ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo secondo
Il diritto penale del nemico

Giulia Fabini, 2011

Introduzione

In questo capitolo presenterò una concettualizzazione teorica che da qualche tempo si è fatta spazio nel dibattito in ambito giuridico di paesi quali Germania e Spagna, ma anche Italia seppur in misura minore: il diritto penale del nemico.

All'interno di questo lavoro il diritto penale del nemico verrà trattato come livello più astratto del discorso. Il mio proposito è quello di legarlo all'esperienza italiana, vedere se può essere utilizzato per comprendere alcune questioni connesse alla gestione dell'immigrazione in questo paese. Tale ambito, giuridicamente regolato, vive infatti di eccezioni alla regola, eccezioni però ricomprese nel diritto. E in realtà la regola che di per sé stessa è già eccezione continua a disapplicarsi o meno a seconda delle situazioni, delle contingenze, delle necessità, della volontà degli operatori, la volontà di chi in quel momento sta esercitando la sovranità.

Il diritto penale del nemico è prima di tutto una concettualizzazione teorica, elaborata dal noto penalista tedesco Günther Jakobs. È stata presentata per la prima volta da Jakobs nel 1985, nella Relazione alle Giornate dei Penalisti tedeschi a Francoforte sul Meno (anche se in questa sede non lo nomina direttamente), per poi essere ripresa con più convinzione, dal medesimo autore, nella Relazione al Congresso celebrato a Berlino nel 1999 su "la Scienza del Diritto penale alle soglie del nuovo millennio". Ed ha infine acquisito nuova importanza nel contesto della guerra al terrorismo di matrice islamico fondamentalista. Guardando alle misure che gli Stati Uniti stavano prendendo nei confronti di chi sospettavano essere terroristi, misure che prevedevano una deprivazione totale dei diritti (tortura, detenzione a tempo indeterminato, ecc.), Jakobs non vi vede una violazione del diritto stesso, ma la creazione di un altro diritto penale: il diritto penale del nemico. Jakobs, cioè, con la formula "diritto penale del nemico" fa riferimento ad un binario parallelo e separato del diritto penale. I due binari, sul piano dei diritti, esibiscono due livelli di garanzia diversa, perché si rivolgono a due categorie differenti di soggetti: il primo vige per il cittadino ordinario, il secondo invece è uno strumento da poter utilizzare contro chi, di volta in volta, viene identificato come nemico all'interno di una data società.

Riconoscere negli strumenti messi in campo nella "guerra al terrorismo" un diritto penale del nemico anziché la corruzione del diritto penale ordinario consentirebbe di attuare misure preventive contro il nemico, senza che ciò intacchi l'esistenza dello Stato di diritto.

Dunque, accanto al diritto penale del cittadino che regola i "normali" rapporti giuridici, Jakobs riconosce e vuole vedere legittimata l'esistenza di un diritto penale del nemico, separato dal primo, che invece dovrebbe regolare i rapporti non-giuridici con i nemici, i non-cittadini. Il diritto penale del nemico permetterebbe, sostiene Jakobs, di assoggettare completamente un individuo che altrimenti rischierebbe di diventare pericoloso, e aprirebbe alla possibilità di combatterlo e di cautelarsi non già secondo le regole del diritto, ma secondo quelle della guerra. Scrive il giurista: "chiunque sia in grado di promettere almeno in qualche misura fedeltà all'ordinamento, è titolare di una legittima pretesa ad essere trattato come persona in diritto. Chi non offre simile garanzia in modo credibile, tendenzialmente viene trattato da non cittadino" e come tale deve essere neutralizzato.

Il fatto è tuttavia che il diritto penale del nemico, una volta teorizzato e accettato come dato di fatto, difficilmente può rimanere confinato entro un solo settore; difficilmente, cioè, delle misure che inizialmente vengono pensate per combattere i sospettati di terrorismo di radice islamico fondamentalista non verranno poi usate contro altre categorie di soggetti considerati ugualmente pericolosi. Questo perché il diritto penale del nemico contiene al proprio interno un potenziale distruttivo che rischia di mettere seriamente in crisi l'intero sistema delle democrazie occidentali, giacché l'abolizione di diritti che lo contraddistingue contraddice i principi stessi dello Stato di diritto, minandoli alla base: porre la sicurezza su di un piano egemonico, come questa concettualizzazione teorica fa, porterebbe infatti alla flessibilizzazione degli altri diritti fondamentali.

Infine, vi è un altro piano fondamentale su cui riflettere: esiste una dimensione punitiva, lo stato d'eccezione, in cui si generano norme ispirate ad una logica di guerra. La distinzione di Jakobs fra diritto del cittadino e diritto penale del nemico assicura la logica dell'eccezione al sistema penale e la rende un'eccezione senza limiti. Lo stato d'eccezione è caratterizzato dalla sospensione di alcuni diritti fondamentali e in esso l'uomo esibisce la "nuda vita" di fronte ad uno stato che detiene il potere di trattarlo come una cosa, o meglio un corpo, nelle proprie mani.

1. Il diritto penale del nemico

Che cos'è quindi il diritto penale del nemico secondo Jakobs? E' immaginato come una sorta di binario parallelo al diritto penale del cittadino e, da questo, completamente staccato. Il diritto penale del nemico non si occuperebbe di crimini diversi rispetto agli altri crimini, ma si occuperebbe di autori di crimini diversi dagli altri autori. Quello che Jakobs intende fare è descrivere in che modo il diritto vigente distingue tra la pena da somministrare ad un cittadino che ha commesso un delitto e la relazione con un nemico. In altre parole, il diritto penale del nemico è uno speciale diritto penale che contempla pene più severe per una determinata categoria di autori, quelli per l'esattezza che non offrendo sufficiente garanzia cognitiva si situano fuori dalla sfera della tutela giuridica: essi sono nemici, e come tali non-persone a cui i diritti non vengono riconosciuti. Esse rappresentano un pericolo per la società e contro di loro bisogna agire al fine di neutralizzarli per difendersi dalla minaccia che costituiscono.

1.1. La teoria del diritto alla base del diritto penale del nemico

Al fine di comprendere pienamente la concettualizzazione che Jakobs elabora della categoria di diritto penale del nemico bisogna, prima di tutto, accennare alla particolare teoria del diritto che la sorregge.

Secondo Jakobs, l'ordinamento giuridico deve innanzitutto essere in possesso degli strumenti adeguati per orientare in maniera effettiva le scelte e i comportamenti dei membri della comunità. Ritiene, a tal fine, che le norme di un ordinamento giuridico debbano essere provviste di effettiva validità fattuale, di un adeguato consolidamento cognitivo, e che la loro sanzione venga riaffermata controfattualmente.

Primo, l'effettiva validità fattuale indica che non è sufficiente che le norme vengano considerate valide dalla generalità dei membri di una comunità, bensì devono soprattutto venire rispettate di fatto, poiché solo il rispetto generalizzato sarebbe prova dell'effettiva vigenza di una norma. Secondo, le norme devono essere accompagnate da un adeguato consolidamento cognitivo, espressione che sta ad indicare l'avvenuto processo cognitivo grazie a cui una norma viene riconosciuta come valida e quindi rispettata nella generalità dei casi. Solo l'effettiva validità fattuale delle norme e un adeguato consolidamento cognitivo rendono stabile un ordinamento giuridico. Terzo, che una norma venga osservata nella generalità dei casi non basta ad affermare che essa vige a livello sociale: secondo Jakobs è infatti ugualmente necessario che tale norma venga riaffermata controfattualmente, ovverosia è necessario sanzionare con la pena la sua violazione, poiché la norma "vige a livello sociale non soltanto quando viene osservata, ma anche quando viene riaffermata controfattualmente" (Jakobs in Gamberini-Orlandi, 2007, p.114). Va da sé che una singola violazione non rende ineffettiva una norma poiché "ciò che è effettività sociale non lo decide un singolo, tanto meno il reo, ma la stessa società" (1) (ibidem, p.113).

La pena è l'elemento ultimo su cui in definitiva poggia la stabilità e solidità di un ordinamento giuridico, l'elemento grazie al quale la norma riesce a garantire la sicurezza dell'aspettativa (2). L'assenza di anche uno solo di questi elementi farebbe sì che l'ordinamento giuridico esista solo su carta, che sia in contraddizione con la realtà dei fatti e che come tale renda estremamente instabile l'orientamento dei consociati rispetto alle norme.

La stabilità di un ordinamento giuridico ha una doppia funzione: essa fornisce un orientamento realmente fruibile non solo ai membri della comunità, potenziali vittime a cui garantire la sicurezza dell'aspettativa, ma anche al reo, il quale, come scrive Jakobs, rispetterà più facilmente una norma stabilizzata nella realtà sociale effettiva piuttosto che una che vige solo sul piano normativo (Jakobs in Gamberini-Orlandi, 2007, p.113). Dunque "una praticata disponibilità alla persecuzione penale" è secondo Jakobs imprescindibile affinché "la norma consegua generale forza di orientamento" (ivi).

1.2. Inventare personalità giuridiche: il concetto di non-persona

Allora, per comprendere a fondo la portata della teorizzazione di Jakobs, proviamo a leggere un episodio come un banale furto dall'ottica del diritto penale del nemico.

Secondo la teoria di Jakobs, "il ladro" sarebbe un individuo sprovvisto di un adeguato consolidamento cognitivo rispetto alla norma che vieta di rubare, mentre il crimine messo in atto andrebbe punito con una sanzione, proporzionata, necessaria sia a risanare il deficit cognitivo di cui il reo sarebbe vittima sia a riaffermare la vigenza della norma agli occhi degli altri membri della comunità. Ma c'è dell'altro: il furto costituirebbe usurpazione del diritto di proprietà di chi viene derubato, il quale, quest'ultimo, non si potrebbe avvalere, in questo frangente, di tale diritto, che quindi rimarrebbe nudo diritto nelle sue mani, come tale inutilizzabile. Ciò accadrebbe perché, a parer di Jakobs, un ordinamento giuridico sviluppato non può fermarsi alla sola garanzia del nudo diritto, ma deve anche garantire in misura rilevante l'utilizzo del diritto, quantomeno in ragione del fatto che "i diritti solo in quanto diritti-all'-utilizzo sono buoni, altrimenti in quanto puri diritti sono inservibili" (Jakobs in Gamberini-Orlandi, 2007, p.114).

Dunque, la violazione della norma ha l'effetto di ledere i diritti dei membri della comunità giuridica all'interno della quale il reato viene compiuto, ma non solo: il reo, violando delle norme vigenti, rompe il contratto sociale e si pone al di fuori di esso, perdendo, come conseguenza di un atto volontario (3), tutti quei diritti che essere parte del contratto gli o le garantiva. Egli diviene non-persona in diritto.

Va da sé che il fatto che i diritti puramente astratti sono inservibili se non affiancati da un adeguata struttura di supporto o se non riconosciuti come tali dagli altri consociati, è una critica che viene condivisa da molti altri pensatori (4); tuttavia, la conseguenza che ne ricava Jakobs appare piuttosto allarmante dal punto di vista, paradossalmente, dei diritti stessi, poiché conduce alla delineazione della non-personalità giuridica del nemico. Nel delineare la propria concezione riguardo al nemico, infatti, Jakobs mette provocatoriamente in discussione il postulato secondo cui ogni essere umano in quanto tale deve essere trattato come una persona in diritto, per ciò stesso titolare di diritti fondamentali e inalienabili, e afferma che un individuo è legittimo titolare di diritti solo nella misura in cui è inserito in un contesto di reciprocità, ovvero: può pretendere di vedere rispettati i propri diritti solo se rispetta i diritti altrui.

Che la relazione di reciprocità sia necessaria all'effettiva fruibilità dei diritti è un punto di vista assolutamente condivisibile e in effetti viene condiviso da molti altri autori. Un esempio tra tutti: Etienne Balibar ha scritto che i diritti, per essere realmente fruibili, non possono essere concessi da un potere altro esterno e superiore ma, per loro stessa natura, devono essere conquistati da tutti simultaneamente attraverso il loro mutuo riconoscimento (Balibar, 2002): in altre parole Balibar, in maniera apparentemente simile a Jakobs, sostiene che la conquista dei diritti avviene quando "i soggetti sono gli uni per gli altri la fonte e il riferimento ultimo dell'emancipazione" (Ibidem, p.13). I due autori sembrano quindi in accordo riguardo al fatto che i diritti sono buoni solo se effettivamente fruibili e che sono effettivamente fruibili solo se sono reciprocamente riconosciuti quanto meno dalla comunità dei consociati.

Eppure, Jakobs porta questo ragionamento alle estreme conseguenze: parte dal fondamentale mutuo riconoscimento dei diritti ed arriva ad affermare che una persona che non rispetta i diritti altrui si situerebbe fuori da questo meccanismo di reciprocità, divenendo allora un nemico interno alla società. Allora il nemico, assolutamente priv(at)o di diritti, verrà legittimamente trattato alla stregua di una non-persona in diritto e quella instaurata con lui o lei sarà una relazione non giuridica.

Questo perché, il fatto che ogni essere umano debba essere trattato come persona in senso giuridico, titolare di diritti fondamentali e inalienabili, sarebbe vero secondo Jakobs solo al livello del diritto postulato, ma non corrisponderebbe ad una realtà normativa effettiva. L'assunto per cui ogni essere umano è titolare di diritti fondamentali e inalienabili in quanto persona indica quindi, a parere del giurista tedesco, il modo in cui la società dovrebbe essere e non descrive affatto il modo in cui la società è. "Il modo in cui la società è" contempla già, secondo Jakobs, l'esistenza di un diritto penale del nemico.

1.3. Il nemico nella teoria di Jakobs

Delineiamo con più precisione la figura del nemico all'interno della teorizzazione del giurista tedesco. Studiata in precedenza da molti altri autori (tra i contributi più significativi spiccano quelli di Thomas Hobbes e Carl Schmitt) la figura del nemico di Jakobs si differenzia dalle altre per alcuni fondamentali aspetti.

Il nemico con cui abbiamo a che fare nella teoria di Jakobs è, innanzitutto, un delinquente, che come tale porta lo stigma della colpevolezza. Ma si tratta di una particolare tipologia di delinquente. Il nemico è infatti, a differenza del delinquente comune, un individuo la cui stabilizzazione cognitiva rispetto alla norma non è più possibile, e contro il quale ci si può difendere solo tramite la neutralizzazione, ovvero contro di lui o lei "si deve procedere prima del fatto delittuoso o in aggiunta rispetto alla pena approntando un apparato di sicurezza" (Jakobs in Gamberini-Orlandi, 2007 p.120). Il nemico è una minaccia non solo per i membri della società in senso prettamente fisico, ma è una minaccia anche per la stabilità e la vigenza dell'ordinamento, nella misura in cui, attraverso il proprio agire mette in crisi la vigenza delle norme e il consolidamento cognitivo rispetto a quelle stesse norme all'interno del corpo sociale.

Un buon modo per approfondire la tematica del nemico in Jakobs è metterlo a confronto con la concettualizzazione di Thomas Hobbes, da cui il nemico di Jakobs si differenzia.

Hobbes distingue tra cittadino che delinque, punito secondo la legge, e il reo di alto tradimento, combattuto con le armi della guerra: il primo cerca un singolo vantaggio e non mette in discussione la globalità, mentre il secondo sfida proprio il principio. È l'avversario di principio che, secondo Hobbes, va trattato come un nemico, combattuto e annientato con i mezzi propri della guerra.

Da questo punto di vista, contestualizzare Hobbes significa per Jakobs considerare reo di alto tradimento un nemico della società costituzionalmente fondata sulle libertà. Significa cioè che, nella contemporaneità, è nemico colui che con il proprio agire mette a rischio la stabilità dell'ordinamento giuridico poiché sfida il principio di una società che deve garantire libertà e diritti a tutti.

Il problema di una tale visione è che rende difficile fissare dei confini netti che separino stabilmente chi è nemico da chi non lo è, perché tale distinzione si fonda sui principi volatili e cangianti, che è il potere politico stesso a stabilire come validi di volta in volta.

A distinguere le concezioni del nemico dei due autori, vi è anche il fatto che Jakobs contempla la possibilità dell'esistenza del nemico parziale che invece non compare in Hobbes. Il nemico parziale è un individuo contro cui possono essere fatti valere degli strumenti di guerra ma il cui orientamento verso la norma può ancora essere correttamente ripristinato, ragion per cui risulta ancora re-inseribile nella società. Quindi nemico non è solo il nemico di principio, il reo di alto tradimento, e il fine della pena non è solo il puro annientamento della persona in questione, bensì il consolidamento della norma (5).

Diversa è la funzione della pena nel fronteggiare un avversario di principio. Si dia il caso di un terrorista, argomenta Jakobs, cioè di una persona, secondo la definizione che egli ne da, che è stata socializzata nel contesto di una cultura ostile. La pena in questo caso deve controbilanciare un già preesistente deficit di sicurezza cognitiva ed essere perciò più severa. Questo perché prima di tutto viene "la sicurezza della società dal reo, perseguita o attraverso una custodia preventiva legittimata in quanto tale o attraverso una pena privativa della libertà che sia tale da garantire la sicurezza, quindi che sia corrispondentemente lunga" (Jakobs in Gamberini-Orlandi, 2007, p.123). Non solo: secondo Jakobs si dovrebbe anche agire preferibilmente prima che il fatto delittuoso venga posto in essere.

Sembra si arrivi a questo punto della trattazione ad una certa ambivalenza nella funzione della pena, che assume funzioni diverse a seconda che ci si muova sul piano del diritto penale ordinario o su quello del diritto penale del nemico: nel primo caso la sua funzione generale è la riaffermazione controfattuale della norma nei confronti della generalità della società; nell'altro, la pena ha invece la funzione di annientare e di squalificare l'avversario (6). L'anticipazione in senso temporale della punibilità segna il passaggio da un diritto penale funzionale al mantenimento della vigenza della norma (diritto penale ordinario), di solito denominato diritto penale della colpevolezza, a un diritto penale come diritto delle misure contro la minaccia di pericoli (diritto penale del nemico).

2. La critica a Jakobs

2.1 Il concetto di non-persona

Stabilire dei criteri attraverso cui individuare il nemico è una delle questioni maggiormente problematiche connesse alla teoria di Jakobs, ed è anche una delle questioni su cui la critica al pensiero del giurista si è maggiormente concentrata.

Dunque, abbiamo visto che il nemico è secondo Jakobs, innanzitutto, non-persona in diritto: concetto assolutamente problematico.

Giuseppe Losappio, docente di diritto penale presso l'università di Bari, si sofferma su questo aspetto della problematica, affermando che

"l'articolazione persona-essere umano dissolve il legame tra uguaglianza e diritti umani sul quale si fonda un diritto penale liberale" (Losappio in Gamberini-Orlandi, 2007, p.258).

Mettiamo da parte per adesso il concetto di diritti umani, che pone delle questioni ulteriori e questo non è il luogo per indagarle (7). Il problema centrale, messo ben in evidenza da Losappio, è che la concezione di Jakobs porta a discernere nella persona un aspetto normativo (la persona in senso giuridico) ed uno fisico (l'essere umano), pretendendo che l'uno possa prescindere dall'altro. Ma una personalità giuridica senza essere umano è un contenitore vuoto, un non senso, mentre un essere umano senza personalità giuridica diviene un individuo assolutamente soggetto all'abominio di un potere che non ha più limiti. L'articolazione persona-essere umano, come dice Losappio, deve quindi essere il più possibile evitata e i due termini devono essere tenuti insieme a descrivere la realtà di persone provviste di diritti, di persone cioè che chi detiene il potere politico non può né uccidere né sottoporre a trattamenti disumani e degradanti, e questo senza per forza far ricorso ai diritti umani, che sono un impianto forse troppo debole per sorreggere il peso di uno scontro tale. Ogni persona, in quanto essere umano, è titolare di diritti, e questo è il principio su cui si fonda uno Stato di diritto. Se questo principio viene meno, si esce semplicemente dallo stato di diritto per entrare in una diversa struttura che non garantisce un rapporto equilibrato tra diritto e potere: se il riconoscimento dei diritti fondamentali dell'uomo, invece che costituire la base imprescindibile di uno stato di diritto, viene meno, il rapporto tra diritto e potere viene totalmente stravolto andando a rafforzare il potere politico rispetto al diritto. Come scrive Losappio: "sotto questo profilo il problema del diritto penale del nemico coincide con il problema del rapporto tra potere e diritto penale" (8).

Un altro critico di Jakobs, Domenico Pulitanò, dell'Università Bicocca di Milano, ritiene la categoria di non-persona superflua: non ci sarebbe alcun bisogno di introdurre una distinzione dicotomica così dannosa quale quella tra cittadino e non-persona per cercare un mezzo consono a combattere una particolare categoria di criminali. Infatti "differenziazioni normative del tipo evocato dalla idea di un diritto "speciale" per il nemico (per nemici non necessariamente totali, ma anche parziali), attraversano da tempo gli ordinamenti giuridici" (Pulitanò, 2006); dice Pulitanò che si sviluppano di fatto dietro la proclamazione dell'universalità dei diritti, tenuta ferma in via di principio, e che ultimamente si sono accentuate e sono di fatto largamente accettate.

Un'altra critica interessante è quella di Antonio Cavaliere, docente di diritto penale all'università di Napoli, che rovescia l'asserzione di Jakobs secondo la quale se lo Stato di diritto non trattasse i nemici come non-persone scomparirebbe, e afferma al contrario che

"se trattasse i nemici come non-persone, lo Stato di diritto in quanto tale sarebbe già morto, e si ridurrebbe ad un'organizzazione sociale la cui legittimazione rispetto ad altre riposerebbe solo sulla nuda forza" (Cavaliere in Gamberini-Orlandi, p.279).

Ovverosia, lo stato di diritto non può rinunciare a trattare tutti, nemici e non, come persone in diritto, se non vuole abdicare alla sua esistenza come stato di diritto.

2.2 Il concetto di nemico

Ma quali caratteristiche fanno sì che un individuo venga identificato come nemico? Chi è fisicamente il soggetto che viene privato dei diritti in maniera regolata dallo stato?

Kai Ambos, docente di diritto dell'università di Göttingen in Germania, sostiene, in primo luogo, che nemico è "chi può metter[e] in discussione nel senso culturale-spirituale o fisico-reale" (Ambos in Donini-Papa, p. 41), o chi si teme possa farlo. In questo senso, i soggetti che provengono da una cultura straniera possono facilmente diventare (9) "nemici in senso jackobiano" perché, come puntualizza Jakobs, sono stati socializzati in un diverso contesto. In secondo luogo, Ambos ritiene, a mio parere a ragione, che il nemico sia colui che viene vissuto soprattutto come una minaccia. Tuttavia, una minaccia è qualcosa dalle caratteristiche indefinibili, poiché appartiene al futuro (il piano dell'eventualità) e non al passato (il piano della certezza), ragion per cui diventa filosoficamente difficile fissare dei criteri in base ai quali stabilire chi o cosa sia una minaccia in una data società .

Giovanni Fiandaca, giurista e docente ordinario di diritto penale presso l'Università di Palermo, sembra essere di un parere simile. Egli scrive:

"in forma più ibridata e sfumata come nemico può oggi essere socio-psicologicamente percepito chiunque a vario titolo aggredisca alcuni beni o valori-tabù, dotati di rilievo centrale per la prevalente sensibilità collettiva contemporanea" (Fiandaca in Gamberini-Orlandi, p.189).

Quindi, non solo i terroristi di matrice islamico fondamentalista, ma chiunque venga percepito come inopportuno, sgradevole, può arrivare ad essere considerato nemico, con tutte le conseguenze del caso.

La critica a Jakobs converge nel ritenere che una delle più grandi difficoltà insite nel concetto di nemico sta nel suo essere un concetto illimitato (Ambos in Donini-Papa), un concetto dai confini indefiniti e mobili, i quali possono ampliarsi tendenzialmente all'infinito, anche solo sulla spinta di percezioni e di verità di senso comune (Dal Lago, 1998). Tali percezioni e "verità" si insinuano nel piano del diritto andando a modificarne l'assetto iniziale (teoricamente) egualitario e garantista; disegnano delle differenziazioni di statuti normativi su base pregiudiziale e dando origine ad un sistema normativo diversificato, atto a ridimensionare la tutela dei diritti di chiunque possa rappresentare una minaccia agli occhi di chi detiene il potere politico.

Il concetto di nemico è quindi un concetto difficile da usare. Anche Massimo Donini, professore ordinario di diritto penale presso l'università di Modena e Reggio Emilia, nonché noto giurista, lo qualifica come concetto fuzzy, ovvero come concetto evanescente che non può essere utilizzato in senso dogmatico, ma solo in funzione critica. (Donini in Gamberini-Orlandi, 2007, p.165).

Tuttavia, non è solo il fatto di essere un concetto dotato di confini mobili ciò che lo rende pericoloso, ma vi è almeno un altro importante aspetto da prendere in considerazione, e Ambos non manca di metterlo in rilievo. Qualificare come nemico un avversario dell'ordinamento giuridico innesca un meccanismo di semplificazione dei fattori in gioco nello scontro, che permette di screditare l'avversario senza doverne giustificare su basi fattuali l'esclusione (Ambos in Gamberini Orlandi, 2007). Qualificare un criminale abituale o un terrorista come nemico piuttosto che come criminale trasferisce la questione sul piano della guerra anziché su quello del diritto. Permette di avvalersi dei metodi, dei linguaggi propri ella guerra, in base ai quali il nemico diventa un pericolo da annientare.

Anche nell'orizzonte di senso comune dire nemico è diverso dal dire criminale: il nemico è male, e altro da noi, non appartiene alla comunità dei consociati, non bisogna comprendere le ragioni del suo comportamento perché per "il noi" esso rappresenta solo una minaccia; il criminale è un consociato che ha commesso un errore, è già incluso nel noi pertanto va compreso, processato, rieducato e reinserito (10).

In altre parole, usare il termine nemico serve a, avvalendomi della terminologia particolarmente calzante di Dal Lago, "squalificare l'avversario" e induce ad una "degradazione preventiva dell'Altro" (Dal Lago, 2006), preventiva nella misura in cui non ha bisogno di dimostrazioni né di conferme per attuarsi. Il diritto penale del nemico, in questo senso, consisterebbe allora in tecniche repressive di vecchia data, che si nutrono di giustificazioni meramente simboliche per manifestarsi, che mirano ad attuarsi senza incontrare alcun limite alla loro azione, nemmeno quelli posti dal rispetto dei diritti altrui. Al nemico non è necessario riconoscere alcun diritto: l'unica logica che deve esser fatta valere contro lei o lui è quella della guerra.

2.3. La confusione tra il piano normativo e il piano descrittivo

Un altro punto su cui converge la critica è che il concetto di non-persona è pericoloso anche perché costituisce una cinghia di trasferimento (e confusione) del discorso da un piano descrittivo ad uno normativo

Sarà utile chiarificare questo punto avvalendoci di alcune osservazioni di Luigi Ferrajoli, Ordinario di Filosofia del diritto nell'Università di Roma III, nonché autore di "Diritto e ragione". Ferrajoli puntualizza quanto problematico possa essere l'utilizzo, seppur con pretese finalità descrittive, del diritto penale del nemico poiché, nel corso della descrizione, il rischio di incappare in quella che lui chiama "fallacia realistica" è sempre presente. Quella che vuole infatti essere una semplice descrizione molto facilmente può divenire in un certo momento uso normativo del concetto, ovvero tendenza ad adeguare il ciò che dovrebbe essere al ciò che è, cosa che a sua volta porta velocemente all'autolegittimazione di pratiche identificabili come diritto penale del nemico che, di per se stesse, sono illegittime (Ferrajoli, 2006). Tanto per esemplificare quanto appena detto, proponiamo un esempio: qualificare il terrorista e il criminale come nemici piuttosto che, appunto, come criminali, è, secondo Ferrajoli, uno "slittamento semantico" (ibidem) che, da un lato, consiste nel semplice descrivere un individuo in un modo piuttosto che in un altro, ma, dall'altro, ha delle conseguenze decisamente importanti. Infatti, sostenere che un terrorista sia un nemico piuttosto che un criminale porta presumibilmente a giustificare l'uso di eventuali misure, illegittime per il diritto penale ordinario, poiché non rispettose delle garanzie spettanti all'individuo in quanto persona, e a leggerle come misure legittime poiché atte alla neutralizzazione del nemico. In altre parole, riconoscere tali misure come parte di un diritto penale del nemico (come se fosse un diritto già esistente di fatto e di cui bisogna solo riconoscere, accettare, accogliere e regolare l'esistenza), e non come torsione nociva del diritto vigente (del diritto che dovrebbe essere, per intenderci), non può che avere un certo effetto normativizzante su tali misure.

Avvalersi del diritto penale del nemico in senso normativo apre ad uno scenario a tinte fosche, perché il diritto penale è un luogo centrale nel meccanismo dell'esercizio del potere, eppure racchiude al suo interno una certa ambivalenza che è fondamentale non sottovalutare. E' esattamente quel canale tramite cui il potere sovrano riesce ad esercitare e mostrare più direttamente la propria forza, ma allo stesso tempo è anche lo strumento che ne delimita l'azione, poiché pone dei paletti all'agire di chi detiene il potere che nemmeno "la violenza politica esercitata dall'alto" (Roggero in Gamberini-Orlandi, 2007) potrebbe in teoria permettersi di oltrepassare. Il problema è che il complesso del diritto penale è un sistema per sua natura particolarmente sensibile agli umori della gente, forse perché è lo strumento che più direttamente risponde alle domande di sicurezza dei membri della comunità giuridica. Allo stesso tempo, poiché è elevata la capacità di contagio e di corruzione dell'immaginario del sistema penale (Ferrajoli, 2006; Dal Lago, 2008), iniziare ad importare anche solo in alcuni settori dell'ordinamento giuridico norme che non rispondono alla logica del diritto ma alla logica della guerra, avrebbe probabilmente l'effetto di inquinare velocemente l'intero sistema e comporterebbe un rapido e spaventoso rafforzamento del potere repressivo statale. Dunque, è proprio questo che fa il diritto penale del nemico: corrompe l'immaginario del sistema penale in quanto detiene un'estrema agilità nell'abbandonare le speculazioni accademiche per infiltrarsi di fatto nelle legislazioni reali degli stati esistenti, andando così a costituirsi nelle mani delle compagini governative quale strumento estremamente utile sia ad ottenere consenso che ad attuare politiche repressive altamente lesive dei diritti di tutti, e ciò in nome della prerogativa di una indefinita sicurezza.

2.4. Al primo posto la sicurezza

Secondo Jakobs, il diritto "fondamentale" alla sicurezza della collettività può prevalere, in uno "stato di diritto concreto", sui diritti fondamentali delle persone. Anzi, in nome della sicurezza, si può arrivare a privare completamente dei propri diritti alcune persone.

Numerosi sono i problemi che una tale visione delle cose solleva. Ad esempio, come sottolinea Antonio Cavaliere, qualora in una ipotetica gerarchia di diritti si dia prevalenza al diritto alla sicurezza il risultato più probabile è che "un interesse superindividuale, connotato in senso fortemente emotivo ed onnicomprensivo (sicurezza di quali beni, da quali fatti?), preval[ga] sui diritti fondamentali degli individui, anzi li cancell[i]" (Cavaliere in Gamberini-Orlandi, p.278). Permettere che i diritti di alcuni vengano lesi per garantire la sicurezza alla generalità delle persone equivale, in altre parole, a mettere in pericolo le garanzie di tutti.

Bisogna precisare, tuttavia, che il diritto penale del nemico, così come sostiene Gonzalo Quintero Olivares, docente di diritto penale presso Universidad Rovira i Virgili de Tarragona, implica non tanto una negazione dell'esistenza dei principi dello stato di diritto, quanto, come si evince da quanto detto sopra, un riorientamento in relazione alla loro scala di priorità, diretta verso la sicurezza fisica dei cittadini più che verso la sicurezza dei beni giuridici (Olivares in Donini-Papa, 2007, p.93). Però, il rischio insito nell'istituire un diritto alla sicurezza tra i diritti fondamentali è quello di minare il rapporto originario tra libertà e sicurezza, l'equilibrio tra i quali, intesi come regola (la libertà) ed eccezione (la sicurezza), è imprescindibile per la sopravvivenza delle democrazie costituzionali quali democrazie non solo di nome ma anche di fatto (Caputo, 2006, p.62).

3. La valenza simbolica del diritto penale del nemico: utile in quanto inefficace

Vi è un ulteriore questione rispetto al diritto penale del nemico che merita di essere presa in considerazione, ovvero l'importanza che il suo utilizzo simbolico riveste nel corretto funzionamento del meccanismo di marginalizzazione e di differenziazione effettiva degli statuti normativi, ma non solo.

Si è deciso di muovere la trattazione del lato simbolico nel diritto penale del nemico partendo dall'analisi del terrorismo internazionale di matrice islamico fondamentalista e in particolare della strategia che i governi hanno adottato contro di esso.

Ferrajoli scrive che la scelta di dichiarare guerra al terrorismo internazionale non appare perfettamente razionale se esaminata in relazione agli obiettivi presunti (la sconfitta del nemico, in questo caso il terrorismo internazionale appunto), poiché tali obiettivi difficilmente possono venir raggiunti con i mezzi propri di una guerra; tuttavia questa dichiarazione di guerra diventa perfettamente razionale se si considera quanto di simbolico è contenuto in essa e quanto il simbolismo del diritto penale del nemico, innescato da tale guerra, sia proficuo in termini di rendimento elettorale a breve termine (Ferrajoli, 2006). Ciò significa che l'ausilio di un diritto penale del nemico risulta altamente utile ed efficace se si guarda al suo utilizzo simbolico. Innanzitutto, il fatto di aver valutato l'attacco terroristico del settembre 2001 come "atto di guerra" anziché, più correttamente, come crimine ha permesso di lanciare una dichiarazione di guerra al terrorismo internazionale; in secondo luogo, il fatto di essere in guerra ha permesso ai governi di gestire alcune situazioni con i mezzi della guerra, ovvero trascurando il rispetto delle garanzie della persona poste dal diritto, senza rendersi colpevoli di comportamenti illeciti, perché trasgredire quelle garanzie veniva reso lecito dal fattore di eccezionalità costituito dal fatto di essere in guerra; in terzo luogo, il fatto di venirsi a trovare nel campo dell'eccezione ha fornito ai governi un'ottima copertura per esercitare potere aldilà delle regole, anzi, ha funzionato da apripista rispetto alle torsioni del diritto che, sull'onda di quella emergenza, sono state successivamente attuate.

Tanto per scendere nel concreto svolgersi dei fatti, è chiaro che un'azione coordinata dei servizi segreti dei vari paesi coinvolti nella rete del terrorismo di matrice islamica, strategia che più verosimilmente sarebbe stata messa in atto nei confronti di un atto terroristico se considerato crimine, si sarebbe sicuramente rivelata un'operazione con maggiori probabilità di successo rispetto ad una solenne dichiarazione di guerra (Ferrajoli, 2007); tuttavia l'azione dei servizi segreti, contando sul fatto di sorprendere gli avversari per essere efficace, avrebbe richiesto grande discrezione da parte dei media e degli uomini politici. Invece, e qui entra in gioco il ruolo simbolico del diritto penale del nemico, il fatto di avere considerato l'11 settembre un atto di guerra e non un crimine si è rivelata una scelta strategica che non ha sicuramente ripagato sul piano dell'efficacia, ma che ha permesso alle compagini politiche di catalizzare il favore dell'opinione pubblica intorno alle politiche d'emergenza attuate nel nome della difesa da un nemico interno (Ferrajoli, 2006).

Questo è il punto: il diritto penale del nemico fornisce strumenti inefficaci al fine della lotta al crimine, ma ricchi di una portata simbolica di cui i governi sembrano quasi non poter più fare a meno per attuare il proprio potere sovrano aldilà dei limiti imposti.

Il contributo di Manuel Cancio Melia, docente di diritto penale all'Università autonoma di Madrid, risulta assolutamente chiarificatore riguardo alla questione. Vediamo di riassumere un attimo la sua visione.

Cancio Melia vede il delinearsi, negli ultimi anni, di un "diritto penale del rischio, dalle caratteristiche illiberali" (Cancio Melia in Donini-Papa, p.68) che si inserirebbe all'interno di una più generale tendenza del diritto penale (sia sostanziale che processuale) verso l'espansione. All'interno di tale espansione egli riconosce e distingue due fenomeni: il cosiddetto "diritto penale simbolico" e quello che definisce "risorgere del punitivismo" (ibidem, p.69). Per diritto penale simbolico intende quel diritto penale di stampo populista invocato dai protagonisti della scena politica atto a fornire un'impressione tranquillizzante verso l'elettorato. Vale a dire che le misure invocate in questi casi hanno effetto più a livello di risonanza nell'opinione pubblica che non a livello di effettivi obiettivi raggiunti, proprio come esposto da Ferrajoli. Tuttavia, ciò non significa, e Cancio Melia ci tiene a sottolinearlo, che tali misure non portino "afflittività reale" ai soggetti che fanno esperienza dell'azione penale sulla propria pelle, ma che gli effetti che con questo tipo di incriminazioni si ottengono sono poco più che simbolici poiché, pur avendo un notevole impatto sull'opinione pubblica, non contribuiscono significativamente alla lotta alla criminalità. Il risorgere del punitivismo, il secondo fenomeno che Cancio Melia individua all'interno della tendenza verso l'espansione del diritto penale, si riferisce invece alla spinta verso l'"introduzione di nuove fattispecie incriminatrici con l'intenzione di promuoverne l'effettiva applicazione" (ibidem, p.73). Cancio Melia sottolinea che i due profili, del diritto penale simbolico e del risorgere del punitivismo, non possono essere separati nettamente e non solo perché alcune norme inizialmente pensate come meramente simboliche possono arrivare ad avere effetti reali, o viceversa. Il fatto è che i governi, nel momento in cui sono chiamati ad intervenire contro la criminalità (termine con cui ci si riferisce alla sola microcriminalità o criminalità di strada), tendono a privilegiare una risposta di tipo repressivo, basata su processi di criminalizzazione: come se istituire delle pene particolarmente severe per alcune fattispecie di reato fosse l'unica soluzione possibile, quando non è neanche la più efficace. Eppure, è esattamente questa la reazione che l'opinione pubblica si aspetta dai governi, poiché è credenza di senso comune che misure penali più severe siano in grado di garantire maggiore sicurezza rispetto all'intervento dello stato basato su politiche sociali. Soluzioni di tipo penale vengono privilegiate rispetto a quelle di tipo sociale poiché, sebbene siano probabilmente meno efficaci, sono comunque certamente più spettacolari.

In altre parole, il punitivismo, benché inefficace, viene letto, sia dall'opinione pubblica che dalle compagini politiche, come l'unica arma contro l'insicurezza (o meglio contro il sentimento d'insicurezza) collettiva; è quindi portatore di una valenza simbolica impareggiabile, poiché in grado di raccogliere l'approvazione delle masse come nessun'altra scelta di politica criminale. Nell'analizzare la meccanica del diritto penale del nemico è estremamente importante considerare quanto il lato simbolico di una scelta politica orientata al punitivismo possa ripagare in termini di consenso nell'immediato futuro (Cancio Melia, p.78 e ss.).

Spesso si sostiene che i fenomeni criminosi contro cui il diritto penale del nemico reagisce siano tali da minacciare l'esistenza della società stessa, ignorando o nascondendo volontariamente che la percezione dei rischi "rappresenta una costruzione sociale non relazionata con le dimensioni reali di determinate minacce" (ibidem, p.90); la verità è che i fenomeni ai quali il diritto penale del nemico reagisce sono speciali, ma nella misura in cui si tratta di "condotte delittuose certamente lesive di elementi essenziali e particolarmente vulnerabili dell'identità della società in questione" (ibidem, p.91). Dunque, si reagirebbe in maniera tanto severa contro certe condotte, poste in essere da "nemici", perché vanno a violare quelle norme che tutelano aspettative sociali ritenute essenziali, la cui importanza supera di molto l'attenzione che viene accordata al rispetto dei beni giuridici a titolarità individuale.

Il diritto penale del nemico si rivolge ai soli reati contraddistinti da una forte connotazione simbolica, collocati in posizioni strategiche nei meccanismi di creazione di idee di senso comune. Esso assume piuttosto le fattezze di uno strumento privilegiato di "creazione (artificiosa), attraverso l'esclusione, dei parametri performativi dell'identità di coloro che escludono" (Cancio Melia in Donini-Papa, 2007, p.94). E', in questo senso, una forma di esorcismo, utile ad allontanare da se stessi un'immagine che non piace. E' questo un punto estremamente rilevante. Ad esempio, se in una società razzista si inizia a legiferare contro il razzismo, quelle leggi, pur se lasciate inapplicate, avranno l'effetto di rimandare un'immagine di se stessi più piacevole. Tutto ciò significa che, se utilizzato in un certo modo, il diritto penale diventa uno strumento essenziale di costruzione di una determinata identità sociale (ibidem, p.72).

4. Tecnologie di sicurezza mascherate da diritto penale?

Il diritto penale del nemico contraddice e mina, con la sua stessa esistenza, i principi base dello Stato di diritto (11), conducendo verso uno scivolamento dalla logica del fatto alla logica dell'autore. Il diritto penale del nemico confonde i piani del diritto e della guerra a tal punto da modificare l'essenza del diritto stesso e del processo penale, che da strumento legittimo di accertamento della colpevolezza si tramuta in spazio entro cui articolare una sorta di lotta contro l'autore di reato (non per ciò che ha fatto, ma per ciò che è). In mezzo a questa confusione, mutano anche l'utilizzo della pena e la funzione che essa viene chiamata a svolgere. La pena, nel diritto penale del nemico mira alla neutralizzazione (12) di chi viene individuato come nemico (potenzialmente chiunque). Le garanzie proprie dell'imputato, ovvero sia dei cittadini sia di chiunque altro si trovi in un dato momento sotto la giurisdizione di un determinato stato, vedono una netta diminuzione nel corso di questo processo durante il quale pure i confini di ciò che fino ad allora era stato considerato quasi unanimemente lecito o illecito vengono vigorosamente rimescolati e in cui lo status giuridico di una persona si fa sempre più sfocato.

In questo senso allora, dato che, come abbiamo detto, il diritto penale del nemico non sarebbe altro che un diritto che risponde alla volontà di neutralizzare i nemici e che guarda non al passato bensì al futuro, esso finisce per rappresentare un tentativo di inserire le più "tradizionali" tecnologie di sicurezza, che allo stesso modo guardano al futuro e perseguono lo scopo di eliminare la minaccia del nemico, all'interno di un ambito, quello del diritto penale, a cui queste non appartengono né dovrebbero appartenere.

Mettere in sicurezza è tradizionalmente compito della polizia, che si avvale proprio di apposite tecnologie di sicurezza, più adatte a questo compito rispetto al diritto penale ordinario. Questo deve muoversi entro certi limiti, che coincidono con il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, mentre i poteri di polizia a volte finiscono per eccedere detti limiti, senza che ciò provochi scalpore poiché si ritiene generalmente, e forse in maniera silenziosa, che sia legittimo infrangere in qualche frangente le garanzie poste dal diritto se lo scopo è quello di mantenere l'ordine e garantire la sicurezza.

Il paradosso in cui il diritto penale del nemico si imbatte è che, analogamente all'operato di polizia e a differenza del diritto penale ordinario, e giacché orientato a compiti di sicurezza piuttosto che di riaffermazione della validità del diritto, finisce anch'esso per eccedere i limiti tradizionali del diritto stesso, pur continuando ad essere "diritto". Ma c'è di più: tramite il proprio apparato coercitivo, può spingersi ancora più in là di quanto non faccia l'operato di polizia e arrivare, in nome della sicurezza, a dei livelli di violazione dei diritti a cui nessuna tecnologia di sicurezza prima era giunta. E lo farebbe in maniera completamente legittima e legale.

Dunque, l'elaborazione di un diritto penale del nemico che sussista a fianco delle tecnologie di sicurezza, sebbene queste svolgessero già la funzione a cui adesso anche questo è chiamato, nasce dall'esigenza da parte degli apparati di controllo di dotarsi, ad un certo punto della storia, di strumenti repressivi sempre più stringenti.

Il diritto penale del nemico risponde ad una esigenza nuova della contemporaneità, quella di permettere la violazione dei diritti fondamentali di alcuni per la sicurezza degli altri, esigenza che non poteva trovare risposta all'interno di un mero diritto di polizia. Esso rimarrebbe diritto secondo Jakobs solo perché

"non rappresenta affatto una regola di annientamento illimitato, ma costituisce nell'ambito dello Stato di diritto governato in modo assennato una ultima ratio, che in modo consapevole viene utilizzata come eccezione, come qualcosa che non è adatto ad essere adottato in via duratura" (Jakobs in Gamberini-Orlandi, p.119).

Infatti, sottolinea Jakobs, sono principalmente due le ragioni che impediscono all'operato di polizia di assolvere a certe funzioni che invece il diritto penale del nemico riesce ad espletare: da una parte la polizia non può mettere in sicurezza per lungo tempo nessuno senza l'ausilio del diritto penale del nemico; cioè, le conseguenze giuridiche che la polizia da sola potrebbe attribuire al fatto che incrimina non sarebbero abbastanza durevoli; dall'altra parte la polizia non deve farlo: non deve collegare al reato che incrimina delle conseguenze giuridiche di lunga durata. Questo per un motivo fondamentale: il diritto penale del nemico, per essere tollerabile sul piano dello Stato di diritto, deve conservare almeno alcune delle garanzie poste dal diritto penale sostanziale e processuale proprie di uno Stato di diritto. Della stessa opinione Insolera, secondo cui il diritto penale del nemico rimane diritto perché deve comunque mantenere una parte della garanzie proprie del diritto penale e processuale, tali da renderlo "sopportabile" in uno stato di diritto (G. Insolera in Gamberini-Orlandi, 2007, p.246).

5. Diritto penale del nemico come rinascere del potere sovrano

Vi è una fondamentale intuizione alla base dell'affascinante riflessione che Susanne Krassmann presenta in un bell'articolo pubblicato nella rivista "Punishment and Society": il diritto penale del nemico si inserisce in coda ad una lunga catena di strategie (e di altrettante teorie) atte, in ultima analisi, a mantenere un certo tipo di potere sulle popolazioni. Forte di questa convinzione, che d'altronde ci sentiamo di avvallare, la studiosa riesce a tracciare una linea continua che tiene insieme diritto penale del nemico, giustizia attuariale (Harcourt, 2008), tecnologie di sicurezza, ricomprendendole all'interno della stessa logica. Il diritto penale del nemico, tuttavia, segnerebbe un ulteriore passaggio rispetto alle tecnologie di controllo precedenti: esso infatti segnerebbe "il rinascere del potere sovrano nel nome del governo delle popolazioni" (Krassmann, 2007, p.301, trad. mia).

5.1. Regolare legalmente l'esclusione

Secondo la lettura che ne da Krassmann, il diritto penale del nemico, sebbene venga presentato da Jakobs come "a legal regulation of exclusion", non attiene affatto al diritto penale, ma rappresenta piuttosto un nuovo paradigma delle politiche di sicurezza; come tale, esso rientrerebbe nel processo di trasformazione generale che sta investendo lo stato costituzionale e i suoi principi. Tale trasformazione avviene infatti sull'onda dell'imperativo della sicurezza che, ridisegnando la gerarchia delle priorità interne allo stato di diritto, sposta in secondo piano le garanzie fondamentali della persona, su cui questo fonderebbe la propria esistenza, erodendo di fatto i principi base dello stato di diritto e procedendo dunque alla distruzione degli stati costituzionali e democratici per come oggi li conosciamo.

Jakobs con il suo diritto penale del nemico non vuole in fondo difendere un vecchio sistema legale ma fondarne uno nuovo, in grado di garantire la salvezza dello stato come garante dell'ordine democratico. Non si rende conto però che, tramite l'ideazione del diritto penale del nemico, che fa sì che la prevenzione sussista ma che poggi la propria liceità su di un binario parallelo al diritto penale ordinario, finisce per difendere unicamente il sistema legale ma non l'ordine democratico.

Il nuovo ordine legale ideato da Jakobs prevedrebbe di proclamare uno stato di guerra nel quale "enemy penology regulates an exclusion from society and an elimination of enemies allegedly by way of an exception" (Krassmann, 2007, p.304). Ciò significa, e qui anticipiamo un argomento che approfondiremo in seguito, che l'eccezione verrà regolata per legge finendo per divenire regola essa stessa (Agamben, 1998).

Il rapporto tra regola ed eccezione è in effetti fondamentale per comprendere fino in fondo la portata dell'applicazione nella realtà di un diritto penale del nemico. Krassmann rintraccia nel nemico la figura paradigmatica delle relazioni di confine tra dentro e fuori, quindi tra regola ed eccezione, ed è proprio attraverso tale figura che decide di indagarle. Infatti, essa è figura di confine, e come tale ha da sempre contribuito ad intrecciare interno ed esterno, portando l'uno nell'altro e confondendone i confini.

Spiega Krassmann che storicamente il nemico è una figura fondamentalmente esterna: appare all'interno dei confini statali in tempo di guerra ma proviene da (e appartiene a) lo spazio aldilà di essi; questa si contrappone al colpevole che invece è una figura interna ai confini statali, che dall'interno minaccia la società. Il primo va combattuto con i mezzi della guerra, col secondo ci si deve invece confrontare mediante l'ausilio dei mezzi propri del diritto penale. A confondere le carte vi è la figura del criminale politico che, fin dall'inizio, travalica i limiti che separano il nemico dal colpevole, rendendo le distinzioni tra i due meno nette.

Il criminale politico, scrive Krassmann, "can be perceived both as part of society and as a figure that in threatening the constitution transgresses the border" (Krassmann, 2007, p. 304). In questo senso allora, la lotta al terrorismo, durante la quale il nemico viene definito criminale e il criminale viene definito nemico, diviene per la studiosa un'utile chiave di lettura atta ad individuare gli scivolamenti tra le due categorie. Krassmann scrive infatti che:

the terrorist at one time crystallizes as a political threat, justifying exceptional measures, at the same time he crystallizes as a criminal being negated precisely that political significance, so that the usual catalogue of the criminal law can be imposed. (Krassmann, 2007, p. 304)

Dunque non solo criminale e nemico arrivano a confondersi fin quasi a fondersi, ma anche diritto e guerra finiscono per assestarsi su due piani niente affatto separati, a tal punto che l'uso di mezzi propri della guerra diviene legittimo anche in situazioni in cui si sarebbe altrimenti considerato legittimo unicamente l'utilizzo dei mezzi propri del diritto (13).

Il diritto penale del nemico regola attraverso la legge e rende totalmente legale il meccanismo di esclusione del nemico, e in questo senso segna un decisivo "salto di qualità" rispetto alle politiche precedenti: è una politica di sicurezza che non sfrutta solo i mezzi della guerra ma anche quelli del diritto e che si nutre dell'insicurezza generalizzata e delle richieste di nuove forme di prevenzione per accrescere il proprio raggio d'azione. Sono proprio le istanze di sicurezza che, alludendo a presunte minacce esistenziali, aprono a misure urgenti e necessarie, la via attraverso cui l'eccezione si fa regola e attraverso cui si consuma la dissoluzione dell'ordine costituzionale e democratico così per come lo conosciamo.

5.2. Il carattere performativo del diritto penale del nemico

Nell'ottica del diritto penale del nemico, il nemico è una "possibilità reale" (tanto per riproporre l'uso che della terminologia di origine schmittiana fa l'autrice); vale a dire che esso è innanzitutto una minaccia, e come tale è sempre presente. Ciò significa che non è importante tanto difendersi dalla presenza fisica del nemico, ma bisogna agire prima che quello si manifesti fisicamente. E' un'attività di pre-emption (14) quella messa così in atto, una sorta di prevenzione anticipata attraverso la quale si mira non già a prevenire il verificarsi di un evento rischioso, ma, prima ancora, si vuole intervenire sulla possibilità stessa che esso si verifichi, agendo quindi sui fattori di rischio (pp. 307 e 308). Il nemico quale minaccia, infatti, "he is always already there" e come tale va combattuto costantemente con gli strumenti propri dello stato di eccezione, perché gli strumenti del normale diritto penale del cittadino non sono sufficienti.

Concepire il nemico come minaccia costante apre alla possibilità di usare il diritto in senso performativo, permette cioè di creare, attraverso il diritto, soggetti (maggiormente) governabili. La minaccia, secondo Krassmann, per il fatto stesso di essere perenne possibilità del verificarsi di un pericolo, fornisce una fonte di giustificazione alla demarcazione tra dentro e fuori, demarcazione attraverso la quale si stabilisce dove finisce la zona di applicazione del diritto penale del cittadino, e dove invece diventa legittimo l'uso degli strumenti dello stato di eccezione. Allo stesso tempo, la minaccia giustificherebbe anche un'opera di de-demarcation, ovvero un'opera di confusione tra interno ed esterno, la cui massima espressione è l'ideazione di uno stato di guerra interno come unica soluzione possibile. Lo stato di guerra, e questo è un elemento cruciale di riflessione, porta il fuori dentro e confonde le due dimensioni ridisegnando i confini di ciò che fino ad allora era considerato esterno e di ciò che era invece interno. In questo scivolamento spaziale, anche le strategie di controllo e di sicurezza si sono venute ridefinendo; scrive l'autrice:

if military strategies, traditionally, seek to exclude the enemy at the border, risk-based criminologies tend to exclude the enemy from within. Enemy penology, in contrast, opens up a kind of third space aiming at externalizing the identified problem through the invention of an additional, quasi-legal system (Krassmann, 2007, p.309).

Il punto è che chi detiene il potere di porre in essere la demarcazione nonché la de-demarcazione, detiene il potere di controllo sui soggetti attorno ai quali i confini vengono disegnati. Perché disegnare dei confini intorno a delle persone significa definire quelle persone, e nell'atto di definirle le si sta creando. E questo è uso in senso performativo del diritto penale del nemico.

Il moderno stato nazione si costituisce sulla base di una costante minaccia di pericolo, poiché è proprio tale minaccia che riesce a giustificare la pretesa statale del monopolio della violenza legittima. Infatti, la delineazione di confini territoriali è la Demarcazione Iniziale, che segna la differenza tra uno spazio interno sicuro e uno esterno insicuro, e attraverso cui lo stato "si appropria" di una certa quota di persone, costituendola come popolazione. A questa demarcazione iniziale ne seguono altre le quali riescono a radicare tale appropriazione sempre più in profondo, a rendere il controllo sempre più stringente: si ha allora la delineazione dei confini tra nemico e amico, e poi ancora tra criminale e nemico, e infine tra persona e non-persona. Nella delineazione dei confini spaziali la minaccia persistente non viene esclusa, bensì inclusa, così che venga preservata la possibilità del verificarsi dello stato d'emergenza, attraverso cui ridisegnare continuamente l'uso legittimo della violenza da parte dello stato. Ciò sempre secondo la legge, che in finale non è ancorata a niente se non ad una decisione statale (15).

Il caso di Guantanamo risulta particolarmente esplicativo in questa fase del ragionamento; come scrive Krassmann rifacendosi a delle riflessioni di Judit Butler, in quel caso "the law was not conducive and did not legitimize their power, it served only as a vehicle" (Krassmann, 2007). Quando la legge viene arbitrariamente sospesa, come in quel caso, la disapplicazione della norma pone in essere lo stato d'eccezione (Agamben, 1998) che a sua volta apre alla produzione di una nuova forma di potere sovrano. Krassmann precisa che, a partire da Guantanamo, non siamo di fronte ad un tipo anacronistico di potere che si ricostituisce, ma ci stiamo scontrando con l'eterno potere sovrano che si rende una volta ancora visibile, sebbene sotto altre sembianze. Per il potere sovrano classico infatti, continua Krassmann, la legge aveva una funzione costitutiva e legittimante; in questo caso invece il potere sovrano non è più ciò che sospende lo stato di diritto: esso è l'effetto della sospensione dello stato di diritto.

Krassmann riprende una tesi di Butler, la quale ritiene che il potere sovrano sia riuscito a riemergere, sotto nuove spoglie, sull'onda della tendenza alla governamentalità che predomina nel nostro presente e che si avvale della violenza o della legge, a seconda delle situazioni, quale tattica finalizzata alla ricerca di potere. Scrive Butler che "the rule of law, in the act of being suspended, produces sovereignty in its action and in its effect" (Butler citata da Krassmann, 2007, p.66).

E' proprio questo che credo succeda in generale nell'epoca attuale: è la sospensione stessa dello stato di diritto, attuata dal potere sovrano, che va a costituire il potere sovrano stesso. Ovvero è lo stato di diritto che nell'atto stesso di sospendersi produce, o meglio costituisce in maniera performativa, il potere sovrano in its action and in its effect (ibidem). Lo stato di diritto si sospende e crea l'eccezione all'interno della quale il potere diviene pura violenza non più regolata dal diritto (Agamben, 1998; Galli, 2007). Come si collega il diritto penale del nemico a tutto ciò?

Sia a Guantanamo che con il diritto penale del nemico, per quanto i contesti di applicazione siano differenti, la sicurezza diventa un imperativo: la priorità innanzi alla quale la regola soggiace, dinnanzi alla quale la tela tanto faticosamente costruita viene tranquillamente squarciata dalla spada, dinnanzi a cui una persona viene spogliata completamente dei propri diritti, che siano di cittadinanza o che siano diritti umani, per divenire non-persona, ovverosia, nuda vita nelle mani del potere sovrano. Come si è detto, e come anche Krassmann ribadisce, il diritto penale del nemico si spinge ancora più in là rispetto alle precedenti politiche e misure che mettevano la sicurezza al primo posto, poiché pretende di legittimare quelle pratiche legandole alla legge, ricomprendendole al suo interno.

Il diritto penale del nemico è l'eccezione che si fa regola, poiché la volontà del diritto diventa paradossalmente quella di voler regolare l'eccezione.

6. Conclusioni

Dunque, il diritto penale del nemico non è un discorso puramente giuridico, ma è una strategia di controllo e di prevenzione che crea potere sovrano in maniera performativa, che poggia la propria legittimazione sull'imperativo della sicurezza e che cerca la liceità e la legalizzazione nella legge. Scrive bene Krassmann:

Enemy penology, as a form of population management, would be a new kind of social defence going beyond the established order of liberal constitutionality. The exercise of power and force is legitimized through security, thus hiding its violent character, as the expulsion and elimination of the enemy should take place in the name of protecting the life of the people. (Krassmann, 2007, p.310).

E' in questo modo, attraverso questa via, che secondo Krassmann si consuma in maniera silenziosa la dissoluzione dello stato di diritto, non solo in senso simbolico, ma nella realtà dei fatti; dissoluzione che avviene tramite un "entitlement to cruelty" (Simon, 2001) che si fa forte dell'incertezza totale di cui le persone sono preda nelle odierne società. Il problema è che, una volta poste le basi della propria esistenza, il diritto penale del nemico non può che estendere il proprio raggio d'azione, dal momento che quello del "nemico" è un concetto a tal punto indeterminato da essere in grado di ricomprendere chiunque: chiunque può, in un dato momento, arrivare ad essere considerato un nemico in ragione di qualche sua caratteristica, e come tale essere spogliato dei propri diritti e mettere in mostra la propria nuda vita di fronte al potere, che proprio attraverso il controllo esercitato su quel corpo si costituirà come potere sovrano. Il potere sarà sovrano quindi prima nell'interpellazione (Althusser) del nemico, poi nella creazione dell'eccezione con la disapplicazione della norma, ed infine con l'esercizio di pura violenza di nuovo e ancora sul corpo dei condannati, aldilà delle regole dello stato di diritto.

Come si è più volte ripetuto, il diritto penale del nemico è un programma performativo che:

draws connection and creates imaginations, it appears to describe reality while making prescriptions on how to deal with certain problems. (Krassmann, 2007, p.311).

Questo significa quindi che il suo potenziale simbolico non si ferma alla ricerca della legittimazione politica e del consenso elettorale ma collabora alla creazione di un certo immaginario, collabora a determinare il modo in cui la realtà viene letta dalla generalità delle persone e quindi anche il modo in cui la realtà stessa, in definitiva, esiste.

E' il diritto penale del nemico, nella misura in cui se ne rintracciano le logiche nelle legislazioni europee ed in particolare nella legislazione italiana, ad esempio in materia di sicurezza ed immigrazione (due temi sempre più spesso erroneamente accostati), che contribuisce in maniera determinante alla costruzione e consolidazione dell'Altro, come altro da noi, come minaccia e come pericolo. E questo è il suo lato simbolico estremamente reale.

Appendice teorica. Diritto, guerra ed eccezione tra Schmitt, Foucault e Agamben

Ciò che il diritto penale del nemico mette in discussione è, alla radice, la questione del rapporto che intercorre tra politica e diritto. E quindi, la questione del potere e della sovranità, dei loro limiti e delle modalità di esprimersi.

Voglio soffermarmi ad analizzare, da un punto di vista filosofico, come l'atto di imbrigliare i corpi nella rete del potere viene modificata dall'entrata in scena del diritto penale del nemico, in che modo altro rispetto al passato questi corpi vengono interpellati, costituiti, e controllati in base alle dinamiche che esso instaura; collocherò la formula del diritto penale del nemico in una catena costituita dalle diverse forme che il rapporto tra diritto e politica assume di volta in volta. L'ipotesi che avanzo è che il diritto penale del nemico costituirebbe uno strumento, in Italia e in questo momento storico in particolare, atto ad imbrigliare il corpo dei migranti nella rete del controllo e mi propongo di indagare le modalità attraverso le quali ciò avviene.

In altre parole, non ritengo si possa parlare di diritto penale del nemico senza elevare il ragionamento al livello dei meccanismi di potere che esso mette in atto.

Mi sembra utile iniziare questa analisi partendo da una riflessione che Foucault avanza in "Bisogna difendere la società" ed andare a ragionare riguardo alla relazione che intercorre tra l'ambito del diritto e quello della guerra, quegli stessi ambiti che il diritto penale del nemico riuscirebbe a stravolgere e a confondere; ci si chiederà insieme a Foucault cosa è nascosto dietro l'ordine giuridico costituito, se davvero l'ambito della guerra e del diritto vadano collocate in due sfere distinte o se non sarebbe meglio immaginarle come sfere pressoché sovrapposte, ambiti in continua compenetrazione; dopodiché, si procederà ad un'analisi più accurata della sfera del diritto, per comprendere le dinamiche dell'applicazione delle norme, capire cos'è in definitiva l'eccezione e cogliere in che misura questa sia indispensabile al funzionamento del diritto stesso: con l'aiuto di Agamben e ovviamente di Schmitt si andrà a vedere in che rapporto si trovano eccezione e norma, in modo da collocare quella che qui consideriamo come un'eccezione giuridicamente regolata, il diritto penale del nemico, all'interno del complesso dispositivo del diritto, che invece sarebbe la norma. Attraverso questa via, mi propongo di gettar luce sul rapporto tra politica e diritto. Ritengo che tale operazione sia utile a coglierne gli assetti iniziali e a valutare in che modo il diritto penale del nemico vi si inserisca a scompaginarli.

1. Foucault: il diritto e la guerra

Punto di partenza della riflessione che Foucault porta avanti in "Bisogna difendere la società" è l'ipotesi secondo la quale "la politica è la guerra continuata con altri mezzi" (16) (Foucault, 1998, p.22). Che la politica sia la guerra continuata con altri mezzi significa che il potere (17) si regge su di un rapporto di forza stabilito in un momento storicamente individuabile "nella guerra e dalla guerra". Scopo della politica, dunque, non sarebbe quello di mettere fine agli effetti della guerra, di segnarne il definitivo sorpasso - come comunemente si crede, bensì quello di "reiscrivere perpetuamente, attraverso una specie di guerra silenziosa, il rapporto di forze nelle istituzioni, nelle diseguaglianze economiche, nel linguaggio, fin nei corpi degli uni e degli altri" (ibidem, p.23). In altre parole, secondo questa ipotesi, "la politica è la sanzione e il mantenimento del disequilibrio delle forze manifestatosi nella guerra" (ivi).

Strumento della dominazione è, secondo Foucault, il diritto, termine con cui egli si riferisce "non [...] semplicemente alla legge, ma all'insieme degli apparati, istituzioni, regolamenti che applicano il diritto" (ibidem, p.31). Il diritto mette in opera delle vere e proprie procedure di assoggettamento e si fa dispositivo di mantenimento dei rapporti di dominazione storicamente determinati dalla guerra e che persistono all'interno della società: "è la guerra a costituire il motore delle istituzioni e dell'ordine: la pace, fin nei suoi meccanismi più infimi, fa sordamente la guerra" (ibidem, p.49).

L'ordinamento giuridico perpetra e allo stesso tempo cela sotto una pace apparente i rapporti di forza stabiliti nella guerra intesa come momento storicamente determinato. È una guerra permanente, combattuta tra due gruppi nel quale l'uno è vincitore e stabilisce cosa sia verità e quali siano le regole che a quella si confanno, mentre l'altro è vinto e subisce il sistema di dominio così costruito. Questo conflitto è sempre esistito dietro l'ordine sociale apparentemente pacificato e continua "dietro tutte le menzogne che cercano di farci credere che il corpo sociale è dominato o da necessità di natura o da esigenze funzionali" (Foucault, 1998, p.50).

Quello che bisogna ritrovare è, secondo Foucault,

"il sangue seccato nei codici, e non, dietro la fugacità della storia, l'assoluto del diritto. Non è questione di riferire la relatività della storia all'assoluto della legge o della verità, ma di trovare l'infinito della storia dietro la stabilità del diritto, le grida di guerra dietro la formula della legge e la dissimmetria delle forze dietro l'equilibrio della giustizia" (Foucault, 1998, p.53).

Per parlare della visione che del diritto ci fornisce Foucault, non si può prescindere dal ruolo che il razzismo riveste nel mantenimento dell'ordine costituito. Infatti il razzismo, a partire dagli autoritarismi e totalitarismi del Novecento, diviene il discorso del potere, ciò che permette ai governi di ristabilire il controllo sulle popolazioni.

Il razzismo può divenire in qualche misura una sorta di surplus nella sfera del diritto e della guerra, ciò che li unisce e li fa funzionare insieme, e secondo Foucault, è stata l'esigenza del bio-potere, ovvero l'esigenza del controllo delle popolazioni, ad averlo iscritto all'interno dei meccanismi giuridici dello stato:

"il razzismo è dunque legato al funzionamento di uno stato che è obbligato a servirsi della razza, dell'eliminazione delle razze e della purificazione della razza, per esercitare il suo potere sovrano" (Foucault, 1998, p.223).

Il bio-potere ha trovato nel razzismo un modo per introdurre una separazione tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire (18). Tuttavia, tale meccanismo - ed è questo un punto importante - potrà funzionare, secondo Foucault, solo se quelli da sopprimere "non sono gli avversari, nel senso politico del termine, ma costituiscono i pericoli, esterni o interni, in rapporto alla popolazione e per la popolazione" (Foucault, 1998, p.221). Ciò significa che la morte, nel meccanismo del bio-potere, è ammissibile nella misura in cui mira all'eliminazione del nemico biologico, eliminazione che condurrà al rafforzamento della specie stessa (19).

In definitiva, Foucault ritiene che il razzismo rappresenti la condizione in base alla quale il potere può esercitare il diritto di uccidere - che a mio parere può essere inteso non solo come eliminazione in senso fisico, ma anche in senso figurato come allontanamento, espulsione, respingimento, confinamento.

Il diritto, da questa descrizione che ne fa Foucault, ne esce come diritto marcato dalla dissimmetria, che funziona "come privilegio da mantenere o da ristabilire". La guerra è la cifra della pace, "continua ad infuriare anche all'interno dei meccanismi di potere o perlomeno a costituire il motore segreto delle istituzioni, delle leggi e dell'ordine" (ibidem, p.231).

2. Diritto, guerra ed eccezione: l'apporto di Schmitt

Stabilita la dinamica del rapporto che intercorre tra diritto e guerra, proviamo a fare un passo ulteriore.

Abbiamo detto che la guerra è una guerra permanente, sempre presente al di sotto dell'apparente pace delle nostre società odierne, e inscrive nel diritto le dinamiche di potere che attraverso quella sono state stabilite in un momento storicamente determinato.

Tuttavia, si rifletta su questo: che la guerra sia permanente, ovvero che continui in un certo senso ad essere combattuta in ogni momento, nascosta sotto l'apparente stabilità dell'ordine sociale, significa che anche i rapporti di potere sono continuamente soggetti a pressioni più o meno forti da parte dei contendenti; pertanto, è possibile ipotizzare che non si possa ritenere stabilizzato una volta per tutte il rapporto di potere risultante dalla guerra, e quindi non si può nemmeno pensare che esso si attui nella sua pienezza poggiandosi solo su di un diritto tendenzialmente stabile e immutabile. Esso ha cioè bisogno di prevedere la possibilità di re-inscrivere continuamente se stesso nell'ordinamento giuridico. Il diritto, quindi, deve prevedere a sua volta un meccanismo che gli permetta di re-inscrivere al suo interno il rapporto di forza ogni qual volta esso si ridefinisce in reazione all'avversario. Ne deriva che il diritto, per porsi a garanzia dell'ordine costituito, non può essere una struttura definitivamente immutabile. Ed infatti non lo è, come starebbero a dimostrare le continue modificazioni a cui l'impianto legislativo degli ordinamenti viene sottoposto. Tuttavia, non lo è in un senso più profondo: il diritto non è immutabile fin nei suoi più intimi meccanismi di funzionamento. Cosa significa questo? Da una parte il diritto, lo ripetiamo per l'ennesima volta, ha la capacità di inscrivere nel tessuto societario il rapporto di forza stabilito nella "guerra"; dall'altra esso ha anche la capacità di rispondere alle sollecitazioni che vengono dallo scontro in atto all'interno del rapporto di forza, sbilanciandosi ovviamente dalla parte di chi detiene il potere, e di adattarsi all'esigenza nell'attimo esatto in cui essa si manifesta, senza perdere la propria liceità. Ciò può avvenire attraverso la via dell'eccezione.

Che cos'è l'eccezione all'interno di un ordinamento giuridico? Muoviamo dal primo teorico dell'eccezione: nel pensiero di Schmitt essa non vive ai margini del diritto, ma è un concetto generale della dottrina dello Stato, senza la quale il diritto stesso non potrebbe funzionare affatto. Il punto è che la norma, attorno a cui l'ordinamento giuridico viene costruito, non può da sola regolare tutte le situazioni che si vengono a presentare e che richiedono di essere regolate. Soprattutto la norma non riesce a regolare quelle situazioni che non sono "normali" già di per se stesse. La situazione segnata dal caos, il caso d'eccezione, viene allora regolata tramite una decisione, il cui fondamento va ricercato, in ultima istanza, non nella norma ma nel sovrano: "Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione" (Schmitt, 1994, p.33).

Il caso di eccezione si presenta infatti come il caso non descritto nell'ordinamento giuridico vigente, perché non può venir descritto in riferimento alla situazione di fatto: nel caso d'eccezione tanto il presupposto quanto il contenuto sono necessariamente illimitati, tanto che "la sovranità, e quindi lo Stato stesso, [...] consiste nello stabilire in modo definitivo che cosa sia l'ordine e la sicurezza pubblica, quando essa sia messa in pericolo e così via" (ibidem, p.36). Dunque il sovrano, come scrive Schmitt, "sta al di fuori dell'ordinamento giuridico normalmente vigente e tuttavia [vi] appartiene" (ibidem, p.34), in quanto egli è l'unico a detenere la legittimità di decidere della sospensione del diritto o della costituzione. Nello stato di eccezione la decisione si distingue dalla noma giuridica, e "l'autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto" (ibidem, p.40). In esso, dice Schmitt, è lo Stato che continua a sussistere, mentre l'ordinamento viene meno: esiste ancora un ordinamento, ma non è assolutamente di tipo giuridico, e "la decisione diventa assoluta in senso proprio":

"l'eccezione è ciò che non è riconducibile; essa si sottrae all'ipotesi generale, ma nello stesso tempo rende palese in assoluta purezza un elemento formale specificamente giuridico: la decisione. Nella sua forma assoluta il caso d'eccezione si verifica solo allorché si deve creare la situazione nella quale possano avere efficacia norme giuridiche" (Schmitt, 1994, p.39).

3. L'eccezione come porta di ingresso della guerra nel diritto

Ricollegando il discorso di Schmitt riguardo a norma ed eccezione a quello di Foucault sulle connessioni tra guerra e diritto, possiamo forse avanzare l'ipotesi che la guerra si inscriva nel diritto tramite l'eccezione, e azzardarci a descrivere il modo tramite il quale questa inscrizione ha luogo.

Innanzitutto, torniamo su di un punto fondamentale: cosa si intende con guerra. In Foucault il termine guerra, a parere di chi scrive, fa riferimento almeno a due cose: essa da un lato è l'evento storico, effettivamente verificatosi, di uno scontro consumato nel passato e i cui effetti sono ben rintracciabili nei codici giuridici, i quali, in definitiva, codificano e perpetrano i rapporti di forza così per come in quello scontro furono stabiliti; dall'altro lato, è la guerra che sarebbe all'origine dello stato, e che ne sarebbe lo sfondo permanente. Spieghiamo meglio. Questo secondo significato del termine guerra sarebbe lo stesso di cui parla Hobbes, sarebbe quindi la guerra del tutti contro tutti. Come specifica Foucault, rileggendo il pensiero del primo filosofo politico della modernità, essa è una guerra determinata dall'uguaglianza: nello stato di natura le differenze sono infinitesimali, tanto che nessuno si sente sicuro; ovverosia, la guerra che sarebbe all'origine dello stato è una guerra determinata da uno stato perenne di insicurezza poiché nessuno nello stato di natura è sicuro della propria posizione di vantaggio o di svantaggio, essendo le differenze tra gli individui infinitesimali: in ogni momento il più debole ritiene di poter vincere, e il più forte di poter perdere. Non si arriva mai allo scontro diretto, ma la paura dell'altro è sempre presente. Il rapporto di forza così instaurato è basato sul timore dell'altro, sul timore che si arrivi alla guerra (20) (Foucault, 1998, p.80 e ss.), situazione che, in un certo senso, è già guerra.

In Schmitt, la guerra è lo stadio estremo della contrapposizione, quella tra amico e nemico, che prevede la possibilità reale dell'uccisione fisica. Per produrre i suoi effetti non c'è bisogno che sia quotidianamente presente né che sia normale, non di questo si tratta. La guerra non deve necessariamente attuarsi per dare forma ai rapporti di forza. Il politico (termine con cui Schmitt si riferisce al comportamento determinato dalla possibilità reale della guerra) per costituirsi come tale, non necessita che la guerra si attui per forza: basta che essa sia prevista sempre come possibilità reale. Scrive Schmitt - e questo potrebbe essere utile per rispondere a Foucault allorché si domanda se la guerra può essere la cifra del diritto:

"la guerra non è dunque scopo o meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l'azione dell'uomo provocando così uno specifico comportamento politico" (Schmitt, 1994, p.117).

Proviamo allora adesso a riformulare la nostra ipotesi. Gli effetti della guerra si protraggono nel periodo di pace non perché il diritto li cristallizza dietro il rispetto di regole, nascostamente arbitrarie, una volta per tutte; o, possiamo affermare forse più puntualmente, non solo per questo. La guerra è permanente e riesce a subentrare ogni volta nella trama del diritto tramite l'eccezione: in questo caso la guerra, quando ripropone se stessa non nel caso normale ma nell'eccezione, assume le sembianze di una pura violenza.

Da qui in poi, per proseguire nel ragionamento, dobbiamo chiamare in causa anche il pensiero di Giorgio Agamben.

4. Agamben e il ruolo della decisione sovrana

Il nómos, la sovranità della legge (che, proseguendo nell'interpretazione che ne stiamo dando, altro non è se non l'espressione del rapporto di forza dominante in seno alla società), si situa, secondo Agamben, in una zona di indistinzione tra diritto e violenza, tra natura e giustizia. Cioè, la sovranità della legge non sta tanto nel diritto che viene "normalmente" applicato, quando nella possibilità che il sovrano ha di applicarlo o meno (21). La regola nell'atto della sua sospensione crea l'eccezione, ed è il sovrano che decide quando sospendere la regola e decide poi come agire all'interno dell'eccezione. Ciò che vige all'interno dello spazio così aperto sarà pura violenza che però, in forza della decisione sovrana, sarà già subito diritto. Nelle parole di Agamben "il sovrano è il punto di indifferenza tra violenza e diritto, la soglia in cui la violenza trapassa in diritto e il diritto in violenza" (Agamben, 1995, p.38). Dunque, anche l'origine dell'eccezionalità di un fatto non si troverà in se stesso, ma nel modo in cui il potere sovrano decide di guardarvi.

Lo stato di eccezione traccia una soglia tra interno ed esterno, cioè tra la dimensione nella quale il diritto ha ancora vigenza e la situazione in cui non la ha più: questa soglia è lo spazio entro il quale interno ed esterno entrano in complesse relazioni:

"nella sua forma archetipica, lo stato di eccezione è il principio di ogni localizzazione giuridica, poiché esso soltanto apre lo spazio in cui la fissazione di un certo ordinamento e di un determinato territorio diventa per la prima volta possibile. Come tale, esso stesso è, però, essenzialmente illocalizzabile" (Agamben, 1995, p.24).

La sovranità, nella lettura di Agamben, si presenta come una decisione sull'eccezione, intesa non come espressione della volontà di un soggetto gerarchicamente superiore. Piuttosto l'essenza del potere sovrano sta nella sua capacità di creare il proprio ambito di referenza. Un fatto non esiste in senso giuridico di per se stesso, ma solo nel momento in cui diventa ambito di applicazione del diritto. Norma ed eccezione non sono gerarchicamente ordinate ma sono entrambe espressione del potere sovrano, sono l'ambito di referenza del potere sovrano. Infatti il potere sovrano ha la stessa capacità di decidere di applicare una norma o disapplicarla. Disapplicando la norma crea lo stato d'eccezione e la norma continua comunque ad essere valida in potenza perché continua a riferirsi alla situazione normale.

In questo senso il potere sovrano è la decisione sull'eccezione. Dietro il potere non c'è altro se non una decisione. Una decisione che poggia la propria legittimità unicamente su se stessa. La decisione è il fondamento ultimo del potere sovrano.

Rileggiamo allora il mito della fondazione dello stato, secondo l'interpretazione che ne da Agamben. La fondazione dello stato sarebbe "continuamente operante nello stato civile nella forma della decisione sovrana". Lo stato di natura è sempre presente all'interno dell'istituzione statale poiché è il nucleo originario della sovranità, il luogo in cui la decisione sovrana può rivolgersi direttamente alla vita dei cittadini, intesa come nuda vita, catturata nel bando (22) sovrano: la vita dell'homo sacer (23) immediatamente esposta al potere politico.

Il nómos riesce a "tenere la vita nel suo bando abbandonandola", ovvero mettendosi nella condizione di poter intervenire in ogni momento e in maniera arbitraria, decidendo di applicare la norma oppure no; e in questo consiste la sua originaria forza. Nei confronti della sovranità non c'è un di fuori della legge: tutto è esposto in ogni momento ad una decisione arbitraria del potere. Una decisione che infine poggia su se stessa e nient'altro. La decisione sovrana, che è sovrana in quanto è la soglia entro la quale in ogni momento il diritto può mutare in violenza e la violenza in diritto, trova la propria ragion d'essere solo in se stessa.

Quello che voglio arrivare a dimostrare è che la guerra subentra nella trama del diritto e vi imprime i suoi effetti, da una parte tramite le norme, riproponendo i rapporti di forza, stabiliti in un tempo storicamente determinato, nelle situazioni "normali"; dall'altra aprendo un varco all'interno del diritto stesso, mediante l'eccezione. Il caso eccezionale è cioè la via che la guerra ha per riproporsi in tutta la sua violenza quando il rapporto di forza viene rimesso in discussione, quando cioè la guerra riappare sotto la pace apparente del diritto. Nel caso eccezionale, infatti, il potere sovrano riesce ad imporsi come pura violenza, senza che ciò danneggi in alcun modo la valenza del diritto nel caso normale. La decisione sovrana, nel caso eccezionale, si attua come pura violenza poggiando la propria ragione d'essere solo su se stessa. E' proprio questo il salto che l'apporto di Agamben ci permette di fare. Il sovrano è colui che si trova nel luogo dell'indecidibile ("la sua decisione è la posizione di un'indecidibile" (Agamben, 1995, p.33)) e che decide dell'eccezione e sull'eccezione. La decisione sovrana, per attuarsi, non ha bisogno di giustificarsi. Essa rappresenta di per se stessa la propria ragione d'essere. Ciò significa che l'eccezione è la via attraverso cui il rapporto di forza, che ha il proprio fondamento nella guerra storicamente detta, ripropone se stesso e si ridefinisce continuamente come pura violenza che incontra la nuda vita nel bando sovrano. Una violenza che non ha limiti, che è arbitraria e che non ha bisogno di giustificazioni per essere tale.

5. Il divenir regola dell'eccezione

Proseguiamo ancora nel nostro ragionamento, cercando di connettere quanto fin qui detto con il funzionamento del diritto penale del nemico.

Notiamo il verificarsi di un fenomeno nuovo, nell'ambito del caso di eccezione, nell'attuale modernità. Scrive infatti ancora Agamben che:

lo spazio «giuridicamente vuoto» dello stato di eccezione (in cui la legge vige nella figura della sua dissoluzione, e in cui poteva pertanto accadere tutto ciò che il sovrano riteneva necessario) ha infranto i suoi confini spazio-temporali e, riversandosi fuori di essi, tende ormai ovunque a coincidere con l'ordinamento normale, nel quale tutto diventa così nuovamente possibile. (Agamben, 1995, p.44)

Succede cioè che l'eccezione tende a diventare la regola (e che stato di natura e stato di diritto, di conseguenza, vengono a coincidere). Se prima l'eccezione era sospensione temporanea del diritto, ora muta in sospensione spaziale del diritto, di per sé possibile in ogni momento. Il luogo in cui per la prima volta si ha la sovrapposizione tra vita e diritto è il campo. Nel campo tutto è possibile perché tutto è diritto. Esso è "un ibrido di diritto e di fatto, in cui i due termini sono diventati indiscernibili". Ciò che è importante sottolineare è che quella del campo è una situazione di fatto, geograficamente situata. Il campo:

inaugura un nuovo paradigma giuridico-politico, in cui la norma diventa indiscernibile dall'eccezione. Il campo è, cioè, la struttura in cui lo stato di eccezione, sulla cui possibile decisione si fonda il potere sovrano, viene realizzato normalmente (Agamben, 1995, p.190).

La struttura giuridico-politica dei campi è stata pensata in modo da poter realizzare stabilmente l'eccezione. Storicamente, i campi non nascono dal diritto ordinario, ma dallo stato di eccezione: anche la base giuridica dei campi nazisti non era il diritto comune, ma un particolare istituto giuridico che permetteva di prendere in custodia determinate persone in nome della sicurezza dello stato. La novità connessa al campo nel regime nazista è che lo stato d'eccezione viene fatto valere come la regola, arrivando a confondersi con la norma stessa; l'esistenza stessa del campo viene sciolta dallo stato d'eccezione e lasciata vivere nella situazione normale.

Alla luce di ciò, si potrebbe affermare che ci si trovi davanti ad un campo ogniqualvolta si presenta una situazione o uno spazio in cui la nuda vita e la norma entrano in una soglia di indistinzione, in cui arrivano cioè a coincidere l'una con l'altra. Questa è la materializzazione dello stato di eccezione. Nella zona d'eccezione, nel campo si ha "uno spazio in cui l'ordinamento normale è di fatto sospeso e in cui che si commettano o meno delle atrocità non dipende dal diritto, ma solo dalla civiltà e dal senso etico della polizia che agisce provvisoriamente come sovrana" (Agamben, 1995, p.195).

Il diritto penale del nemico, allora, essendo un'eccezione al diritto ma regolata dal diritto, ovvero essendo allo stesso tempo un'eccezione al diritto ordinario e diritto che in via eccezionale viene applicato sul corpo del migrante (senza che ciò comprometta - queste le intenzioni di Jakobs - la vigenza del diritto penale ordinario nei confronti della cittadinanza autoctona), ha l'effetto forse di creare un campo di eccezione intorno al corpo di ogni soggetto a cui esso si rivolge. Il soggetto a cui il diritto penale del nemico si rivolge è catturato in ogni momento nello spazio di un'eccezione.

6. E se la norma sta all'eccezione come il diritto sta alla politica?

Fin qui abbiamo delineato la relazione che intercorre tra norma ed eccezione. Adesso voglio ipotizzare che le modalità di relazione tra norma ed eccezione si replichino nel rapporto che intercorre tra diritto e politica: cos'è la norma se non il diritto e cos'è l'eccezione se non la politica? Parlare di diritto e politica più che di norma ed eccezione ci permette di contestualizzare negli ordinamenti attuali i ragionamenti fatti, di comprenderne la portata nel reale. Ci permetterà di leggere nel "diritto penale del nemico" l'esposizione originaria del diritto alla politica.

Per compiere questo ulteriore passaggio ci rivolgeremo all'analisi di Carlo Galli, presentata in un interessante articolo raccolto nel volume a cura di Alessandro Gamberini e Renzo Orlandi (24). Secondo Galli, la politica si trova decisamente in posizione originaria rispetto al diritto che è invece continuamente esposto al rischio della deformazione (25). Diritto e politica si trovano, in un rapporto di "originaria e strutturale co-appartenenza" data dal fatto che il primo è posto da una politica che lo precede e lo eccede, ma che a sua volta è orientata verso le norme.

In età moderna il rapporto fra politica e diritto è in linea di principio la traduzione della legittimità in legalità, considerando che la legittimità è comunque strutturata dalla tensione di molti valori, che siano individuali o pubblici o collettivi, e che il prevalere degli uni piuttosto che degli altri apporta delle modificazioni sostanziali alla legalità. L'ordinamento giuridico, nell'accezione di istituto che in un certo senso regola la violenza esercitata dall'alto verso il basso e controlla quella esercitata dal basso verso l'alto, non è neutrale rispetto a "valori" politici e morali (26). Infatti i valori, dice Galli, costituiscono "la legittimità originaria implicita nell'ordinamento legale, che lo orienta, ne determina le norme, e che ne è variamente tutelata" (Galli, in Gamberini-Orlandi, 2007, p.50-51). Ciò significa che la legittimità, che in quanto delicato equilibrio tra set di valori è posta a livello politico, riesce a valere come universale attraverso il sistema delle norme. La legittimità si avvale della legalità per farsi universale.

Nella storia moderna vi è una strutturale e multiforme esposizione del diritto alla politica. Nello stato di diritto è stata trovata la formula di una legittimità separata dalla legalità, ma la questione del rapporto fra violenza politica e ordine giuridico resta di fatto aperta: essi hanno trovato un equilibrio, ma non significa che sia un equilibrio definitivo o che, data la co-implicazione e la tensione fra diritto e politica, essi non possano trovare un altro modo di esprimere il loro rapporto, passibile di scivolare verso lo squilibrio. Il fatto è che vi sarebbe un surplus di violenza presso la politica che può deformare fin quasi a negare la forma giuridica: ad esempio, secondo Galli, la causa della crisi dello Stato del Novecento e dell'insorgere di vari autoritarismi e totalitarismi è dovuta al "ripoliticizzarsi della legittimità" (ibidem, p.53), ovvero l'insorgere di una concezione della politica che la vede come appartenenza ad un sistema di valori e come esclusione di chi non li condivide.

Posto che il diritto sia lo strumento attraverso cui la politica si difende dal proprio nemico, mentre difende la società dal criminale cui esso stesso da forma, e che la politica rappresenti in questo senso possibilità di deroga dal diritto o atto di strutturare la società ponendo sistemi di norme, il diritto penale del nemico, nella lettura che ne da Galli, va a modificare gli equilibri fra diritto e politica tanto in profondità da segnare un superamento dei paradigmi giuridici della modernità. Per il giurista tedesco, infatti, politica è non la mediata condivisione delle regole ma la condivisione immediata di valori, e chi non è d'accordo è fuori. Il diritto penale del nemico ruoterebbe intorno alla difesa della legittimità più che all'affermazione della legalità ed aprirebbe ad una reazione politica che passi attraverso la dimensione giuridica: non si tratta dell'esclusione del nemico dal diritto o dell'elaborazione di un semplice diritto di lotta, ma della "ri-trasformazione del criminale in nemico" dopo che in età moderna il nemico era stato trasformato in criminale e la legittimità mediava il proprio rapporto con quello attraverso la legalità. Jakobs propone di rispondere al nemico principalmente in termini giuridici, ma orientando il diritto sulla legittimità immediata (27). Prevede quindi l'istituzione di uno stato di guerra interna "che passa però attraverso la criminalizzazione giudiziaria - con modalità non garantiste - di uno dei due contendenti". Il risultato saranno una guerra e un diritto asimmetrici, in cui è unicamente lo stato a stabilire le regole, "servendosi della propria legittimità per giustificare l'utilizzazione a proprio vantaggio della legalità quale strumento di lotta": nella relazione giuridica dello stato con il proprio nemico sono le ragioni dello stato a valere a priori.

Considerazioni finali

In riferimento al diritto penale del nemico, che l'eccezione verrà regolata per legge finendo per divenire regola essa stessa, significa che il diritto penale del nemico prevede l'esclusione, in maniera regolata, dei nemici dalla società: un'esclusione inclusiva regolata dal diritto. E se essa avviene tramite la via dell'interpellazione (Althusser), poi della cattura nel bando sovrano, per finire con l'eliminazione, è già l'interpellazione stessa del nemico che poggia unicamente su di una decisione sovrana. Dunque, seppure regolata dal diritto, l'esclusione del nemico può avvenire in ogni momento e verso chiunque, poiché la decisione sovrana, la soglia entro la quale in ogni momento il diritto può mutare in violenza e la violenza in diritto, poggia la propria ratio unicamente su se stessa. L'esclusione del nemico può cioè avvenire sulla base di una decisione puramente arbitraria assunta da chi detiene il potere sovrano in un dato momento e in una data situazione, e può avvenire nelle modalità, nei tempi e secondo un grado di brutalità variabile a seconda del "sovrano". Il potere sovrano è sovrano proprio perché ha la facoltà di decidere ogni volta quali siano gli uomini sacri in una data società, e di tracciare delle linee di divisione al suo interno, aldilà delle quali tutto è lecito. Tuttavia, non solo chi viene confinato aldilà della linea di demarcazione oltre la quale tutto è lecito è esposto direttamente al potere sovrano: anche gli altri, quelli che "si sentono al sicuro" non possono mai essere sicuri di quanto a lungo rimarranno sotto la copertura del diritto ordinario. Come più volte si è ripetuto, infatti, il potere sovrano è sovrano nella misura in cui può in ogni momento scegliere di applicare la norma o l'eccezione. Questo concetto è fondamentale: alla base del potere sovrano non c'è un fatto, ma una decisione. Il potere sovrano è sovrano nella misura in cui crea autonomamente i propri uomini sacri e, grazie al diritto penale del nemico, li crea senza il bisogno di usufruire del surplus di violenza presente nella politica, ma avvalendosi del sistema giuridico, all'interno del quale la violenza politica è stata ricompresa.

Con il diritto penale del nemico l'esclusione del nemico non solo si fa legittima (conforme all'ordine politico), ma, attraverso lo stravolgimento che il diritto penale del nemico induce nel rapporto tra politica e diritto, diviene anche immediatamente legale (conforme all'ordine giuridico).

Note

1. È la società stessa che decide cosa sia effettività sociale, ovverosia è la società stessa, in ultima analisi, che decide fin quando una norma debba essere considerata valida e come tale vada rispettata. Infatti, seppur non è una singola violazione a rendere ineffettiva una norma (grazie all'intervento dell'affermazione controfattuale), la riaffermazione controfattuale non può essere infinitamente controfattuale: che una norma continui ad essere violata nonostante tale violazione sia puntualmente sanzionata starebbe ad indicare che tale norma non ha più alcuna effettività sociale, cioè non è più considerata valida dalla generalità della popolazione. Starebbe ad indicare, in altre parole, la presenza di uno sfasamento tra diritto postulato e reale struttura normativa della società. E l'incongruenza tra le norme scritte e le norme effettivamente vigenti inciderebbe in maniera determinante sulla probabilità del compiersi di un reato, poiché è chiaro, secondo Jakobs, che l'instabilità della norma non supportata da un adeguato consolidamento cognitivo agevola la sua violazione.

2. L'aspettativa riguardante la norma è che la norma non venga infranta. La presenza costante della minaccia della pena, e della pena stessa, fa sì che i membri della comunità possano aspettarsi che la norma venga rispettata.

3. E' importante precisare che l'esclusione del reo non è altro che auto-esclusione poiché, il compiere reato è, perfettamente in linea con le teorie neo-liberiste sulla responsabilità individuale, frutto di una libera scelta.

4. Sul primo punto si veda in particolare Martha Nussbaum (2002), "giustizia sociale e dignità umana: da individui a persone", il Mulino, Bologna; per il tentativo di elaborare una nuova categoria teorica, quella appunto di capacità, in grado di fornire una base più solida e concreta ai diritti che come tali dovrebbero essere affiancati quantomeno da politiche adeguate; in merito al secondo punto si rimanda alla splendida trattazione che Etienne Balibar fa del mutuo riconoscimento dei diritti come fondamentale criterio di emancipazione del popolo in "La paura delle masse: politica e filosofia prima e dopo Marx".

5. Scopo principale della sanzione, in Jakobs, è la stabilizzazione dell'ordinamento, da ottenere in diverse maniere secondo le tipologie di autori con cui si ha a che fare.

6. Con il nemico parziale, invece, siamo di fronte ad una terza sfumatura: si ha infatti, nel corso della sanzione, il passaggio da un diritto all'altro: su un nemico parziale vengano fatti valere prima i mezzi del diritto penale del nemico e poi quelli del diritto penale ordinario, per cui da strumento atto a neutralizzare e controllare la pericolosità, la pena assume le fattezze di uno strumento atto a restituire un certo consolidamento cognitivo all'autore di reato che può quindi essere reinserito in società.

7. Non mi sembra che i diritti umani si prestino come armi efficaci contro la concezione di non-persona, perché sono principi più astratti che concreti, sono geograficamente situati, e non prevedono un impianto giuridico che possa assicurarne il rispetto e sanzionarne la violazione. In un certo senso essi, in accordo con l'intuizione di Tamar Pitch, sono usciti dal campo del giuridico per entrare nel campo della morale: costituirebbero una nuova morale laica, soprattutto nel caso delle democrazie liberali occidentali. Una morale che si riferisce unicamente al rispetto dei diritti altrui, dei diritti dei popoli deprivati, e che evita di interrogarsi e far interrogare sui motivi di quella deprivazione: in questo senso sono diritti che depoliticizzano l'azione attuata in loro nome. (Tamar Pitch (2004), I diritti fondamentali: differenze culturali, disuguaglianze sociali, differenza sessuale, Giappichelli Editore, Torino) Inoltre, i diritti umani mal si prestano a proteggere la donna dai particolari abusi a cui essa è sottoposta in nome della tradizione, perché sono maggiormente predisposti a tutelare gli individui nel pubblico piuttosto che nel privato, luogo in cui le donne subiscono più spesso lesione dei propri fondamentali diritti. Martha Nussbaum illustra che l'approccio centrato sui diritti umani ignora i problemi presenti nella famiglia -la distribuzione di risorse e di opportunità fra i suoi membri, evita di riconoscere il lavoro familiare femminile quale lavoro vero e proprio e non protegge le donne dalla violenza domestica, vd. Martha Nussbaum (2002), Giustizia sociale e dignità umana: da individui a persone, il Mulino, Bologna.

8. E' quindi Losappio a fornire lo spunto della riflessione, anche se a differenza di quanto egli afferma, io non ritengo che il rapporto tra diritto e potere si fondi sui diritti umani intesi come i diritti contenuti nella DUDU. Egli scrive che "L'articolazione persona\essere umano subordinando il riconoscimento dei diritti fondamentali al potere legislativo (o normativo), stravolge il rapporto tra diritto e potere che si fonda sul riconoscimento dei diritti umani: questi limitano il potere che non può, nemmeno con le maggioranza richieste nelle procedure di revisione costituzionale, cancellarli o ridurli a meri simulacri formali" (Losappio, p. 258). E' vero che nemmeno le revisioni costituzionali possono cancellare i diritti umani, ma è forse vero che essi sono già dei meri simulacri formali, anche senza l'intervento peggiorativo di un qualsivoglia legislatore. Non si vuole mettere in dubbio che essi rivestano un ruolo estremamente importante in determinate occasioni e determinate lotte, ma essi agiscono più ad un livello quasi morale che giuridico. Sono più un orizzonte da raggiungere, una meta a cui tendere piuttosto che strumenti effettivamente capaci di incidere sul potere politico e di limitarlo. Per questo non credo che siano il perno giusto attorno a cui far girare una critica efficace e attuativa.

9. Vorrei sottolineare che il fatto che si diventa nemici e non lo si è in assoluto rappresenta un'ulteriore insidia.

10. Ovviamente può prodursi il caso in cui il criminale è nemico, in quanto criminale. Questo è un po' quello che succede nel diritto penale del nemico. E comunque il fatto che un tale associazione abbia luogo dipende dai cicli storici, nei quali alternativamente il criminale viene visto come innovatore e ribelle oppure delinquente.

11. I principi di legalità, di certezza della pena, di proporzionalità, di colpevolezza, la presunzione di innocenza, il diritto all'habeas corpus e ad un giusto processo.

12. anche se, come si vedrà, probabilmente spesso viene solo sventolata per averne un tornaconto in senso elettorale che non realmente perseguita. Infatti, i migranti irregolari fanno più comodo come manodopera malpagata che non come zavorre del sistema penale...

13. Il culmine di questo processo lo si ha, secondo l'autrice, con l'11 settembre, evento in seguito al quale la politica criminale, che, nel sistema degli stati moderni, è un'istanza nazionale, viene attuata seguendo i dettami di una presunta guerra giusta, in una dimensione divenuta globale.

14. Per un'analisi approfondita del concetto si rimanda a Zedner L. (2007), Pre-crime and post-criminology?, in Theoretical Criminology, vol.11(2), pp.261-79.

15. Nelle parole di Krasmann: "Enemy penology benefits likewise from a precariousness inscribed into the democratic constitutional state, that might well be undermined at its boundaries" (p. 309).

16. Questa ipotesi è il risultato del rovesciamento della tesi di Clausewitz, secondo cui "la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi" che vale a dire che essa è "un vero strumento della politica" e non solamente un atto politico.

17. Per potere Foucault intende quello in atto, quello che si esercita. Il potere non sarebbe frutto di un contratto, non si cede né si divide, ma emerge ogni qual volta ci si trovi dinnanzi ad un rapporto di forza.

18. Il razzismo stabilisce una relazione positiva tra il vivere proprio, e il lasciar morire dell'altro: esso instaura una relazione biologica in base alla quale quanto più l'altro biologicamente diverso da me verrà eliminato, tanto io e la mia specie ne risulteremo biologicamente più forti

19. Ritengo che si possa trasporre il discorso di Foucault da un piano in cui si parla di razzismo biologico ad uno, quello attuale, in cui si parla più che altro di razzismo culturale, senza per questo snaturarlo. Il razzismo ha subito delle modificazioni in epoca recente: esso non è più propriamente biologico, quanto culturale. Ciò che si tende a preservare come specie non è più il corredo genetico, quanto la cultura, che si immagina possa venir inquinata corrotta e infine perduta in seguito al confronto con altre culture. Lasciando da parte per il momento la critica che si potrebbe avanzare al concetto di cultura stesso, preme sottolineare che benché non più biologiche ma culturali, le basi del razzismo sono tuttora presenti e non rendono il meccanismo di separazione delle popolazioni meno efficace: il nemico resta pur sempre nemico benché su base culturale. Insomma, il razzismo, anche se non più biologico, è ancora un importante strumento di governo delle popolazioni: eliminare i nemici significa rendere più forte la propria specie, più compatta. Significa non lasciare che la cultura venga contaminata.

20. Scrive Foucault: "si comprende dunque per quali ragioni e in che modo questo stato [di guerra]...non sia uno stadio che l'uomo abbandona definitivamente il giorno in cui nasce lo stato, ma costituisca in realtà una sorta di fondo permanente che non può non funzionare, con le sue astuzie elaborate e le sue doppiezze, non appena cessa di venir garantita la sicurezza, fissata la differenza e collocata infine la forza da una parte".

21. Agamben scrive che "la norma si applica all'eccezione disapplicandosi, ritirandosi da essa" (Agamben, 1995, p.22). Tale affermazione significa che se c'è un legame fra eccezione e norma, esso è dato proprio dal fatto che la norma si disapplica, si sospende, quando incontra l'eccezione. Non è l'eccezione che, essendo un caso non incluso tra quelli normali non permette l'applicazione della regola, ma è la regola che si sospende, e che così facendo crea l'eccezione.

22. "Ciò che è stato posto in bando è rimesso alla propria separatezza e, insieme, consegnato alla mercé di chi l'abbandona, insieme escluso e incluso, dimesso e nello stesso tempo catturato" (Agamben, 1995, p.122). Colui che viene messo al bando, viene proprio abbandonato dalla legge, che non significa che quest'ultima si disinteressi a lui, ma che trovandosi egli in quella soglia in cui interno ed esterno si confondono, in cui la vita è eccepita nel diritto, egli può in ogni momento cadere preda del potere; egli è cioè in ogni momento esposto agli arbitri del potere.

23. L'homo sacer è storicamente quel soggetto che può essere ucciso senza commettere omicidio, e la cui vita è allo stesso tempo insacrificabile agli dei. Ogni società decide quali siano i suoi «uomini sacri».

24. A. Gamberini, R. Orlandi, a cura di, (2007), "Delitto politico e diritto penale del nemico", Monduzzi, Bologna.

25. Galli dice che vi sarebbe, cioè, "un'esposizione originaria del diritto alla politica".

26. Dal punto di vista dei soggetti, essi sono vita, libertà, proprietà, uguaglianza, ecc. (ovvero i diritti politici, civili e sociali), mentre dal punto do vista dello stato sono ordine, sicurezza, prosperità, potenza.

27. Dice Galli a proposito che "si politicizza quindi come "nemico" il criminale, pur con la pretesa di considerarlo ancora tale, e gli si toglie quindi la possibilità di comportarsi come nemico non-giuridico" (Galli, in Gamberini-Orlandi, 2007, p.59).