ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo terzo
Pratiche di polizia

Giulia Fabini, 2011

Introduzione

In questo capitolo prenderò in esame la sociologia della polizia, strumento utile a comprendere con più chiarezza alcuni dei meccanismi in atto nelle pratiche di polizia. In particolare nel momento in cui viene chiamata ad attuare il controllo dei documenti nei confronti dei migranti, che è il frangente dell'interazione tra migranti e polizia su cui la ricerca empirica da me svolta si concentra.

La letteratura usata, a parte alcune importanti eccezioni - tra cui figura l'apporto di Salvatore Palidda, sarà soprattutto di origine americana. Benché ideata in un altro paese, ed elaborata quindi sulla base di ricerche empiriche svolte su di una polizia in particolare, credo che la sociologia della polizia americana rappresenti comunque un contributo tecnico e metodologico importante e utile anche allo studio della polizia in un contesto diverso rispetto a quello di origine. Gli autori di cui andrò a parlare mettono infatti in evidenza aspetti dell'operato di polizia che anch'io ho riscontrato nel corso della ricerca, e che dunque, possono essere fondamentali per far luce su certi aspetti anche dell'operato della polizia in Italia.

Nel capitolo introduttivo ho descritto l'avvento delle correnti del neoliberismo e del neoconservatorismo negli Stati Uniti a partire dagli anni Ottanta e gli effetti che esse hanno avuto tanto nel pensiero criminologico dominante quanto nell'elaborazione delle politiche della sicurezza.

Il cambiamento avvenuto nel pensiero dominante riguardo alla sicurezza deve però essere meglio analizzato su due livelli: da un lato a livello dell'indirizzo politico (aspetto su cui mi sono soffermata appunto nel precedente capitolo), dall'altro lato a livello amministrativo, ovvero a livello della modalità attraverso la quale l'indirizzo politico viene messo in atto.

A livello politico, l'avvento del neoliberismo e soprattutto del neoconservatorismo, come abbiamo visto, ha prodotto effetti dirompenti e influenzato con forza le decisioni del legislatore: si è infatti fatta strada la logica di "legge e ordine" e della ormai nota "tolleranza zero", da allora divenuta dominante. A livello amministrativo invece il discorso da affrontare è leggermente differente.

Bisogna infatti tenere presente che il piano amministrativo è dipendente dal piano politico, ma lo è solo in parte, ovverosia nella misura in cui viene richiesto di trovare soluzioni pratiche a problemi reali seguendo l'indirizzo politico indicato; è tuttavia chiaro che tali soluzioni non potranno essere né pensate né ideate con la stessa velocità e con la medesima facilità con cui se ne proclama l'idea. Non si può cioè non tenere conto delle dinamiche interne al sistema di gestione dell'ordine a livello amministrativo preesistenti all'avvento della tolleranza zero. In altre parole, se a livello politico è piuttosto facile proclamare un indirizzo politico come quello della tolleranza zero, il metterlo in pratica, ovverosia il tradurlo a livello amministrativo incontra tutto un altro genere di problematiche.

Quando parlo di livello amministrativo in questo contesto mi riferisco soprattutto all'operato delle forze di polizia, e agli effetti che la logica sicuritaria ha sortito su di esso.

Le polizie, come spiegherò nel corso del capitolo, attuano tradizionalmente una logica -diversa da quella della tolleranza zero - che si basa sulla gestione del disordine, ovvero: non inseguono l'intento di eliminare il disordine come comunemente si crede (credere che il disordine sia solo un episodio di caos momentaneo in mezzo all'ordine perenne che bisogna soffocare tramite interventi legislativi è credenza propria dell'utopico legislatore) ma operano piuttosto per mantenere il disordine entro determinati limiti di sopportabilità.

Sono le polizie l'oggetto di analisi in questo capitolo. Esse infatti sono le istituzioni maggiormente chiamate ad attuare nella realtà concreta l'indirizzo politico del momento, tanto che studiarle è indispensabile, come tra gli altri sostiene Salvatore Palidda (2000), per comprendere il funzionamento dell'apparato statale nelle pratiche concrete della vita quotidiana.

Nell'immaginario comune è radicata l'idea di una polizia quale braccio armato delle istituzioni penali, ovvero come istituzione preposta al mettere in pratica le funzioni dell'apparato penale. Scrive Campesi che "nel lessico politico-giuridico contemporaneo il concetto di "polizia" rimanda ad una ristretta funzione di tutela e salvaguardia dell'ordine pubblico per mezzo della prevenzione e repressione dei reati" (Campesi, 2008, p.8). Tuttavia considerare la polizia quale un semplice apparato preposto alla sola repressione-prevenzione dei crimini è foriera di un'interpretazione ristretta del ruolo del dispositivo poliziesco, interpretazione che d'altro canto è complementare alla classica visione "repressivo-conservativa delle funzioni dello Stato e del diritto tipica di tutta la filosofia politico-giuridica liberale" (ibidem, p.10).

A parte il fatto che la letteratura più recente attribuisce alle così dette forze dell'ordine, oltre al ruolo repressivo e di prevenzione, anche un ruolo di "aiuto" ed "educativo" (Ziglio, 2000), argomento su cui tornerò in seguito, non è solo questo che rende la polizia un così particolare oggetto di studio.

Scrive bene Campesi, ed è questo anche il punto di partenza del mio ragionamento, che "il potere di polizia rappresenta il momento dell'incontro fisico, entro certi limiti non mediabile dal diritto, tra la forza sovrana e la nuda vita della popolazione" (Campesi, 2008, p.12). Ciò che più caratterizza il potere di polizia è infatti che esso si muove in una regione che io definisco di bando (in senso agambiano), cioè ai margini della legge e della giustizia, in cui norma ed eccezione coincidono (si rimanda all'appendice teorica al secondo capitolo per una trattazione più approfondita dell'argomento), e in cui in ogni momento la decisione dell'operatore di polizia si esprime come potere sovrano.

La polizia è un'istituzione sociale assai particolare la quale segue logiche e regole proprie; l'impatto della logica sicuritaria è stato sicuramente dirompente anche a questo livello, ma lo sarà sicuramente stato in maniera diversa.

Sarà quindi alla polizia, alla sua logica e alle prassi che mette in atto che sarà dedicato questo capitolo.

Ripercorrendo i non troppi studi svolti sulla polizia, con particolare riferimento a quella italiana, ne risulta che secondo la generalità degli autori l'idea di una polizia esclusivamente repressiva nata negli anni Settanta non sembra rispecchiare più i compiti a cui le polizie sono chiamate oggi in Italia (Ziglio, 2000). Tale immagine, nata in risposta ad "una forte esigenza di ordine pubblico" (vedi primo capitolo), non descrive più il ruolo che le polizie sono chiamate a svolgere oggi nell'opera di controllo del territorio di fronte all'accresciuta complessità sociale (Ziglio, 2000). Le polizie, in Italia sicuramente, svolgono e hanno sempre svolto un ruolo di primo piano nell'organizzazione politica della società. Non solo in quanto agiscono generalmente con il fine di mantenere il potere politico, ma anche per la forte connotazione politicizzata della loro azione: Palidda la rintraccia non solo nella lotta ai "sovversivi" e agli oppositori politici, ma anche nella criminalizzazione di due eventi storici estremamente significativi, ovvero "la questione sociale" e la "questione meridionale". Tuttavia, nella società post-industriale le polizie tendono a divenire, più che istituzioni, "potere socialmente costruito con la partecipazione della maggioranza dei cittadini" (Palidda, 2000, p.10). Ora come ora la polizia non è più soltanto strumento della classe dominante o strumento dello stato atto a mantenere il controllo su di una società nemica, ma è divenuta "la forza che incarna e assicura il potere sociale dei cittadini nei confronti dei non-cittadini, cioè della società nei confronti di chi ne è escluso" (ivi). Palidda sostiene che sia proprio questo il cambiamento fondamentale avvenuto all'interno di questa organizzazione in Italia, poiché in grado di modificare "la legittimazione della polizia, la sua prassi, le sue relazioni, l'estensione dei suoi poteri, la produzione della sua attività, il suo peso nel governo della società" (ivi).

Ma procediamo con ordine, iniziando dalle caratteristiche che contraddistinguono questa organizzazione sociale.

1. Egon Bittner e l'attività di peace-keeping

Tra gli studiosi della polizia, uno dei più importanti è sicuramente Egon Bittner. Non è il primo ad aver svolto ricerca empirica sulla polizia; già Westley negli anni Cinquanta aveva tentato un approccio di tipo etnografico, e l'antropologo ed etnografo M. Banton aveva messo in atto nello stesso periodo una delle prime osservazioni partecipanti del poliziotto in divisa durante le ronde (osservazione da cui evince come il potere discrezionale della polizia divenga facilmente discriminazione razzista e classista). Nel '66 è Skolnick che compie lo stesso tipo di ricerca negli Stati Uniti, contemporaneamente a Bittner che lo farà nel '67. Quest'ultimo però è il primo ad elaborare una teoria della polizia, definita come "modello coercitivo", che si concentra sull'analisi della concezione, del ruolo e della prassi di questa istituzione sociale.

Bittner pubblica nel '67, all'interno della rivista "The American Sociologist" un articolo divenuto famoso: The police on skid-row: a study of peace keeping. In esso l'autore sostiene che l'operato di polizia consiste in due differenti attività: "law enforcement" e "keeping the peace". L'attività di peace-keeping, che è quella di cui Bittner in questo articolo si occupa, e che anche quella che qui ci interessa, comprende tutte quelle procedure che non contemplano l'arresto. Non è determinata da alcun chiaro mandato legale e non sottosta a nessun sistema di controllo esterno.

Spiega Bittner (aspetto che mi sembra assolutamente attuale) che generalmente la polizia si muove sotto un doppio patrocinio: quello del potere esecutivo e quello del potere giudiziario; peraltro, sono i giudici più che i membri dell'esecutivo che detengono il controllo sugli usi e le procedure della polizia (1). Naturalmente, il controllo giudiziario si limita solo a quei casi dell'attività di polizia che sono direttamente legati alla persecuzione completamente legale dei criminali. Invece, quelle attività di polizia che non si concludono nella persecuzione, e che sono inevitabili e anche frequenti, non ricadono sotto alcun tipo di controllo; anzi, i dipartimenti di polizia sono generalmente liberi di determinare cosa è necessario fare e come, e a parte una sorta di pressione informale che possono ricevere dalle sfere alte, sono scarse le linee guida in tali materie.

Dunque, con attività di peace keeping Bittner fa riferimento a tutte quelle attività che non sfociano nell'arresto, che non si trovano sotto il controllo del potere giudiziario, e che non sono determinate da specifici mandati esecutivi o legislativi. Nei manuali di polizia, egli sostiene, tali attività ricevono solo un'attenzione casuale, lasciandone la gestione al buon senso, all'integrità e all'altruismo dell'operatore di turno, mentre i dipartimenti di polizia di solito non conservano registrazioni di operazioni già svolte di quel genere.

La polizia dunque, come Bittner scopre negli anni Sessanta e cosa che ritengo tuttora veritiera, funziona anche aldilà dell'impiego di procedure completamente legali e a volte insieme ad esse.

L'interesse di questo articolo sta nel tentativo riuscito di individuare alcuni dei tratti di questa abilità pratica (practical skill), di questo sapere di polizia. Ripetiamo: quelle di peace-keeping sono attività non nel corso delle quali accade che il poliziotto finisce per compiere attività illegali, ma semplicemente rispetto alle quali non c'è nessuna direttiva legale che indichi al poliziotto stesso se ciò che fa deve essere fatto, o anche solo in che modo deve essere fatto. Mi soffermerò solo su alcune tra le attività elencate, quelle cioè che ritengo più importanti e anche che ritengo siano parte integrante dell'attività di polizia in generale, e non solo del poliziotto che deve operare in un contesto quale lo skid-row.

1.1. Alcune "practical skills"

Le molte caratteristiche dell'attività di polizia osservate da Bittner sono rintracciabili nel comportamento della polizia in generale, e non solo di quella inglese, nel momento in cui è chiamata a mettere in atto il controllo del territorio in un determinato luogo.

Osservando l'attività di polizia, Bittner si rende conto, innanzitutto, che grazie al potere di supervisione e di concessione di certe licenze e certi permessi connessi alle attività commerciali, i poliziotti sono in grado di crearsi una rete di conoscenze e di informatori, attraverso il reciproco scambio di favori. La rete di conoscenze, come vedremo, è fondamentale per l'attività di polizia, la quale si muove anche secondo le informazioni di cui riesce ad entrare in possesso. In secondo luogo, nel corso della sua indagine, Bittner individua l'abitudine dei poliziotti a non arrestare generalmente quelle persone che hanno commesso un reato minore, anche quando è possibile procedere all'arresto. Bittner però precisa che il non procedere ad un arresto è raramente, se lo è mai, una mera decisione di non agire: essa è più spesso una decisione ad agire diversamente. Infatti nel caso di un reato minore, arrestare l'autore di tale reato è solo una tra le tante possibili scelte: sembra che il procedere o meno all'arresto dipenda dalla persona che ha perpetrato il reato (questo aspetto lo ritroveremo con particolare evidenza nel corso della ricerca empirica). Un altro aspetto interessante di questo sapere di polizia è che la polizia sembra di fatto detenere certi diritti speciali nei confronti di persone ritenute non completamente responsabili (nel senso di accountable) delle proprie azioni. E' il caso dei minorenni e dei "malati mentali"; ma anche di coloro che non conducono vite "normali o che occupano un posto "pariah" nella società.

Questo aspetto mi sembra particolarmente interessante anche per il mio oggetto di ricerca. Infatti questo gruppo comprende secondo Bittner i residenti dei ghetti caratterizzati etnicamente, certi tipi di bohemien e di vagabondi, e persone dal noto background criminale. Il fatto degno di nota è che queste persone non solo vengono arrestate più spesso delle altre, ma soprattutto che "vengono percepite dalla polizia come produttori di uno speciale problema e che come tali necessitano di una continua attenzione e dell'uso di procedure speciali" (Bittner, 1967, p.704). Mi sembra evidente che questa stessa chiave di lettura possa essere utilizzata anche per guardare al tipo di controllo a cui i migranti sono sottoposti in Italia in questo momento storico.

1.2. La limitata rilevanza della colpevolezza

Bittner parla di "limitata rilevanza della colpevolezza" (ibidem, p.709), in riferimento al fatto che di fronte alla discrezionalità del potere che il poliziotto detiene di invocare la legge, e di fronte al fatto che tale discrezionalità è in ogni caso ineliminabile, il problema sta nel capire se le decisioni prese dal poliziotto siano in linea o meno con l'intento della legislazione.

C'è da dire che Bittner analizza l'attività di peace keeping in un ambiente particolare, ovvero lo skid-row (quartiere "difficile" caratterizzato dalla concentrazione di una certa tipologia di persone). Egli reputa che i poliziotti abbiano una particolare concezione dell'ordine sociale della vita all'interno di questo tipo di quartieri, concezione che riveste un peso determinante per le procedure di controllo che essi impiegano.

Nello skid-row, sostiene Bittner, i poliziotti prendono spesso decisioni in base a ragioni che la legge non riconosce come valide. Vale a dire che l'intento che i poliziotti perseguono nel loro operare all'interno dello skid-row non è lo stesso che persegue la legge. Ciò non risulta però subito evidente, dato che nella maggioranza dei casi che finiscono con un arresto per un reato minore, i criteri che la legge specifica vengono comunque soddisfatti. Ciò che nota Bittner è che si tratta di una rara eccezione che la legge venga invocata nel momento in cui, e solo perché, certe norme sono state violate (questo stesso aspetto dell'attività della polizia lo nota anche Palidda in "polizia postmoderna"). In altre parole:

compliance with law is merely the outward appearance of an intervention that is actually based on altogether different considerations. (Bittner, 1967, p.710)

Ciò significa che la legge viene più spesso invocata come pretesto.

L'intento che la legge prescrive non viene realmente perseguito nel corso dell'intervento di polizia: questo si basa piuttosto su considerazioni differenti. Questa osservazione mi interessa in particolar modo perché credo che rappresenti ciò che sta succedendo nell'attività di controllo in Italia in questo momento storico. Credo cioè che il legislatore nell'elaborazione di certe politiche segua un certo tipo di ragionamento mentre il poliziotto chiamato ad attuare quella legislazione, nel tentativo di farlo, ne segua un altro. In realtà sembra esservi un motivo preciso dietro questo comportamento. Infatti i poliziotti, in base alle interviste contenute in varie ricerche fatte in materia (Palidda, 2000; Chiodi-Quassoli, 2000; Ziglio, 2000, Sbraccia 2007), rivendicano il fatto che attuare la legislazione così com'è sia un obiettivo irraggiungibile, e che il loro operato punti piuttosto a mantenere la situazione entro certi livelli di governabilità.

Dunque, i poliziotti non operano realmente con l'intento di "enforce the law" come comunemente si crede, ma usano la legge come una risorsa per risolvere certi urgenti problemi pratici. Perciò, il problema che Bittner individua e con cui il poliziotto deve scontrarsi nella sua attività di peace keeping non è tanto quale ubriaco o mendicante dovrebbe essere arrestato e chi invece no, considerando uno strappo alla regola il fatto di non procedere all'arresto di qualcuno che invece si sarebbe dovuto arrestare. Il vero problema del poliziotto è decidere di quale reato incolpare -ubriachezza, disturbo della quiete pubblica, ecc.- qualcuno che deve essere comunque arrestato.

Bittner ipotizza che questo stesso meccanismo, ovvero la "limitata rilevanza della colpevolezza", possa essere utilizzato per qualsiasi set di norme, nella misura in cui ci si trovi di fronte a norme che perseguono comportamenti abbastanza comuni. Anche questa intuizione di Bittner va tenuta in debito conto nello studio dell'interazione tra migranti e polizia in Italia. Infatti i migranti sono "portatori" di reati assolutamente comuni dato il loro status legale (vedi l'irregolarità giuridica), e la libertà del poliziotto sta nel decidere se imputarli o meno di tali reati nel momento in cui decidono che un migrante è pericoloso. Questa è un'altra ipotesi a cui vedremo se è possibile dare risposta attraverso la ricerca empirica, tenendo ben presente che questo aspetto, quello che Bittner chiama la "limitata rilevanza della colpevolezza" si rende manifesto in diverse circostanze: ad esempio nel trattamento riservato a certe persone che non vengono arrestate sebbene siano presenti in campo tutti gli elementi per procedere ad un arresto legale, o al contrario in occasione dei cosiddetti arresti preventivi, quando l'arresto viene comunque effettuato sebbene non è certo che siano presenti quegli elementi necessari ad un arresto legale.

Concludendo, Bittner rintraccia diversi elementi nella modalità di gestione del disordine da parte della polizia che, sebbene pensati in relazione all'attività che questa svolge all'interno dello skid-row, credo possano tranquillamente venire riproposti anche nell'analisi dell'operato della polizia in altri contesti. Per ricapitolare, mi riferisco ai seguenti elementi: i poliziotti, nel corso della normale attività di controllo, cercano generalmente di costruirsi una fitta rete di conoscenze che permetta loro di reperire più informazioni possibile da utilizzare ogni volta che ce ne sia bisogno; essi tendono a procedere contro le persone più sulla base di rischi percepiti che secondo il criterio di colpevolezza; essi sono più interessati a ridurre la misura aggregata dei problemi nell'intera area piuttosto che valutare il caso individuale sulla base del merito; nell'intento di ridurre i rischi i poliziotti si avvalgono comunque di strumenti coercitivi e repressivi.

2. Compiti di chirurgia sociale

Bittner, come gli altri autori a lui contemporanei, secondo una critica avanzata da Palidda, si fermerebbe all'osservazione sopratutto di due aspetti particolari dell'attività di polizia, ovvero la discrezionalità e il carattere violento che essa assume in determinate circostanze. Sarebbe questo uno sguardo miope che non permette di avanzare un'analisi più profonda di questo difficile oggetto di studio, poiché è un'analisi che non tiene in debito conto i cambiamenti che hanno investito la polizia e in genere la sicurezza dal secondo dopoguerra nelle società dominanti, ovvero: "l'articolazione tra esemplarità e negoziazione, la gestione delle regole del disordine, lo sviluppo del rapporto tra polizia e cittadini, la diffusione delle funzioni di polizia tra altri attori sociali e in genere tra tutti i cittadini inclusi" (Palidda, 2000, p.23), che sarebbero invece gli elementi determinanti della polizia oggi. Proviamo dunque ad avanzare nell'analisi delle pratiche di polizia tenendo ben presenti anche altri elementi.

La facoltà di usare la forza coercitiva è il primo elemento costitutivo della polizia, che però, concordo con Palidda, diviene sterile se non si accompagna l'analisi dell'operato di polizia con un altro suo fondamentale elemento costitutivo, ovvero "la capacità di produrre un sapere pratico sulla società". Infatti, come già in parte Bittner aveva intuito, la polizia può aspirare ad esercitare il ruolo di garante della sicurezza non solo in ragione della forza coercitiva di cui è in possesso, ma grazie alla raccolta di informazioni sulla società, costruendosi cioè un sapere di polizia appunto, che le permetta prima di tutto di individuare su chi applicare la forza coercitiva.

La ricerca di informazioni avviene in molti modi diversi: da un lato è il risultato dell'esperienza diretta che il poliziotto fa della criminalità e che lo porta ad elaborare specifiche categorie di crimini e di criminali; dall'altro il poliziotto si avvale delle informazioni ottenute da confidenti o "collaboratori di giustizia", attraverso coercizione, ricatto o anche soldi e scambio di favori. Ovviamente non è, né può essere solo questa la via attraverso la quale la polizia riesce ad ottenere le informazioni utili al controllo del territorio, perché in questo modo si correrebbe il rischio della manipolazione delle informazioni. Come scrive Palidda: "più potere può produrre più sapere e a sua volta più potere ancora, ma è la capacità professionale a permettere di raccogliere e trattare le informazioni utili" (Palidda, 2000, p.33). Dopodiché Palidda si discosta dall'analisi di Bittner, individuando un'altra importante fonte di informazioni per la polizia nelle collaborazioni spontanee basate su di un rapporto di fiducia con la popolazione locale. Questo sarebbe, secondo lo studioso, ciò di cui in una democrazia la polizia ha veramente bisogno. Ma tornerò meglio su questo punto nel prossimo paragrafo.

Detenere un certo numero di informazioni è utile in primo luogo al poliziotto chiamato ad attuare operazioni di "chirurgia sociale". L'opera di chirurgia sociale a cui la polizia è preposta era già stata individuata da Bittner come quell'operazione atta a dividere i "buoni" dai "cattivi", vale a dire "le classi laboriose" dalle "classi pericolose" (2). Dunque, costruire il sapere pratico sulla società si rivela fondamentale per il lavoro del poliziotto dal momento che è in primo luogo la polizia che, grazie alla divisione tra buoni e cattivi di cui essa stessa è artefice, regola l'inclusione dei lavoratori e l'esclusione dei nemici sociali.

Il potere della polizia poggia e finisce per coincidere col sapere pratico sulla società. Infatti, come scrive Palidda:

senza un sapere sulla società e sui singoli individui la polizia non può essere in grado di operare per conseguire gli obiettivi che ad essa sono stati assegnati: mantenimento dell'ordine non solo in occasione di atti di indisciplina collettiva, ma anche come controllo continuo della realtà sociale e dei comportamenti dei singoli volto a garantire che la vita quotidiana si svolga nel rispetto o, quantomeno, non in contrasto con le norme definite dalle leggi, con le regole e gli interessi delle classi dominanti o della maggioranza riconosciuta della società (Palidda, 2000, p.30).

L'elemento fondamentale di questo potere-sapere di polizia, è che "esso si costruisce ed è tanto più ricco quanto è meno subordinato al potere politico" (ivi), poiché la polizia ottiene informazioni e confidenze solo se può "offrire spazio vitale alle sue fonti", ovvero se non è ligia nel rispettare le regole imposte dal potere. Ciò significa che, in definitiva la polizia riesce ad imporre il proprio controllo sulla società civile quanto più decide di non seguire l'indirizzo politico del momento, e di tenersi aperto quel margine di discrezionalità connaturato al proprio lavoro. L'operato delle forze di polizia si rivela tanto più efficace quanto più questa detiene l'effettivo "monopolio nella gestione delle regole del disordine". In questo senso la polizia è "un'istituzione dello stato intesa precisamente come organizzazione politica della società" (Palidda, 2000, p.31). Scrive chiaramente Palidda:

la polizia si configura dunque come l'istituzione sociale che formalmente ha il ruolo cruciale di garantire il funzionamento normale della società, ma che può svolgere tale ruolo solo in base a una mediazione più o meno adeguata tra le norme e le regole informali proprie di ogni società locale, non sempre conciliabili con le norme istituite. La polizia può così coinvolgere una parte della popolazione e anche una parte dei devianti e criminali nel governo concreto della sicurezza" nonché tutte "le forze, risorse, strumenti e modalità attraverso cui la società provvede al suo stesso disciplinamento. (Palidda, 2000, p.31).

Proviamo adesso a scendere maggiormente nel dettaglio del lavoro del poliziotto.

3. La discrezionalità del potere di polizia

La discrezionalità del potere di polizia si situa nello spazio che sorge tra quello che la legge dice e la sua applicazione. Emerge in molte situazioni differenti dell'operato del poliziotto, o comunque in tutti quei casi in cui al poliziotto viene richiesto di prendere una decisione. Viene fuori sia quando bisogna decidere su quali persone dirigere il controllo sia, ad esempio, quando bisogna stabilire se ricorrono o meno gli estremi per dichiarare, in assenza di criteri legislativi definiti o anche di circolari applicative ministeriali, la presenza di "ragioni di ordine pubblico" e della "minaccia alla sicurezza".

Come notano Chiodi e Quassoli in una bella ricerca di qualche tempo fa (3), tali criteri vengono stabiliti localmente e la loro applicazione viene spesso decisa caso per caso, in base alla sensibilità del dirigente. I due studiosi ragionano in riferimento all'applicazione della legislazione sull'immigrazione, ma ciò che dicono riflette un problema generale connesso con la discrezionalità del potere di polizia. Scrivono i due, in riferimento ad un episodio di trattamento differenziato di un cittadino non comunitario:

una simile prassi, se da un lato, consente di evitare che un'applicazione rigida di criteri ben definiti porti all'esclusione/espulsione di persone che nella stessa valutazione della polizia non si connotano per alcuna pericolosità sociale, dall'altro, espone il cittadino straniero a decisioni discrezionali che, oltre a contraddire condizioni universalistiche di accesso alla cittadinanza, producono un forte disorientamento e la sensazione di essere discriminati, nel momento in cui non hanno un corrispettivo nell'esperienza di conoscenti e amici che, pur trovandosi nelle stesse condizioni, hanno fatto domanda presso questure nelle quali i criteri di orientamento sono differenti. (Chiodi-Quassoli, 2000, p.136-7)

La discrezionalità presenta dunque una doppia faccia della medaglia, che gli operatori di polizia intervistati da Chiodi e Quassoli sembrano tuttavia apprezzare in linea di massima. Infatti, solo parzialmente i margini di decisione arbitraria lasciati dalla normativa vengono percepiti come un difficoltà o una mancanza di chiarezza che può rendere più difficoltoso il lavoro. Piuttosto l'elasticità della norma, come spiegano i poliziotti intervistati, viene considerata allo stesso tempo una risorsa che consente di prestare attenzione al singolo caso umano, attraverso un'applicazione della legge ad hoc.

Il discorso però può essere ampliato, allargando il punto di vista da cui guardare alla questione, ovvero uscendo dal punto di vista del poliziotto chiamato ad applicare la legislazione e cercando di tracciare un quadro più ampio delle dinamiche del controllo, per capire dove, al loro interno, la discrezionalità del potere di polizia si collochi. E a mio parere lo spiegano bene ancora Chiodi e Quassoli quando scrivono che l'arbitrarietà delle decisioni amministrative può produrre due tipi di conseguenze:

da un lato, un'attenuazione salutare della rigidezza di una norma, che per definizione traccia in astratto un confine netto rispetto a questioni che nella pratica si presentano come sempre più complesse che nella carta, dall'altro lato, un'estensione indeterminata dei possibili margini di arbitrio che ogni amministrazione tende a riprodurre e sui quali fonda parte del proprio potere. (Chiodi, Quassoli, 2000, p.281)

Ovviamente non sono solo le amministrazioni a ricavare potere dai margini di arbitrarietà di cui dispongono: ciò vale per ogni singolo operatore di polizia. Ed è questo il lato della questione su cui mi sembra più interessante concentrare l'attenzione.

Tra i compiti a cui un poliziotto deve assolvere, credo che le continue operazioni di chirurgia sociale siano quelle che più di ogni altra pongono le basi per il suo potere. In altre parole ritengo che il potere della polizia si collochi massimamente nel fatto di essere l'istituzione legittimata a decidere su chi debba ricadere il controllo, decidere chi sia "sospetto" e chi no. Il poliziotto può scegliere in quale punto situare il confine tra "buoni" e "cattivi" (4). Ed è questo un potere tanto più importante quanto è quello di cui più comunemente tutti facciamo esperienza nella vita di tutti i giorni.

In questo frangente può essere utile far riferimento ad un articolo di Harvey Sacks, pubblicato in italiano nel 1983, dal titolo: "Come la polizia valuta la moralità delle persone basandosi sul loro aspetto" (5).

Questo articolo tratta di due questioni fondamentali: come la polizia attua il proprio controllo sul territorio (questione che riprenderò in seguito) e come stabilisce la "moralità delle persone", ovvero come decide su chi far ricadere il sospetto. Sacks asserisce che "gli agenti di pattuglia sono specificamente orientati a individuare le apparenze scorrette che le persone possono presentare" (Sacks, 1983, p.181). Infatti, "un reciproco orientamento verso l'aspetto delle persone costituisce il mezzo per produrre ed accettare le norme di comportamento adeguate mediante le quali le interazioni casuali in pubblico sono routinizzate" (ibidem, p.180), e uno dei ruoli più importanti svolti dai poliziotti consiste nel proteggere questo mezzo da usi illeciti.

Vi è tuttavia un problema decisionale, specifica Sacks, che ogni poliziotto deve affrontare nel tentativo di individuare le "persone pericolose", che coincide con il dovere di massimizzare la possibilità di selezionare tra i passanti coloro che risulteranno essere dei criminali, e minimizzare quella di selezionare coloro che non risulteranno essere dei criminali (Sacks, 1983, p.181).

Purtroppo non è una probabilità remota che proprio in questo tentativo di massimizzazione vengano a crearsi vere e proprie "catene del pregiudizio e dello stereotipo" (S. Bonatti in Ziglio, 2000, p.59 e ss.). Infatti, la cosa più comune che può accadere ad un operatore di polizia nel momento in cui cerca di massimizzare la possibilità di selezionare dei criminali è quella di incappare in pregiudizi e stereotipi. Fa notare Bonatti, una delle autrici del testo a cura di Ziglio: "etnografia delle professioni. Il caso della polizia di stato", che, posto che pregiudizio corrisponda ad "un'opinione errata che dipende dalla scarsa conoscenza dei fatti" e che lo stereotipo sia invece "un'opinione precostituita, non acquisita sulla base di un'esperienza diretta e scarsamente suscettibile di modifica", i poliziotti:

essendo a contatto tutti i giorni con delle conferme stereotipate, desunte proprio sulla base di un'esperienza diretta, rischiano di costruirsi egualmente un'opinione errata, ma che in questo caso dipende dalla conoscenza dei fatti (S. Bonatti in Ziglio, 2000, p.59).

Succede cioè che magari il poliziotto, nell'attività di controllo del territorio, diriga la propria attenzione in maniera preferenziale verso certe categorie di persone, ad esempio i migranti, sulla base del fatto che ritenga molto probabile che essi delinquano (se non oggi, domani) perché è questo che l'esperienza gli o le ha insegnato. Tuttavia, tale esperienza si basa su un paradosso, ovvero il fatto che è piuttosto naturale che siano proprio quelle su cui più facilmente ricade il controllo di polizia le categorie di persone che risultano infine, ad uno sguardo approssimativo, essere quelle che delinquono maggiormente: fior fiore di sociologi ci hanno ormai insegnato che non necessariamente il gruppo che dalle statistiche risulta essere quello a tasso di criminalità più alto rappresenti davvero il gruppo che delinque di più, quanto quello su cui più facilmente ricade il controllo. Se non si prende in considerazione seriamente questa fondamentale lezione della criminologia critica, cosa che in effetti non sembra proprio venga fatta, non c'è da meravigliarsi che si arrivi al formarsi di un'opinione errata ma basata su di un'esperienza diretta, quindi difficile da attaccare. Da qui all'innescarsi di un circolo vizioso, distruttivo per certe categorie di persone, il passo è breve: che un pregiudizio o un punto di vista influiscano pesantemente sulla modalità d'intervento di polizia è piuttosto semplice, come è facile che un pregiudizio porti a "profezie capaci di autoavverarsi" (6).

Infine, mi si permetta una riflessione a margine: Il diritto penale del nemico, se applicato come diritto differenziato nei confronti di una determinata categoria di persone, si dia il caso dei migranti irregolari, imprimerebbe nuova forza alla già controversa discrezionalità del potere di polizia. Infatti applicare il diritto penale del nemico alla categoria dei migranti significherebbe che questi verrebbero privati dei loro diritti, divenendo, in una situazione di irregolarità giuridica, nuda vita direttamente esposta alla violenza del potere sovrano. Quando scrivo che il migrante che incontra la polizia diviene nuda vita catturata nel bando sovrano, non intendo dire che il migrante è sempre e comunque esposto a soprusi e violenze da parte del poliziotto. Intendo dire che quando il poliziotto incontra il migrante irregolare, la loro interazione si svolge in un campo diverso da quello della legge. Tale interazione infatti, quando non sfocia in un arresto, può essere considerata parte di quelle attività di peace-keeping di cui parlava Bittner. Come il poliziotto deciderà di agire nei confronti del migrante irregolare, nel momento in cui decide di non procedere all'arresto, dipende solo dal poliziotto. In questo senso il migrante è direttamente esposto all'arbitrio del potere.

4. Sudnow e i "reati normali"

David Sudnow (7) (1983) introduce un altro concetto che potrebbe rivelarsi utile ai fini della nostra ricerca. Si tratta del concetto di "reati normali".

Sudnow elabora questo concetto nell'ambito di una ricerca sociologica da lui stesso svolta riguardo al sistema di difesa "d'ufficio" degli imputati nel contesto delle corti americane. Egli, cioè, si sofferma a descrivere le procedure effettive mediante le quali il codice penale è impiegato in questo preciso contesto. Quindi egli parla di difensori d'ufficio, e non di poliziotti, e tratta di come i difensori di ufficio si avvalgano dei reati normali nell'ambito dei meccanismi della giustizia americana. Ritengo comunque utile presentare la teoria da lui elaborata sulla base di una precisa ipotesi: è probabile che nell'atto di definire quali siano i reati normali, il poliziotto si comporti come un difensore d'ufficio.

I reati normali sono, secondo la definizione che ne fornisce Sudnow:

Quegli eventi i cui aspetti caratteristici, ad esempio il modo in cui essi accadono abitualmente e le caratteristiche delle persone che li commettono (come pure le vittime e le scene tipiche), sono conosciuti e previsti dal difensore d'ufficio. Per ogni reato appartenente a un certo tipo, il difensore d'ufficio può fornire qualche tipica caratterizzazione proverbiale. (Sudnow, 1983, p. 145)

L'oggetto della caratterizzazione non sono gli individui, ma il tipo di reato. E' ovvio che ad ogni tipo di reato è connesso un certo tipo di individuo, ma in ogni caso la descrizione passa prima dalle caratteristiche del reato che da quelle di chi il reato lo commette. Nei reati normali, le caratteristiche attribuite agli imputati e ai reati spesso non hanno alcuna importanza per la dommatica giuridica (Sudnow, 1983, p.145). Ovvero quelle che vengono prese in considerazione dal difensore di ufficio sono caratteristiche irrilevanti per la definizione che di quel reato fornisce la legge, eppure allo stesso tempo sono decisive nel momento in cui il difensore d'ufficio stesso deve decidere la natura del reato davanti al quale si trova. Altro elemento importante dei reati normali è che, per quanto riguarda il loro contenuto, le caratteristiche che questi presentano sono tipiche della comunità in cui il difensore d'ufficio opera. Essi, inoltre, "sono situati in ambienti specifici e ci si aspetta che siano normali o non a seconda dei luoghi in cui sono commessi" (ibidem, p. 156). Spiega Sudnow che:

i modelli ecologici sono collegati a variabili socio-economiche, e queste a loro volta ai modi tipici in cui sono svolte le attività criminose e quelle lecite. Sapere dove un reato ha avuto luogo significa così, per il difensore d'ufficio, conoscere le persone che probabilmente vi hanno preso parte, il tipo di scena in cui il reato è stato commesso, e il modello di attività caratteristico di quell'ambiente. (Sudnow, 1983, p. 156)

La classe dei reali normali è dunque costruita in modo sociologico, una sociologia di tipo pratico. Il difensore d'ufficio, nel nostro caso il poliziotto, non ricerca gli elementi penalmente rilevanti ma quegli elementi che gli permettono di associare il caso davanti al quale si trova ad altri casi simili, per comprendere quanto sia normale o meno. L'abilità del difensore d'ufficio\poliziotto sta proprio nello scoprire la normalità del reato che ha davanti, in modo da poter agire di conseguenza. Egli è in grado di associare agli aspetti normali delle categorie di reati e dei tipi di imputati certe circostanze sociali. Egli è in grado quindi di inserire chi commette un reato che riconosce come normale in un posto esatto all'interno della struttura sociale. "L'aspetto generale dell'imputato, cioè la sua razza, il comportamento, l'età, il modo di parlare, il modo di reagire alle circostanze della sua incarcerazione" (Sudnow, 1983, p.160) gli fornisce un primo indizio in questo senso. Il poliziotto dunque, comportandosi proprio come il difensore d'ufficio di cui parla Sudnow, sarà in grado di rintracciare la normalità di un reato, in relazione sia al luogo in cui esso viene svolto, sia in relazione alla persona che lo commette. Si presume che di fronte ad un reato normale un poliziotto agirà con una certa clemenza, adottando un atteggiamento ben diverso da quello che invece presumibilmente deciderà di adottare di fronte ad un reato non normale, ovvero di un reato del quale non è in grado di individuare le caratteristiche di normalità. Un reato non normale desterà nel poliziotto un diverso tipo di attenzione, dal momento che egli si troverà di fronte ad un evento di cui non riesce ad anticipare e di cui non riesce a spiegarsi tutte le caratteristiche, poiché queste non rispondono ai criteri di normalità da lui elaborati. Come tale questo evento desterà in lui maggior sospetto e il soggetto che commette quel reato verrà probabilmente percepito come pericoloso, poiché esula dal suo campo di conoscenza. Il poliziotto si avvale delle categorie dei reati normali per prendere le decisioni quotidiane. Infatti, concludo con le parole di Sudnow:

Per il modo in cui sono usate effettivamente, le categorie dei reati sono [...] i termini di riferimento stenografici per quella conoscenza della struttura sociale e degli eventi criminali su cui poggia il compito di organizzare praticamente l'attività di "difesa legale". (Sudnow, 1983, p.176)

Tale conoscenza, ripetiamo, è una sorta di sociologia pratica, espressione di ciò che questi reati significano effettivamente. Infatti la definizione di reati normali include tutta una sapienza criminologica verificata nella pratica: "include la conoscenza delle modalità di esecuzione delle attività criminali, delle caratteristiche ecologiche della comunità, dei modelli di vita quotidiana negli slums, delle biografie sociali e psicologiche dei criminali, delle storie dei delitti commessi e delle previsioni di quelli probabili" (ibidem, p.176).

5. Le regole del disordine

Di tutti gli aspetti e di tutte le teorie che fino a qui ho scorso, credo ce ne sia una in particolare intorno alla quale mi sembra particolarmente utile spendere le prossime riflessioni. Si tratta della teoria della polizia di Palidda, il quale sostiene che la logica della polizia sia basata sulla gestione delle "regole del disordine" (8).

La teoria della polizia di Palidda muove dalla constatazione che l'idea di una polizia come un'istituzione che deve sorvegliare e punire come se la legge fosse uguale per tutti, tentando di far rispettare norme generalmente valide, è un'idea che non ha mai avuto una traduzione effettiva nella realtà concreta. La sopravvivenza della società dipenderebbe infatti, piuttosto, dagli attori o istituzioni sociali che cercano di governare la continua coesistenza di ordine e disordine, pace e conflitti. E' infatti errata l'idea per cui vi sarebbe una situazione generale di ordine costellata da momenti di caos ai quali mettere fine sarebbe proprio compito della polizia. Secondo Palidda, l'ordine in base al quale la società è costruita non sarebbe altro che disordine (9).

In base a questa teoria, anche il governo effettivo non sarebbe quello che proviene da un parlamento eletto, ma sarebbe costruito intorno a continui tentativi di governare alla meno peggio attraverso "sperimentazioni specifiche e continue", attuate in massima parte dalla polizia in qualità di "street level bureaucracy". Per far sì però che questo modello di governo funzioni effettivamente, è necessario che la polizia, come in un "plebiscito quotidiano", venga riconosciuta dalla popolazione come l'istituzione sociale che governa al meglio il disordine permanente. Questo perché la capacità di un'istituzione sociale di partecipare al governo concreto della società dipenderebbe dalla capacità di venire riconosciuta come tale dalla società che governa.

Sta di fatto che i poliziotti, nel tentativo di governare il disordine permanente, sono continuamente costretti a chiudere gli occhi, a lasciar correre, a violare le norme, a tollerare o anche commettere delitti per sorvegliare coloro che non possono o che non vogliono rispettare le regole della gestione del disordine. In questo senso, dice Palidda, la polizia diviene un "coup d'état permanent" (Foucault, 2004, p.347), ovvero è in questo modo che la polizia mette in atto una continua ridefinizione del potere sovrano.

Questo sistema di gestione del disordine ha subito delle modifiche in seguito all'impatto con la rivoluzione neo-conservatrice, che si innesca a metà degli anni Settanta, a partire dagli Stati Uniti. Essa conduce all'idea che sia possibile dominare il disordine permanente attraverso la forza piuttosto che con la concertazione. E' questo ciò di cui si parlerà nel prossimo paragrafo.

5.1. L'impatto della tolleranza zero nella gestione del disordine

L'avvento della domanda di sicurezza nelle democrazie occidentali ha influito in maniera determinante sulla gestione del disordine da parte delle polizie. Proverò quindi a riproporre l'analisi dell'avvento della rivoluzione neo-conservatrice e di tale domanda di sicurezza, prima in generale poi con particolare riguardo alla situazione in Italia, dal punto di vista delle polizie. Per questa analisi riproporrò alcuni studi e alcune ricerche sulla polizia di differenti autori, ma con particolare riguardo alla teoria della polizia di Palidda.

La rivoluzione neo-conservatrice che si innesca a metà degli anni settanta esalta l'asimmetria tra dominanti e non-dominanti (in un contesto in cui l'avvenuta erosione dell'agire pubblico, precisa Palidda, permette che tutto possa venire imposto senza paura di rivolte popolari). Il dominio del disordine permanente da parte delle polizie da qui in poi non verrà più perseguito tramite la tradizionale concertazione ma attraverso la forza, i controlli post-moderni e il contributo dei "cittadini zelanti".

I cittadini zelanti sono coloro che hanno interiorizzato il discorso del potere neo-conservatore e che partecipano attivamente a questa nuova gestione del disordine. Spiega Palidda che rappresentano una parte della società tendenzialmente minoritaria ma che, passando per la lente d'ingrandimento del circuito mediatico, il quale ne amplifica la voce, il numero e le lamentele, diventa maggioritaria nelle apparenze. Nell'epoca della tolleranza zero, "la costruzione dell'informazione è spesso un'enfatizzazione del senso comune" (Palidda, 2000, p.152). Può accadere ad esempio che:

i commercianti o gli abitanti di un quartiere telefon[ino] al giornalista per chiedergli di fare un articolo sul degrado della zona in cui vivono. Il giornalista va allora ad intervistarli e riporta ciò che dicono come verità appurata, con un grosso titolo a effetto e magari con una foto presa furtivamente con teleobiettivo in cui si vedono quattro giovani di colore addossati a un muro che discutono tra di loro, con la dicitura: gruppo di spacciatori extracomunitari. (Palidda, 2000, p.152-3)

Dopo che "l'allarme degrado" in una certa zona è scattato, e dopo che gli occhi dell'opinione pubblica sembrano essere concentrati proprio su l'evoluzione di tale vicenda, un intervento della polizia in senso repressivo, ovverosia, un intervento della polizia volto a ristabilire l'ordine, è la naturale conseguenza.

Il sistema di controllo della popolazione che si va delineando con l'avvento della tolleranza zero è caratterizzato da un progressivo saldarsi tra polizia, senso comune, media e imprenditori della sicurezza, fino al formarsi di una sorta di cortocircuito sicuritario, concetto che spiegherò meglio nel corso del paragrafo. Agendo all'interno di questo cortocircuito, i media sono in grado di ridefinire in senso sicuritario l'ordine sociale. Soprattutto sono stati i media locali a dare avvio per primi all'allarme sicurezza, interpretando le mode del momento e gli umori dei cittadini che avrebbero dovuto comprare certi giornali. Poi, l'allarme dai media locali è passato a quelli nazionali, producendo gli effetti di cui tutti siamo testimoni.

6. Nuova importanza della dimensione locale

Facendo un passo indietro, chiariamo che la polizia in una democrazia ha bisogno delle collaborazioni "spontanee" dei cittadini, le quali possono esistere solo sulla base di un rapporto di fiducia tra la polizia e la società locale. La sempre più stretta interconnessione tra polizia e cittadini regala una rinnovata importanza alla dimensione locale, la quale assurge ad un posto di primo piano rispetto alla dimensione statale, almeno per quanto concerne le dinamiche di controllo del territorio. Il problema di queste collaborazioni spontanee nasce, tuttavia, nel momento in cui "la ricerca di questo rapporto tende ad indurre la polizia ad assecondare il senso comune e ad indebolire il suo sapere professionale, cioè la sua autonomia" (Palidda, 1999, p.32), cosa che sembra sia già accaduta e stia continuando ad accadere in risposta ad una domanda sempre più pressante di sicurezza.

Nella fase precedente all'avvento del sicuritarismo, la polizia si trovava "stretta solamente tra sapere professionale e input tradizionali provenienti soprattutto dall'alto" (ibidem, p.36), in seguito si assiste all'emergere di un nuovo paradigma: la domanda di sicurezza cerca di trovare risposte non più nell'ordinamento statale, ma in un nuovo ordine sociale locale. La ricerca di questo nuovo ordine sociale locale spiega la proliferazione di norme o misure amministrative non sempre in linea con le leggi dello stato. Palidda le chiama dinamiche di "sicuritarismo localista", tanto più forte quanto più è solo sul piano locale che diviene possibile intrecciare saperi e forze in modo tale da realizzare l'obiettivo sicurezza.

L'ordine sociale a livello locale sembra riprodursi seguendo delle dinamiche proprie, socialmente costruite in loco, che non sono per forza in linea con le logiche nazionali e sovra-nazionali. Gli operatori di polizia si trovano coinvolti in questo processo per forza di cose, anche perché "l'incertezza sulla fonte di legittimazione o meglio l'oscillazione tra fonti tradizionali e nuove (il potere centrale e la società locale) finiscono per rendere insicuri gli attori che dovrebbero gestire la sicurezza a livello locale" (ivi).

Il cambiamento della fonte di legittimazione del lavoro del poliziotto è un fattore a cui Palidda riserva grande importanza. Infatti, questo tipo di slittamento ha delle ripercussioni dirette sul modus operandi della polizia, sempre più attenta alle questioni e alle preoccupazioni poste dall'opinione pubblica piuttosto che dalla legislazione (non che la situazione sarebbe poi così migliore se la legislazione che abbiamo in questo momento in Italia venisse effettivamente applicata). Sta di fatto che l'operatore di polizia, stanti così le cose, rischia probabilmente di attuare e rendere in questo modo reali istanze di senso comune. E piuttosto che un rischio, guardando alla situazione attuale, mi sembra essere questo un dato di fatto. Scrive Palidda che nella società postmoderna è venuto instaurandosi un nuovo rapporto tra polizie e cittadini effettivamente titolari di questo status a cui corrisponde un nuovo tipo di attività di polizia di controllo sociale e di disciplinamento. E' venuta meno quella contrapposizione tra polizia e cittadini dovuta al fatto che la polizia proteggeva gli interessi della classe dominante. Oggi, "la polizia, le politiche e le prassi della sicurezza tendono a dipendere dal potere politico nazionale sempre più in termini formali, mentre sono sempre più condizionate dagli input provenienti dai poteri sovranazionali e dalle società dominanti locali" (Palidda, 2000, p.242).

7. Anni Novanta in Italia e polizia

Fino a qui abbiamo parlato delle caratteristiche della polizia in generale. Restringiamo adesso lo sguardo a questo paese. Fino agli anni Ottanta, nonostante, come abbiamo visto nel corso del primo capitolo, anche in Italia già dall'inizio degli anni Sessanta si registrava un crescendo di tutti quei reati che oggi sono classificati come microcriminalità e che sono tipici delle grandi agglomerazioni urbane (ovvero borseggi, scippi, furti, rapine, aggressioni, ecc.) il problema della criminalità urbana non aveva grande risonanza. Al centro dell'attenzione vi era ben altro: i conflitti di classe, i terrorismi, la criminalità organizzata. Testimonia Palidda che in quegli anni si assisteva anche ad un cambiamento nella concezione della legalità in una parte degli operatori di polizia, che si avviò verso la depenalizzazione di fatto dei reati minori, quali il taccheggio se messo in pratica dalle persone socialmente accettate (10). E' un atteggiamento in linea con i tempi, dovuto al fatto che l'attenzione maggiore andava alla criminalità organizzata, ai conflitti di classe, alla criminalità dei colletti bianchi, ai problemi connessi al terrorismo

Le cose iniziano decisamente a cambiare nel corso degli anni Novanta.

Un ex-questore di Milano, In un'intervista (11), spiega l'ascesa della richiesta di sicurezza da questo periodo in poi non come risposta all'aumento della microcriminalità che da qualche tempo era sempre la stessa, ma come bisogno della gente di "fare pulizia" in qualche modo, di riportare ordine dopo tangentopoli e la grande delusione e smarrimento che ne è seguito (Palidda, 2000, p.132).

In risposta all'emergere della domanda di un rinnovato ordine, negli anni Novanta si afferma anche una nuova concezione del controllo del territorio, riassumibile in due aspetti principali: da un lato si verifica un aumento straordinario dell'attività delle volanti, delle chiamate al 113, della ricezione e sollecitazione delle denunce, dall'altro inizia un impiego regolare dei reparti mobili nelle operazioni di pattugliamento e di bonifica. Inoltre, vengono istituiti inizialmente in dieci regioni dei reparti di prevenzione crimine, i quali dispongono regolarmente del personale dei reparti mobili per i servizi di sicurezza urbana (ibidem, p.119). In pochi anni gli Uffici di Prevenzione Generale (UPG) divengono gli uffici divisionali più importanti delle grandi questure: incorporano un terzo o addirittura metà del personale e sono sotto gli occhi attenti ed esigenti dell'opinione pubblica.

Come abbiamo già visto, nel modello della tolleranza zero le scelte relative al tipo di risposta da dare alle domande di sicurezza dipendono moltissimo dall'opinione pubblica (ibidem, p.134 e ss.), e l'Italia non fa certo eccezione: il collegamento tra media, esposti dei cittadini e attività di polizia rappresenta un problema di assoluta importanza anche in questo paese.

In riferimento a questo, Chiodi e Quassoli tracciano una differenza, all'interno di detto meccanismo, tra "gli esposti spontaneamente presentati dalla cittadinanza" e "le campagne di allarme sociale orchestrate da attori politici e media". In base alle interviste da loro svolte, i primi vengono in parte giustificati dai dirigenti, dai funzionari di polizia e dai magistrati, mentre, nei confronti dei secondi, i medesimi intervistati condividono l'idea che "all'intensità della protesta non corrisponda una gravità oggettiva della situazione".

Il fattore di problematicità non sta solo in quello che i due studiosi indicano, ovvero che:

tali campagne sono in grado di distorcere fortemente la percezione dei fenomeni legati alla criminalità e all'insicurezza, esponendo polizia e magistratura a pressioni che hanno più a che fare con la politicizzazione e mediatizzazione dei problemi che non con la loro evoluzione oggettiva e con gli strumenti previsti dalla legislazione italiana per contrastare la criminalità. (Chiodi Quassoli, 2000, p.267)

Il fattore di problematicità sta anche nel circolo vizioso che tali dinamiche innestano: le campagne mediatiche influiscono sulla percezione di insicurezza che i cittadini provano, percezione di insicurezza che poi si riversa sulla polizia, sotto forma di domande di sicurezza che la polizia non può e non vuole ignorare. Dal canto loro le campagne mediatiche non sono costruite a caso, ma vanno a scavare e a puntare il dito su preoccupazioni preesistenti tra i cittadini, con l'effetto di amplificarle (12). Andiamo più a fondo nella questione riproponendo un ulteriore osservazione di Palidda.

Palidda distingue la domanda di sicurezza in due fenomeni: le risposte che vengono date alle domande di sicurezza che i cittadini rivolgono alle polizie da un lato, la produzione e riproduzione di tale domanda dall'altro. La polizia, secondo quanto egli afferma, percepisce la domanda di sicurezza non per forza in maniera corrispondente alla reale portata della domanda, poiché tale percezione non si basa, ad esempio, sulla seria valutazione di dati statistici, ma dipende dai risultati della loro attività (arresti, denunce, informazioni raccolte dagli operatori, osservazione del "quotidiano urbano), dagli scambi di informazioni e valutazioni con altre polizie, dall'opinione pubblica, attraverso quanto scrivono i giornali. Ciò che ne viene fuori è una percezione falsata della domanda di sicurezza, che porta a risposte fuorvianti e inadeguate. Questo accade anche perché l'azione della polizia è più che altro la risposta ad un'urgenza e come tale manca di una riflessione d'insieme che funga da risposta alle malattie sociali. Anche perché è su questa istituzione che in ultima istanza ricade tutta la pressione derivante dalla domanda di sicurezza. Il rischio costante è che, sotto tale pressione l'operato di polizia si faccia sempre meno rispettoso dei diritti.

Un ulteriore rischio connesso a questo è che il non rispetto dei diritti di certe categorie della popolazione, da pratica illegittima (seppur attuata comunque), divenga legittima, grazie all'avvento all'interno della legislazione italiana di un diritto penale del nemico (vedi capitolo 2).

7.1. Dalle regole del disordine alla tolleranza zero

La logica della polizia si basa fondamentalmente sulla gestione delle regole del disordine, incompatibile con la logica della tolleranza zero. Se le regole del disordine girano intorno al "lasciar correre" quando necessario per mantenere il disordine entro certi confini di tollerabilità, la tolleranza zero si basa sul punire sempre e comunque, puntando ad un'estinzione -impossibile- della condizione naturale di disordine (di cui sopra). Ciononostante, sembra che tale logica venga adottata tanto dai dirigenti quanto dalle polizie, se si traduce in più poteri e più risorse. In generale il sistema di controllo basato sulla "tolleranza zero" sposta i problemi sociali e le devianze nelle periferie, incentiva comportamenti illeciti tra gli operatori della polizia, tende ad annullare la tradizionale gestione delle regole del disordine a dispetto di un aumento della violenza, della vittimizzazione nonché della criminalizzazione del gruppo sociale più represso.

E' infatti necessaria una precisazione sulla tolleranza zero: questa logica, subdolamente, non prevede che vengano puniti tutti egualmente, ovvero che venga punito chiunque commetta determinati reati. Infatti, l'attenzione delle forze di controllo è rivolta in particolare a reati specifici, o meglio a persone specifiche, ovvero gli esclusi.

La maggioranza dei giudici, dei poliziotti, dei medici, degli insegnanti, degli psicologi, dei cittadini zelanti partecipano insieme e attivamente ad una "gestione del disordine che tende soprattutto alla chirurgia sociale violenta" (Palidda, 2010, p. 6) che punta a trasformare gli esclusi in una sorta di "cittadinanza in eccesso". Una precisazione: in Italia non si tenterà una neutralizzazione di tale cittadinanza sbattendo chi ne fa parte in carcere per periodo lunghissimi come invece accade negli Stati Uniti. Nel nostro paese la cittadinanza in eccesso, di cui i migranti sono i rappresentanti per eccellenza, vengono tendenzialmente sbattuti nel "circuito c.i.e.-carcere" per brevi periodi, ma nel corso del quale questi luoghi di detenzione fungono da filtro di messa a valore (13) (Sciurba, 2009): passando attraverso questo genere di filtri gli esclusi possono essere reinseriti in posizione gerarchicamente subordinata all'interno della struttura societaria, magari nascosti nelle maglie della rete del lavoro nero.

Conclusioni

L'errore fondamentale di tutto il meccanismo fin qui descritto sta nell'intento di ridurre la percezione dell'insicurezza attraverso lo sviluppo della prevenzione, mentre l'unico effetto è l'aumento della carcerizzazione e della repressione, nonché la riproduzione permanente del corto circuito "paure-insicurezze-securitarismo", da cui promanano erosione dell'agire pubblico e consenso alla tolleranza zero.

D'altro canto non si può nemmeno ignorare il fatto che lo sviluppo della prevenzione pretende di attuarsi sulla scia di un racial profiling basato su pregiudizi, stereotipi e credenze di senso comune. Tale pretesa ha dato avvio in Italia ad una criminalizzazione razzista dei migranti e degli zingari, l'altra faccia di una chirurgia sociale che puzza di "pulizia etnica permanente" (Palidda, 2000). Inoltre, come per primo Harcourt (2007) fa notare, uno degli effetti dell'utilizzo del racial profiling in vista della selezione delle persone su cui dirigere il controllo in maniera preferenziale è l'aumento di tutti gli altri reati. In Italia questo fenomeno si sta già verificando da tempo, con l'aumento di reati quali l'evasione fiscale, l'abusivismo edilizio, l'irregolarità delle attività economiche e commerciali, lo smaltimento dei rifiuti, la mancata sicurezza nei luoghi di lavoro, la criminalità organizzata.

E' Palidda che ancora tira le somme, asserendo, cosa che già altri avevano intuito, tra cui Alessandro Baratta nel bel saggio "Diritto alla sicurezza o sicurezza dei diritti?", (14) che ciò a cui siamo arrivati è il sacrificio di sempre maggior libertà e diritti per inseguire la sicurezza, che detto in altro modo significa protezione dei privilegi (reali o immaginari) dei cittadini inclusi dei paesi dominanti. Questa idea di fondo, per le polizie si trasforma in un'opera di esasperazione dell'attività di repressione violenta contro zingari, immigrati, marginali, ma anche manifestanti, attivisti politici ecc. Per questa via, il rischio è che l'innata discrezionalità del potere di polizia scivoli continuamente verso la "discriminazione e il libero arbitrio e quindi la razzizazione delle attività correnti di buona parte delle polizie pubbliche e private, nazionali e locali..." (Palidda, 2010, p.8). L'allarme sulla sicurezza detiene un ruolo centrale nella legittimazione di questo meccanismo, poiché esso crea uno "stato di emergenza permanente" in base al quale le pratiche illiberali vanno moltiplicandosi e normalizzandosi. Da segnalare una riflessione di Sciurba al proposito: le pratiche di controllo che qui si analizzano vengono applicate indifferentemente su migranti e autoctoni: gli uni e gli altri sono continuamente identificati e identificabili, in vari modi, in vari modi la libertà degli uni e degli altri viene compressa; ma, mentre nel caso degli autoctoni questo tipo di controllo passa quasi inosservato poiché basato su di meccanismi sottili e sistematici di limitazione della libertà e indirizzamento dei desideri, mentre cioè per chi ha un posto nel mondo il controllo si riduce ad un indirizzamento dei comportamenti, per chi invece si trova sempre fuori posto esso si manifesta come ostacolo continuo ad una vita dignitosa (Sciurba, 2008).

Un ultima osservazione è d'obbligo: i diritti dei cittadini dei paesi dominanti non possono conciliarsi con quelli universali. L'azione di polizia, che si muove a difesa di questo ordine mondiale e locale, entro il quale non vige l'uguaglianza di diritti tra cittadini dei paesi dominanti e dei paesi dominati, tende inevitabilmente a violare le norme di diritto costituzionale e internazionale, pur godendo del consenso attivo dell'opinione pubblica. Ciononostante, il sicuritarismo postmoderno, sostiene Palidda, sussiste perché è una soluzione. Non in quanto mette fine al sentimento d'insicurezza, ma in quanto riproduce quel sentimento di insicurezza che di per sé è una soluzione: "elemento di straordinaria forza nella ricerca di ricomposizione sociale e nel produrre l'identità della nuova società dominante" (Palidda, 2000, p.244).

Note

1. Che il controllo sugli usi e le procedure della polizia spetti ai giudici piuttosto che ai membri dell'esecutivo è dovuto al fatto che, spiega Bittner, innanzitutto, in base ai principi del credo democratico, la possibilità che l'apparato di polizia sia sotto il controllo diretto del governo è semplicemente ripugnante. Infatti, stretti contatti tra polizia e governo sono spesso il segno di corruzione politica, o anche dell'avvento di uno stato di polizia, o di uno stato autoritario, visto che questo per affermare il proprio controllo sulla popolazione può usare il terrore o la coercizione, da attuarsi attraverso il controllo della polizia, o anche della polizia segreta. Quindi sono gli stessi membri del governo che si guardano bene dall'avere un apparato di polizia che sia direttamente dipendente dal loro potere. Secondariamente, è visione comune che la principale funzione della polizia sia il controllo del crimine. "Dal momento che il concetto di crimine appartiene interamente alla legge, e il suo trattamento è basato in maniera esaustiva su considerazioni di legalità, le procedure di polizia sottostanno automaticamente sotto lo stesso sistema di analisi che controlla l'amministrazione della giustizia in generale" (Bittner, 1967, p.700).

2. Anche su questo punto tornerò nel prosieguo del capitolo. Per adesso basti dire che la polizia nasce proprio come istituzione intelligente che deve operare questo genere di distinzione.

3. Chiodi, Quassoli (2000), Rappresentazioni sociali e pratiche organizzative di polizia e magistratura, in Quaderno Città Sicure, n.21, vol. 1.

4. E' attraverso l'imperialismo che i paesi europei comprendono i vantaggi insiti nel dividere la popolazione in due gruppi, uno costituito dagli individui da proteggere e difendere e l'altro invece dagli individui da cui difendersi e contro cui è quindi tutto permesso in nome della sicurezza.

5. Sacks (1983), Come la polizia valuta la moralità delle persone basandosi sul loro aspetto, in Giglioli, Dal Lago, a cura di, Etnometodologia, il Mulino, Bologna.

6. E' questa un'altra lezione fondamentale della criminologia critica, che ci parla della devianza secondaria, che insorge nel momento in cui qualcuno che viene additato come deviante si adegua all'immagine che gli altri hanno di lui o lei.

7. Sudnow (1983), "Reati normali: aspetti sociologici del codice penale nella difesa d'ufficio", in Giglioli, Dal Lago (a cura di), "Etnometodologia", Il Mulino, Bologna.

8. Ringrazio il prof. Palidda di avermi messo a disposizione un articolo di prossima pubblicazione che tratta proprio questo argomento. Approfitterò di alcune suggestioni raccolte in esso.

9. Ciò accadrebbe perché, specifica Palidda, gli esseri umani sono diversi e sempre in conflitto tra loro a causa della distribuzione ineguale del potere e della ricchezza.

10. Nell'età del consumismo deve essere permesso al compratore abituale di poter rubare di tanto in tanto.

11. Intervista presente in S. Palidda (2000), polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, Milano: "...sono andato via [da Milano] prima dell'esplosione di Tangentopoli, e l'ho ritrovata in piena Tangentopoli. Ho rilevato una profonda delusione della gente; giusta, giustissima, no?, che si è tramutata mano mano in insoddisfazione e quindi in richiesta di pulizia subito. [...] La microcriminalità è sempre la stessa, è l'insofferenza della gente, quindi la richiesta di sicurezza, che io trovo non nuova ma accesciuta; è nei confronti di questi fenomeni: prostituzione, extracomunitari irregolari, spaccio di stupefacenti, uso di sostanze stupefacenti e ovviamente borseggi e furti in genere. Alcuni di questi fatti poi non sono neanche previsti come reato!" (p.132).

12. Inoltre il fatto che il nuovo ordine sociale sia locale rende ancora più stretti i legami tra queste tre strutture.

13. Sciurba ipotizza che i centri di detenzione fungano da filtri nel processo di inclusione selettiva di determinati gruppi di migranti, e che producano clandestinizzazione, rifornendo il mercato del lavoro di un ingente quantità di manodopera docile e poco costosa. Scrive Sciurba che "uno degli effetti più immediati delle politiche di dichiarata chiusura delle frontiere europee è infatti, nella realtà, quello di produrre una inclusione differenziale dei soggetti migranti funzionale all'attuale sistema dell'economia informale, e i centri di detenzione amministrativa, con la loro funzione di assoggettamento degli individui e di definizione formale e sociale della condizione di irregolarità delle persone che li attraversano, possono pertanto essere considerati uno strumento importante di questo sistema" (Sciurba, 2009, p.119). Il fatto è che sono le politiche migratorie stesse a perdere di senso, nel momento in cui si dice che il loro reale obiettivo sia effettivamente quello dell'espulsione, se analizzate da una prospettiva economica, poiché espellere significa perdere forza lavoro economica. Invece, il processo di clandestinizzazione del lavoro migrante "è un'ottima opportunità per massimizzare l'accumulazione, minimizzando il più possibile i costi di produzione che essa comporterebbe se avesse a che fare con una forza lavoro in grado di rivendicare diritti ed innescare proteste sociali" (ivi).

14. Baratta (2001), "Diritto alla sicurezza o sicurezza dei diritti?" in Anastasia, Palma (a cura di), "La bilancia e la misura. Giustizia, sicurezza, riforme", fascicolo monografico speciale di "Democrazia e Diritto", 6, Franco Angeli, Milano.