L'identità individuale si costituisce nel corso di un dialogo che il soggetto conduce all'interno, confrontandosi con modelli e figure introiettate, ed all'esterno, lottando per il riconoscimento della sua specificità. Dall'altra, ricorrendo ad Habermas, possiamo dire che l'identità collettiva di un gruppo eterogeneo viene definita per mezzo di un dialogo, sia interno, tra i membri dei diversi gruppi coinvolti, che esterno, tra i gruppi stessi, che interagiscono, in un discorso orientato all'intesa, per definire regole di condotta su cui costruire modalità pacifiche di convivenza. (100)

Il contatto tra gruppi diviene elemento indispensabile per la costruzione identitaria di un gruppo, alla luce di questo, assume, nella trattazione della questione rom, rilevanza fondamentale il misconoscimento attuato nei loro confronti dalla società gagé. “Il non riconoscimento o misconoscimento può danneggiare, può essere una forma di oppressione che imprigiona una persona in un modo di vivere falso, distorto e impoverito”. (101) Questo concetto assume particolare rilevanza nella trattazione del rapporto tra ordinamento statale e rom, proprio perché la costruzione, che per secoli gli Stati hanno elaborato intorno al gruppo rom, rimanda ad una immagine negativa, stereotipata, de-umanizzata, che ha inciso sulla possibilità che i membri di tali gruppi hanno avuto nel rapportarsi e nell'accedere al diritto statale. Per i rom, si può parlare, in via prevalente, di misconoscimento, in quanto essi vedono la loro identità ricostruita e restituita dall'esterno in modo distorto, o comunque denigrante; (102) è in questo frangente che operano una serie di stereotipi negativi che danno vita a degli schemi mentali, frames negativi tra i quali annoveriamo: 'gli zingari rubano i bambini, sono dei ladri, sono devianti'. Sono schemi mentali riprodotti dai mass-media e condivisi dall'opinione pubblica. Questi stereotipi negativi portano a costruire la cultura rom in termini di devianza e criminalità.

Per capire come una costruzione identitaria e culturale possa incidere sull'accesso ai diritti e sulle tutele del soggetto dobbiamo brevemente analizzare il ruolo che la cultura e l'identità ha assunto nel contesto contemporaneo.

Lo Stato moderno, si è fondato sulla creazione di un concetto unico d'identità nazionale attuata attraverso la standardizzazione del linguaggio, dell'istruzione e la creazione di un mercato del lavoro. L'identità, quindi, diviene uno strumento attraverso il quale recepire la pluralità sociale, standardizzandola e semplificandola, offrendo quei criteri chiari di inclusione ed esclusione funzionali allo Stato e alla moderna burocrazia. (103) Chi non si conforma all'identità statale, chi non si assimila ad essa, viene percepito come estraneo. In questo contesto anche il concetto di uguaglianza deve esser inteso come uguaglianza al modello imposto dal gruppo maggioritario, essere uguali significa recepire e conformarsi alla costruzione culturale dominate. La ripartizione dell'umanità in culture-identità rigide, consente di porre delle barriere identificative tra noi e l'altro, l'identità diviene la nuova frontiera che ci separa e ci distingue da chi non è come noi. Quest'ottica presuppone una concezione rigida dell'identità culturale, che porta Taguieff a parlare di 'razzismo differenzialista'. In questa chiave, le popolazioni immigrate, e aggiungerei anche alcuni gruppi portatori di una prioria specificità culturale come i rom, insediate nelle società occidentali, vengono temute, soprattutto, come una minaccia per l'identità culturale delle maggioranze autoctone. Come nota Beck, “ci si appiglia strategicamente ad un ipotetico essenzialismo della propria appartenenza etnica per ristabilire confini che stanno svanendo e mescolandosi, tra dentro e fuori, tra noi e loro.” (104) Gli individui vengono assegnati collettivamente ad una certa 'cultura' sulla base del fattore ascritto della nascita in un determinato paese o della discendenza da genitori rispettivamente autoctoni o immigrati. La cultura viene quindi, in un certo senso, naturalizzata e serve a rinchiudere gli individui in identità immutabili. (105)

L'identità culturale, sulla quale fondare la costruzione di una minoranza o di un gruppo, assume così due funzioni nell'ambito dell'ordine statale: diviene il confine mobile dell'inclusione/esclusione dell'altro e lo strumento di comprensione dei valori e modi di vita che l'altro promuove e che rilevano al fine di fornire un reale contenuto ai diritti in un'ottica sensibile alle differenze. Su quest'ultimo punto ci soffermeremo in seguito nell'analizzare le leggi regionali 'a tutela dei rom e sinti' che, come mostreremo, si sono fondate su una costruzione stereotipata di cultura rom basata prevalentemente sul tratto del nomadismo, dando vita ad un fenomeno unico nel suo genere, cioè l'imposizione di una vita nomade a gruppi rom che, da secoli, praticano la sedentarietà.

Per quanto riguarda la prima funzione del concetto d'identità di gruppo, cioè la sua capacità di creare confini per l'inclusione/esclusione dobbiamo dire che: per quanto riguarda i rom la mancata realizzazione del principio di uguaglianza formale, secondo il quale si fa divieto di un trattamento differenziato basato sull'appartenenza ad una razza, è stato eluso attraverso lo spazio extra-giuridico e cioè attraverso la costruzione rigida della cultura rom in termini devianti e criminali.

A conferma di questo mi sembra interessate riportare la costruzione identitaria dei rom offerta dall'onorevole Santelli nella proposta di legge volta “all'Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla condizione delle donne e dei minori nelle comunità rom presenti in Italia”, (106) la quale si basa su una lettura della cultura rom che, a mio avviso, è largamente condivisa dall'opinione pubblica italiana e che si fonda su stereotipi negativi. Questa costruzione rappresenta i rom come una minaccia per lo Stato, dipingendoli come criminali e devianti, come portatori di una cultura inferiore ed incivile.

Nella proposta di legge la comunità famigliare rom è rappresentata come un focolaio di criminalità, essendo governata da regole che, non solo configgono con il diritto statale, ma ledono i 'diritti fondamentali' di donne e bambini. (107)

Tratto caratteristico di tutti i gruppi rom è l'organizzazione sociale basata sulla famiglia allargata: la donna dipende completamente dal marito e dalla famiglia di cui è entrata a far parte al momento del matrimonio. Essa subisce quotidianamente la pressione della comunità che la spinge ad assumere abitudini e comportamenti degradanti. La donna è dunque vittima di violenza da parte del marito: si tratta di una violenza mai denunciata per paura di essere isolata dalla comunità. I bambini si sposano frequentemente, consistendo il matrimonio stesso in una sorta di vendita della ragazza alla famiglia del marito. Tale situazione genera l'abuso sessuale in danno alle bambine che devono infatti ripagare quanto per loro è stato versato dalla famiglia del marito. Il tasso di scolarizzazione tende allo zero perché questo facilita la perpetuazione dei comportamenti della comunità. Le donne e i bambini vengono addestrati da subito all'accattonaggio, al furto e indirizzati alla tratta di persone. (108)

Le parole della proposta ci rinviano a quanto già letto nel manuale di Goss e di Lombroso: (109)

“Le donne e i bambini della famiglia vengono addestrati da subito al 'lavoro': accattonaggio e furto. [...] L'addestramento è feroce, con l'esercizio di qualunque forma di violenza, fino a trasformarli in 'macchine criminali', capaci di rubare di tutto.” (110)

La costruzione della cultura rom, che emerge da questa proposta, sembra risentire degli influssi della scuola giuspositivistica, fondandosi su concetti d'inferiorità razziale che, anche se superati, purtroppo continuarono a sopravvivere. E sopravvivono all'interno delle mura del parlamento in una proposta di legge che, anche se non costituisce un documento ufficiale, è pur sempre un atto espresso dal mondo politico, che non ha destato indignazione proprio perché largamente condiviso, tanto da coloro che siedono in parlamento che dall'opinione pubblica. Questo documento è il sunto di una costruzione stereotipata della cultura rom, ben lontana dalle ricostruzioni offerte dall'antropologia. Essa s'inscrive in quelle correnti di pensiero che affrontano il rapporto tra culture diverse in una chiave assimilazionista, considerando la cultura della maggioranza come punto di arrivo per le altre.

La conferma del fatto che il mondo politico e l'opinione pubblica considerano la cultura rom in termini di devianza e criminalità perviene da alcune ricerche. Tra le più significative ricordiamo quella condotta dall'associazione OsservAzione, commissionata e finanziata da OSCE/ODIHR e CPRSI, e quella presentata da Mannheimer alla Conferenza europea sulla popolazione rom, organizzata dal Ministero dell'Interno e dal Ministero della Solidarietà sociale a Roma nel gennaio 2008. La prima ricerca ha riguardato la partecipazione politica e rappresentazione mediatica di rom e sinti. Il rapporto finale, intitolato “Political participation and media representation of Roma and Sinti in Italy. The case studies of Bolzano-Bozen, Mantua, Milan and Rome” mostra che il dibattito politico su questioni concernenti rom e sinti durante il periodo elettorale, si sviluppa, principalmente, sul tema della sicurezza, del degrado urbano e dell'accesso/sfruttamento delle risorse sociali da parte di queste comunità. Nel corso di tale dibattito, la voce dei rom e dei sinti è ascoltata raramente, contribuendo alla disumanizzazione della figura rom e sinta che viene presentata come un 'problema' e che richiede, secondo l'appartenenza politica di chi interviene, l'intervento di assistenti sociali o della polizia. La ricerca di Mannheimer mostra, tra i risultati più significativi, che: l'84% degli intervistati ritiene che i rom siano prevalentemente nomadi; il 92% associa l'immagine dello zingaro a quello del ladro; l'83% ritiene che lo zingaro viva, per propria scelta, in campi ai margini della città. (111)

Una volta assodato che la costruzione del gruppo rom, prevalente condivisa, è fondata su stereotipi e pregiudizi negativi, dobbiamo chiederci come tale costruzione possa rompere le barrire garantiste del principio di uguaglianza formale, riconosciuto nel nostro ordinamento all'art. 3 comma 1 Cost, determinando per i rom la violazione dei più elementari diritti e limitazioni nell'accesso a questi.

2.4.2 Costruzione negativa dei rom e principio di uguaglianza formale. L'analisi del contesto legislativo italiano

Con l'affermazione del diritto moderno, che si connota per esser rivolto ad un soggetto astratto dalle sue apparenze sociali, la diversità, della quale si fanno portatori i rom, non può più essere recepita nel dato normativo come categoria giuridica giustificante un diverso trattamento, questo, alla luce del principio di uguaglianza formale che vieta al legislatore di porre in essere un trattamento differenziato sulla base dell'appartenenza del soggetto ad un certo ceto o gruppo, garantendo l'applicazione del principio di generalità ed unicità della norma giuridica, conquista dello Stato moderno contro i corporativismi e i privilegi del periodo medioevale e dell'ancien régime.

L'esistenza del principio di uguaglianza formale, però, non ha impedito agli Stati di applicare, nei confronti dei rom, una 'legislazione speciale' che, anche se non rivolta direttamente a loro in termini formali, lo è in concreto. Nel caso dei rom si assiste alla creazione di uno status giuridico differenziato che si fonda su giudizi e stereotipi negativi, sulla base dei quali è costruito il gruppo stesso. La diversità di trattamento si realizza nel momento della definizione della fattispecie da incriminare e nella scelta della norma da applicare nei confronti degli appartenenti al gruppo rom, per cui fuori dal dato legislativo formale, che continua ad essere rivolto ad un soggetto astratto.

Per meglio comprendere questo concetto guardiamo al rapporto tra legge e rom che si è instaurato dalla formazione degli Stati moderni.

Come abbiamo visto in precedenza, a partire dalle teorie giuspenaliste dell'Ottocento i rom vengono costruiti come gruppo razziale che si connota per la sua inferiorità rispetto alla società gagé. Questa costruzione razziale, però, non può tradursi in una categoria legislativa poiché, lo Stato moderno si connota per un diritto astratto, rivolto ad un soggetto disancorato dalle sue appartenenze sociali e culturali, affermando il principio di eguaglianza di tutti gli individui di fronte alla legge senza distinzioni. In questo contesto, lo zingaro, perde i suoi connotati di categoria giuridica intorno alla quale costruire norme ad hoc, il diritto diviene impersonale, perdendo i tratti identitari dei suoi destinatari, per divenire astratto. Questo mutamento di prospettiva non determina però, la fine delle azione persecutorie verso i rom. Come spiega Simoni, l'affermazione di un soggetto di diritto unico e astratto rispetto al contesto sociale porta a spazzare via le norme antizingare insieme a tutti i diritti particolari dell'ancien régime. (112) La scomparsa della categoria 'zingaro' dai testi legislativi, non significa che si assista ad un abbandono delle politiche di esclusione verso i rom, ma semplicemente si ricorre a nuovi strumenti che siano compatibili con la nuova costruzione legislativa. Questo significa che il particolarismo culturale rom non traspare più dal testo legislativo ma trova spazio, tanto nell'individuazione delle condotte da perseguire che nel momento applicativo.

La legge, generale ed astratta, indirizzata ad un soggetto privo di una identità collettiva, è un mito, come sottolinea Simoni:

Le elaborazioni compiute dai critical race theorists sono un attacco diretto al mito della neutralità dell'ordinamento di fronte all'identità razziale, alla sua colorblindness. In questa prospettiva, anche una volta scomparse dal linguaggio normativo le formule esplicitamente basate su valutazioni di disvalore di un'identità razziale (reale o artificiale, qui non rileva) rispetto ad un'altra, si scopre come tali valutazioni sopravvivano in forme occulte, ma non per questo meno efficaci nel mantenere specifici gruppi in posizione subordinata o comunque nell'esercitare su di essi una particolare pressione attraverso gli apparati giudiziari e di polizia. (113)

La nuova legge generale ed astratta, può divenire uno strumento volto a colpire certi gruppi, nella misura in cui incrimini comportamenti che sono tipici, in via prevalente, di una certa cultura o del modo in cui questa cultura è rappresentata.

Il fatto che lo 'zingaro' non sia più categoria giuridica intorno alla quale costruire una disposizione legislativa, come si è visto succedere nei secoli precedenti, “non diminuisce però la tensione repressiva nei loro confronti. Semplicemente, si passa ad utilizzare le norme del nuovo diritto 'impersonale', in particolare quelle contro la mendicità e il vagabondaggio.” (114)

Il diritto penale diviene uno strumento attraverso il quale attuare politiche di assimilazione violenta nei confronti dei rom; i reati minori, dato il loro elevato livello di discrezionalità applicativa, divengono uno strumento efficace al fine di controllare un dato gruppo. Norme che restano inapplicate per il resto della popolazione, sono utilizzate per colpire esclusivamente i rom e sinti, ne costituiscono un esempio: la mendicità, il vagabondaggio, certe norme in materia di urbanistica. Qui risulta fondamentale la commistione tra il livello legislativo e quello amministrativo; se è vero che la categoria zingaro scompare dai testi legislativi, essa però rimane nell'ambito amministravo, degli operatori del diritto, attuando una disparità di trattamento difficile da dimostrare proprio perché si realizza in un contesto meta-giuridico.

Sul punto sono stati condotti una serie di studi tra quelli più interessanti ricordiamo La zingara rapitrice di Tosi Cambini, nel quale si analizzano alcuni casi di presunto rapimento (115) al fine di mostrare come operi, nella realtà, lo schema mentale: 'gli zingari rubano i bambini'. La ricerca mostra che su 29 casi di presunto tentato 'rapimento', solo 6 hanno portato all'apertura del procedimento e dell'azione penale: Desenzano del Garda (Brescia), 1996; Castelvolturno (Caserta), 1997; Minturno (Latina), 1997; Roma 2001; Lecco 2005; Firenze 2005. Le sentenze sono state differenti: sentenza di colpevolezza per tentato sequestro di persona (art. 56 c.p. e art. 605 c.p.), sentenza di colpevolezza per tentata sottrazione di persone incapaci (art. 56 c.p. e art. 574 c.p), assoluzione perché il fatto non sussiste, archiviazione del caso. Da questo si desuma che non vi è stato nessun processo conclusosi con una sentenza di condanna per il delitto di sequestro o sottrazione di minore.

L'aspetto interessante che emerge dell'indagine di Tosi Cambini è proprio questa discrasia tra realtà dei fatti, nessuna 'zingara' è mai stata condannata per 'rapimento', e lo schema mentale, socialmente condiviso, che mostra l'immagine della zingara come rapitrice. Tale stereotipo, come mostra la ricerca, incide sui diritti, (pensiamo al diritto di difesa, alla presunzione d'innocenza, ad un equo processo, solo per citarne alcuni), poiché esso trova conferma nell'operato dei mass media, dei giudici, delle forze dell'ordine e dei testimoni. Come mostra l'autrice, gli stereotipi rilevano fortemente nel momento in cui, nell'aula di Tribunale, ci si accinge a ricostruire un fatto, soprattutto se il capo d'imputazione consiste in un delitto tentato e non consumato. Da questo punto di vista è interessante la ricerca condotta da Quassoli (116) il quale, adottando una prospettiva etnografica, si concentra “sull'analisi delle modalità secondo le quali gli operatori del diritto [...] 'manipolano' strumenti tecnico-giuridici per prendere decisioni legittime in materia penale e usano codici come riferimenti normativi rispetto ai quali rendere coerenti le decisioni prese”. (117) L'autore si rifà, in particolare, agli studi di Sudnow, il quale ricostruisce “le modalità secondo le quali gli operatori del diritto utilizzano i codici come schemi di classificazione che 'funzionano' soltanto qualora vengano integrati con conoscenze di senso comune, largamente condivise e date per scontate, grazie alle quali le circostanze rilevanti di ciascun caso e i tratti socio-psicologici di ciascun imputato vengono riconosciuti come quelli cui tipicamente adattare la categorizzazione prevista dai codici” (118) Come fa notare Sudnow, il codice penale non fornisce gli elementi per decidere la corrispondenza tra l'evento in questione e il caso generale: le categorie e le definizioni codificate non possono che essere generali; inoltre “non esiste alcuna regola che connetta ciò che è prescritto dal codice a ciò che viene concretamente eseguito: la regola deve essere cercata altrove, nel carattere di reati intesi come classi di eventi definiti non in base alla legge, ma in base a qualche 'tipica caratterizzazione proverbiale' di senso comune”. (119)

Tosi Cambini, conclude la sua ricerca mostrando come, a suo avviso, gli operatori del diritto colmino i vuoti dei codici, dati dalla necessaria astrattezza e genericità di questi per renderli sempre utilizzabili, con criteri e caratterizzazioni proprie del senso comune. Secondo l'autrice:

essi lo fanno, nella grande maggioranza dei casi, senza guardare criticamente ai loro assunti d'ordine sociale o psico-sociale. [...] Capire come e quanto gli operatori del diritto utilizzano le conoscenze di senso comune (e, dunque, anche gli stereotipi) come base attraverso cui adattare la categorizzazione prevista nei codici alle circostanze del caso, dando luogo a un trattamento penale “giuridicamente” corretto / adeguato, permetterebbe agli stessi di aprire un processo riflessivo sul proprio operato e la possibilità, tra le numerose altre, di non incorrere (o incorrere meno) in situazioni in cui la colpevolezza dell'imputato è data per scontata. (120)

Su questo punto una conferma si rinviene nella testimonianza di un giudice penale, Silvia Governatori, (121) che per anni si è occupata di processi che vedevano rom coinvolti in qualità di imputati, mostrando come, in molti dei casi da lei seguiti, i pregiudizi e gli stereotipi abbiano inciso nelle decisioni dei giudici.

Secondo Governatori, il pregiudizio s'insatura in vario modo nelle decisioni: come parametro valutativo di elementi di prova, sia come parametro per la regolamentazione dei rapporti (es. nel caso delle decisioni del giudice minorile). Spesso le sentenze sono il frutto del sentimento e del convincimento di un giudice, velati dietro l'adozione di una motivazione razionale. Il pregiudizio, verso un gruppo etnico, può insinuarsi in un processo attraverso le massime di comune esperienza, che non sono alto che regole extranormative frutto dell'esperienza. Il pregiudizio verso i rom emerge anche nel momento della valutazione del fatto; ad esempio il cogliere un rom nel giardino di una casa, porta all'accusa di tentato furto in abitazione, in luogo di una violazione di domicilio, portando così i difensori a dover optare per un patteggiamento. Le interviste che ho condotto presso il campo nomadi dell'Olmatello a Firenze, sembrano confermare questa tesi, infatti, i soggetti da me intervistati, percepiscono quest'atteggiamento da parte della polizia e dei P.M.: l'essere 'zingaro', secondo loro, è già un indizio di colpevolezza.

Il pregiudizio rileva anche nel momento in cui è commisurata una pena ex art. 133, il quale prevede tra i parametri di valutazione, anche la condotta del reo prima del reato e la condizione di vita.

Ancora più forte è il pregiudizio verso e le madri rom, alle quali è tolta la potestà sui figli se colte a impiegarli nell'accattonaggio. I giudici non s'interrogano mai su quali siano le ragioni di bisogno che hanno spinto tali donne all'accattonaggio ma soprattutto, non si chiedono se vi sono delle ragioni di ordine culturale che spingano le donne a portare con loro i figli.

Le testimonianze, qui riportate, ci portano a concludere che, in una società con confini territoriali sempre meno delineati, la costruzione stereotipata in termini negativi dell'altro rappresenta il nuovo confine condiviso da un gruppo maggioritario per l'esclusione dall'accesso ai diritti, di chi è considerato diverso.

Un altro aspetto da sottolineare è che la costruzione dell'identità rom in termini di criminalità e devianza giustifica il ricorso, nei confronti di questo gruppo, a misure securitarie, con violazione del principio di uguaglianza e non discriminazione. Il misconoscimento dei rom, operato dallo Stato e largamente condiviso dall'opinione pubblica, costituisce la giustificazione a quelle disposizioni legislative, altamente lesive dei diritti fondamentali, adottate in nome dell'interesse alla pubblica sicurezza. A titolo di esempio ricordiamo il dibattito che si è sviluppato introno alle ordinanze del 2008. (122) Secondo l'ordinanza, la presenza su un territorio di un gruppo di persone, nel caso di specie, la comunità nomade, costituisce una calamità naturale, una catastrofe tanto da richiedere il ricorso allo stato di emergenza previsto dall'art 5 della Legge 225/1992. Dato che gli abitanti del campo, sotto il profilo dello status sono eterogenei, infatti, abbiamo cittadini, comunitari, extracomunitari, rifugiati, apolidi, l'elemento che li accomuna è il vivere nel campo, è l'essere nomadi. (123) In questo caso ci troviamo di fronte ad una categoria ombrello poiché il trattamento differenziato trova fondamento in una certa condotta di vita, vivere nel campo nomadi, che formalmente non identifica un gruppo etnico, facendo si che il disposto normativo non cada in una violazione palese del principio di uguaglianza formale. Proprio da questo punto di vista, il legislatore sostiene che gli interventi del 2008, non sono rivolti a un gruppo etnico ma sono finalizzati a superare la situazione, dovuta soprattutto agli insediamenti abusivi e ai campi-sosta, “di grave allarme sociale con possibili gravi ripercussioni in termini di ordine pubblico e sicurezza, nonché una altrettanto grave situazione di allarme sotto il profilo igienico-sanitario e di incolumità per gli stessi residenti nei campi.” (124)

Il legislatore sostiene che l'obiettivo è quello i superare tale stato di marginalizzazione creato dai campi proprio perché luoghi nei quali, a causa del pregiudizio e della emarginazione sociale, è favorita la delinquenza e l'illegalità, non volendo colpire un gruppo etnico o condotte riconducibili ad una data cultura. Sulla stessa linea del legislatore si muove la magistratura la quale a fronte dei vari ricorsi presentati contro le ordinanze accusate di porre in essere una violazione del principio di uguaglianza, non ha mai ravvisato una forma di discriminazione su base etnica. Per comprendere quali siano le ragioni di un mancato riconoscimento da parte del potere giudiziario di una discriminazione, procediamo all'analisi dalla sentenza del TAR del Lazio sez. 1 del 01 luglio 2009 n. 6352. Il ricorso è stato presentato da European Roma Rights Centre Foundation - ERRC e altri nei confronti di vari attori istituzionali tra i quali la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Protezione Civile, Ministero dell'Interno - Prefettura di Roma, Prefettura di Milano, Prefettura di Napoli. L'attore tra le varie censure avanza quelle inerenti alla violazione delle norme antidiscrmantorie sia previste dal diritto interno (art. 20 Dgs 196/2003) che dal diritto internazionale. Con la sentenza il giudice sancisce l'insussistenza di una situazione di discriminazione razziale nei confronti della comunità rom poiché:

L'evento da fronteggiare con mezzi e poteri straordinari non è stato individuato nella presenza di comunità nomadi in quanto tale, ma nel rapporto eziologico esistente tra detta presenza e la situazione di grave allarme sociale determinatasi, a causa della estrema precarietà degli insediamenti, con possibili gravi ripercussioni in termini di ordine pubblico e sicurezza per le popolazioni locali.

Interessante è il ragionamento che porta il giudice di merito ad affermare che non vi sia nessuna discriminazione né diretta né indiretta. Secondo il giudice “il criterio di individuazione dei destinatari degli atti non è l'etnia ma la presenza in insediamenti di comunità nomadi.” Ad assolvere il legislatore dall'accusa discriminatoria risulta essere il fatto che “non è destinataria (del provvedimento) una persona di etnia rom che non sia presente negli insediamenti”. (125) È il luogo come elemento oggettivo a divenire l'elemento rilevante per l'applicazione legislativa, è chi vive nei campi a divenire il destinatario.

Ovviamente queste posizioni possono essere contestate mostrando lo stretto legane tra il concetto di nomadismo e la costruzione etnica dei rom in Italia. Il fatto che uno dei tratti identitari al quale si ricorre per qualificare i rom sia il nomadismo, è confermato sin dagli anni Ottanta dalle leggi regionali che, in nome della tutela della loro specificità culturale e della loro identità, istituiscono i campi-sosta, luoghi destinati a soste temporanee e favorenti quello che alcune leggi chiamano il diritto al nomadismo. (126) Dato che in Italia le uniche leggi che prevedono un riconoscimento esplicito dei rom e della loro specificità culturale sono le leggi regionali, sembra essere un dato assodato, a livello legislativo, questo parallelismo tra rom, nomade e campo sosta. Ricorrendo alla legge transitiva, se il nomadismo è una specificità culturale rom, il campo-sosta esprime la risposta legislativa a questa, chi vive nei campi è nomade, chi è nomade è rom. Inoltre l'identificazione dei rom come nomadi trova conferma anche in uno spazio extra-giuridico, quello di luoghi comuni e degli stereotipi, secondo i quali, nell'immaginario collettivo, i rom sono pensati come nomadi. (127) Questi luoghi comuni non possono non influenzare anche la decisione del giudice del Tar, il quale quando sostiene che, l'evento da fronteggiare con mezzi e poteri straordinari non è la presenza di comunità nomadi in quanto tali, ma il rapporto eziologico esistente tra detta presenza e la situazione di grave allarme sociale determinatasi a causa della estrema precarietà degli insediamenti, sembra fondare il suo ragionamento su uno stereotipo consolidato che vede il campo nomadi come un focolaio di criminalità. Alla luce di quanto abbiamo detto, sembra difficile negare il fatto che l'analisi condotta dal giudice del Tar, non si fondi su massime di comune esperienza e su valutazioni che risentano di quei frames negativi dei quali abbiamo parlato sopra e che sono socialmente condivisi.

2.4.3 Conclusioni

Come ho cercato di mostrare precedentemente, l'identità, che lo Stato costruisce intorno ai rom, assolve la funzione fondamentale di confinare e delineare gli spazi entro i quali consentire, all'altro, l'accesso al diritto. Questa costruzione identitaria si struttura su stereotipi e pregiudizi che si sono andati costruendo nel tempo e che si fondano prevalentemente sul nomadismo. Si tratta di un'identità rigidamente costruita, che non tiene conto della variegata realtà rom, ma che finisce per incidere tanto sulle scelte legislative che sui destinatari.

Questo misconoscimento e questa costruzione rigida e negativa dei rom, ha generato, come ho cercato di mostrare nei paragrafi precedenti, delle discriminazioni nei loro confronti, portando i rom ad emergere come minoranza by force che rivendica il diritto di superare questo sistema di etichettazioni rigide e negative e di accedere in modo partitario alle strutture e tutele statali.

La possibilità per i rom di superare questo stadio si discriminazioni passa per un superamento della loro costruzione identitaria in termini rigidi e negativi, infatti, nel momento in cui l'identità assume la veste di un collante di un gruppo, il rischio è che questa sia costruita in modo eccessivamente rigido, rischia di cadere nello stereotipo e nella generalizzazione, imprigionando l'individuo in una unidimensionalità, trascurando il fatto che ogni individuo è unico e multidimensionale. (128) Nel caso dei rom la loro identità è stata costruita dall'eterno su elementi rigidi e stereotipati, che hanno portato l'individuo a vivere, per l'ordinamento statale, in una sola dimensione quella di zingaro/nomade. Tale identità investe ogni aspetto della vita del singolo, da quello lavorativo a quello abitativo e scolastico. Da questo punto di vista mi sembra rilevante la testimonianza di Radames Gabrielli, presidente dell'Associazione Nevo Drom e Federazione Rom e Sinti Insieme che, nel corso dell'intervento tenutosi a Milano in occasione della Conferenza Internazionale sulla Condizione Giuridica di Rom E Sinti in Italia, ha sottolineato come la sua appartenenza alla comunità sinta abbia avuto, su di lui, un effetto stigmatizzante; infatti, anche se cittadino italiano da diverse generazioni, la sua identità sinta tende a prevalere sulle altre identità di cui lui si sente portatore (tra le quali l'identità italiana), sia a scuola, dove per questa è stato emarginato allo luce di un pregiudizio secondo il quale i bambini rom 'non capiscono', sia nell'ambiente lavorativo, dove, quando dichiarava la sua appartenenza veniva licenziato. L'unico momento in cui ha potuto fare carriera e sentirsi veramente 'integrato' è stato durante il servizio militare, ma, una volta terminato, la sua identità l'ha inghiottito nuovamente.

Questa testimonianza ci mostra come le costruzioni identitarie possano trasformarsi in una prigione per il soggetto, oggi, infatti, si sta avanzando in dottrina una critica sempre più forte nei confronti di questa visione culturalmente unidimensionale dell'individuo. Come nota Aime: “ogni cultura è già di per sé multiculturale [...] Il tuo Cristo è ebreo. La tua macchina è giapponese. La tua pizza è italiana. La tua democrazia greca. Il tuo caffè brasiliano, la tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi. Il tuo alfabeto latino. Solo il tuo vicino è uno straniero. (Da un manifesto tedesco degli anni Novanta)”. (129) Remotti nel libro Contro l'identità, osserva che per uscire dalla logica dell'identità, per andare 'oltre l'identità', occorre riconoscere che l'identità è troppo riduttiva e selettiva (130) e ciò che si perde in essa è “l'apertura all'alterità, anzi il bisogno di alterità che, spesso in modo molto dialettico, si intreccia quasi inestricabilmente con l'esigenza di identità”. (131) Interessante è la posizione di Sen che rilegge la questione dell'irrigidimento identitario nel senso di un limite alla libertà di scelta dell'individuo.

Un individuo può anche decidere che la sua identità etnica o culturale è meno importante, per fare un esempio, delle sue convinzioni politiche, o dei suoi impegni professionali o dei suoi convincimenti letterari. E una scelta che dev'essere fatta da quell'individuo, a prescindere dalla casella che occupa in questa bizzarra 'federazione di culture. (132)

Per concludere possiamo dire che una costruzione rigida e stereotipizzata dell'identità dell'altro porta ad un appiattimento dell'orizzonte culturale, rappresentando il modo di vita, i valori, la cultura dell'altro sulla base di elementi e condotte, spesso non corrispondenti a realtà. Questo è molto rilevante quando, da una parte, questa costruzione identitaria entra nel dato normativo portando a sanzionare certe condotte, e veicolata dal pregiudizio, ad applicare certe disposizioni esclusivamente ai membri di un gruppo, dall'altra, in una società che si professa pluralista, il riconoscimento di un diritto alla differenza può essere realmente effettivo solo se le esigenze dell'altro sono interpretate in assenza di stereotipi.

2.5 Rom come minoranza by will. Fase del riconoscimento della diversità rom

La fase del riconoscimento dei rom come minoranza by will (133) può essere suddivisa in due momenti, che non necessariamente corrispondono a fasi temporalmente distinte. Da una parte assistiamo al riconoscimento dei rom come gruppo etnico dotato di propri istituti quindi, dal punto di vista del pluralismo giuridico antropologico, questo si traduce nella possibilità di riconoscere i rom come portatori di un proprio diritto; dall'altra assistiamo a una fase di riconoscimento della diversità culturale rom nel contesto legislativo, con la necessità, da parte dello Stato, di elaborare, una serie di strumenti giuridici capaci di recepire le richieste di 'riconoscimento' provenienti da quei gruppi portatori di un'alterità culturale. All'analisi del primo aspetto sono legate le problematiche concernenti i rapporti tra alcuni istituti 'giuridici' della 'tradizione' rom e l'ordinamento statale, il tutto da leggersi attraverso i vari modelli pluralistici. All'analisi di quest'aspetto sarà dedicato il terzo capitolo.

Quest'ultima parte del secondo capitolo vorrei dedicarla all'analisi degli strumenti messi a disposizione dal diritto statale al fine di riconoscere la specificità culturale rom, premettendo che, una spinta fondamentale al riconoscimento dei rom come minoranza by will si deve, soprattutto, alle politiche intraprese a livello europeo.

2.5.1 Il livello Europeo come motore del riconoscimento dei rom come minoranza

Il panorama di riferimento, nel quale va analizzata la vicenda del 'riconoscimento' dei rom nell'epoca postmoderna, è quella del quadro delle politiche europee, soprattutto quelle intraprese dalla U.E. e dal Consiglio d'Europa in materia di rom, sinti e travaller. A seguito dell'allargamento ai paesi dell'Est, l'Europa ha intrapreso una nuova politica nei confronti dei rom, la cui ratio è riassunta nelle parole di Guglielmo e Waters:

Sebbene l'Unione Europea e le altre istituzioni europee fossero inizialmente focalizzate sui controlli esterni alla migrazione, il fatto che l'allargamento ai paesi dell'ex blocco sovietico fosse inquadrato in termini di “valori comuni condivisi” ha costretto i paesi membri ad elaborare una strategia di governo della mobilità dei rom più orientata verso l'interno, fondata sui diritti fondamentali e la protezione delle minoranze. (134)

In un'ottica di acquisizione, da parte dei rom, della cittadinanza europea, e della libertà di circolazione come pilastro, anche se più programmatico che effettivo, (135) l'Europa è chiamata, come rileva Sigona, ad affrontare le questioni concernenti i rom all'interno di un registro differente, il cui perno non è più il 'se' i rom debbano essere integrati nell'UE, ma il 'come'. (136) Secondo questo indirizzo la questione della tutela e del riconoscimento dei rom s'iscriverebbe in un livello europeo, sottraendolo a quello nazionale, o comunque rendendolo vincolante per gli Stati alla luce degli obblighi comunitari.

Il dato che emerge con certezza, è che l'Europa, dagli anni Settanta, ha iniziato a farsi carico della questione rom adottando tutta una serie di atti che costituiscono un riconoscimento della comunità rom a livello europeo. (137)

Le politiche europee (138) possono essere inquadrate in tre linee d'intervento:

1) una nuova lettura della migrazione rom in chiave europeista: con l'allargamento del 2004 e 2007, circa due milioni di rom sono diventati cittadini europei e membri della più grande minoranza etnica europea rendendo “i diritti sociali e le preoccupazioni per la questione sicurezza una questione interna dell'Unione Europea.” (139) La libertà di circolazione, principio cardine del sistema comunitario, rende difficile bloccare la mobilità dei rom comunitari all'interno dei confini europei.

Oggi il confine rigido, che prima connotava le politiche dei singoli Stati nei confronti dei rom, espleta i suoi effetti verso i rom non comunitari. Questi trovano sempre più difficoltà ad accedere all'UE attraverso canali legali, sia per la rigidità e selettività delle politiche migratorie comunitarie verso i cittadini di paesi terzi, sia per il generale restringimento del diritto di asilo politico, nei confronti dei cittadini dei paesi che aspirano all'ingresso nell'UE, come Macedonia, Kossovo, Croazia, Serbia, Turchia, Albania e Montenegro. (140) Se a livello Europeo, l'indirizzo generale è quello di superare le espulsioni dei rom comunitari, l'Italia ed altri paesi come la Francia e la Bulgaria, sembrano intraprendere una politica di tutt'altro indirizzo, volta all'espulsione dei rom dai propri territori. In tal senso il 'caso francese' è quello che ha destato le maggiori critiche e preoccupazioni da parte delle Istituzioni Europee, portando, anche, all'adozione, ad opera del Parlamento Europeo, di una risoluzioni di condanna nei confronti delle autorità francesi. (141) Nel 2010, in Francia, in totale violazione del principio della libera circolazione in Europa, è stata attuata, una vera e propria politica di espulsione di massa nei confronti dei rom rumeni. Anche l'Italia ha adottato una politica del tutto analoga a quella francese. Costituiscono un esempio di questa politica restrittiva verso i rom, le ordinanze del 2008 e il ricorso, soprattutto verso rom rumeni, all'istituto dell'allontanamento del cittadino comunitario. Le politiche francesi e quelle italiane si muovono nell'ottica di una sorta di redistribuzione, tra i vari Stati europei, del 'problema zingaro' che porta milioni di persone ad essere private di quei diritti, che spettano loro, non solo in qualità di cittadini comunitari, ma anche di esseri umani.

2) Riconoscimento della specificità rom: questa fase può essere suddivisa in tre momenti:

a) Una politica antidiscriminatoria verso rom e sinti: come abbiamo visto sopra, il primo momento di una politica del riconoscimento, è rappresentato dal superamento delle discriminazioni subite dal gruppo rom, il quale aspira a un accesso paritario ai diritti, che nel loro caso, è negato soprattutto per effetto delle costruzioni negative e stereotipiate che li connotano. Lo strumento al quale si ricorre per superare la posizione di svantaggio che un certo gruppo riveste all'interno della società a causa delle discriminazioni subite, è rappresentato dalle azioni positive. Queste, infatti, sono volte a 'riequilibrare i punti di partenza' a vantaggio di quei soggetti che, per effetto della discriminazione, incontrano limiti nell'accesso ai diritti. Di fatto, a livello europeo per molto tempo le istituzioni comunitarie si sono limitate a rilevare la situazione di discriminazione diffusa e di esclusione sociale subita dai rom, (142) rendendo pubblica una situazione che per anni gli Stati avevano finto di non vedere. Solo di recente assistiamo ad interventi più incisivi, volti a favorire un'effettiva 'integrazione' dei rom, anche attraverso l'ausilio di fondi strutturali europei messi a disposizione degli Stati disposti ad attivare politiche volte a superare la situazione di discriminazione. A titolo di esempio ricordiamo il network EURoma, composto dai rappresentanti di 12 Stati membri, (143) che ha lo scopo di promuovere l'uso dei fondi strutturali per rendere più efficaci le politiche volte a promuovere l'inclusione sociale dei Rom; la Piattaforma europea per l'inclusione dei Rom, un forum di scambio di idee e buone prassi istituito dal primo “Summit europeo sui Rom” del 2008, (144) che ha portato all'elaborazione di dieci principi fondamentali comuni (non vincolanti) per l'inclusione dei Rom. (145)

b) Riconoscimento dei rom e sinti come minoranza; oltre alle azioni positive, che sono legate ad una politica antidiscrimiantoria, poiché volte a superare quello stato di disparità frutto di secoli di persecuzioni, uno strumento elaborato a livello Europeo, al fine di riconoscere i rom e i sinti come portatori di una propria specificità culturale è la categoria di minoranza. Nella raccomandazione n. 1203 del 1993 il Parlamento europeo afferma che i rom costituiscono una vera minoranza europea, sebbene, vivendo dispersi in tutta l'Europa e, non avendo un proprio territorio, non corrispondano alle definizioni applicabili alle minoranze nazionali o linguistiche. È proprio la specificità di tale minoranza, e in particolare la mancanza di un proprio territorio di riferimento, che induce ancora il Parlamento europeo, nel 1994, ad approvare una risoluzione nella quale si chiede ai governi degli Stati membri di predisporre misure giuridiche, amministrative e sociali che consentano di garantire il miglioramento della situazione sociale dei rom e dei nomadi, raccomandando agli Stati di completare la Convenzione europea dei diritti umani con un protocollo aggiuntivo nel quale la definizione di minoranza possa comprendere i rom in forma esplicita, attraverso un riferimento alle minoranze che non abbiano un proprio territorio.

A mio avviso, il riconoscimento dei rom come minoranza trans-europea, (146) s'inscrive, ancora, in un'ottica volta a superare le discriminazioni che questo 'popolo' ha subito in secoli di storia, più che costituire uno strumento attraverso il quale riconoscere effettivamente le loro specificità culturali. Riconoscere i rom come una minoranza, infatti, consente di attribuire una dignità a chi ne era stato privato. Non a caso le raccomandazioni che l'Unione Europa adotta, sono proprio volte a richiedere agli Stati membri un riconoscimento dei rom al fine di superare il misconoscimento che li ha portati a subire gravissime discriminazioni. Da questo punto di vista si pone l'accento sull'esigenza di garantire il rispetto dell'uguaglianza formale e il divieto di discriminazione, piuttosto che promuovere e tutelare la cultura rom. Infatti, la scelta, a livello europeo, di ricorrere alla categoria di 'minoranza' come strumento (147) di tutela per i rom, è legata all'esigenza di utilizzare lo stesso strumento al quale ricorrono la gran parte delle costituzioni (oltre 50 nel mondo) al fine di riconoscere e promuovere le diversità delle quali si fa portatore un gruppo di soggetti collocato all'interno dei propri confini.

Oggi, però, assistiamo, a livello europeo, ad una nuova politica intrapresa verso la diversità. Infatti, secondo Ruggiu, soprattutto nell'ambito del Consiglio d'Europa, si assiste ad una significativa evoluzione negli atti adottati, da un linguaggio mimetico rispetto al costituzionalismo che ruota intorno al concetto di minoranza, ad uno innovativo che esalta la diversità quale bene pubblico. (148) L'affermazione della diversità come bene pubblico significa una presa di coscienza del ruolo che la diversità culturale ha per lo sviluppo e la tutela dell'identità personale del singolo, che risulterebbe gravemente compromessa in assenza di un riconoscimento. (149) Mentre i primi atti adottati dal Consiglio d'Europa rimandavano al concetto di minoranza come strumento di tutela della diversità (es: la “Carta Europea per la Protezione delle Minoranze Linguistiche e Regionali” del 1992 e la “Convenzione Quadro per la Protezione della Minoranze Nazionali” del 1995), gli atti più recenti, come la “Dichiarazione sulla diversità culturale” del 2001 e il Final report che conclude il Cultural policy and Culturaldiversity project, registrano come in Europea si avverta un cambio nel modo di concepire la diversità. Quest'ultima, infatti, non ha più la valenza di aspetto connotante un gruppo di soggetti i quali rivendicano un riconoscimento nei confronti della maggioranza, ma la diversità divine un bene pubblico da valorizzare e tutelare. Questo mutamento, fa si che la diversità non sia più quell'elemento caratterizzante lo scontro tra una maggioranza e una minoranza, ma essa diviene una risorsa positiva di ordine culturale, (150) centrale per la tutela della persona, a prescindere dal gruppo sociale nel quale è calata.

c) Riconoscimento per via giurisprudenziale della loro specificità culturale; l'affermazione, a livello europeo, della diversità come elemento rilevante per la tutela dell'identità personale, porta a centrare l'attenzione sul soggetto, piuttosto che sull'attribuzione di diritti e riconoscimenti ai gruppi-minoranze. In questo conteso non può che essere il giudice europeo a farsi garante delle tutele del singolo, ponendo l'accento, anche, sulla sua appartenenza culturale. Da questo punto di vista rilevate è la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Dell'Uomo (CEDU) che si caratterizza per una presa di coscienza dell'esistenza di una serie di norme, prodotte dal gruppo rom, che sono capaci di incidere e di influenzare le scelte del singolo. Il riconoscimento dell'esistenza di queste norme prodotte dal gruppo rom porta ed interrogarsi sulla soluzione da intraprendere in caso di conflitto tra queste e le regole europee e nazionali. Quest'aspetto sarà oggetto di una specifica trattazione nel terzo capitolo.

3) Riconoscimento associazioni Rom e Sinti. Una terza linea d'intervento europeo, nei confronti del gruppo rom, consiste nel riconoscimento e nella partecipazione al dibattito politico delle associazioni rappresentative di rom e sinti. Questo indirizzo è volto ad attribuire ai rom la possibilità di partecipare direttamente alle decisioni politiche. Queste associazioni, infatti, ottemperano ad un vuoto di presenza e rappresentanza dei rom presso le varie istituzioni europee e nazionali, che, per secoli, gli hanno impedito di prendere parte alla definizione delle regole e del diritto. Tra le organizzazioni più attive per assicurare una difesa dei diritti dei suoi membri e, insieme, l'affermazione di una comune identità rom ricordiamo: l'European Roma Rights Center (ERRC), l'International Romani Union (IRU) e il Roma National Congress (RNC).

2.5.2 Costruzione dei rom come gruppo culturale

La possibilità di riconoscere i rom come minoranza by will avente una propria specificità da rivendicare nei confronti di una maggioranza, passa, necessariamente, per la costruzione dei rom come gruppo culturale, superando le costruzioni negative, fondate su stereotipi e pregiudizi che, come abbiamo visto sopra, portano a de-umanizzarli, giustificando un loro mancato accesso ai diritti.

Per secoli le politiche intraprese verso i rom sono state all'insegna dell'assimilazione, la quale richiede ai rom di abbandonare le proprie specificità culturali, considerate come inferiori, per conformarsi ai valori della società dominate. D'altra parte, l'assimilazionismo è il frutto di una costruzione del concetto d'uguaglianza, che, come abbiamo visto, si fonda sull'idea che essere uguali significa conformasi ai valori dei gagé (cioè della società dominate). Solo a seguito delle critiche avanzate dal 'pensiero della differenza' si apre la strada alla possibilità di un riconoscimento della specificità rom. I rom possono essere configurati come uno di quei gruppi oppressi (accanto alle donne, handicappati, nativi), che richiedono il riconoscimento della loro specificità contro il modello dominante.

Interessante è analizzare la costruzione che, con l'aiuto di discipline come l'antropologia e la sociologia, è stato fatto dei rom come gruppo culturale e quindi come minoranza by will, questo perché, nel dibattito multiculturalista il concetto d'identità diviene fondamentale per la comprensione dei valori e i modi di vita di un gruppo, per cui, la modalità della sua costruzione diviene veicolo attraverso il quale avanzare pretese di riconoscimento rispetto all'ordinamento statale.

2.5.2.1 Ricostruzione del dibattito sociologico e antropologico, concernete l'identità rom

A seguito del processo d'industrializzazione, attivato a partire dall'Ottocento, tutte le definizioni d'identità etnica rom, ricadono, a secondo dei diversi criteri categoriali che le sostanziano, in due categorie: quella inclusivista e quella esclusivista. (151)

Le tesi inclusiviste considerano assimilabile la natura dei più diversi gruppi sociali marginali; per cui gli 'zingari' sono rappresentati come gruppo che si riconosce ed è riconosciuto, non in virtù di tratti culturali comuni o della provenienza geografica, ma in virtù della propria condizione di outsider. (152) Il gruppo rom è così posto sullo stesso piano degli altri gruppi marginali. In questo caso l'identità etnica rom è legata alla definizione e alla percezione che gli insider elaborano e rimandano loro che, come abbiamo visto sopra, si fonda su stereotipi e pregiudizi negativi.

Rientrano in questa categoria tutte quelle costruzioni identitarie che si fondano su stereotipi e che hanno portato ad una deumanizzazione dei rom funzionale ad una loro marginalizzazione sociale e legata ad un concetto di uguaglianza costruito a partire dai valori del gruppo gagé (dominate). Questa costruzione negativa dell'identità rom incide, anche, sulla percezione che i rom hanno di se stessi, tanto che, secondo alcuni autori, i rom considerano la loro identità etnica come il protratto psicologico della loro marginalizzazione sociale. (153)

In alcuni casi le tesi inclusiviste hanno portato a negare l'esistenza dei rom come gruppo etico-culturale distinto, sostenendo che esso non sarebbe che una proiezione in negativo della società industriale contemporanea. (154)

Gli Stati, spesso, ricorrono alla costruzione identitaria dei rom secondo le tesi inclusiviste, al fine di negare una loro specificità culturale, assimilando la cultura rom alla devianza, alla marginalità e alla criminalità. Si tratta di tutte quelle costruzioni identitarie che, fondandosi su stereotipi negativi, portano i rom ad essere discriminati e di conseguenza a configurarsi come minoranza by force che ha come obiettivo quello di superare le discriminazioni subite.

L'altra costruzione dell'identità rom si rifà alle tesi esclusiviste. Queste tesi partendo da una costruzione 'reificata' di cultura, si fondano sulla ricerca d'indicatori culturali, in alcuni casi materiali come territori, tecnologia, manufatti per la sussistenza, in altri casi immateriali come la lingua, le credenze, i valori e le norme, che siano capaci di descrivere l'identità etnica di un gruppo. Sicuramente, la costruzione identitaria fondata sull'origine indiana, è quello che ha avuto gli sviluppi più particolari. Da un lato, è stata posta a fondamento della zinganologia che, sulla base del criterio dell'origine indiana, ha portato una distinzione tra veri zingari, mezzi zingari e non zingari, (155) classificazione che è stata posta a fondamento di tutti quei filoni che considerano i rom come 'esemplari etnici' e che, secondo alcuni autori, (156) hanno giustificato il porrajmos rom; (157) dall'altra, l'origine indiana divine elemento di rivendicazione da parte di un gruppo minoritario che, per mezzo dell'azione di élite intellettuali, avanza pretese 'emancipatorie'. (158) Tra queste due posizioni una parte della letteratura, (159) sottolinea come l'importanza attribuita alle origini del 'popolo' rom, soprattutto dal punto di vista linguistico-geografico, costituisca un momento di giustificazione della marginalizzazione ed esclusione che questo 'popolo' ha dovuto soffrire nei secoli.

Con il rinvio alle origini - tanto più lontane e remote - si cerca in qualche modo di trovare una giustificazione alla diversità, reale o presunta, delle popolazioni rom e sinte. Questa giustificazione diventa inoltre un tentativo di auto-assoluzione da parte della società maggioritaria nel momento in cui esprime un rimosso: la negazione di secoli di bandi, persecuzioni, stermini, violenze, emarginazione che hanno marcato, e marcano tuttora, profondamente la storia moderna delle comunità rom e sinte in Europa. (160)

I sostenitori della tesi esclusiviste hanno definito l'identità etnica dei gruppi rom ricorrendo ad un'ampia gamma di indicatori culturali. (161) Tra questi, oltre all'origine indiana e la lingua romanì, ricordiamo: le modalità abitative, le attività economiche, l'abbigliamento, i riti di amministrazione della giustizia o della pulizia del corpo e degli oggetti.

Il filone esclusivista, costituisce il punto di partenza per la costruzione dei rom come minoranza by will, poiché offre quegli indicatori culturali funzionali a dare una base identitaria comune ad una realtà rom che si presenta molto variegata.

Per capire come queste costruzioni d'identità rom incidano sul dato normativo, dobbiamo premettere che, la maggior parte delle costituzioni moderne considera la categoria di minoranza lo strumento attraverso il quale recepire, all'interno dell'ordinamento giuridico statale, la diversità culturale. Questo ha portato le élite intellettuali rom e gli 'studiosi gagé', che si battono per il superamento della condizione di marginalizzazione sociale dei rom, a ricercare e valorizzare certi tratti cultuali sui quali costruire un'identità di gruppo rom compatibile con le categorie legislative, al fine di liberare i rom dal misconoscimento identitario prodotto dagli stereotipi e pregiudizi, e per avanzare pretese di riconoscimento. L'idea è di ricorrere alle stesse categorie identitarie riconosciute dalla maggioranza al fine di ottenere un riconoscimento all'interno degli spazi consentiti dal diritto, il quale, come abbiamo visto, promuove il concetto di minoranza a strumento di tutela della diversità, accogliendo così, una concezione essenzialista e reificata d'identità culturale. Ad esempioricordiamo l'art. 6 della Costituzione che eleva il tratto identitario linguistico a requisito per la costruzione della minoranza (questo punto sarà analizzato in seguito nei paragrafi: 2.6.1.1, 2.6.1.2). Il rischio, però, è quello di ricorre a tratti identitari spesso generalizzati o addirittura non condivisi da tutti i membri del gruppo, promovendo un'idea d'identità rigida che continua a costituire un confine tra noi e loro, e che non opera certo come strumento liberatorio del soggetto, anzi continua a confinarlo in una sola identità, quella rom.

Spesso la scelta di un tratto identitario da porre a fondamento del gruppo, è mossa esclusivamente dall'esigenza di incontrare le richieste del dato legislativo piuttosto che rappresentare effettivamente gli interessi 'culturali' degli individui appartenenti ad esso. Come rileva Piasere, se, per le élite intellettuali l'origine indiana diviene strumento attraverso il quale, ricorrendo a una concezione della storia simile a quella dei non rom, si possono avanzare pretese nell'ambito di un ordinamento statale e sovrastale, per le comunità rom, i cui membri sono in gran parte illetterati, tale origine non ha alcuna rilevanza, anzi si crede che si tratti di un'invenzione dei gagè. La differenza nella concezione delle origini dipende dai diversi scopi perseguiti. Così le comunità rom che perseguano una politica della circostanzialità, non richiedono una storia passatocentrica, dall'altra, gli intellettuali cercano di costruire un'identità collettiva di tipo sostanziale, fondata sulla storia, per potersi inserire, da pari, nelle arene politiche nazionali e mondiali. (162) Questo fa si che, le varie ricostruzioni fatte dagli antropologi e sociologi, circa i tratti identitari (163) dei rom, si presentino, come strumenti facilmente adattabili allo scopo che ci si prefigge o al contesto nel quale si opera.

La costruzione di un'identità rom essenzialista non è andata esente da critiche. Come sottolinea Calabrò, la possibilità di ricondurre la maggior parte dei rom che vive in Europa occidentale a un'identità etnica basata su tratti somatici comuni a coloro che intorno al mille abitavano il sub-continente indiano, risulta essere impossibile; così come l'identità, costruita sul tratto linguistico, porterebbe a escludere la maggior parte di coloro che si definiscono rom ma non parlano romanè. (164) Come mostra Piasere, credenze e pratiche, alle quali si ricorre per sostenere la tesi dell'origine comune, si ritrovano anche nelle tradizioni popolari europee. La costruzione identitaria essenzialista, fondata su elementi rigidi, è una forzatura, infatti, come risulta dagli studi antropologici, ciascun gruppo rom è il prodotto inedito dell'incontro e lo scambio con altri gruppi rom e con la società gagé, (165) tanto che, alcuni autori sostengono che i rom siano una popolazione pluri-etnica che si è sviluppata nelle società locali. (166) Da questo punto di vista il rischio è quello di attribuire alla totalità del gruppo, per estrapolazione, tratti e pratiche cha appartengono solo ad alcuni gruppi.

Da questo si può desumere che la scelta di un tratto identitario, da porre a fondamento dell'identità, incide sulla costruzione del gruppo stesso, costituendo una sorta di chiave di accesso, fornita dall'esterno, per l'appartenenza ad esso. Ad esempio la costruzione del gruppo rom fondata sul nomadismo porta a ricomprendere soggetti che i rom non considerano essere culturalmente affini, basti ricordare il dibattito sui camminanti siciliani e travellers irlandesi, i quali considerati gagé dai gruppi rom, sono spesso qualificati da studiosi e dal legislatore come rom nell'ipotesi in cui il tratto identitario rilevate sia proprio quello del nomadismo. In altri casi la scelta del nomadismo come elemento identificativo della cultura rom, ha prodotto effetti distorsivi, etichettando, come nomadi, gruppi rom, che da tempo, praticano una vita sedentaria.

Per quanto riguarda l'aspetto degli strumenti che lo Stato offre ai fini della tutela della differenza culturale, possiamo dire che, l'adesione del legislatore ad un'identità rom rigida e stereotipata incide sul modo di costruzione dei rom come gruppo etnico-culturale e sulla lettura che si fa delle loro esigenze di vita. In questo caso, hanno un ruolo fondamentale, non solo gli stereotipi che rimandano alla delinquenza e devianza ma, anche, quelli che riconducono la cultura rom ad alcuni indicatori culturali, selezionati dai non rom, che tendono, comunque, ad appiattire l'eterogeneo panorama culturale romané. Il risultato è che, in Italia, il riconoscimento dei rom passa attraverso leggi regionali volte a tutelare la loro specificità culturale costruita su uno stereotipo che è ben lontano dal tener conto delle loro reali esigenze e che porta ad una segregazione e marginalizzazione 'camuffata' da 'richiesta culturale' che di fatto quel gruppo non ha mai avanzato.

2.5.3 La situazione italiana: una politica del riconoscimento trasformatrice di marginalità

Il caso italiano si caratterizza per un riconoscimento dei rom che non si realizza con leggi nazionali, ma è delegato a fonti secondarie e a leggi regionali, determinando un quadro normativo frammentato e spesso incoerente. A livello locale, l'incoerenza è data dalla coesistenza, da una parte di un 'riconoscimento' attuato con leggi regionali ad hoc, miranti alla 'salvaguardia di rom e sinti' e dall'altra da politiche locali volte all'espulsione dei gruppi insediati, dettate delle pressioni e degli interessi locali. Il quadro si complica se, dal livello locale, ci spostiamo all'analisi di quello nazionale, nel quale, si assiste all'ampliarsi d'interventi emergenziali che collidono con le politiche di 'integrazione' promosse dalle regioni e con le richieste di riconoscimento avanzate dalle istituzioni europee.

Il primo riconoscimento della specificità rom in Italia, in senso non solo emergenziale, si ha con due circolari, una del 1973 (167) che chiede ai sindaci di abolire i divieti di sosta per i nomadi e di favorirli in materia d'iscrizione anagrafica, licenze di lavoro, aree di sosta e scolarizzazione dei bambini, l'altra del 1985, (168) auspicante che, a livello locale, sia garantita eguaglianza tra gli appartenenti ai gruppi nomadi e gli altri cittadini e che venga promossa un'adeguata risposta ai bisogni primari delle popolazioni nomadi, nel rispetto della loro cultura e delle loro tradizioni di vita. Questi atti aprono la strada alle normative regionali (169) volte alla tutela 'dell'identità e del patrimonio culturale' dei nomadi, rom e sinti.

Le undici leggi regionali promuovono la tutela dei rom costruendoli come un gruppo etnico-culturale il cui tratto identitario rilevante, ai fini di una loro effettiva tutela, è il nomadismo. Questo, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, si traduce in una costruzione rigida di gruppo rom, fondata su un indicatore culturale ben preciso. Probabilmente l'idea che il nomadismo sia l'indicatore culturale più idoneo, ad avviso del legislatore, a rappresentare la specificità culturale dei rom, trova le sue radici in stereotipi che si sono consolidati in secoli di storia e che, nell'immaginario collettivo, hanno portato a identificare i rom come nomadi. Quest'aspetto non trova riscontro nell'analisi empirica. Se lo stereotipo e il luogo comune li vogliono 'figli del vento', viaggianti senza radici, il 60% della popolazione rom in Italia non è nomade ma vive in una situazione di sedentarietà. Il restante 40% è per metà semi-nomade e per metà sinti che sono per lo più giostrai o circensi, che viaggiano in ragione del loro lavoro itinerante. (170) Questo ci mostra come l'indicatore culturale scelto dal legislatore sia inadeguato a rappresentare le reali esigenze di vita di rom e sinti, anche perché, legato ad una costruzione stereotipata del gruppo stesso.

Una volta che il legislatore ha elevato il nomadismo a tratto culturale rappresentativo della specificità rom, per cui da preservare e tutelare, la naturale conseguenza è stata la creazione dei campi nomadi che hanno dato luogo ad una serie di effetti distortivi. Nelle leggi regionali “in difesa della cultura rom/nomade/zingara”, il legame tra protezione del nomadismo e costruzione dei 'campi nomadi' si fa palese, configurandosi quasi come un legame di causa-effetto, divenendo lo 'strumento' attraverso il quale promuovere la loro specificità. Dal dettato legislativo si ricava che: essere rom significa essere portatori di una specificità culturale, il nomadismo, della quale, i campi-sosta/nomadi costituiscano la risposta per un suo riconoscimento a livello legislativo.

Questo da luogo a due effetti distorsivi. Il primo effetto è legato a vecchi stereotipi che considerano i rom come marginali e devianti. I campi nomadi, che ad avviso del legislatore regionale costituiscono lo strumento attraverso il quale riconoscere la specificità rom, di fatto, venendo locati presso le zone più emarginate della città, si trasformano, da strumenti funzionali ad un loro riconoscimento, in “una forma di legittimazione culturale per la marginalizzazione dei rom”. (171) Come scrive Colacicchi (1995:11) “le leggi regionali li costringono a vivere - perché di costrizione si tratta quando, come generalmente avviene, ogni altro spazio è loro vietato - [...] in una condizione pesantissima a cui ben si adatta la definizione di apartheid.” (172) Il riconoscimento culturale si trasforma così in una prigione sociale che, partendo dal nomadismo, li porta a vivere ai margini della città, alimentando, nell'immaginario collettivo, lo stereotipo che li vede come marginali e disadattati sociali. (173)

Il secondo effetto distorsivo riguarda l'aspetto della costruzione dei rom come gruppo culturale. Le leggi regionali costruiscono, come abbiamo visto, il gruppo rom in termini rigidi in conformità a un indicatore culturale ben preciso: il nomadismo.

L'effetto distorsivo si realizza quando questa costruzione del gruppo rom, si estende anche a quei soggetti che, seppur si qualifichino come rom, di fatto non praticano il nomadismo. Le leggi regionali muovendosi dal punto di vista di una tutela della cultura ed etnia rom, nelle quali il nomadismo è assunto come tratto caratteristico della cultura romanés, (174) non fanno altro che estendere questo indicatore culturale a tutti quei gruppi che si considerano o sono comunque qualificati come rom ma non praticano il nomadismo. Ricordiamo che, come abbiamo visto sopra, questi gruppi costituiscono la maggioranza dei rom presenti in Italia (più del 60%).

Il risultato è che, in Italia, alla luce di un'immagine distorta che le leggi regionali promuovano della cultura rom, molti rom, praticanti uno stile di vita sedentario, sono costretti a vivere nei campi, realizzando e al contempo avvalorando l'immagine stereotipata che di loro hanno gli italiani. (175)

I campi nomadi hanno giocano, così, un ruolo essenziale nella costruzione e perpetuazione dei rom come gruppo che fonda sul nomadismo la propria peculiarità culturale. Questo fa si che, come sostiene Soravia, la definizione 'nomadi' si trasformi in “un fariseismo linguistico travestito da democrazia, si applica indistintamente all'intera popolazione rom e sinti, nonostante il numero di coloro che esercitano oggigiorno uno stile di vita itinerante sia molto limitato.” (176)

Interessante a tal punto è la testimonianza raccolta da N. Sigona a Firenze presso il campo nomadi ad un rom di origine Kosovara:

Diversi motivi mi hanno spinto a cambiare il corso della vita: primo, di essere “nomade”, cioè da Rom diventare “nomade”, diventare “zingaro” con tanti pregiudizi negativi soprattutto. Non mi sentivo proprio nomade quando ero nel mio paese, non mi sentivo “zingaro”, ladro, sporco, cencioso, allora ho voluto far vedere agli italiani che c'è una parte buona, che nessuno “zingaro” chiamerebbe un altro rom “zingaro”. (177)

Questo ci mostra come una costruzione rigida di gruppo culturale o di una minoranza, fondata su certi indicatori definiti dalla società maggioritaria, renda concreto il rischio di estendere, ad altri soggetti, gli indicatori culturali che, di fatto, connotano solo alcuni componenti del gruppo, determinando un appiattimento culturale, oltre che l'imposizione di uno stile di vita ben diverso da quello al quale i singoli soggetti aspirano.

Per capire gli effetti di questo sistema distorsivo riporterò, qui di seguito, un'analisi del caso dei rom provenienti dall'ex Jugoslavia a seguito del conflitto bellico.

2.5.3.1 Lo stereotipo del nomadismo come codice interpretativo della cultura rom: il caso dei rom kosovari

I rischi di una costruzione identitaria fondata su elementi culturali rigidi, come nel nostro caso il nomadismo, si possono comprendere analizzando la vicenda che ha coinvolto i rom provenienti dal Kosovo, migrati in Italia a seguito del conflitto bellico degli anni Novanta. La costruzione del gruppo rom come nomade ha favorito il protrarsi dello stereotipo che assimila i rom al nomadismo, elevando quest'ultimo a carattere identificativo della cultura rom, e di conseguenza di qualsiasi soggetto che si qualificasse come tale.

Limitando l'analisi alla vicenda del Kosovo cerchiamo di capire la corrispondenza tra stile di vita dei rom Kosovari e lo stereotipo che vede i rom come nomadi, il quale ha giocato un ruolo essenziale tanto nella politica di accoglienza verso i profughi rom provenienti dalle zone del conflitto in Jugoslavia, tanto nella possibilità di accesso allo status di rifugiato.

Non essendo questa la sede per sviluppare un argomento così complesso mi limito a tracciare le tappe essenziali della vicenda che ha riguardato i rom kosovari cercando di mostrate come la costruzione esterna d'identità rom, accolta dal legislatore italiano, abbia inciso sui diritti dei 'profughi rom' venuti in Italia per sfuggire alle persecuzioni subite nel loro paese.

In Kosovo, sotto il regime di Tito, i gruppi rom erano inseriti all'interno del tessuto sociale della regione, con una significativa borghesia rom, fatta da mercanti, liberi professionisti e intellettuali. (178) Tali gruppi erano prevalentemente stanziali e culturalmente eterogeni, alcuni parlavano come prima lingua l'albanese, altri il romané e altri il serbo-croato. La maggioranza era di religione musulmana ma vi erano anche cristiani ortodossi e cattolici. Secondo alcuni autori questa situazione d'inserimento nel tessuto sociale dei rom si deve alla struttura multietnica dello Stato Jugoslavo, il quale, però, non ha mai riconosciuto i rom come gruppo etnico, facendo si che, nell'ambito della sfera pubblica, la loro identità etnica non emergesse. L'equilibrio all'interno di questo Stato multietnico era garantito da un forte potere centrale e da una divisone degli incarichi, soprattutto a livello locale, in chiave etnica che, però, riguardavano esclusivamente i gruppi maggiori, dei quali i rom non facevano parte. (179) Questo mancato riconoscimento etnico non significò una loro esclusione da incarichi politico-amministrativi, infatti, l'accesso a questi veniva garantito facendo valere tratti culturali che gli consentivano di rientrare in uno dei gruppi 'tutelati'. Nel contesto del regime comunista di Tito, l'essere rom non costituiva né parametro d'inclusione né di esclusione. Con la caduta di Tito si è assistito alla riemersione di spinte nazionaliste ad opera di gruppi che avanzavano pretese rivendicatorie nei confronti dei territori dell'ex regime. Nel nuovo quadro politico, dominato da gruppi che promuovevano una propria identità nazionale da ancorare ad un contesto territoriale, il gruppo rom, come abbiamo visto accadere con la formazione degli Stati moderni, diviene oggetto di marginalizzazione, violenza e discriminazione.

Dalle testimonianze che ho raccolto presso il campo dell'Olmatello, emerge che i soggetti intervistati rimpiangono il regime comunista di Tito. Sotto questo regime, infatti, la loro specificità culturale non era discriminata. I rom avevano diritto, al pari di altri, dell'assistenza sociale. Con la caduta del regime sono divenuti oggetto di discriminazione poiché, non sono riusciti a trovare una collocazione politica tra i vari gruppi che si sono formanti. Arman è venuto in Italia nel 1999, prima di quasto momento viveva a Pristina, era figlio di una famiglia benestante, padre ragioniere al comune e madre impiegata presso le dogane, era giornalista sportivo. Con la caduta del regime, la crisi economica ha impoverito molte famiglie e la guerra ha portato alla distruzione della loro casa per mano Albanese. Questa situazione l'ha costretto ad abbandonare la sua terra.

La caduta del regime comunista ha determinato la riemersione dei nazionalismi; i tratti culturali, l'identità nazionale, divengano elementi di esclusione, creandosi forme di neonazismo e xenofobia, che porta molti rom, sia a causa del degrado e della marginalizzazione sociale, che della guerra in ex Jugoslavia a migrare verso occidente. L'Italia è uno dei paesi di arrivo di questo flusso migratorio.

L'arrivo dei 'profughi rom' si realizza dopo la fine della guerra, a seguito delle persecuzioni etniche subite per mano albanese. Il loro arrivo è accompagnato da allarmismo e timore, tanto che, la gran parte dell'opinione pubblica, reputa che non si tratti di veri rifugiati ma di persone che vogliono sfruttare la generosità italiana facendosi passare per kosovari quando, in realtà, sono nomadi, senza patria. Quest'opinione è il frutto della stigmatizzazione dello 'zingaro' culturalmente radicata, che trova la sua massima espressione nei campi nomadi. Questo fa si che l'indicatore culturale del nomadismo, preso in considerazione delle leggi regionali per recepire la specificità rom, venga attribuito anche ai rom provenienti dall'est, i quali, di fatto, nei loro paesi conducevano uno stile di vita sedentario. Questo fa si che in Italia si realizzi quello che Liégeois chiama: un nomadismo strutturale, cioè dovuto a contingenze storiche e sociali, ben lontano dall'essere espressione di un tratto culturale.

Interessanti su questo punto le parole di Szenete in un reportage sulla situazione dei campi fiorentini apparso su Roma Rights:

In Italia la questione dei romà è ridotta a una questione di nomadi. Questo significa che la domanda che le popolazione, le autorità e molti attivisti che hanno a che fare con i romà si pongono è: come trattare queste persone che sono socialmente inadatte alla vita della moderna società europea in quanto legate per tradizione a uno stile di vita itinerante? (180)

I rom provenienti dall'est, vengono, così, fatti confluire presso i campi nomadi, a prescindere che si trattasse di richiedenti asilo, rifugiati o semplici immigrati. Il tratto del nomadismo è imposto loro da una politica di accoglienza che porta molti immigrati a vivere una forma di nomadismo per loro sconosciuta. Inoltre l'attribuzione di un'identità nomade, secondo il rapporto dell'ERRC sull'Italia del 2000, “è adoperata spesso come giustificazione per escludere i romà dalle responsabilità decisionali normalmente previste per gli altri esseri umani.” (181) Il nomadismo, infatti, rappresenta anche uno stereotipo negativo che si accompagna all'idea di delinquenza e criminalità. Questi stereotipi divengono elementi giustificanti un trattamento diverso attuato verso questa comunità che ha avuto ripercussioni direttamente sul dato normativo. Nell'opinione pubblica italiana passava l'idea che i rom, poiché nomadi, senza terra, non potevano avere titolo per l'ottenimento dello status di rifugiato o l'asilo. (182) Questa convinzione troverà conferma nel dato normativo nella decisione dell'allora Ministro degli Interni Rosa Russo Iervolino, di non estendere l'applicabilità delle misure di protezione temporanea previste dal Decreto del Presidente del Consiglio (12 maggio 1999) ai profughi che giungevano sulle coste italiane dopo la fine dei bombardamenti NATO, (183) e che, date le contingenze storiche, erano prevalentemente rom.

I rom, provenienti dal Kosovo, vengano, così, etichettati come nomadi, divenendo oggetto di una disciplina differenziata alla luce di questo indicatore culturale che di fatto non li rappresenta. Essere etichettati come nomadi significa essere costretti a vivere nei campi entrando così in quel circolo vizioso di marginalizzazione che li porta ad essere visti come gruppo deviante, con tutti gli effetti distorsivi e negativi che abbiamo visto sopra (Paragrafo: 2.4.1).

Addirittura, secondo Sigona, (184) i campi nomadi sono vere e proprie istituzioni totali, divenendo centri di controllo da parte della forze dell'ordine e oggetto di sgomberi periodici. Questo determina una seconda forma di nomadismo forzata che costringe intere famiglie ad abbandonare le località d'insediamento per trasferirsi in centri vicini o in altri luoghi della città. Come sottolinea Piasere, le politiche locali, spinte dal pregiudizio verso questo gruppo, costringono i rom ad uno stile di vita errante a causa di norme che non favoriscono la loro sosta. (185)

2.6 Concetto di minoranza come strumento per la recezione nel dato legislativo della specificità culturale rom

Il concetto di minoranza è funzionale a garantire un'effettiva tutela della realtà rom?

Per rispondere a questo interrogativo è necessario analizzare il ruolo che questa categoria ha assunto all'interno del sistema giuridico dello Stato moderno, per poi passare all'analisi dell'utilizzazione che di questo strumento è stata fatta riguardo al gruppo rom.

Questa categoria assume una rilevanza e un senso se collocata all'interno dello Stato-nazione. La maggior parte delle Costituzioni moderne, infatti, la prevede come strumento capace di accogliere le diversità, garantendogli una disciplina giuridica. Le ragioni del successo e della rilevanza di questa categoria sono legate alla concezione d'identità e cultura nazionale che si afferma con la nascita degli Stati-nazione. Questi, come abbiamo già analizzato nel capitolo primo, al fine di garantire l'affermazione di un potere assoluto da esercitare su un territorio definito, devono promuovere il superamento del 'sistema di appartenenze' del soggetto che connota, tanto il periodo medioevale che l'ancien régime, il quale considera l'individuo calato in una dimensione comunitaria. L'esigenza di creare un rapporto diretto tra Stato e individuo, senza la mediazione dei gruppi intermedi, i quali avrebbero costituito una minaccia per la centralizzazione del potere statale, porta gli Stati a promuove un'unica identità e cultura nazionale, fondandola su una standardizzazione del linguaggio, delle tradizioni, dei costumi e delle origini. Questo crea un alto grado di omogeneità culturale che determina la creazione di una maggioranza nazionale, ai cui standard culturali sono chiamati a conformarsi tutti quei gruppi che intendono aderire al sistema statale. Le culture e le identità, divengano così il nuovo confine tra un noi, omologato ai valori imposti dal sistema statale, e l'altro. In questo contesto, le culture e le identità sono costruite in termini chiusi e reificati, secondo indicatori culturali (es. la lingua, le tradizioni, lo stile di vita), scelti e selezionati da chi detiene il potere. Ovviamente, questo porta a costruire le minoranze culturali in termini rigidi, sulla base di indicatori culturali, selezionati dalla maggioranza. Un esempio si rinviene nella nostra Costituzione la quale prevede esclusivamente due tipi di minoranze: quelle linguistiche e quelle religiose, non prendendo in considerazione altri indicatori culturali.

Il concetto di minoranza si presenta, così, legato ad una concezione di cultura reificata che porta ad una costruzione rigida e chiusa dei gruppi umani fondandosi su alcuni indicatori culturali che sono selezionati da chi detiene il potere. Minoranza, infatti, è un concetto relazione costruito partendo da una maggioranza la quale, detenendo il potere, ha il monopolio della diversità, cioè è lei, a secondo dei criteri che pone alla base del concetto di differenza, a stabilire i confini tra noi e l'altro. Nonostante questo, il concetto di minoranza è la categoria alla quale, la gran parte delle costituzioni democratiche, ricorre per disciplinare e recepire le diversità culturali.

Questo significa che il concetto di minoranza è costruito dagli Stati, e anche dalle istituzioni internazionali e regionali, su indicatori culturali reputati rilavanti da chi detiene il potere ma non necessariamente funzionali a un'effettiva tutela delle specificità delle quali si fa portatore l'individuo. Il caso delle leggi regionali italiane costituisce una conferma di questo indirizzo intrapreso dallo Stato verso il riconoscimento delle diversità. Selezionando il nomadismo come tratto culturale da tutelare, il legislatore non ha saputo offrire un'effettiva risposta alle richieste avanzate dal gruppo rom, anzi, ha contribuito a rafforzare gli stereotipi e i pregiudizi nei loro confronti.

Al fine di fornire un quadro generale dell'effettiva operatività della categoria di minoranza riguardo al riconoscimento culturale dei rom, procederò ad una breve analisi del contesto giuridico italiano.

2.6.1 Minoranza come strumento di riconoscimento della diversità nell'ordinamento giuridico italiano

L'art. 2 della Costituzione italiana sancisce che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

L'art. 2 Cost. è la norma che riconosce nel nostro sistema l'anteriorità della persona umana rispetto alla Stato e la necessaria socialità di tutte le persone. (186) Quest'affermazione trova conferma negli atti dell'Assemblea Costituente nei quali si riconosce la “precedenza sostanziale della persona umana (intesa nella completezza dei suoi valori e dei suoi bisogni non solo materiali ma anche spirituali) rispetto allo Stato e la destinazione di questo al servizio di quella”. (187) Alla luce di questo primato dell'individuo sullo Stato, secondo una parte della dottrina, la nostra costituzione non è la Costituzione di uno Stato moderno, che colloca al centro del sistema il cittadino, ma di una repubblica post-liberale che afferma il primato della persona umana, riconoscendo i diritti inviolabili a tutti a prescindere dalla cittadinanza. (188) Secondo la dottrina dominante, l'art. 2 Cost. afferma, tanto il valore primario della dignità umana, che il pluralismo sociale. Secondo il principio personalista si sancisce l'anteriorità dei diritti fondamentali sulle istituzioni statali. Questi diritti fondamentali, che sono riconosciuti a chiunque a prescindere dallo status, non sono qualche cosa di astratto ma risentono di una diversità sociale e culturale nel quale è calato l'individuo. Il senso dell'inciso dell'art. 2 “sia come singolo, sia all'interno delle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, bene si coglie nelle parole di Moro espresse in sede di Assemblea Costituente:

Con questo articolo si è voluto riconoscere un fondamento umanistico ai diritti inviolabili, ben sapendo che l'uomo non si esaurisce nel cittadino e, nello stesso tempo, si è voluto porre un coerente svolgimento democratico, poiché lo Stato assicura veramente la sua democraticità ponendo a base del suo ordinamento il rispetto dell'uomo guardato nella molteplicità delle sue espressioni, l'uomo che non è soltanto singolo, che non è soltanto individuo, ma che è società nelle sue varie forme, società che non si esaurisce nello Stato. (189)

Dai punti dibattuti nell'ordine del girono Dossetti, presentato in sede di I sottocommissione il 9 settembre 1946, si evince la volontà dei costituenti di riconoscere una dimensione sociale delle persona. Queste le parole dell'ordine del giorno a proposito dell'art. 2 Cost.: “[...] b) riconosca ad un tempo la necessaria socialità di tutte le persone, le quali sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale: anzitutto in varie comunità intermedie disposte secondo una naturale gradualità (comunità familiari, territoriali, professionali, religiose, ecc.), e quindi, per tutto ciò in cui quelle comunità non bastino, nello Stato; c) che perciò si affermi l'esistenza sia dei diritti fondamentali delle persone, sia dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello stato.”

Alla luce di questo, possiamo dire che l'art. 2 riconosce il principio pluralista che tutela l'homme situé, ossia l'uomo radicato nelle relazioni sociali, riconoscendo l'appartenenza sociale come parte integrante della sua personalità. (190) Questo significa un superamento della concezione tipica dell'età moderna che voleva l'individuo disancorato da ogni contesto sociale e che si esplicava in un rapporto diretto tra Stato e individuo, non mediato dai gruppi intermedi. Il nostro costituente, rompendo con la tradizione precedente, ha riconosciuto l'esistenza delle formazioni intermedie e la possibilità che esse possano esprimersi, poiché luoghi dove si forma e si sviluppa la personalità del singolo.

Una volta sancito il principio pluralista a livello costituzionale, il problema che dobbiamo porci è quello di capire quale tipo di pluralismo il nostro ordinamento è disposto a riconosce e permuove e se, la nostra Costituzione è pronta ad accogliere tutte le espressioni culturali, anche quelle portatrici di valori e di concezioni del mondo diverse e in alcuni casi anche configgente con quella statale

I nostri costituenti non affrontano espressamente la questione anche perché, nel 1947, l'idea di uno Stato multiculturale, dal punto di vista storico-sociologico, era lontana, ma ascrivano l'identità dell'individuo in uno spazio sociale fatto di comunità, dando rilevanza alla situazione sociale e di conseguenza culturale come elemento essenziale dell'identità individuale. Inoltre, dai lavori preparatori si può evincere che le comunità non sono considerate solo come spazio sociale di espressione dell'individuo ma, anche, come possibili destinatarie di diritti.

Partendo dalla scelta operata dal nostro costituente di prevedere un riconoscimento delle formazioni intermedie tra Stato e individuo, dobbiamo chiederci se vi sono degli strumenti volti a tutelare e riconoscerete quello che Pastore chiama il “pluralismo culturale”. (191) Quest'ultimo si distingue dal pluralismo economico o politico, in quanto, il fattore unificante dei corpi intermedi è rappresentato da una forma di appartenenza dell'individuo, ad un determinato gruppo, determinata sulla base di alcuni indicatori culturali (es: lingua, religione, storia, tradizioni ecc.).

In linea con la tradizione costituzionale moderna, il nostro Costituente ricorre, al fine di accogliere le specificità di gruppi culturali presenti sul suo territorio, al concetto di minoranza. Come ho messo in evidenziato sopra, (192) Il concetto di minoranza è costruito a partire da alcuni indicatori culturali che sono selezionati da chi detiene il potere. Se il concetto di minoranza costituisce lo strumento attraverso il quale si attua il pluralismo culturale all'interno del nostro ordinamento, un'importanza fondamentale assume la scelta dei requisiti selezionati dal legislatore per la costruzione della minoranza.

Il costituente, al fine di riconoscere le istanze culturali espresse da gruppi presenti al suo interno, ha optato per quello che Pastore definisce un modello di 'pluralismo tipizzato'. (193) Secondo l'autore: “il quadro di riferimento sociale degli estensori della Legge Fondamentale rimane infatti la comunità nazionale italiana e i profili di diversità culturale giuridicamente rilevanti sono ancora essenzialmente la lingua e la religione.” (194) Attraverso gli articoli 6 e 8 della Costituzione, lo Stato si è fatto carico di promuovere e riconoscere la diversità, solo nell'ipotesi in cui essa si esprima in una diversità linguistica o religiosa. Questo eleva la lingua e la religione ad unici indicatori culturali funzionali alla definizione del concetto di minoranza. (195)

La scelta a favore di un modello di pluralismo culturale tipizzato, significa procedere al riconoscimento giuridico solo di gruppi costruiti sulla base degli indicatori tipizzati dal nostro costituente (lingua e religione).

L'art. 6 Cost. è la norma che riconosce e promuove le minoranze linguistiche. Per comprendere l'importanza che l'art. 6 Cost. riveste nel nostro ordinamento, è necessario procedere ad una sua lettura in relazione al principio d'uguaglianza. L'art. 6 è stato introdotto dai nostri costituenti per promuovere una funzione diversa dalla proclamazione dell'eguaglianza senza distinzioni di lingua sancita all'art. 3 comma 1 Cost., il quale è espressione di una tutela di tipo negativo. L'art. 6 s'inscrive in una logica di tutela positiva, per cui, di un riconoscimento della diversità culturale meritevole di una tutela attraverso interventi positivi dello Stato. (196) La stessa Corte Costituzionale nella Sentenza n. 86 del 1975 rileva come “il principio di tutela delle minoranze linguistiche [...] rappresenta senza dubbio qualcosa di diverso, e di più, rispetto al principio di parità dei cittadini [...] e logico corollario [...] del più generale principio dell'art. 3, primo comma, Cost. [...] Tutela delle minoranze [...] significa, invece, esigenza di un trattamento specificatamente differenziato, in applicazione piuttosto dell'art. 6 Cost., prescrivente che la ‘repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche’”. (197)

Il passaggio da una tutela di tipo negativo a una tutela positiva, rappresenta una scelta fondamentale, posta in essere dal nostro ordinamento, a favore del riconoscimento delle minoranze linguistiche come entità portatrici di una propria specificità, la quale richiede, l'attuazione di politiche volte alla sua promozione, in un'ottica funzione ad una società pluralista e multiculturale. Il concetto di minoranza linguistica può assolvere la funzione di riconoscere la lingua come strumento di espressione dell'appartenenza a una cultura, a un gruppo o a una nazionalità diversa da quella cui appartiene la componente maggioritaria della società di riferimento, insomma, come sostiene Pizzorusso “come criterio d'identificazione di un gruppo sociale cui viene riconosciuta una qualche forma di soggettività giuridica in base al principio pluralistico inteso come pluralismo istituzionale.” (198)

Dato che, ad oggi, il concetto di minoranza linguistica è l'unico strumento previsto dal nostro ordinamento per il riconoscimento di una specificità culturale, dobbiamo chiederci se esso è funzionale o meno al riconoscimento della specificità rom.

2.6.1.1 Riconoscimento dei rom come minoranza nel quadro giuridico italiano

Il fallimento del tentativo di adattamento della categoria di minoranza linguistica al gruppo rom si deve a tre ragioni:

  • il primo aspetto da sottolineare è che la lingua non costituisce la peculiarità culturale della quale i rom richiedano un riconoscimento (o almeno costituisce un aspetto marginale tra le specificità delle quali sono portatori). Da questo punto di vista è interessante la Bozza di proposta di legge: 'Norme per la tutela e le pari opportunità della minoranza dei Rom e dei Sinti' promossa da un gruppo di studiosi (199) alla luce degli esiti delle posizioni emerse nel corso della “Conferenza Internazionale sulla Condizione Giuridica in Italia di Rom e Sinti”, tenutasi a Milano nel giugno 2010, che ha visto confrontarsi tanto esperti che associazioni rom e sinte. Nella bozza si pone l'accento sull'esigenza che una norma, volta al riconoscimento dei rom e sinti come minoranza, tenga conto di tutta una serie di specificità culturali della quali questo gruppo si fa portatore come ad esempio: le modalità abitative, l'istituzione matrimoniale e famigliare, il rito funebre.

    Una delle finalità di una legge sulle minoranze dovrebbe essere quella di adeguare il nostro dettato legislativo allo 'stile di vita romané' eliminando o modificando, tutte quelle norme che lo ostacolano; ad esempio modificando le norme del t.u. dell'edilizia del 2001 che, di fatto, ostacola la possibilità per i sinti di vivere in unità mobili situate in terreni privati, oppure adeguare le norme in materia di assegnazione di alloggi di edilizia popolare al fine di tener conto delle peculiarità delle famiglie allargate rom.

    Alla luce di quanto detto sopra prossimo concludere che, la categoria offerta dal nostro costituente di minoranza linguistica, risulta essere una categoria eccessivamente ristretta che male si coniuga con l'eterogeneo panorama socio-culturale rom, rischiando di escludere dalla tutela tutti quei gruppi non parlanti romané, oltre al non prevedere la possibilità di riconoscere altre specificità culturali.

  • Il concetto di minoranza continua ad essere una categoria elaborata da chi detiene il potere, per cui uno strumento attraverso il quel facilmente, se manca la volontà politica, possono essere esclusi dal riconoscimento certi gruppi, soprattutto se questi, come nel caso dei rom, sono stati oggetto di politiche di misconoscimento e discriminazione. Il concetto di minoranza, infatti, rimanda ad un'idea di maggioranza cioè di un gruppo di soggetti che, per quello che interessa il nostro discorso, hanno il monopolio dei valori etici. Tale maggioranza traduce questi valori in diritti, che non tengono conto delle esigenze dell'altro, anzi, spesso rappresenta quest'ultimo come inferiore, come 'un mezzo-uomo', come tale non meritevole neppure delle più elementari tutele.

    In questo sistema, le richieste dell'altro passano attraverso un riconoscimento come minoranza, i cui parametri d'accesso, però, sono stabiliti dalla maggioranza stessa. In questa logica, gli eventuali diritti riconosciuti al gruppo non sono concertati con i membri di questo ma sono 'concessi', soprattutto se il gruppo di riferimento non ha accesso alle istituzioni politiche.

    A questo deve aggiungersi che, delegare il riconoscimento culturale al concetto di maggioranza determina il rischio di creare una gerarchia tra le minoranze presenti in un paese, es: tra minoranze nazionali, straniere, riconosciute o non riconosciute, realizzando una sorta d'imbuto selettivo per l'accesso ai diritti, spesso ampliandoli o riducendoli in base alla forza politica o sociale che un certo gruppo ha all'interno della società dominate.

  • Il concetto di minoranza, essendosi formato in seno allo Stato moderno ne rispecchia ancora le logiche che sono quelle di suddividere le appartenenze degli individui in gruppi rigidi e chiusi. Come abbiamo visto il concetto di minoranza, se costruito su indicatori culturali selezionati da chi detiene il potere rischia di dar luogo ad un appiattimento culturale, soprattutto in quei gruppi variegati al suo interno, come i rom e i gruppi islamici. Questo porta ad assimilare, tra loro, gruppi anche molto diversi dando luogo ad un irrigidimento identitario. Un altro rischio è di veder riconosciuti certi diritti solo a chi si professa membro del gruppo, escludendo dalla tutela chi ne avrebbe interesse ma non si dichiara appartenete ad esso.

Nonostante tutte le critiche che si possono avanzare alla scelta del nostro costituente di ricondurre la tutela del pluralismo culturale nel concetto di minoranza linguistica, ad oggi, non sembrano esservi, a livello legislativo, soluzioni alternative per ottenere un riconoscimento delle specificità rom.

Affinché questa costruzione di minoranza possa adattarsi ai rom, è stato necessario ricostruire l'identità rom in termini essenzialisti, fondandola sull'indicatore culturale linguistico. Perciò, la lingua romané diviene criterio che determina l'apparenza a questo gruppo, e quindi, il paramento d'inclusione/esclusione da esso. Ovviamente come abbiamo rilevato prima, la costruzione del gruppo rom in termini essenzialisti porta a sottrarre dalla tutela tutta una serie di gruppi che non parlano romané ma che esprimano, comunque, altre specificità culturali meritevoli di tutela.

Dato che il gruppo rom può essere costruito sulla base dell'indicatore culturale richiesto dal legislatore, perché, ad oggi, i rom non sono riconosciuti come minoranza nella legge 428/1999? La ragione è legata al fatto che l'indicatore linguistico non è l'unico criterio considerato dal legislatore, affianco ad esso, è previsto il criterio territoriale, per cui l'azionabilità dei diritti delle minoranze protette è legata ad un certo contesto territoriale. L'appartenenza di un soggetto a una minoranza linguistica, può dar luogo a una serie di situazioni giuridiche solo se, legata ad un territorio, così ad esempio un cittadino francofono valdostano può legittimante far uso dei suoi diritti linguistici solo nel territorio della Valle e non in altre regioni. (200)

Dato che il legislatore richiede per la tutela della minoranza, non solo la specificità linguistica, ma anche il radicamento in una particolare parte del territorio statale, diventa difficile adattare la categoria 'minoranza' ai rom. Tanto più che il legislatore regionale ha accolto il nomadismo come indicatore culturale dell'apparenza al gruppo rom, alimentando gli stereotipi, già presenti nell'opinione pubblica che qualificano i rom come 'un popolo errante'. La costruzione dei rom come gruppo non collegato ad un contesto territoriale ma diffuso nel territorio dello Stato, ha fatto venire meno uno dei due requisiti richiesti dal legislatore per tutelare i rom come minoranza linguistica. L'incapacità di una corretta recezione, ad opera del legislatore, delle peculiarità culturali rom ha inciso sulla possibilità di un effettivo accesso ai diritti.

Al fine di una migliore comprensione dell'argomento, andiamo a ricostruire le linee essenziali del dibattito concernete la possibilità di costruire i rom come minoranza linguistica.

La possibilità per i rom di ricorrere alla categoria di minoranza come strumento di tutela, ha risentito del dibattito dottrinale degli anni Settanta concernete la modalità di attuazione del dettato costituzionale, che vide contrapposte due diverse posizioni quella di Salvi da una parte e De Mauro dall'altra. Salvi è promotore di una posizione territorialista che assume come parametro assoluto, ai fini della tutela, il vincolo stabile tra una minoranza e una porzione di territorio nazionale; partendo da queste premesse il pubblicista fiorentino in un saggio del 1976 scrive:

Non sono minoranze linguistiche, in senso legale, quelle comunità di lingua non italiana che appaiano nomadi, disperse o che comunque non caratterizzano tradizionalmente alcun territorio, nemmeno a livello minimo di comune: è il caso degli Zingari, degli Ebrei e dei cittadini italiani cosiddetti di origine straniera i quali si sono stabiliti nel territorio della repubblica. (201)

Dall'altra De Mauro sostiene una posizione che possiamo definire soggettivista, volta a riconoscere il diritto soggettivo alla lingua, disancorandolo dal contesto territoriale. Come sostiene De Mauro:

L'interpretazione limitatamente territorialista delle tutela delle minoranze in un paese di intensa mobilità migratoria come l'Italia, non solo esclude gli Zingari dalla tutela, ma mette in forse l'effettiva tutela linguistica di buona parte dei gruppi di idioma diverso dall'italiano spostatosi fuori dal territorio di origine. (202)

La posizione territorialista pone in essere una serie di rischi. Come mise in luce la gran parte della sinistra storica, un approccio territorialista può portare a recuperi forzati della tradizione, e quindi, ad una estremizzazione dell'appartenenza etnica, favorendo separatismi e razzismi alla rovescia, invece che tutelare la diversità. (203) L'approccio personalista invece porta a considerare l'espressione linguistica come bene culturale, disancorato dal contesto territoriale. A fondamento di tale indirizzo vi è l'idea di tutelare la lingua poiché manifestazione di una cultura che merita un trattamento paritario. Come sostiene Pizzorusso tra gli obiettivi delle misure di tutela delle lingue come beni culturali, vi è quello di far capire a tutti che la propria lingua è soltanto una delle possibili forme di espressione e che essa non è né migliore né peggiore delle altre, incrementando così lo spirito di tolleranza e comprensione tra i popoli. (204) In quest'ottica trovano uno spazio di tutela anche le lingue degli immigrati e dei rom. Da questo punto di vista possiamo dire che aderire ad una concezione territorialista significa ridurre la portata pluralista dell'art. 6 Cost., ancorando il riconoscimento ad una collocazione territoriale del gruppo, la quale, oltre ad essere orami superata nel contesto contemporaneo connotato da dinamiche di mobilità degli individui, sembra scontrarsi con i recenti indirizzi che pervengano dal livello internazionale e che considerano, titolare del diritto linguistico l'individuo non la comunità. In questo senso ricordiamo l'art. 3 della “Convezione quadro per la protezione delle minoranze nazionali”, (205) il quale, secondo parte della dottrina, sancirebbe che, destinatario dei diritti previsti dalla Convenzione non è la minoranza in sé, ma la persona appartenete ad essa. Quindi, la Convenzione non riconosce diritti collettivi ma fonda la tutela sulle persone appartenenti a minoranze nazionali, le quali, parafrasando lo stesso art. 3 della Convenzione, “possono esercitare individualmente ed in comunità con altre persone, i diritti e le libertà derivanti dai princìpi enunciati nella presente Convenzione quadro.” (206)

Su questo dibattito nazionale s'inseriscono gli interventi europei, mossi da una spinta verso il riconoscimento dei rom come minoranza. Da questo punto di vista, la pluricitata “Risoluzione sulla situazione degli zingari nella comunità”, adottata dal Parlamento Europeo nel 1994, costituisce una presa di coscienza, a livello dell'U.E, del misconoscimento che i rom sono stati costretti a subire in secoli di storia. Con questa risoluzione s'invitano gli Stati ad un riconoscimento dei rom a livello legislativo attraverso la categoria di minoranza:

Il popolo Rom è una delle minoranze più importanti dell'Unione Europea, per cui vanno tutelate la lingua e gli altri aspetti della cultura zingara come parte integrante del patrimonio culturale europeo; e quindi si raccomanda ai governi degli Stati membri di completare la Convenzione europea dei diritti umani con protocollo aggiuntivo sulle minoranze, nel quale la definizione di minoranza possa comprendere gli zingari in forma esplicita, attraverso un riferimento alle minoranze che non abbiano un territorio proprio.

L'Unione, prendendo coscienza che la categoria di minoranza elaborata tanto a livello internazionale che a livello statale, non è idonea a garantire un riconoscimento ai rom, invita gli Stati a ricercare una nuova definizione. Il problema dell'inidoneità della definizione di minoranza, elaborata tanto a livello nazionale che internazionale, a ricomprendere i rom, viene sollevato dal Congresso dei Poteri Locali e Regionali d'Europa (CPLRE) il 31 maggio 1994, con la risoluzione n. 16 relativa a: “Il contributo dei Rroms alla costruzione di una Europa tollerante”. Nel rapporto preliminare si pone l'accento sul problema di un'accezione ristretta del termine di minoranza, non funzionale ad includervi i rom. Tale problema non è stato risolto neppure dalla “Convezione quadro per la protezione delle minoranze nazionali”, documento tutt'oggi fondamentale, adottato dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa il 10 Novembre del 1994 e ratificata dall'Italia con legge n. 302 del 28 agosto 1997 ed entrata in vigore il 1º marzo 1998. Quest'ultima, costituisce un documento sicuramente significativo, essendo il primo trattato multilaterale concluso con riferimento specifico alla questione delle minoranze. Essa, però, risulta, tuttavia, limitata dalla sua natura di “Convenzione quadro”, e cioè di Convenzione che detta le linee guida che dovranno poi essere trasposte dagli Stati nei loro ordinamenti interni mediante disposizioni normative di dettaglio. Il testo della convezione rinuncia a dare una definizione di minoranze nazionali, lasciando la sua applicazione nei confronti dei rom, ad una scelta operata dai singoli Stati. (207)

Anche se a livello europeo non si offrono strumenti vincolanti ed effettivi per un inquadramento dei rom come minoranza, sicuramente, però, l'indirizzo è quello di promuovere un loro riconoscimento. Questo, anche attraverso la così detta soft law, adottata dagli organismi chiamati a garantire la corretta attuazione della Convenzione quadro. (208) Infatti, anche se non vincolanti, i richiami provenienti da questi organismi, in caso di mancato adeguamento della legislazione statale alla Convenzione, costringano gli Stati ad indicare le ragioni del mancato adeguamento, mostrando pubblicamene la loro inadempienza.

Nonostante gli inviti provenienti dal livello europeo a riconoscere i rom e sinti come minoranza, la legge 482/99 “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”, li esclude. Questo, come sostiene Palermo, porta i rom ad essere inquadrati all'interno della categoria creata dalla dottrina, (209) delle minoranze non riconosciute, le quali, seppur hanno il requisito oggettivo della lingua, di fatto per ragioni socio-politiche sono esclusi dalla tutela. (210)

Le ragioni ufficiali del mancato riconoscimento dei rom come minoranza, sono riconducibili a due criteri: la mancanza di una specifica concentrazione territoriale e la difficoltà di inquadrare questi gruppi come minoranza 'linguistica', giacché la maggior parte dei rom e sinti presenti sul territorio italiano non parlerebbe il romanés ma altre lingue (e spesso l'italiano). Secondo il Ministero degli Interni nel “III rapporto dell'Italia sull'attuazione della convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali (ex art. 25 paragrafo 2)” del 2009, (211) la richiesta di un ancoraggio del gruppo ad un territorio deriva dal fatto che il diritto all'uso della lingua nei confronti della pubblica Amministrazione, il diritto all'istruzione e l'accesso ai media riconosciuti dalla legge 482/1999 (art. 4) possono esplicarsi soltanto in un ambito territoriale definito e su richiesta delle minoranze stesse attraverso l/3 dei consiglieri ovvero del 15% della popolazione residente. (212)

È innegabile, tuttavia, che la scelta a favore dell'esclusione dei rom, sia di carattere essenzialmente politico. Nelle precedenti proposte di legge di attuazione dell'art. 6 Cost. i rom venivano sempre menzionati (così come nel disegno di legge iniziale che ha condotto alla l. 482/1999), inoltre, il criterio linguistico è pienamente soddisfatto per l'esistenza di una lingua minoritaria (molti sono del resto gli appartenenti ad altre minoranze riconosciute che non parlano la lingua minoritaria) e il criterio territoriale, non solo non è l'unico possibile per l'attuazione della Costituzione (come affermato dalla Corte Cost. nella sent. 406/1999, anche se la Corte sembra recentemente adottare una lettura più rigida sul punto, v. sent. 159/2009), ma è in qualche misura derogabile secondo la stessa legge 482, che prevede, all'art. 3 comma 3, che le minoranze riconosciute “distribuite su territori provinciali o regionali diversi [...] possono costituire organismi di coordinamento e di proposta, che gli enti locali interessati hanno facoltà di riconoscere”. (213)

Dato che la legge è il frutto di una scelta politica e non è un dato immodificabile e permanete, le reali ragioni dell'esclusione dei rom e sinti dalla tutela linguistica, si rinvengano in quella che Marta chiama “l'antica mira assimilatrice nei confronti dei rom” (214) ad opera del legislatore. Come si è mostrato nella ricostruzione storica delle vicende legislative, le politiche verso i rom si sono mosse nella direzione dell'assimilazione, negando ai rom un riconoscimento culturale.

Quest'aspetto si può facilmente riscontrate in due atteggiamenti legislativi. Da una parte il legislatore tende a considerare i rom e sinti come un problema di ordine pubblico adottando provvedimenti di carattere emergenziale. Tali atti trovano giustificazione nella criminalizzazione del gruppo rom fondata su stereotipi e pregiudizi altamente condivisi (sul punto rinvio a quanto già detto nel paragrafo: 2. 4. 1). Dall'altra ricordiamo tutte quelle disposizioni, ad esempio le leggi regionali oppure tutte quelle misure ad hoc, con particolare riferimento ai settori dell'istruzione, dell'edilizia e del lavoro, volte a 'favorire l'integrazione di queste comunità', si occupano esplicitamente di rom e sinti e che costituiscono una sorta di 'normativa speciale' alla quale il legislatore ricorre al fine di rispondere alle loro specificità. Queste disposizioni potrebbero portare a sostenere un riconoscimento sostanziale dei rom e sinti, di fatto però questi interventi s'iscrivono in un'ottica completamente diversa da quella del riconoscimento dei rom come minoranza in forza dell'art. 6 che si fa promotore di un'istanza pluralistica. Gli interventi locali, infatti, s'inscrivono in una concezione d'integrazione, che si traduce in una politica di assimilazione nei loro confronti. Spesso, queste misure, s'inscrivono nell'ottica del così detto 'in or out' dove la possibilità di fruire e accedere alle misure masse a disposizione per loro dalle istituzioni pubbliche è subordinata all'abbandono dei loro tratti culturali, o comunque si tratta di servizi che non tengono conto delle loro specificità. Questo porta a non configurare i rom come gruppo culturale avente una propria specificità da promuovere o riconoscere, ma come un gruppo marginale che necessita di un aiuto assistenziale da parte degli enti pubblici. È evidente, che ad oggi non vi è un'effettiva volontà legislativa di riconoscere i rom come gruppo culturale o minoranza by will meritevole di un riconoscimento.

La lettura che prevale nel dato legislativo rispetto ai rom è quella emergenziale, di un 'popolo criminale' che promuove uno stile di vita all'insegna dell'illegalità, della violazione dei diritti dei suoi membri. Anche le leggi regionali, che avrebbero dovuto costituire una forma di riconoscimento della loro specificità, fondandosi sullo stereotipo del nomadismo non hanno fatto altro che alimentare stereotipi negativi, costringendo i rom a vivere in una condizione di precarietà e marginalità. Quest'atteggiamento legislativo si ripercuote anche nella scelta di non riconoscere i rom come minoranza linguistica.

Lo stereotipo del nomadismo, largamente condiviso nell'opinione pubblica e confermato nelle leggi regionali che lo hanno finito per alimentare, ha fatto sì che, la territorialità divenga l'elemento attraverso cui giustificare il loro mancato riconoscimento come minoranza. Lo stereotipo condiviso che porta a considerare i rom e sinti come nomadi si scontra, però, con i dati pervenenti dalla realtà empirica. Infatti, molte comunità rom e sinte, soprattutto nel nord Italia, sono da secoli ben radicate sul territorio tanto da costituire dei gruppi di antico insediamento per i quali non sarebbe difficile dare attuazione all'attuale dettato legislativo. Questo significa che, anche nell'ambito di un modello territorialista, se vi fosse stata la volontà politica vi sarebbe stato spazio per un loro riconoscimento.

Il mancato riconoscimento dei rom come minoranza trova fondamento in una volontà politica di esclusione, alla luce della loro estraneità e diversità culturale. La diversità culturale dei rom porta a prediligere una politica della distanza che negli ultimi anni si è affermata e rafforzata, piuttosto che una politica del riconoscimento delle differenze che possa aprirsi ad un dialogo pluralista. Se le ragioni ufficiali della loro esclusione si fondano sulla mancanza di territorialità, le reali ragioni sono messe in luce dalla dichiarazione del deputato dei verdi Boato, membro della Commissione Affari costituzionali, che ha preso parte al dibattito sulla legge sul riconoscimento della minoranze linguistiche “Diciamola tutta, perché fa bene dirsi la verità: ci fu un ostruzionismo feroce della Lega e il relatore, Maselli, una persona di grande cultura, suo malgrado cerette. Lo dico perché le difficoltà che trovammo allora le troveremo anche oggi.” (215) Queste parole dell'onorevole mettano in risalto come il pregiudizio nei confronti dei rom e sinti sia radicato tanto nella politica che nell'opinione pubblica. Se alcuni partiti hanno mosso istanze contro il loro riconoscimento certo non hanno incontrato l'opposizione della maggioranza (all'epoca di centro-sinistra).

Il riconoscimento dei rom come minoranza significherebbe per lo Stato italiano dover disconoscere la legittimità delle politiche securitarie rivolte verso questo gruppo. Queste politiche intraprese a livello nazionale rappresentano una scelta ben precisa nel bilanciamento tra interessi, significa subordinare alle esigenze di sicurezza, le cui radici si fondano sul pregiudizio e sullo stato di marginalità sociale nel quale si trovano a vivere milioni di rom e sinti, alla tutela dei diritti fondamentali riconosciuti a chiunque a prescindere dalla loro nazionalità tanto dalle disposizioni internazionali europee che dalla nostra stessa Costituzione. Il diritto alla vita, alla dignità umana, i diritti dei fanciulli, sono spaziati via insieme agli sgomberi di massa, attuati in una logica esclusivamente espulsiva, in quanto, non sono offerti dagli enti locali alternative abitative che vadano in contro alle loro esigenze. Il rappresentante dell'Anci, nel suo intervento al “Convegno Internazionale sulla Condizione Giuridica di Rom e Sinti in Italia”, ha posto l'accento sull'esigenza di cambiare indirizzo, e di offrire un'alternativa valida agli sgomberi. Questo, però, significa ammettere, da parte dei comuni, che fino a questo momento la questione rom è stata trattata in termini emergenziali e securitari, ed utilizzata per intraprendere campagne politiche, confermando come i rom e sinti, in alcuni casi anche cittadini, sono considerati come mezzi uomini, la cui cultura non è degna di un riconoscimento legislativo.

2.6.1.2 Conclusioni

Oggi le moderne correnti del pluralismo ci mostrano l'esistenza di una realtà molto più complessa, nella quale l'individuo è portatore di multiculturalità, per cui, le sue esigenze di riconoscimento non possono più essere recepite attraverso il sistema delle minoranze costruito rigidamente in base ad una logica che considera i gruppi umani come entità chiuse. Nell'era attuale, dove le appartenenze dell'individuo sono plurime, è necessario rivedere gli strumenti a disposizione del sistema statale per rispronerete alle richieste di riconoscimento.

Da questo punto di vista è interessante il percorso promosso dal Consiglio d'Europa, e volto al superamento del concetto di minoranza come strumento di tutela delle differenze culturali a favore di un protagonismo della diversità che porta a vedere la differenza, non più come un fenomeno problematico, ma come risorsa positiva di ordine culturale, (216) elevando la diversità a elemento rilevante per la tutela dell'identità personale di ogni individuo. Questo nuovo indirizzo porta a centrare l'attenzione sul soggetto, piuttosto che sull'attribuzione di diritti e riconoscimenti ai gruppi-minoranze. In questo conteso non può che essere il giudice europeo, soprattutto la CEDU a farsi garante delle tutele del singolo, ponendo l'accento, anche, sulla sua appartenenza culturale. Nel prossimo capitolo analizzerò il ruolo della giurisprudenza della CEDU nel riconoscimento delle specificità culturali rom con particolare riguardo al recente caso del matrimonio 'gitano'.

Note

1. Per una ricostruzione storico-antropologica, tra i libri più significativi si veda: L. Piasere, Popoli delle discariche, CISU, Roma, 1991; Comunità girovaghe, comunità zingare, Liguori, Napoli, 1995;Un mondo di mondi. Antropologia delle culture Rom, L'Ancora, Napoli, 1999; I rom d'Europa. Una storia moderna, Laterza, Roma-Bari, 2004; per una ricostruzione storica si veda: F. Vaux de Foletier, Mille ans d'historie des Tsiganes, Librairie Arthème Fayard, Paris, 1970, trad. it, Jaca Book, Milano, 1978, seconda ristampa 2003; K. Wiernicki, Nomadi per forza: storia degli zingari, Rusconi, Milano, 1997.

2. Sul punto si veda: A. Simoni (a cura di), Stato di diritto e identità rom, L'Harmattan Italia, Torino 2005; N. Sigona, Lo scandalo dell'alterità: Rom e Sinti in Italia, in S. Bragato, L. Menetto (a cura di), E per patria una lingua segreta. Rom e Sinti in provincia di Venezia, Portogruaro: nuova dimensione; L. Mancini, Antropologia e diritto zingaro, in “Sociologia del diritto”, n. 3, 2004.

3. Sul punto si veda: Z. Lapov, Vacaré romané? Diversità a confronto: percorsi delle identità Rom, Franco Angeli, Milano, 2004.

4. G.H. Allard, Présentation, in G.H. Allard (a cura di), Aspects de la marginalité au Moyen Âge, L'Aurore, Montreal, 1975, p. 20.

5. N. Sigona, Lo scandalo dell'alterità: Rom e Sinti in Italia, cit., p. 3.

6. Per una ricostruzione storica del termine zingaro si veda: F. Vaux de Foletier, Mille ans d'historie des Tsiganes, cit., pp. 19-35.

7. Sul punto si veda: N. Sigona, op. cit.

8. Citazione tratta da: N. Sigona, op. cit., p.8.

9. La Gypsy Lore Society è una famosa associazione internazionale di studi 'zingari', fondata in Gran Bretagna nel 1888 e operante negli Stati Uniti dal 1889.

10. Per un approfondimento si veda: L. Piasere (a cura di), Comunità girovaghe, comunità zingare, cit.

11. Sul punto si veda: L. Piasere, (a cura di), Comunità girovaghe, comunità zingare, cit., pp. 3-38.

12. S. Sinodi, Una definizione di 'gruppo zingaro', in S. Tosi Cambini (a cura di), in Rapporto Fondazione Michelucci, 2009.

13. Sul punto si veda: J.P. Liégeois, Zingari e viaggianti, Centro studi zingari, Consiglio d'Europa 1995.

14. Leonardo Piasere, al fine di spiegare il significato di categoria politetica propone l'esempio di tre fratelli i quali, seppur assomigliandosi, non presentano tratti fisici identici, così il primo può assomigliare al secondo perché entrambi hanno i capelli neri, diversamente dal terzo fratello che li ha biondi; questo, a sua volta, assomiglia al primo per via del naso aquilino che non possiede il secondo, il quale tuttavia è simile al terzo avendo entrambi gli occhi verdi, diversamente dal primo che li ha marroni. Sul punto si veda: L. Piasere, I rom d'Europa, cit., p. 3.

15. L. Piasere, I rom d'Europa, cit., p. 3.

16. Il Termine rom, nella lingua romané, significa uomo.

17. J. C. Berland, M. T, Salo, (a cura di), Paritetics Peoples, Nomadics Peoples, n. 21-22, 1986; A. Rao, Nomadi disconosciuti: per una tipologia delle comunità girovaghe, in L. Piasere (a cura di), Comunità girovaghe, comunità zingare, cit.

18. Il termine peripatetics è utilizzato per mettere in relazione gli spostamenti di un gruppo con fattori economici, ambientali e sociali. Questo dimostra come, le 'politiche' rom di abbandono della sedentarietà, siano dovute a fattori come la richiesta di ricoprire certe nicchie economiche abbandonate dalle comunità locali, dimostrando come il termine nomadismo sia eccessivamente riduttivo per spiegare una realtà dai connotati sfumanti e variegati. Leonardo Piasere traduce il termine inglese peripatetics con 'girovago': L. Piasere, Popoli delle discariche, cit., p.118.

19. Sul punto si veda: A. Simoni, Appunti per una “lettura Romanì” del “pacchetto sicurezza”, Jura Gentium, 2009.

20. Ordinanze n. 3676 per il Lazio, n. 3677 per la Lombardia e n. 3678 per la Campania, Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 127 del 31.5.2008.

21. Tale termine può essere tradotto con straniero, uomo attaccato alla terra, servo, sedentario. F. Vaux de Fouletier, Mille ans d'historie des Tsiganes, cit., p. 20.

22. L. Piasere, I rom d'Europa, cit., p. 27.

23. Ivi, p. 29.

24. Ibid.

25. Per un approfondimento si veda: L. Piasere, op. cit., pp. 27-29.

26. Ivi, p.29.

27. I dati sono forniti dal Consiglio d'Europa.

28. L. Piasere, I Rom d'Europa, cit., pp. 3-14.

29. Leonardo Piasere sottolinea come sia impossibile dare una definizione precisa di nomadismo. La sedentarietà e il nomadismo sono, piuttosto, momenti di un continuum di situazioni sfumate. Proprio alla luce di tale difficoltà, Leonardo Piasere cura un intero volume dedicato agli studi condotti da una serie di autori che abbandono il concetto di nomadismo a favore di quello di peripatetic/girovago. Per approfondimenti si veda: L. Piasere (a cura di), Comunità girovaghe, comunità zingare, cit.

30. Leonardo Piasere utilizza il temine zingari in luogo di rom. Io, come ho precedentemente accanato, preferisco abbandonare il primo termine a favore del secondo alla luce del connotato negativo e pregiudizievole, che nel tempo, il concetto di zingaro ha assunto.

31. Il Romanes o Romané, è la lingua parlata attualmente dai rom europei. Su questo tema sono stati condotti una serie di studi volti a dimostrare che il Romanes presenta tutte quelle strutture linguistiche tali da inserirla, a pieno titolo, tra le lingue europee, con il fine di garantirne una tutela linguistica. Si tratta di una lingua che è ancora basata su una struttura originaria indiana, su cui, poi, si sono intersecati innumerevoli elementi dovuti all'influenza delle lingue dei paesi attraversati dai vari gruppi rom. Sul punto si veda: Brunello, P. (a cura di), L'urbanistica del disprezzo. Campi rom e società italiana, Manifestolibri, Roma 1996; D. Halwachs, Could we say that Roma are one linguistic minority?, “Convegno Internazionale la Condizione Giuridica di Rom e Sinti in Italia”, Milano, 16-18 Giugno 2010, Università degli Studi Milano-Bicocca.

32. Intorno alla possibilità di iscrivere questo gruppo nella 'categoria rom' si è aperto un ampio dibattito i cui esiti, dipendono dalla selezione dei tratti culturali da porre come fondamento per la costruzione dell'identità rom.

33. L. Piasere, I Rom d'Europa, cit., p. 13-14.

34. Una delle prime testimonianze della presenza di gruppi rom nella nostra penisola, risale, almeno stando ai documenti storici conosciuti, a due documenti del 1422: una cronaca bolognese, Corpus Chronicotum Bononiensium, concernente un gruppo di circa cento persone capeggiate da un duca d'Egitto e una cronaca, Chronicon Fratis Hieronymi de Forlivio, contenente una nota, nella quale si faceva menzione, per la prima volta, dell'India come paese d'origine di questi gruppi. Entrambi i documenti vennero in seguito riportati nella raccolta dei documenti storici italiani Rerum Italicarum Scriptrores, redatta da L.M. Muratori.

35. Si tratta di cifre fornite da Opera Nomadi e Comunità di Sant'Egidio.

36. Come sottolinea Leonardo Piasere, le cifre circa la presenza rom risentono della posizione dell'ente proponete, così, le istituzioni nazionali tenderanno a minimizzare la loro presenza per ragioni di ordine pubblico, le ONG, a favore dei rom, tenderanno, invece, ad ampliarla. L. Piasere, I rom d'Europa, cit., p. 15.

37. Si tratta di cifre fornite da Opera Nomadi e Comunità di Sant'Egidio.

38. Sul punto si veda: J.P Liegeois, G. Nicolae, Roma/Gypsies: A European Minority, London: Minority Rights Group, 1995.

39. Fonte: “Rapporto dell'ERRC sulla situazione italiana presentato alla Commissione delle Nazioni Unite per l'eliminazione della discriminazione razziale (CERD) riunito per la 72ª sessione”. Questo documento, per quanto concerne tali dati, rimanda alle seguenti fonti: Corriere della Sera, 4 aprile 2000; P. Brunello, L'urbanistica del disprezzo, cit.; P. Colacicchi, Down by Law: Police Abuse of Roma in Italy, Roma Rights, 1998, pp. 25-30.

40. Per una ricostruzione dei flussi migratori si veda: M. Karpati (a cura di), Zingari ieri e oggi, Centro Studi Zingari, Roma, 1993; L. Piasere, I rom d'Europa, cit.

41. Sul punto si veda: L. Monasta, Note sulla mappatura degli insediamenti di Rom stranieri presenti in Italia, in C. Saletti Salza, L. Piasere (a cura di), Italia Romanì, vol. IV, Cisu, Roma, pp. 3-16; S. Sidoti, S. Tosi Cambini, Geografia romanì: uno sguardo sui flussi migratori in Italia e in toscana, in Atlante dell'alloggio sociale e dell'accoglienza in Toscana, Arci Toscana, Cesvot, Fondazione Giovanni Michelucci Onlus, 2006.

42. A.R. Calbrò, Zingari, Storia di un'emergenza annunciata, Liguori Edizione, Napoli, p. 14.

43. S. Tosi Cambini (a cura di), L'abitare di Rom e Sinti in Tosacana, Regione Toscana - Direzione generale Diritti di cittadinanza e coesione sociale Fondazione Giovanni Michelucci Onlus, 2009-2010.

44. A.R. Calabrò, op. cit., p.14.

45. Dati tratti da: S. Tosi Cambini, (a cura di), L'abitare di rom e sinti in Toscana, cit.

46. N. Sigona, Identità contese. I romà tra Kosovo e Italia, in C. Saletti Salaza, L. Piasere (a cura di), Italia Romanì, vol. IV, CISU, Roma, 2004, p. 27.

47. S. Tosi Cambini, (a cura di), L'abitare di rom e sinti in Toscana, cit.

48. Per ora utilizzerò l'espressione ordinamento per semplicità espositiva riservandomi, per il capitolo successivo, una trattazione approfondita dell'argomento.

49. L. Piasere, I rom d'Europa, cit., p. 33.

50. Ivi, p. 46.

51. L. Piasere, Un mondo di mondi, cit., p. 15.

52. Questa suddivisione delle politiche intraprese dagli Stati verso i gruppi rom in tre fasi, si deve all'opera di vari autori tra i quali: L. Piasere, I rom d'Europa, cit.; J. P. Liégeois, Roms et Tziganes, La Découverte, Paris, 2009; N. Sigona, Lo scandalo dell'alterità: Rom e Sinti in Italia, cit. Quest'ultimo parla di 'fase della negazione geografica', nel corso del mio lavoro preferisco ricorrere all'espressione 'fase della negazione territoriale' poiché reputo che il termine territoriale sia più appropriato rispetto al termine geografico, in quanto, gli Stati non negavano ai rom un'origine geografica, infatti, molti documenti testimoniano che le autorità locali li consideravano come egiziani o indiani ma ciò che negavano era la loro territorialità a causa della conduzione di vita errante. Per territorio si deve intendere l'elemento costitutivo del moderno Stato-nazione.

53. L. Piasere, I rom d'Europa, cit.

54. In quest'epoca l'appellativo prevalentemente utilizzato per qualificare i gruppi rom è quello di 'zingaro'.

55. Per un approfondimento si veda: P. Chiozzi, La questione dell'identità in antropologia, in P. Chiozzi, M. Grechi (a cura di), Identità etno-culturale, problematiche etno-antropologiche e analisi di casi, IRRSAE, Firenze, 1993; G. Devereux, Saggi di etnopsicanalisi complementarista, Bontempi, Milano, 1975.

56. N. Sigona, Lo scandalo dell'alterità: Rom e Sinti in Italia, cit., p. 6.

57. Per una ricostruzione dettagliata dei bandi emanati dagli Stati nel territorio europeo si veda: F. Vaux de Fouletier (de), Mille ans d'historie des Tsiganes, cit.

58. F. Vaux de Fouletier (de), op. cit., p.88.

59. J.P. Liégeois, Zingari e viaggianti, cit., p. 40.

60. Ibid.

61. Si tratta del nome attribuito ad alcuni gruppi rom a seguito di alcune vicende storiche. Nel periodo tra il 1417 e il 1430 alcune comunità rom si presentavano alle porte delle città qualificandosi come gruppi di egiziani cristiani, guidati da un Conte Duca, adducendo di dover espiare una penitenza per un peccato di apostasia per il quale erano stati condannati a un pellegrinaggio di sette anni prima di poter tornare nella loro terra, l'Egitto. A conferma di questa dichiarazione mostravano una lettera o del Papa o dell'Imperatore del Sacro Romano Impero attestante la loro condizione errante. L. Piasere, La mendicità e gli zingari: sguardi incrociati, in “Polis”, n. XIV, 3, 2000, p. 410.

62. F. Vaux de Fouletier (de), op. cit., p. 226.

63. J.P. Liégeois, op. cit., p. 50.

64. Ivi, p. 47.

65. Ivi, p.48.

66. Ibid.

67. Ivi, p.49.

68. F. Vaux de Fouletier (de), op. cit., p. 97.

69. Dalla fine del Settecento, i primi studi glottologici rilevarono delle interessanti somiglianze tra la lingua parlata dai rom europei e le lingue indiane.

70. Da ricordare è il volume redatto da Francesco Predari del 1841, Origine e vicende dei Zingari. Con documenti intorno le speciali proprietà fisiche e morali, la loro religione, i loro usi e costumi, le loro arti e le attuali loro condizioni politiche e civili in Asia, Africa ed Europa.

71. Per un approfondimento rimando a quanto già trattato nel capitolo primo paragrafo1.3.2.

72. Contro queste tesi si opporrà Napoleone Colajanni, esponete del movimento del socialismo giuridico, il quale aprirà la strada alla costruzione di un pensiero antirazzista in Italia. Egli sostiene che la razza non può essere fattore di delinquenza e critica l'idea dell'esistenza di concetti come superiorità ed inferiorità razziale. Si tratta di un precursore dei tempi, dato che, all'inizio del Novecento, si afferma una nuova disciplina, l'antropologia culturale, la quale si fonda su un paradigma pluralistico.

73. C. Lombroso, L'uomo delinquente: in rapporto all'antropologia, giurisprudenza e alle discipline carcerarie, Fratelli Bocca, Roma, 1879.

74. Sul punto si veda: N. Sigona, Lo scandalo dell'alterità: Rom e Sinti in Italia, cit., pp. 17-32.

75. J.P. Liégeois, Roms et Tsiganes, La découverte, Paris, 2009, p. 56.

76. Ivi, p. 57.

77. Ibid.

78. I. Castangia, L'Europa delle persone e i diritti delle minoranze, in “Jus”, n.1, 1999, p.195.

79. M. Olivetti, “Uguaglianza”, in Dizionario dei diritti umani, UTET, 2007.

80. Sul punto di veda: M. Olivetti, op. cit.

81. Sul punto, rimando a quanto già trattato nel capitolo I, paragrafo: 1.5.2.

82. P. Comanducci, Diritti umani e minoranze: un approccio analitico e neo-illuminista, in “Ragion pratica”, n.2, 1994, pp. 41-42.

83. Ivi, p.42.

84. Ibid.

85. Tale Commissione è stata istituita con legge n. 40 del 1998.

86. Sul punto si veda: G. Zincone (a cura di), Primo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, il Mulino, Bologna, 2000, pp. 13-38.

87. Communication from the Commission to the Council, the European Parliament, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions: The social and economic integration of the Roma. Si tratta di un documento redatto dalla Commissione in occasione del secondo Summit Rom tenutosi a Cordoba 8-9 aprile 2010, al quale hanno preso parte circa 400 rappresentati d'istituzioni, governi nazionali, locali, regionali, della società civile tra i quali anche organizzazioni rom.

88. Teniamo presente che in Italia la categoria rom/zingaro è utilizzata per identificare almeno tre categorie di soggetti dotati di un diverso patrimonio di diritti: cittadini italiani (la maggioranza), cittadini comunitari (ai quali sono riconosciuti, all'incirca, gli stessi diritti dei cittadini) e gli extracomunitari. A queste tre categorie dobbiamo aggiungere quelle degli apolidi e dei rifugiati.

89. Nella Sentenza del 23 novembre 1967, n. 120, la Corte Costituzionale ha chiarito i dubbi interpretativi circa il riconoscimento costituzionale dei diritti fondamentali anche allo straniero. In questa sentenza la consulta ha dichiarato che l'art. 3 deve essere letto in connessione con l'art. 2, che riconosce a tutti, cittadini e stranieri, i diritti inviolabili dell'uomo e con l'art. 10, secondo comma, che dispone che la condizione giuridica dello straniero è disciplinata dalla legge in conformità con le norme e i trattati internazionali. Secondo il giudice costituzionale se è vero che l'art. 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini, è anche certo che il principio di uguaglianza vale anche per lo straniero quando si tratti di rispettare i diritti fondamentali. L'art. 2 della Costituzione si svuoterebbe di significato se il riconoscimento della titolarità dei diritti inviolabili dell'uomo non fosse accompagnata dall'affermazione dell'uguaglianza nel godimento di tali diritti. Inoltre, la disciplina della condizione dello straniero, in conformità alle norme e trattati internazionali, impone anche l'adeguamento della normativa italiana al principio di non discriminazione, sancito dall'art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Nella sentenza del 26 giugno 1969, n. 104, la Corte Costituzionale ha precisato che il principio di uguaglianza nei confronti dello straniero ha un doppio binario operativo: ha un'operatività piena e assoluto, se si tratta di tutelare i diritti inviolabili dell'uomo, garantiti allo straniero anche dall'ordinamento internazionale, ha un'operatività più ristretta per quanto riguarda tutti gli altri diritti, secondo la Consulta, sarebbero ammissibili delle differenziazioni di trattamento tra cittadino e straniero, più o meno intense a seconda del diritto preso in considerazione, purché trovino giustificazione alla luce del principio di ragionevolezza, si tratti cioè di differenziazioni non arbitrarie, che abbiano fondamento in un'effettiva diversità di situazioni.

90. Per un approfondimento sul tema si veda: C. Corsi, Lo Stato e lo straniero, CEDAM, Padova, 2001, pp. 57-125.

91. R. Rorty, Human Rights, Rationality, and sentimentality, in S. Shute-S. Hurley (a cura di.), On Human Rights, Basic Books, New York, 1993, trad. it., Garzanti, Milano 1994, p. 132.

92. N. Bobbio, Eguaglianza ed egualitarismo, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, 1977, p.322.

93. V. Nicolae, Anti-Gypsyism - a definition, European Grassroots Organisation, Bucarest: ERGO, 2008.

94. P. Villano, Pregiudizi e stereotipi, Carocci, Roma, 2003 p. 10.

95. G. Allport, The Nature of Prejudice, Addison-Wesley, Cambridge (Mass.) 1954, tr. it. La Nuova Italia, Firenze, 1976, p. 20.

96. S. Tosi Cambini, Gli stereotipi della “sicurezza”, ovvero come la Giustizia “tratta i nomadi” invece che incontrare i Rom, Jura Gentium, 2009.

97. E. Santoro, Stereotypes, prejudices and immigration policies: an approach for a social interaction strategy, in Consiglio d'Europa, Migrants and their descendants. Guidt to policies for the well-being of all in pluralist societies, Consiglio d'Europa, Strasburgo, 2011.

98. J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 106.

99. Ivi, p.18.

100. Ibid.

101. Ivi, p. 9.

102. Un altro aspetto interessante, che posso solo accennare, è rappresentato da ciò che questo misconoscimento ingenera nei rom. Possiamo brevemente dire che esso produce due conseguenze: una perdita di autostima rispetto alla società gagé e un rafforzamento della propria identità comunitaria. La perdita di autostima determina l'impossibilità di dichiararsi pubblicamente membri di un gruppo a cui non vengono riconosciuti pari rispetto e dignità. Tuttavia, il fatto di non essere accettati dalla maggioranza, spinge i membri del gruppo a compattarsi ulteriormente per combattere insieme tale stato di cose. Se la costruzione esterna del rom è fondata sullo stigma, quella interna è creata sull'orgoglio e sull'appartenenza, non è un caso che i bambini rom siano socializzati nella paura del gagè. (Sul punto si veda: L. Piasere, Un mondo di mondi. Antropologia delle culture Rom, Napoli, L'Ancora, 1999). Lo stigma risulta, così, essere ribaltato, usato per creare un elemento di cementificazione tra chi non è gagé. Questa forma di 'violenza identitaria', basata su un'asimmetria di potere, porta il soggetto a identificarsi sempre di più con il proprio gruppo. Anche chi è nato in Italia e qui vissuto, continua a convivere in questa forte contrapposizione, poiché, il paese natale non lo riconosce come propria parte ma lo identifica come qualche cosa di estraneo, da emarginare ed allontanare; ecco allora il gruppo famigliare, la comunità locale rom che diventa la propria patria, il proprio Stato. Si nasce in Italia ma si è rom, si è stranieri. Se nella sfera privata il misconoscimento produce come effetto il rafforzamento dell'appartenenza al gruppo, ampliando il ruolo che il gruppo ha sul soggetto, nella sfera pubblica questo si traduce in un'esigenza di 'camaleontismo culturale'. Rom è un'etichetta intrinseca di pregiudizi e discriminazioni che negli ultimi anni si sono fortemente accentuati determinando, soprattutto tra i più giovani, l'esigenza di attribuirsi una nuova identità pubblica che gli consenta di poter essere accettati dal gruppo dei pari. Intervistando giovani ragazzi dai sedici ai venti anni, emerge che questi tendono a nascondere la loro identità rom, eventualmente, attribuendosi altre etichette meno stigmatizzanti. Ho raccolto la testimonianza di due ragazzini che, presso la scuola media frequentata, si erano presentati come Cingalesi. Presso il Poderaccio, gli assistenti sociali hanno notato che, dopo l'11 settembre 2001 si è verificato un rafforzamento della religione islamica anche per effetto della presenza di una moschea. Molte donne hanno iniziato a portare il velo e gli uomini a farsi crescere la barba, attribuendosi così una nuova identità, quella islamica che, seppur anche questa discriminata, lo è in modo inferiore a quella rom. Hanno, così, utilizzato un tratto della loro cultura, quello religioso, per mettere in atto una strategia di mimetizzazione tra i gagè, volta a perdere, ai loro occhi, l'identità rom mantenendola, però, nell'intimità delle loro comunità. Questi dati, da me raccolti, sono confermati da J. Pierre Liégeois: “i Rom non osano proclamarsi Rom, al punto che preferiscono talvolta farsi passare per un altro, per essere accettati e liberarsi dallo stigma che li travolge”. (J.P. Liégeois, Roms et Tsiganes, cit., p. 34).

103. N. Sigona, Identità contese. I romà tra Kosovo e Italia, cit., p. 31.

104. U. Back, Das Schweigen der Wörter. Über Terror und Krieg, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2002, trad. it, Einaudi, Torino, 2003, p. 11.

105. M. Ambrosini, Un'altra globalizzazione. La sfida delle migrazioni transnazionali, il Mulino, Bologna, 2008, pp. 185-186.

106. Camera dei deputati, XVI legislatura, proposta di legge Santelli n. 1052 “Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla condizione delle donne e dei minori nelle comunità rom presenti in Italia”.

107. Dello stesso tenore della proposta di legge Santelli ricordiamo la proposta di legge dell'on. Pezzoli n. 5625 del 29 settembre 1998 “Norme per vietare l'ingresso e il transito di nomadi nel territorio della Repubblica nonché per controllare e limitare gli insediamenti esistenti.” Nella proposta si può leggere che: “La società degli zingari [...] ammette lo schiavismo e ne fa il principale mezzo di sussistenza: si acquistano e si vendono bambini, li si rapisce, per poi gettarli nelle immonde attività che costituiscono l'unico criterio economico di questo popolo”.

108. Camera dei deputati, XVI legislatura, proposta di legge Santelli n. 1052, “Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla condizione delle donne e dei minori nelle comunità rom presenti in Italia”.

109. Entrambi gli autori presentavano una lettura della 'razza' rom in chiave criminale, come portatrice di delinquenza e devianza.

110. Camera dei deputati, XVI legislatura, proposta di legge Santelli n. 1052 “Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla condizione delle donne e dei minori nelle comunità rom presenti in Italia”.

111. P. Arrigoni, T. Vitale, Quale legalità? Rom e gagi a confronto, Aggiornamenti sociali, 3, 2008, pp. 182-194.

112. A. Simoni, (a cura di), Stato di diritto e identità rom, L'Harmattan Italia, Torino 2005.

113. A. Simoni, Appunti per una “lettura Romanì” del “pacchetto sicurezza”, Jura Gentium, 2009.

114. Ivi, p. 29.

115. La ricerca ha coperto gli anni dal 1986 al 2007. I casi sono stati individuati e analizzati partendo dall'archivio Ansa (notizie nazionali e locali) e arrivando alla consultazione dei fascicoli dei Tribunali. L'analisi ha preso in considerazione ventinove casi, oltre undici di sparizione di minori (dunque, quaranta in tutto).

116. F. Quassoli, Migrants in the Italian Underground Economy, in “International Journal of Urban and Regional Researchs”, vol 33, n. 2, 1999, pp. 212-231.

117. F. Quassoli, op. cit., p. 219.

118. Cfr in S. Tosi Cambini, Chi ruba i bambini? I risultati di uno studio sui casi di presunto tentato rapimento di minori gagé da parte di rom riferiti in Italia dal 1986 al 2007, relazione del Convegno internazionale la condizione giuridica di rom e sinti in Italia, Milano 16-18 giugno 2010, Università degli Studi Milano-Bicocca, p.3.

119. Ibid.

120. Ibid.

121. S. Governatori, La “debolezza” dei rom di fronte al diritto: spunti dall'esperienza di un giudice, in A. Simoni, (a cura di), Stato di diritto e identità rom, L'Harmattan Italia, Torino 2005, pp. 167-177.

122. Ordinanze n. 3676 per il Lazio, n. 3677 per la Lombardia e n. 3678 per la Campania, Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 127 del 31.5.2008.

123. G. Loy, Violino tzigano. La condizione dei rom in Italia tra stereotipi e diritti negati, in R. Cherchi, G. Loy, (a cura di), Rom e Sinti in Italia. Tra stereotipi e diritti negati, Ediesse, Roma, 2009, pp. 25-34.

124. Decreto Presidente del Consiglio dei Ministri, n. 129, 28 maggio 2009.

125. Sentenza n. 6352 del TAR del Lazio sez. I, 01 luglio 2009.

126. La correlazione tra zingaro, rom e nomade è una costante, ad esempio, nella legge della Regione Lombardia che “riconosce il diritto al nomadismo e tutela il patrimonio culturale e l'identità delle 'etnie tradizionalmente nomadi e seminomadi'”; la Regione autonoma Friuli Venezia Giulia “tutela, nell'ambito del proprio territorio, il patrimonio culturale e l'identità dei Rom, giusta la Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo stato di apolide (28 settembre 1954) che nel termine comprende e considera anche i Sinti ed ogni altro gruppo zingaro nomade”; la legge regionale del Lazio indica tra le sue finalità quella di “salvaguardare l'identità dei rom ed evitare impedimenti al diritto al nomadismo”; quella umbra “intende favorire l'insediamento dei nomadi di cittadinanza italiana nel contesto sociale, garantendo la salvaguardia dell'identità e della cultura nomade, riconoscendo il diritto al nomadismo”.

127. Tale dato trova conferma nella ricerca condotta da Renato Mannheimer alla Conferenza europea sulla popolazione rom, organizzata dal Ministero dell'Interno e dal Ministero della Solidarietà sociale a Roma nel gennaio 2008, della quale abbiamo già parlato nel paragrafo 2.4.1.

128. P. Chiozzi, La questione dell'identità in antropologia, cit., p.14.

129. M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino, 2004, p. 73.

130. F. Remotti, Contro l'identità, Laterza, Bari, 2001, pp.96-97.

131. F. Crespi, Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2004, pp. 97-98.

132. A. Sen, Identity and Violence. The Illusion of Destiny, W.W. Norton & Company, New York - London 2006, trad. it. Laterza, Roma-Bari, 2006, pp.160-161.

133. Per minoranza by will intendiamo quella costruzione teorica secondo la quale, il concetto di minoranza si costruisce sul fatto che i suoi membri aspirano a conservare e a mantenere il valore e le caratteristiche che li differenziano dalla maggioranza.

134. R. Guglielmo, T. W. Waters, Migrating towards minority status: shifting European policy towards Roma, in “Journal of Common Market Studies”, n. 43, 2005, p.764.

135. Sul punto rinvio a un lavoro proposto da Cecilia Corsi, la quale mostra come, rispetto ai rom, la libertà di circolazione, pilastro del sistema europeo, abbia incontrato limiti e disfunzionamenti. C. Corsi, I diritti delle persone rom e sinti alla circolazione, al soggiorno e all'abitazione, “Conferenza Internazionale sulla Condizione Giuridica di Rom e Sinti in Italia”, Milano 16-18 giugno 2010.

136. N. Sigona, I rom nell'Europa neoliberale: antiziganismo, povertà e i limiti dell'etnopolitica, cit.

137. È del 1969 la raccomandazione n. 563, “Sulla situazione dei gruppi rom e di altri gruppi nomadi”, nella quale viene denunciata la discriminazione diffusa nei confronti dei rom, dovuta alla loro appartenenza a un gruppo etnico particolare, e nella quale si esortano i governi degli Stati membri a porre fine a ogni forma di discriminazione. Tra i primi documenti che seguirono, la risoluzione del Comitato dei Ministri n. 13 del 1975, contenente raccomandazioni “sulla situazione sociale dei nomadi in Europa” e la risoluzione n. 125 del 1981, adottata dalla Conferenza degli Enti locali e regionali d'Europa, “sul ruolo e la responsabilità degli Enti locali e regionali di fronte ai problemi culturali e sociali delle popolazioni di origine nomade”.

138. Quando parlo di politiche europee mi riferisco principalmente alle azioni intraprese tanto dall'Unione Europea che dal Consiglio d'Europa.

139. R. Guglielmo, T. W. Waters, op. cit., pp. 776-7.

140. Ivi, p. 764.

141. Risoluzione del Parlamento europeo “sulla situazione dei Rom e la libertà di circolazione nell'Unione europea”, 9 settembre 2010.

142. La prima denuncia della situazione di discriminazione subita dai rom, risale ad un documento del Parlamento Europeo del 1984. Successivamente ricordiamo due risoluzioni: Risoluzione “sulla situazione degli Zingari nella Comunità”, 21 aprile 1994, e la Risoluzione “sulla discriminazione nei confronti dei Rom”, 13 luglio 1995.

143. Attualmente: Bulgaria, Repubblica ceca, Finlandia, Grecia, Italia, Ungheria, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna, Slovacchia e Svezia.

144. Un secondo summit si è tenuto nel 2010 sotto la presidenza spagnola.

145. Tra i dieci principi che gli Stati e le istituzioni europee sono chiamati a seguire come obiettivi da assumere nelle politiche rivolte ai rom ricordiamo: un approccio interculturale; l'utilizzo di strumenti comunitari e un'attiva partecipazione dei rom.

146. Interessante è la posizione di Maurizio Cermel, il quale formula l'ipotesi di superare la costruzione dei rom come minoranza transnazionale a favore di una loro costruzione in termini di popolo europeo transnazionale. Secondo l'autore, il concetto di minoranza, essendo relazionale, poiché costruito a partire da quello di maggioranza, può essere utilizzato nell'ambito di Stati contraddistinti da un alto grado di omogeneità della maggioranza. A livello europeo, dove convivono e s'intrecciano, lingue, culture e religioni diverse, non ha più senso parlare di minoranza. I rom sono così un popolo europeo transnazionale, il quale non rivendica un territorio proprio poiché il suo territorio naturale è tutta l'Europa. M. Cermel, Rom e Sinti, cittadini senza patria?, in “Sociologia del diritto”, n.3, 2008, pp.147-148.

147. I. Ruggiu, La diversità come bene pubblico tra Europa e Stati costituzionali, in R. Cerchi, G. Loy, (a cura di), Rom e Sinti in Italia. Tra stereotipi e diritti negati, Ediesse, Roma, 2009, p. 97.

148. Ivi, p. 99.

149. Ivi, p. 100.

150. Sul punto si veda: I. Ruggiu, op. cit., pp. 99-100.

151. Sul punto si veda: J. Okely, The traveller-Gypsies, Cambridge University Press, Cambridge, 1983, 1998.

152. A. R. Calabrò, Zingari, Storia di un'emergenza annunciata, Liguori edizione, Napoli, 2008, p. 21.

153. C. Marta, Identità etnica e marginalità, in AA.VV., Minori nomadi, giustizia, servizi e istruzione, Ed. associate, Roma, 1986, p. 17.

154. S. Costarelli, L'identità zingara, in P. Chiozzi, M. Grechi (a cura di), Identità etno-culturale, problematiche etno-antropologiche e analisi di casi, IRRSAE, Firenze, 1993, p. 68.

155. L. Piasere, Un mondo di mondi, cit., p. 95.

156. Sul punto vedi: L. Piasere (a cura di), Comunità girovaghe, comunità zingare, cit.; N. Sigona, Lo scandalo dell'alterità: Rom e Sinti in Italia, cit.

157. Si tratta dello sterminio nazista di circa 500.000 rom e sinti nei campi di concentramento nel corso della seconda guerra mondiale.

158. Questo termine deve essere inteso con riferimento al sistema statale, cioè come possibilità di uscita da una situazione di emarginazione, attraversa l'ascesso a quei diritti negati in una piena applicazione del principio di eguaglianza, almeno in senso formale.

159. Sul punto vedi: N. Sigona, Lo scandalo dell'alterità: Rom e Sinti in Italia, cit., p.3.

160. N. Sigona, op. cit., p. 3.

161. Sul punto si veda: J. Okely, op. cit.

162. L. Piasere (a cura di), Comunità girogave, comunità zingare, cit., p. 17.

163. Per una ricostruzione esaustiva del dibattito che si è affermato in letteratura intorno al concetto d'identità zingara, si veda: A.R. Calbrò, Zingari. Storia di un'emergenza annunciata, cit.

164. A. R. Calabrò, op. cit., p. 24.

165. S. Costarelli, op. cit., p. 71.

166. B. Formoso, Tsiganes et sédentaries, L'Harmattan, Paris, 1986; P. Williams, The invisibility of the Kalderash of Paris: same aspects of economic activity and settlement pattern of the kalderarash rom of the paris suburbs, in “Urban Anthropology”, n. 11, 1982.

167. Circolare MI.A.CEL. n. 17 del 11 ottobre 1973.

168. Circolare MI.A.CEL. n. 4 del 5 luglio1985.

169. A titolo esemplificativo ricordiamo: L.R. Lombardia 22 dicembre 1989, n. 77 “riconosce il diritto al nomadismo e tutela il patrimonio culturale e l'identità delle 'etnie tradizionalmente nomadi e seminomadi'”; L.R. Friuli-Venezia Giulia 14 marzo 1988, n. 11 “tutela, nell'ambito del proprio territorio, il patrimonio culturale e l'identità dei Rom, giusta la Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo stato di apolide (28 settembre 1954) che nel termine comprende e considera anche i Sinti ed ogni altro gruppo zingaro nomade”; L.R. Lazio 25 maggio 1985, n. 82 indica tra le sue finalità quella di “salvaguardare l'identità dei rom ed evitare impedimenti al diritto al nomadismo”; L.R. Toscana con finalità di favorire “Interventi a tutela dell'etnia Rom”, del 1988 n. 17; L.R. Umbria 27 aprile 1990, n. 32 “intende favorire l'insediamento dei nomadi di cittadinanza italiana nel contesto sociale, garantendo la salvaguardia dell'identità e della cultura nomade, riconoscendo il diritto al nomadismo”.

170. M. Galati, (a cura di), Rom cittadinanza di carta, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007, p. 13.

171. Rapporto ERRC, Il paese dei campi, 2000.

172. P. Colacicchi, Senza fissa dimora, in “Il Grande Vetro”, n. 19, 1995, p. 11.

173. Sul punto si veda: L. Piasere, Popoli delle discariche, cit.; P. Brunello, (a cura di), L'urbanistica del disprezzo. Campi rom e società italiana, cit.; N. Sigona, Lo scandalo dell'alterità: Rom e Sinti in Italia, cit.

174. M. Cermel, op. cit., p. 3.

175. N. Sigona, Lo scandalo dell'alterità: Rom e Sinti in Italia, cit., pp. 17-32.

176. G. Soravia, Nomade, zingaro, profugo, immigrato, in “La società multietnica”, 2 agosto 1996, p. 22.

177. N. Sigona, I rom nell'Europa neoliberale: antiziganismo, povertà e i limiti dell'etnopolitico, cit., pp.12-13.

178. N. Sigona, Identità contese. I romà tra Kosovo e Italia, cit., p. 21.

179. Ivi, p. 23.

180. V. L. Szente, Field Report: Italy, Roma Rights, 1997, p.51.

181. Rapporto ERRC, Il paese dei campi, 2000.

182. Sul punto si veda: N. Sigona, Identità contese. I roma tra Kosovo e Italia, cit., p.29.

183. Ivi, p.30.

184. N. Sigona, Figli del ghetto, Nonluoghi libere edizioni, 2002, pp. 11-15.

185. L. Piasere, Popoli delle discariche, cit., pp. 160-190.

186. U. Alegretti, Costituzione e diritti cosmopolitici, in G. Gozzi, (a cura di), Democrazia, diritti, costituitone. I fondamenti costituzionali delle democrazie contemporanee, Il mulino, Bologna, 1997, p. 165-167.

187. Dossetti, “Atti dell'Assemblea Costituente”, 10 settembre 1946, VI, pp. 323 ss.

188. G. D'Orazio, Effettività dei diritti e condizione dello straniero, in “Diritto e società”, 1973, p. 955; A. Piranio, Appunto sulla condizione giuridica degli 'stanieri' nell'ordinamento italiano, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 1984, pp. 993-994.

189. U. Alegretti, op. cit., pp. 165-167.

190. A. Barbera, C. Fusaro, Corso di diritto pubblico, Mulino, Bologna, 2006, pp. 127-128.

191. F. Pastore, Migrazioni internazionali e ordinamento giuridico, in “Storia d'Italia”, annali 14, Enaudi editore, Milano, 1999, p. 1103.

192. Sul punto si veda il paragrafo: 2.6.

193. Ibid.

194. Ibid.

195. Come rileva Ferruccio Pastore, la scelta del nostro costituente a favore di un modello che riconosca il pluralismo culturale è dovuta all'esigenza di superare il rigido monismo culturale affermato sotto il regime fascista. Sotto il regime, il legislatore aveva promosso un'unica identità culturale italiana fondandola su due elementi: la lingua italiana e la religione cattolica. In sede costituente, l'esigenza di superare il precedente sistema di monismo culturale, si esprime nel riconoscimento di un pluralismo fondato sugli stessi indicatori culturali della lingua e della religione che avevano connotato il periodo precedente.

196. F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze, Verona, 2008, p. 242.

197. Corte Costituzionale Sentenza n. 86 del 1975.

198. A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, cit. p. 199.

199. Paolo Bonetti, Alessandro Simoni, Tommaso Vitale.

200. F. Palermo, J. Woelk, op. cit., pp. 244-245.

201. S. Salvi, Le minoranze linguistiche in Italia, in U. Bernardini, Le mille culture, Coines Edizioni, Roma, p. 143.

202. T. De Mauro, Le lingue da salvare, in T. De Mauro, Le parole e i fatti, Edizioni Riuniti, Roma, 1977, p. 298.

203. La critica alla posizione di Sergio Salvi è mossa dalla sinistra storica con discussioni tenutesi sulla rivista “Rinascita” nel 1975.

204. A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, cit. p. 203.

205. L'art. 3 della “Convenzione quadro” sancisce che: “1. Ogni persona che appartiene ad una minoranza nazionale ha diritto di scegliere liberamente se essere trattata o non trattata in quanto tale e nessuno svantaggio dovrà risultare da questa scelta o dall'esercizio dei diritti ad essa connessi. 2. Le persone appartenenti a minoranze nazionali possono esercitare individualmente ed in comunità con altre persone, i diritti e le libertà derivanti dai princìpi enunciati nella presente Convenzione quadro”.

206. S. Bartale, Lingue minoritarie e potestà legislativa regionale, in “Giurisprudenza costituzionale”, 2009, 3, p. 1764.

207. Sul punto vedi: “Rapporto dei progetti di raccomandazione e risoluzione de Congresso dei Poteri Locali e Regionali”, in “Lacio drom”, n. 3, maggio-giugno, 1995, pp. 43-44.

208. L'applicazione dei provvedimenti della “Convenzione-quadro” è soggetta ad un sistema di monitoraggio, che affida il potere di supervisione al Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa (art. 24-26 della Convenzione-quadro). Inoltre, le parti s'impegnano a trasmettere al Segretario generale periodicamente o a richiesta del Comitato dei rapporti.

209. Sul punto si veda: E. Palici di Suni, La disciplina di tutela delle minoranze linguistiche tra Corte e legislatore, in “Giurisprudenza costituzionale”, 1999, pp. 3152 ss.

210. F. Palermo, J. Woelk, op. cit., p. 148.

211. Tale atto è stato adottato dal Ministero degli interni a seguito del richiamo rivolto all'Italia, dal comitato sulla Convezione quadro per la protezione delle minoranze nazionali, per il mancato riconoscimento nella legge 482/1999, dei rom e sinti come minoranza linguistica.

212. “III rapporto dell'Italia sull'attuazione della convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali (ex art. 25 paragrafo 2)”, del Ministero degli Interni Dipartimento per le Liberta' Civili e l'Immigrazione, Direzione Centrale per i Diritti Civili, la Cittadinanza e le Minoranze AREA V Minoranze storiche e nuove minoranze, 2009, p. 4.

213. Su questo punto si veda: V. Piergigli, Lingue minoritarie e identità culturali, Milano 2001, 454 ss. e F. Palermo, La Corte «applica» il Titolo V alle minoranze linguistiche e chiude alle Regioni, in “Giurisprudenza Costituzionale”, 3/2009, 1780 ss.

214. C. Marta, Zingari, rom, nomadi: una minoranza di difficile definizione, in C. Vallini (a cura di), Minoranze e lingue minoritarie, Convegno Internazionale, Istituto universitario orientale, Napoli, 1996, p. 257.

215. E. Rodari, Rom, un popolo, diritto a esistere e deriva securitaria, Edizioni punto rosso, Milano, 2008, pp. 158-159.

216. Sul punto si veda: I. Ruggiu, op. cit., pp. 99-100.