ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo I
Le misure di prevenzione patrimoniali antimafia

Pasquale Tancredi, 2010

Premessa: L'evoluzione storico-legislativa

Il nostro ordinamento giuridico, a partire dal secondo dopoguerra, ha visto il susseguirsi di una serie di provvedimenti legislativi volti a contrastare il fenomeno della criminalità organizzata. Quello di cui noi ci occuperemo da vicino riguarda la normativa che colpisce direttamente l'illecita accumulazione di ricchezze provenienti dalle attività criminali mafiose.

La nostra analisi quindi non può che partire dalla legge 31 maggio 1965, n. 575, recante Disposizioni contro la mafia, la quale, in ragione della pericolosità sociale dei soggetti indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, estende l'applicabilità delle misure di prevenzione personali (1) previste nella legge 1423/1956 (2). In particolare il legislatore del 1965 ha previsto che per i soggetti indiziati di appartenere ad associazioni mafiose possano essere applicate le misure della sorveglianza speciale e del soggiorno obbligato.

Un allargamento della legislazione antimafia da un punto di vista meramente soggettivo si è avuta dieci anni più tardi con la legge 22 maggio 1975, n. 152, recante Disposizioni a tutela dell'ordine pubblico, meglio nota come "legge Reale". Gli articoli 18 (3) e 19 (4) stabiliscono che le norme della legge 575/1965 vengano applicate sia ai soggetti responsabili di atti preparatori diretti alla commissione di reati di sovversione e terrorismo, sia alle varie classi di soggetti socialmente pericolosi già indicati nella citata legge del 1956.

Durante l'attività di contrasto alle organizzazioni mafiose emersero, però, importanti limiti della legislazione antimafia allora vigente. Innanzitutto mancava uno strumento legislativo per perseguire il fenomeno mafioso come associazione, limite che tra l'altro aveva favorito che i processi di mafia si risolvessero con assoluzioni generali per insufficienza di prove o al massimo con qualche provvedimento di soggiorno obbligatorio. Inoltre, gli interpreti ravvisavano anche la necessità di aggredire le organizzazioni criminali nella loro componente economico-finanziaria, connessa all'esercizio di attività criminali, al riciclaggio di denaro sporco e al reimpiego dei proventi illeciti, attraverso provvedimenti tendenti al sequestro ed alla confisca del patrimonio illecitamente ottenuto. La svolta legislativa è rappresentata dalla legge 13 settembre 1982, n. 646, recante Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale, nota anche come "legge Rognoni -La Torre". Con questa legge si introducono due elementi fondamentali che definiscono il cambiamento di strategia nel contrastare la criminalità organizzata, modificando sostanzialmente la fisionomia della legge sulle misure di prevenzione. Si tratta di una legge ispirata da ragioni contingenti e finalizzata a ripristinare la supremazia delle istituzioni statali che era stata intaccata a seguito di alcuni "omicidi eccellenti" (5). In seguito all'emanazione di tale legge veniva introdotto nel codice penale l'art 416 bis, che, per la prima volta nell'esperienza giuridica nazionale, sanzionava l'associazione di tipo mafioso cui riconosceva autonoma rilevanza penale, individuandone sia i metodi operativi, rappresentati dalla forza d'intimidazione del vincolo associativo e dalla condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva, sia i fini specifici, cioè la commissione di delitti, la gestione o il controllo, in modo diretto o indiretto, di attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici, la realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Da questo momento in poi, la mafia viene inquadrata nell'ordinamento come un'associazione, e finalmente non si perseguono più le singole persone o i singoli fatti delittuosi (6).

Altro grande cambiamento previsto dalla "Rognoni - La Torre" è l'introduzione, accanto alle misure di prevenzione personali, di quelle a carattere patrimoniale. Si prevede infatti il sequestro e la confisca dei beni dei quali non sia stata dimostrata la legittima provenienza, rinvenuti nella disponibilità diretta o indiretta dell'indiziato di appartenere ad una associazione di tipo mafioso. Scopo di tali misure di prevenzione è l'impoverimento delle organizzazioni criminali e delle persone che sono comunque implicate in fatti delinquenziali. L'imprenditoria mafiosa, infatti, attraverso il controllo economico del territorio, impedisce lo sviluppo di energie economiche legali, fino ad influenzare negativamente l'intero sistema produttivo nazionale. L'azione dello Stato si esplica così in termini di indagini patrimoniali, sequestro e confisca dei beni, ed isolamento economico dal contesto territoriale in cui opera il soggetto accusato di far parte di una associazione mafiosa.

L'intervento riformatore del legislatore del 1982 impose subito la necessità di verificare se le nuove misure patrimoniali del sequestro e della confisca fossero applicabili anche alle persone pericolose previste dagli articoli 18 e 19 della "legge Reale" del 1975. Ci si chiedeva infatti se il rinvio contenuto nella legge 152/1975 si riferisse solo alle misure di prevenzione personali previste nell'originaria legge 575/1965, ovvero, se detto rinvio andasse adesso ritenuto riferibile anche alle misure patrimoniali introdotte con la legge n. 646/1982. In dottrina (7) ha prevalso la tesi più restrittiva, incentrata sulle ragioni politico -criminali che hanno portato all'emanazione delle misure patrimoniali. Secondo tali interpreti, esse si riferiscono esclusivamente a situazioni soggettive caratterizzate da una pericolosità qualificata (indizi di appartenenza ad associazione mafiosa) e non generica. Ciò considerando anche il fatto che, in sede di lavori preparatori, un apposito emendamento, espressamente contenente l'applicabilità dell'articolo 19 a tutte le persone pericolose, era stato respinto. In giurisprudenza, invece, si registrava una netta divergenza interpretativa tra giudici di merito e giudici di legittimità. La giurisprudenza di merito optava per una soluzione restrittiva (8), si ritenevano, infatti, inapplicabili le misure del sequestro e della confisca anche ad altre categorie di soggetti, facendo leva sulla circostanza che simili misure ablative non erano normativamente previste al momento della entrata in vigore del legge 152/1975. Inoltre, si sosteneva che la stessa l. 646/1982 aveva introdotto le suddette misure di prevenzione patrimoniale riferendosi espressamente ai soli indiziati di appartenenza ad associazione mafiosa, e non anche ad altri soggetti. La Suprema corte (9) si era invece orientata su una interpretazione più estensiva, sostenendo che, in mancanza di una espressa disposizione contraria, le misure patrimoniali introdotte nel 1982 fossero applicabili anche ai soggetti individuati dagli articoli 18 e 19 della "legge Reale". Tali dubbi interpretativi vennero risolti con l'intervento del legislatore, che con l'emanazione della legge 19 marzo 1990, n. 55, recante Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazioni di pericolosità sociale, ridefinì l'ambito soggettivo di applicazione delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale. All'art. 14 (10) si prevedeva che le misure di carattere patrimoniale fossero applicabili non più nei confronti di tutte le persone pericolose di cui all'art. 1, nn. 1) e 2), della legge 1423/1956, ma solo con riferimento a quelle che vivevano col provento del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.), oltre che agli indiziati di appartenenza ad associazioni dedite allo spaccio di stupefacenti. Anche il testo del menzionato art. 14 non è andato esente da ripetute e successive interpolazioni normative che hanno esteso il suo ambito di operatività (11).

A partire dal 1982, quindi, si fanno sempre più numerosi i beni sequestrati e poi confiscati, poiché le le indagini patrimoniali e bancarie diventano modus operandi di più procure, a partire da quelle in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. Nel corso dei primi anni di applicazione della legge sui patrimoni mafiosi, viene alla luce che tale strumento è sì assai efficace, ma si avverte anche l'esigenza di trovare e garantire una qualche forma di destinazione a tutti questi beni e patrimoni confiscati. In questo contesto occorre leggere l'emanazione del D.L. 14 giugno 1989, n. 230 recante le Disposizioni urgenti per l'amministrazione e la destinazione dei beni confiscati ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, che costituisce un primo tentativo per garantire la proficua gestione e destinazione dei beni confiscati. Tale decreto presenta però alcuni limiti: non opera alcuna distinzione tra la tipologia di beni (mobili, immobili o aziendali), prevede un procedimento di destinazione piuttosto articolato (12), in alcuni casi è persino contemplata l'ipotesi della vendita dei beni stessi, con il rischio che vengano acquistati dai precedenti proprietari mediante prestanome, e tornino quindi a far parte del circuito mafioso di provenienza.

Nel 1992 con il D.L 306 (convertito con la legge 356/1992), recante Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa, il legislatore introduce, all'art. 12 sexies, una nuova tipologia di confisca che affianca quella penale e quella di prevenzione. Si prevede, infatti, che nei casi di condanna o di "patteggiamento" ex art. 444 c.p.p. per determinati reati, tra cui l'associazione di tipo mafioso, è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni e delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza, e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito o alla propria attività economica. Lo stesso articolo (comma 4 bis) prevede che anche a questi casi di confisca, si applichino le disposizioni in materia di gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati previste dalla legge 31 maggio 1965 n. 575 e successive modificazioni.

Nel biennio 1992-1993 "cosa nostra" reagisce alle pesanti condanne (13) inflitte ai suoi vertici dal maxiprocesso attraverso una serie di attentati. Il 23 maggio 1992 vengono uccisi a Capaci il giudice del pool antimafia di Palermo Giovanni Falcone, assieme alla moglie e tre agenti della scorta. Stessa sorte tocca ad un altro giudice del pool il giorno 19 luglio 1992: Paolo Borsellino viene infatti ucciso in via D'Amelio, a Palermo, assieme ai suoi cinque agenti di scorta. Nel 1993 si registrano attentati dinamitardi che colpiscono le città di Roma, Firenze e Milano. In questo contesto la società civile riesce a reagire e a mettere assieme le energie attorno ad un progetto che prevede l'utilizzo a fini sociali dei beni confiscati alla mafia. L'associazione antimafia "Libera", nel 1995, riuscì a presentare una petizione di legge popolare firmata da un milione di persone con la quale propose al legislatore di dare un'organica risistemazione e maggiore incisività alla disciplina della destinazione dei beni confiscati, sottolineando in particolare l'importanza della restituzione alla comunità dei cittadini di quanto le organizzazioni criminali hanno illegalmente conseguito grazie all'utilizzo di intimidazioni e violenza. Il 7 marzo 1996 venne così approvata la legge 109 (14), recante Disposizioni in materia di gestione e destinazione di beni sequestrati o confiscati, attraverso cui furono aggiunti alla legge 575/1965 gli articoli dal 2 nonies al 2 duodecies. Con essi si realizza una importante riforma, che prevede, oltre ad uno snellimento della procedura di assegnazione, anche il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alle mafie.

Ultime due tappe di questo iter legislativo sono l'approvazione dei cosiddetti "pacchetti sicurezza" del 2008 e del 2009. Il D.L. 92/2008 (convertito con la legge n. 125/2008), recante Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica, prevede l'applicabilità delle misure di prevenzione patrimoniale anche ai soggetti ex art. 51 comma 3 bis c.p.p., ed abroga l'art. 14 della legge 55/90. Inoltre, è prevista la competenza del direttore della Direzione investigativa antimafia a richiedere l'applicazione delle misure di prevenzione; è introdotto l'importante principio per cui le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste ed applicate in modo disgiunto; è prevista la possibilità, là dove ne ricorrono i presupposti, di disporre il sequestro e la confisca per equivalente ed infine la possibilità di disporre le misure patrimoniali anche in caso di morte del preposto.

L'ultimo intervento si è avuto con la legge 15 luglio 2009 n. 94, recante Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, con la quale il legislatore ha tentato di migliorare il funzionamento delle misure preventive patrimoniali, ed ha provato a risolvere alcune asimmetrie derivanti dalla legge 125/2008. In particolare, si è cercato di superare alcuni dubbi interpretativi che gli operatori avevano lamentato circa la possibilità di applicare le misure patrimoniali disgiuntamente da quelle personali. Inoltre, si è cercato di risolvere il groviglio di inefficienze e ritardi che affliggono la gestione e l'assegnazione dei patrimoni confiscati alle organizzazioni mafiose, provando ad innescare una procedura più celere e snella.

1 Il presupposto per l'applicazione delle misure patrimoniali: gli indizi di appartenenza

L'articolo 1 della legge 575/65 prevede, come presupposto per lo svolgimento delle indagini patrimoniali volte all'applicazione del sequestro e della confisca di prevenzione, gli indizi di appartenenza del soggetto ad una associazione di tipo mafioso. A tal proposito, la Corte costituzionale ha precisato che, ai fini dell'applicazione della misura di prevenzione, si deve valutare una qualche concreta manifestazione della attività mafiosa. Nella sentenza 177/1980 la Consulta afferma che ai fini della applicazione di una misura di prevenzione, è essenziale che il giudizio di pericolosità sia fondato su un'oggettiva valutazione dei fatti, in modo da escludere valutazioni puramente soggettive ed incontrollabili da parte di chi promuove o applica la misura di prevenzione. Gli indizi di appartenenza, quindi, devono essere intesi quale prova non ancora pienamente verificata, e debbono fare apparire come sufficientemente o altamente probabile l'appartenenza al sodalizio criminale, senza che si raggiunga il livello della certezza (15). Pertanto, non è necessario fare riferimento ai parametri di cui all'art. 192 c.p.p. in tema di "prova giudiziaria", né a quelli dell'art. 273 c.p.p. sulle condizioni generali di applicabilità delle misure cautelari. Piuttosto, occorre che emergano elementi di fondato sospetto, cioè elementi idonei a giustificare sul piano razionale o su quello empirico una presunzione di pericolosità del soggetto. In concreto, tale valutazione della pericolosità può fondarsi su quanto emerge da un procedimento pendente o concluso (16), da fatti sintomatici delle condotta abituale e del tenore di vita del soggetto sottoposto a misura di prevenzione, dalle frequentazioni di pregiudicati e soggetti sottoposti a misura di prevenzione, e da altre manifestazioni oggettivamente contrastanti con la sicurezza pubblica, in modo che risulti esaminata globalmente la personalità del soggetto come risultante da tutte le manifestazioni sociali della sua vita (17).

1.1 L'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso

Continuando l'analisi dell'art. 1 della legge 575/1965, appare chiaro che il richiamo all'associazione di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni comunque localmente denominate, sia un rinvio alla esplicita nozione che di quelle associazioni dà il terzo comma dell'art. 416 bis c.p. Quindi possiamo affermare che l'accusa, in sede di prevenzione, dovrà prima di tutto fornire la prova certa della esistenza del sodalizio mafioso in una qualsiasi delle forme che può assumere all'interno della figura delittuosa del 416 bis. Tale onere dimostrativo diventa quindi pregiudiziale rispetto all'essere un soggetto indiziato di appartenere ad una associazione di quel tipo.

Una volta accertata l'esistenza dell'associazione di tipo mafioso, occorre poi verificare che cosa si intende per appartenenza del soggetto a quest'ultima. La dottrina (18) e parte della giurisprudenza (19) ritengono che la locuzione di cui all'art. 1, in considerazione della peculiarità del procedimento di prevenzione, vada letta unitamente al termine "indizi" al quale è collegata. Quindi, da un lato diviene secondario inquadrare la condotta del soggetto nella figura del partecipe ovvero del concorrente nel reato associativo, dall'altro, il concetto stesso di appartenenza si rileva più sfumato e meno tecnico di quello di partecipazione, tant'è che sono sufficienti elementi indiziari che testimonino la contiguità dei rapporti tra il pervenuto e l'associazione mafiosa. La dizione "appartenenza" all'associazione mafiosa indica, infatti, i possibili livelli di partecipazione al sodalizio mafioso ex art. 416 bis c.p., per cui appartenere può significare partecipare, promuovere, dirigere, organizzare. Addirittura si ritiene che nella categoria di appartenenza debba essere ricondotta anche la situazione del concorso esterno nel reato associativo ex art. 416 bis c.p. (20)

La giurisprudenza specifica, poi, che la pericolosità, se non presunta iuris et de iure, è necessariamente implicita nell'inserimento del soggetto in un'associazione mafiosa (21), perciò è sufficiente fornire gli indizi relativi all'appartenenza per desumere tale pericolosità qualificata (22). In ogni caso, comunque, la pericolosità sociale qualificata del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione antimafia va rapportata a determinati parametri, che debbono raggiungere la consistenza dell'indizio (23). Quindi l'appartenenza al sodalizio mafioso non può esser fondata su meri sospetti e congetture, bensì su indizi, sia pure di gravità, precisione e concordanza di minore intensità rispetto a quelli fondanti la responsabilità penale (24).

In conclusione, quello che il procedimento di prevenzione richiede è un grado minimo di partecipazione al sodalizio criminoso, che non sia un mero coinvolgimento di tipo solidaristico, ma una pericolosità specifica che ricomprenda ogni comportamento, che pur non costituendo la fattispecie di reato associativa ex art. 416 bis c.p., sia funzionale tuttavia agli interessi dei poteri criminali e costituisca una sorta di terreno più generale di cultura mafiosa.

1.2 Le recenti riforme

Il D.L. 92/2008 ha inserito tra le persone proponibili per l'applicazione delle misure di prevenzione anche i soggetti indiziati per uno dei reati previsti dall'art. 51, comma 3 bis, c.p.p. Adesso le misure di prevenzione possono essere applicate oltre agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, anche gli indiziati della commissione dei delitti per le cui indagini sono competenti le Direzioni distrettuali antimafia (Dda) (25). Inoltre, con tale intervento il legislatore ha modificato anche la rubrica (26) dello stesso art. 416 bis c.p., includendo adesso anche le associazioni straniere che agiscono con schemi operativi riconducibili alle modalità mafiose. Saranno quindi applicabili le misure di prevenzione antimafia anche alle organizzazioni criminali extranazionali che già da tempo operano nel nostro territorio.

Tale riforma, tra l'altro, ha abrogato (27) l'art. 14 della legge 55/1990 che, come abbiamo già visto in precedenza, aveva posto fine ai dubbi interpretativi riguardo l'applicazione delle misure patrimoniali ai soggetti indicati agli artt. 1 e 2 della l. 1423/1956. Secondo parte della dottrina (28) con l'abrogazione dell'art. 14 l. 55/1990, l'ambito di applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale si espanderebbe, in mancanza di una esplicita esclusione del legislatore, anche nei confronti di tutti i soggetti a pericolosità generica indicati dall'art. 19 l. 152/1975. Ciò comporterebbe un ampliamento a dismisura dell'ambito di applicazione delle misure patrimoniali, in mancanza di quella ragionevole prognosi di illecito arricchimento fondata sulle fattispecie di pericolosità mafiosa. L'art. 14 indicava perlomeno i reati di riferimento, con la sua abrogazione, perciò, si ritorna a discutibili forme di pericolosità generica che non dovrebbero giustificare l'intervento in sede di prevenzione. Tale ampliamento dell'ambito di applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali è stato confermato anche dalle recenti pronunce della Corte di cassazione (29).

Infine, con il recentissimo "pacchetto sicurezza" (legge 15 luglio 2009, n. 94), il legislatore, all'art. 2, comma 5, attua un'integrazione del titolo (30) della legge 575/1965, esplicitando che le misure antimafia si applicano anche alle organizzazioni straniere, in linea con la modifica introdotta dall'articolo 1 della legge 125/2008 al titolo e al testo dell'articolo 416 bis del c.p., esteso alle cosiddette mafie straniere. E ciò sebbene il precetto della legge 575/1965 e la norma di diritto sostanziale fossero già idonei a includere nell'area della punizione i raggruppamenti mafiosi "stranieri". Inoltre, le misure preventive antimafia vengono estese anche agli indiziati del delitto di interposizione fittizia previsto dall'art. 12 quinquies D.L. 306/1992; tale delitto, però, non rientra tra quelli assegnati alle procure distrettuali ai sensi dell'art. 51, comma 3 bis, del codice di procedura, con la conseguenza che la modifica approvata infrange la simmetria di competenze faticosamente raggiunta in materia di misure di prevenzione antimafia. Forse il legislatore ha aggiunto tale fattispecie per poter di nuovo applicare le misure di prevenzione patrimoniale ai delitti di riciclaggio (648 bis) e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (648 ter) che erano stati esclusi con l'abrogazione dell'art. 14 l. 55/1990.

2 L'autonomia delle misure patrimoniali da quella personali. Verso un actio in rem?

Prima della riforma del 2008, l'emanazione di una misura di prevenzione patrimoniale era subordinata alla previa applicazione di una misura di prevenzione personale, fondata sull'attualità della pericolosità del soggetto appartenente ad un'associazione mafiosa. L'indissolubile relazione che il sistema di prevenzione fissava tra la pericolosità del soggetto e la possibilità di sottoporre a confisca i patrimoni nella sua disponibilità, esponeva i provvedimenti ablatori dei patrimoni alle sorti dei provvedimenti riguardanti la pericolosità sociale del soggetto stesso. Tale legame comportava due gravi conseguenze: da un lato l'impossibilità, in caso di morte del soggetto sottoposto a misura di prevenzione (31), di proseguire il procedimento di prevenzione patrimoniale nei confronti degli eredi quali beneficiari di un illecito arricchimento, dall'altro, in caso di cessazione della pericolosità del soggetto sottoposto a misura di prevenzione, l'inammissibilità delle misure ablatorie per quei patrimoni, sproporzionati al reddito dichiarato o di origine illecita, acquistati nel momento in cui sussisteva il requisito dell'appartenenza alla criminalità organizzata. Il progetto per la ricognizione ed il riordino della normativa di contrasto alla criminalità organizzata elaborato dalla Commissione ministeriale presieduta dal Prof. Fiandaca (32), ed il d.d.l. delega (33) del novembre 2007 in materia di misure di contrasto alla criminalità organizzata, auspicavano perciò la separazione delle misure patrimoniali dalle personali. In tal senso si era anche espressa la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa nella Relazione sullo stato di attuazione della normativa e delle prassi applicative in materia di sequestro, confisca e destinazione dei beni della criminalità organizzata (34). La Commissione aveva infatti sottolineato l'importanza di "prevenire che i provvedimenti modificativi della misura di prevenzione concernente il soggetto travolgano le misure patrimoniali" una volta che sia stata accertata la provenienza illecita, in quanto proprio in "ragione di tale accertata illecita provenienza, i beni sono dotati di una perdurante pericolosità e di un insito potere destabilizzante per l'economia lecita".

Il legislatore del 2008 ha così accolto queste richieste nel D.L. 92/2008. L'aspetto cruciale della riforma delle misure di prevenzione patrimoniale consiste proprio nella separazione del procedimento di prevenzione personale da quello patrimoniale; il nuovo comma 6 bis dell'art. 2 bis, l. 575/1965, prevede, infatti, che le "misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste ed applicate disgiuntamente".

Se parte della dottrina ha accolto tale cambiamento definendolo come rivoluzionario (35), altri autori non hanno risparmiato le loro critiche. Secondo tale orientamento, la recisione del nesso di pregiudizialità tra le misure patrimoniali e personali non si è del tutto compiuta. Si è infatti continuato a mantenere in vita un meccanismo che aggancia l'applicazione delle misure patrimoniali a quelle personali. L'art. 2 ter, comma 1, prevede che le misure patrimoniali siano applicate nel corso del procedimento concernente le personali (36), e il sesto comma pone un termine di decadenza per l'applicazione delle misure patrimoniali (37). La prima norma sembrerebbe escludere un'applicazione delle misure patrimoniali indipendente da quelle personali, dato che stabilisce che le indagini e l'applicazione delle misure patrimoniali avviene nell'ambito del procedimento per infliggere le misure personali; mentre la seconda indica un termine di decadenza dal potere di imporre misure patrimoniali, che deriva da quelle personali poiché è previsto che tale potere deve essere esercitato prima cessazione della misura personale (38). La riforma attuata nel 2008 parrebbe quindi quanto meno poco attenta: se da un lato si è proclamato l'importante principio della separazione delle due tipologie di misure, dall'altro non si è adeguato il procedimento, continuando a mantenere legato il procedimento di prevenzione patrimoniale a quello personale. Non si è riusciti quindi a trasformare pienamente il procedimento di prevenzione patrimoniale in una sorta di actio in rem contro un bene considerato in sé pericoloso. Si potrebbe però conseguire tale risultato in via interpretativa, forzando il dato letterale dell'art. 2 ter, primo e sesto comma, per ritenere che il procedimento di prevenzione possa essere attivato per l'esclusiva applicazione delle misure patrimoniali, e che il termine dal sesto comma non costituisca più un limite insuperabile, in quanto anche dopo la cessazione delle misure personali sarebbe possibile richiedere e applicare autonomamente le misure patrimoniali in virtù del comma 6 bis dell'art. 2 bis (39). Sicuramente tale soluzione sembra essere la più coerente con le intenzioni e gli obiettivi della riforma attuata nel 2008.

La stessa dottrina si è chiesta poi se il giudice possa procedere al sequestro ed alla confisca di un patrimonio in quanto sproporzionato, o in quanto risulti di origine illecita, indipendentemente da chi sia il proprietario; ovvero, se potrà procedere solo nei confronti del patrimonio dei soggetti indiziati di appartenere ad una organizzazione criminale o di commettere uno dei crimini indicati all'art. 51, comma 3 bis c.p.p. La risposta è arrivata direttamente dal legislatore nel 2009 con la legge n. 94, in cui si aggiunge all'art 2 bis, comma 6 bis, che le misure di prevenzione patrimoniali possono essere richieste ed applicate disgiuntamente, e, "indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione". Quindi il legislatore ha avuto cura di precisare che l'applicazione disgiunta delle misure di prevenzione non prescinde dalla qualità di indiziato per uno dei delitti ex art. 1 l. 575/1965, solo che per l'ablazione patrimoniale si prescinde dalla attualità della pericolosità sociale. In altre parole, il bene non perde la sua caratteristica di antisocialità, dovuta alla sua formazione illecita, quando il soggetto, che di esso può farne uso, non è più socialmente pericoloso.

Purtroppo la l. 94/2009 non ha risolto i dubbi interpretativi, visti in precedenza, riguardo al procedimento di applicazione delle misure patrimoniali. Appare certa, però, viste anche le modifiche del 2009, l'intenzione del legislatore: realizzare un'actio in rem che colpisca la perdurante illiceità dei beni connessa allo loro formazione, pur non prescindendo del requisito soggettivo della pericolosità qualificata.

2.1 La morte del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione

Unanime è il consenso della dottrina rispetto alla possibilità introdotta con il D.L. 92/2008, al comma 6 bis, dell'art. 2 bis, l. 575/1965, di consentire il proseguimento del procedimento per la confisca dei beni anche nel caso in cui il soggetto indiziato di appartenenza ad associazione mafiosa muoia durante il suo svolgimento. Inoltre, all'art. 2 ter è stato aggiunto il comma 11 il quale prevede la possibilità di procedere alla confisca del patrimonio del defunto entro cinque anni dal decesso. Nel primo caso quindi si consente che il procedimento prosegua o inizi nei confronti dei successori; nel secondo caso, invece, sarà possibile procedere contro il patrimonio del defunto anche nel caso in cui costui non sia mai stato oggetto di un giudizio di pericolosità (né sottoposto a misura di prevenzione personale, né condannato per i reati previsti dalla disciplina in materia). La delimitazione temporale all'intervento in esame sembra conforme ad esigenze di tutela del mercato e dell'economia, in quanto occorre garantire i diritti degli aventi causa, che non possono essere sottoposti sine die alla "spada di Damocle" delle misure di prevenzione.

Prima delle novità introdotte nel 2008, lo sganciamento parziale delle misure patrimoniali dalle personali era inoltre garantito dalla possibilità di pronunciare la confisca anche in caso di assenza, residenza o dimora all'estero della persona alla quale potrebbe applicarsi la misura di prevenzione (comma 7, art. 2 ter, l. 575/'65). Tale tendenza verso la trasformazione del procedimento patrimoniale in un actio in rem, inoltre, era già emersa in maniera decisa con l'introduzione della sospensione dell'amministrazione dei beni ex art. 3 quater e della confisca ex art. 3 quinquies delle attività economiche che agevolano l'attività di determinati soggetti indiziati o imputati.

In conclusione emerge quindi la tendenza a realizzare un'oggettivizzazione del procedimento patrimoniale antimafia, che si sta trasformando sempre più in un'actio in rem contro beni di per sé pericolosi. L'obiettivo quindi è quello di considerare le ricchezze mafiose pericolose in sé in quanto capaci, oltre che di sostenere e sviluppare le organizzazioni mafiose, di inquinare in maniera irreversibile il tessuto economico. Già la Corte Costituzionale nel "lontano" 1996 (40) aveva auspicato un superamento del nesso di presupposizione necessaria tra le misure personali e quelle patrimoniali, sottolineando che la confisca comporta conseguenze ablatorie definitive e la sua ratio comprende ma eccede quelle delle misure di prevenzione (personali), consistendo nel sottrarre definitivamente il bene al circuito economico di origine per inserirlo in altro, esente da condizionamenti criminali che caratterizzano il primo. Ha, inoltre, aggiunto un importante principio riguardo alla tutela del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica affermando che "la garanzia della proprietà intanto varrebbe in quanto possa assolvere la propria funzione sociale che consiste nella sua capacità di favorire e incrementare lo sviluppo di altri diritti costituzionalmente protetti. Ma, se ciò non avviene, e se anzi si verifica la "mortificazione" di quella funzione, il diritto di proprietà diviene antisociale e ne viene meno la ragione di tutela. E tra i beni e gli interessi, costituzionalmente rilevanti, da valutare nell'ambito della tutela della proprietà, vi sono le esigenze di garanzie dell'iniziativa privata, il cui libero ed equilibrato esercizio viene alterato da fattori estranei che ne inquinano le condizioni di funzionamento; vi sono, inoltre, i profili della solidarietà sociale ed economica che trovano concretizzazione attraverso lo svolgimento di attività lavorative legali, mentre le acquisizioni illecite, se non contrastate, incrementato i vincoli intimidatori e rendono 'allettante' l'attività illegale finalizzata al profitto".

3 Le indagini patrimoniali preliminari alla proposta

L'art 2 bis, l. 575/1965, contiene la disciplina generale sulle speciali indagini patrimoniali propedeutiche alla proposta di applicazione di una misura patrimoniale. Prima delle recenti riforme, tali indagini potevano essere esperite dal Procuratore della repubblica e dal Questore; adesso con il D.L. 92/2008 tale competenza è stata estesa anche al Direttore della direzione investigativa antimafia.

La riforma del 2008 ha inoltre introdotto la competenza del Procuratore della repubblica presso il Tribunale del capoluogo di distretto ove la persona dimora a richiedere le misure di prevenzione personale (art. 2, comma 1, l. 575/1965); prima era, invece, competente il Procuratore della repubblica nel cui circondario dimora la persona. Chiaro è quindi l'intento del legislatore: conferire la competenza esclusiva al Procuratore distrettuale a richiedere le misure personali nei confronti delle fattispecie a pericolosità qualificata previste dall'art. 1 l. 575/1965. Tale competenza però non era stata estesa, però, agli art. 2 bis e ter in tema di misure patrimoniali, continuando tali norme ad indicare come Procuratore competente il "Procuratore della repubblica". Tale incongruenza pare una dimenticanza del legislatore poiché nei lavori preparatori alle riforma l'intenzione è quella di "ripartire le competenze in materia di indagini e proposta di applicazione delle misure di prevenzione tra gli uffici del pubblico ministero, concentrando la competenza per le misure di prevenzione antimafia nelle procure distrettuali e lasciando sopravvivere la competenza di tutte le procure presso il tribunale per le misure di prevenzione c.d. ordinarie". Inoltre lo stesso decreto 92/2008, modificando l'art. 3 quater, prevede adesso la competenza del Procuratore distrettuale a richiedere le ulteriori indagini e verifiche finalizzate alla sospensione temporanea dell'amministrazione dei beni e poi il sequestro propedeutico alla confisca ex art. 3 quinquies.

Ogni dubbio interpretativo è stato fugato con la legge 94/2009: l'art. 2 stabilisce la competenza esclusiva del Procuratore distrettuale per l'applicazione della misure di prevenzione antimafia.

Infine il legislatore della riforma 2008 ha accolto le indicazione della Relazione della Commissione antimafia di attivare in capo al Procuratore nazionale antimafia un potere di impulso e di coordinamento, anche attraverso l'applicazione di sostituti procuratori nazionali a procedimenti di prevenzione presso le direzioni distrettuali antimafia (41). In tale ottica si è modificato il regio decreto n. 12/1941, inserendo l'art. 110 ter, il quale prevede che "il Procuratore nazionale antimafia può disporre, nell'ambito dei poteri attribuitigli dall'articolo 371 bis del codice di procedura penale e sentito il competente procuratore distrettuale, l'applicazione temporanea di magistrati della Direzione nazionale antimafia alle procure distrettuali per la trattazione di singoli procedimenti di prevenzione patrimoniale". Se ne fa richiesta il Procuratore distrettuale, il Procuratore generale presso la Corte d'appello può, per giustificati motivi, disporre che le funzioni di pubblico ministero per la trattazione delle misure di prevenzione siano esercitate da un magistrato designato dal Procuratore della Repubblica presso il giudice competente". Purtroppo, quindi, non è stata introdotta la competenza del Procuratore distrettuale antimafia, che vede circoscritto il suo ambito operativo solo per i reati ex art. 51, comma 3 bis, c.p.p. Eppure tale obiettivo emergeva con chiarezza nei lavori preparatori (42) ma la riforma non ha espressamente modificato l'art. 70 bis di cui al regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), allargando la competenza della Procura distrettuale antimafia anche in relazione alle misure di prevenzione.

Emerge quindi un'altra incongruenza della riforma, il cui scopo sarebbe quello di intensificare la lotta contro l'infiltrazione criminale nell'economia attraverso il coinvolgimento della Procura specializzata nella lotta contro la mafia, che ancora, però, non sembra manifestare sufficiente consapevolezza dell'importanza di questo profilo nella lotta contro il crimine organizzato.

3.1 Lo svolgimento delle indagini

L'art 2 bis, comma 1, prevede che il Questore, il Procuratore della repubblica o il Direttore della DIA possono procedere anche a mezzo della guardia di finanza o della polizia giudiziaria allo svolgimento delle indagini sul tenore di vita dell'indiziato (ai sensi dell'art. 1 l. 575/65), sulle sue disponibilità finanziarie ed in definitiva sul suo patrimonio, nonché sull'attività economica ad esso facente capo, allo scopo di individuare le fonti di reddito. Si ravvisa subito una imprecisione di formulazione normativa là dove sembra contrapporsi la guardia di finanza alla polizia giudiziaria. In realtà, l'esplicito richiamo alla GdF è solo a titolo esemplificativo, in considerazione della specifica attitudine di tale corpo allo svolgimento di indagini patrimoniali. Infatti, il coinvolgimento della GdF evidenzia l'intento di utilizzare un corpo di agenti particolarmente qualificato e dotato di quelle competenze tecniche necessarie per ricostruire compiutamente la situazione del tenore di vita, delle disponibilità finanziarie e del patrimonio dei soggetti indagati, non tralasciando tuttavia di poter anche utilizzare in via residuale la polizia giudiziaria. Ciò è dovuto al fatto che per gli accertamenti contabili e per quelli che richiedono lo studio di documentazione di carattere finanziario e fiscale, è sicuramente più opportuno utilizzare la Guardia di finanza, vista la specificità degli accertamenti in questione e le connesse implicazioni di carattere fiscale.

Il comma 2 specifica il tipo di accertamento che viene svolto: si guarda in particolare se il soggetto in questione sia titolare di licenze, di autorizzazioni, di concessioni o di abilitazioni all'esercizio di attività imprenditoriali e commerciali, comprese le iscrizioni ad albi professionali e pubblici registri, ed anche se lo stesso benefici di finanziamenti o mutui agevolati o altre erogazioni da parte dello Stato, di enti pubblici, o delle Comunità europee (43). Si tratta quindi di un'indagine a tutto campo che ha l'obiettivo di ricostruire tutto il flusso di "denaro sporco" ripercorrendo tutti i possibili canali economici di riciclaggio. Inoltre, l'articolo 9, comma 2, l. 121/1981 che ha istituito il nuovo ordinamento dell'amministrazione della Pubblica sicurezza, consente alla autorità giudiziaria l'accesso ai dati ed alle informazioni registrati presso il Centro elaborazione dati istituito presso il ministero dell'interno (44), e quindi l'accesso anche al Pubblico ministero impegnato nel procedimento di prevenzione.

A fianco alle indagine appena viste che potremmo definire obbligatorie, il comma 6 introduce ulteriori indagini che possono essere esperite sempre dal Procuratore, dal Questore o dal Direttore della DIA. Essi possono avanzare richieste per effettuare rilevamenti presso ogni ufficio della pubblica amministrazione, ogni ente creditizio, nonché presso imprese, società ed enti di ogni tipo. A tali uffici possono essere richieste informazioni o copie della documentazione ritenuta utile ai fini delle indagini nei confronti dei soggetti interessati. Le indagini bancarie, in particolare, rivestono una importanza assolutamente primaria, poiché consentono di evidenziare le attività occulte svolte dagli indiziati, nonché l'intreccio delle relazioni interpersonali, che tali operazioni inevitabilmente lasciano tracciate.

L'ultima parte del comma 6 prevede anche che gli ufficiali di polizia giudiziaria possono sequestrare la documentazione solo previa autorizzazione del Procuratore della repubblica o del giudice procedente osservando le modalità degli artt. 253, 254, 255 del codice di procedura penale. Quanto alle modalità esecutive del sequestro, in forza dell'articolo 253 c.p.p., questo deve essere disposto con decreto motivato del Procuratore della repubblica o del tribunale procedente. La relativa motivazione deve dare atto delle ragioni che giustificano l'apprensione della documentazione, le quali devono essere specificate nello stesso provvedimento. Infatti, il provvedimento di sequestro segue logicamente e cronologicamente la richiesta di informazioni e di copia dei documenti ed è strumentale ad una richiesta mirata in caso di rifiuto di consegna spontanea. Oggetto del sequestro sono i documenti necessari per l'applicazione della misura personale o della confisca del bene. Stante l'art. 254 è anche prevista la possibilità di sequestro della corrispondenza se si ha fondato motivo di ritenere che possa avere relazione con la condotta ritenuta pericolosa. Infine, l'art. 255 prevede la possibilità per l'autorità giudiziaria di procedere al sequestro presso le banche di documenti, titoli, valori somme depositate in conto corrente quando abbia fondato motivo di ritenere che siano pertinente alla dimostrazione della pericolosità del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione.

Le indagini patrimoniali possono essere estese anche a quei soggetti che possano costituire una copertura ai traffici illeciti (art. 2 bis, comma 3, l. 575/65). Sono compresi il coniuge, i figli, i conviventi, nonché, persone fisiche, giuridiche, società, consorzi od associazioni del cui patrimonio il soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione possa disporre in tutto o in parte, direttamente o indirettamente. Tale estensione delle indagini a soggetti diversi dal sottoposto a procedimento di prevenzione non è stata ritenuta dalla Corte di cassazione (45) in conflitto con il diritto di difesa, in considerazione che i terzi possono intervenire nel procedimento di prevenzione per far valere le loro ragioni. Parte della dottrina (46), invece, ha criticato questa posizione, sottolineando la scarsa correttezza, nonché la plateale disparità di trattamento che figli, coniuge e convivente del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione subiscono, in quanto le indagini si espandono su soggetti nei cui confronti non esiste alcun indizio di appartenenza all'associazione mafiosa. Soluzione proposta a questa disparità è l'esperibilità delle indagini a quei soggetti a cui carico sussistano degli indizi, quali ad esempio la disponibilità del patrimonio sospetto.

L'art 2 bis, stante il divieto di analogia e il principio di tassatività, menzionando solamente la richiesta di informazioni, di documentazione e relativo sequestro, esclude ogni altro mezzo di coercizione personale o reale nello svolgimento delle indagini patrimoniali. Non sono ammissibili, e quindi sottoposte a sanzione processuale di inutilizzabilità, sia l'audizione di persone in grado di fornire notizie sulle condizioni patrimoniali del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione, sia il suo interrogatorio, a meno che sia egli stesso a richiedere la sua audizione o a rilasciare eventuali dichiarazioni spontanee (47). Nel procedimento di prevenzione non è previsto che si possano disporre intercettazioni di comunicazioni, ed, essendo in gioco una libertà inviolabile non è consentita applicazione analogica. Secondo la giurisprudenza in tale giudizio, però, non sarebbe applicabile l'art. 270, comma 1, c.p.p., che limita, nel giudizio penale l'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni di comunicazioni disposte in altro procedimento, dal momento che nel giudizio di prevenzione vigerebbe l'opposto regola della piena utilizzabilità di qualsiasi documento indiziario, anche tratto da procedimenti penali in corso, purché certo ed idoneo, per il suo valore sintomatico, a giustificare il convincimento del giudice in ordine alla pericolosità sociale del soggetto. Addirittura per la Corte di Cassazione (48), il giudice della prevenzione potrebbe fondare il proprio convincimento sul risultato di intercettazioni di cui si dia atto in altre decisioni, senza necessità di acquisire i provvedimenti autorizzativi, né verbali e le trascrizioni delle suddette intercettazioni.

3.2 Modalità esecutive delle indagini patrimoniali

Secondo la normativa richiamata, le indagini patrimoniali riguardano quindi: il tenore di vita; le disponibilità finanziarie; il patrimonio e l'attività economica.

In particolare il tenore di vita di una persona va riferito al potere economico complessivo del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione (risparmio del reddito, impiego in beni disponibili e consumi in beni e servizi) e può indubbiamente cogliersi nelle manifestazioni esteriori di capacità contributiva ed agiatezza. Validi indici di capacità contributiva sono tutte quelle manifestazioni che fanno presumere un certo livello della scala dei reddito, quali, ad esempio: possesso e/o disponibilità di beni privati particolarmente costosi, sia con riferimento all'acquisto che alla manutenzione (es. automobili di grossa cilindrata e/o di lusso, navi, natanti, aeromobili, cavalli da corsa); possesso e/o disponibilità, in Italia o all'estero, di abitazioni particolarmente lussuose e di residenze secondarie (es. ville in località turistiche); possesso e/o disponibilità di terreni, riserve di caccia ecc.; frequentazione di case da gioco, alberghi e ristoranti di lusso, nights e locali notturni; consistenti acquisti di preziosi, quadri d'autore, pellicce ed altri beni di lusso.

Per quanto poi riguarda le disponibilità finanziarie, esse sono costituite da titoli (inclusi quelli al portatore), valuta, denaro, crediti e proventi derivanti da redditi di capitale e da operazioni speculative (i capitali dati a mutuo, i depositi ed i conti correnti, le partecipazioni in società, le obbligazioni e titoli similari, le prestazioni di garanzie e di fideiussioni).

Il patrimonio, invece, include il complesso indistinto dei beni (immobili e mobili, compresi quelli immateriali) riconducibili ad un soggetto (case, terreni, autovetture, diritti in concessione ecc.) e le relative indagini devono tendere ad appurarne la progressiva formazione.

Le indagini relative all'attività economica attengono, infine, alle eventuali attività produttive di reddito (imprese di produzione o commercio di beni, imprese di servizi, lavoro autonomo o dipendente) onde verificare se queste possano giustificare il tenore di vita ed il patrimonio del soggetto.

In tal modo, è possibile avere un quadro completo della condizione economica dell'indagato, poiché essa viene esaminata sia sotto l'aspetto statico (patrimonio al momento posseduto), sia sotto quello dinamico (fonti di produzione di reddito attraverso cui la ricchezza si è evoluta nel tempo, fino alla consistenza quantitativa e composizione qualitativa oggetto di analisi).

Infine, le indagini patrimoniali riguardano anche l'eventuale titolarità di licenze (es. di polizia e di commercio), autorizzazioni, concessioni (di acque e suoli pubblici o per lo sfruttamento di cave e miniere), abilitazioni all'esercizio di attività imprenditoriali o commerciali, comprese le iscrizioni ad albi professionali (ingegneri, geometri, medici, periti, ecc.) e pubblici registri (albi di appaltatori di opere o forniture pubbliche, albo costruttori); l'eventuale godimento di contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concesse dallo Stato, dagli enti pubblici o dall'Unione Europea (49).

3.2.1 I mezzi e le fonti delle indagini

Particolare importanza assume, dal punto di vista investigativo, l'attività informativa, la quale per le indagini di carattere economico, che generalmente richiedono tempi lunghi, risorse e professionalità particolarmente spiccate a causa della loro obiettiva complessità, rappresenta uno strumento particolarmente significativo. L'attività informativa si articola in diverse fasi, tra le quali: l'acquisizione di una compiuta conoscenza del contesto ambientale al fine di percepire e rilevare tempestivamente tutte quelle situazioni che, per le loro modalità di manifestazione, la contiguità con determinati contesti soggettivi ecc., evidenzino anomalie rispetto alla normale realtà economica e sociale di una determinata area e siano, pertanto, meritevoli di approfondimento; i rilevamenti anagrafici, volti alla compiuta identificazione di personaggi sospetti, del loro nucleo familiare e degli eventuali conviventi, nonché la oculata e discreta acquisizione di notizie, finalizzata a individuare "amici" ed associati degli interessati; preliminari e riservate investigazioni economiche, per l'acquisizione di dati, elementi e notizie utili riguardanti le fonti di reddito, le disponibilità mobiliari ed immobiliari riconducibili ai soggetti di interesse operativo, nonché alle persone fisiche e/o giuridiche ai medesimi collegate, direttamente o indirettamente.

Con peculiare riferimento agli accertamenti economici, si ribadisce che una fonte preziosa di informazioni e notizie è costituita dalle varie banche dati che è possibile interrogare, in tempo reale, attraverso i sistemi informatici. Trattasi di schedari a disposizione di soggetti pubblici o privati, al cui accesso talvolta è richiesta una particolare autorizzazione (50).

Nella successiva fase degli accertamenti patrimoniali in senso proprio, le procedure operative differiscono, di massima, a seconda del soggetto destinatario. Nel caso di persona fisica gli inquirenti procedono all'individuazione del tipo di reddito percepito, valutando, contestualmente, la sua posizione fiscale, ai fini delle imposte sui redditi, dell'IVA e di altre imposte, e, verificando l'esistenza di eventuali precedenti accertamenti fiscali o patrimoniali e/o di indagini penali pregresse. Vengono rilevate inoltre le possidenze immobiliari e mobiliari registrate in tutto il territorio nazionale, nonché delle disponibilità finanziarie (depositi, conti correnti, azioni, obbligazioni, fondi comuni di investimento, ecc.) presenti presso aziende ed istituti di credito, uffici postali ed intermediari finanziari. Si passa poi alla acquisizione di informazioni presso gli enti competenti (Prefettura, Questura, Camera di commercio, Albi professionali, Comune di residenza degli interessati ecc.), in ordine all'eventuale rilascio ai medesimi di licenze, autorizzazioni, concessioni, abilitazioni all'esercizio di attività imprenditoriali o commerciali e iscrizioni ad albi professionali e pubblici registri; infine si passa all'analisi comparata delle risultanze reddituali con quelle patrimoniali al fine di accertare la presenza di discrasie ed incongruenze tra le disponibilità accertate e quelle dichiarate.

Nell'ipotesi di imprese collegate, direttamente o indirettamente, a uno o più soggetti indiziati di appartenere ad organizzazioni criminali, ovvero connotate dalla presenza, come azionisti o finanziatori, di soggetti riconducibili a contesti delinquenziali o noti per essere dediti a traffici illeciti, o di soggetti a questi collegati da relazioni di parentela, di affari o di amicizia, le indagini da svolgere risultano, ovviamente, più complesse. In tal caso, salve le autonome valutazioni rimesse, in relazione al caso concreto, agli organi responsabili degli accertamenti, si procede all'esame della situazione economico-patrimoniale-finanziaria dell'impresa, indagando sugli aspetti gestionali dai quali sono scaturiti i valori contenuti nel bilancio ed esaminando, con approccio critico, i conti economici e finanziari suscettibili di interesse, nonché le registrazioni contabili rappresentative di operazioni commerciali sospette. Specifica attenzione, tra l'altro, viene prestata ai finanziamenti ed ai conferimenti operati dai soci durante la vita dell'impresa (apporti nel capitale iniziale, aumenti di capitale successivi, ecc.), anche in relazione ai ricavi conseguiti, nonché agli ulteriori eventuali finanziamenti, erogazioni, sovvenzioni ecc., derivanti sia da soggetti pubblici che privati, siano essi persone fisiche o giuridiche. Si effettuano, inoltre, le indagini sul reddito e sul patrimonio di soci, finanziatori e principali investitori, per accertarne le reali capacità di investimento.

Infine si svolgeranno accertamenti bancari. Questi, oltre che a carico dell'impresa indagata e dei suoi rappresentanti, saranno effettuati, ricorrendone i presupposti, anche nei confronti dei finanziatori e, laddove si tratti di una società, dei soci contigui a contesti delinquenziali, al fine di delineare compiutamente i flussi dei capitali confluiti nell'azienda, nonché la loro origine e provenienza (51).

3.2.2 Le indagini bancarie

Le indagini bancarie costituiscono indubbiamente uno degli strumenti più efficaci attraverso cui magistratura e forze di polizia possono pervenire alla ricostruzione dei proventi illecitamente conseguiti dagli indiziati di appartenenza mafiosa, alla individuazione delle connessioni soggettive intrattenute, nonché al rilevamento dell'attività occultamente svolta. Occorre anche sottolineare la difficoltà di questo tipo di indagini, in quanto i soggetti appartenenti ad organizzazioni criminali spesso non hanno intrattenuto rapporti finanziari nominativi ma si sono avvalsi di forme di schermature ed occultamento che l'ordinamento giuridico permetteva di sfruttare (52).

La risposta del legislatore al problema della ricchezza occulta arrivò solamente nel 1991 con due provvedimenti legislativi. Il primo provvedimento costituito dal D.L. 3 maggio 1991, n. 143, convertito con la legge 197/1991, recante "Provvedimenti urgenti per limitare l'uso del contante e dei titoli al portatore e prevenire l'utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio". Tale provvedimento vietò tra l'altro il trasferimento di denaro contante e di titoli al portatore per un valore superiore ai venti milioni di lire (53). Il secondo provvedimento antiriciclaggio fu emanato il 30 dicembre 1991 con la legge n. 413. Tale provvedimento, sicuramente più innovativo e stringente, introdusse diverse novità (54), tra cui la previsione che il Ministero del tesoro, di concerto con i Ministri dell'interno e delle finanze, avrebbe dovuto precisare, con proprio decreto, le modalità di comunicazione di dati identificativi della clientela bancaria e finanziaria all'Anagrafe tributaria (55).

La disposizione mirava a realizzare un efficiente servizio informativo, permettendo agli uffici fiscali e alle Forze di polizia di individuare immediatamente, attraverso una semplice richiesta alla suddetta Anagrafe tributaria, le banche e gli altri intermediari finanziari presso i quali il soggetto detenesse le proprie disponibilità finanziarie. Ciò si rendeva necessario in quanto, in assenza di tale disposizione, gli organi inquirenti erano costretti a fare richiesta alla singola banca o intermediario finanziario, ove vi fosse il sospetto che il soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione avesse compiuto operazioni con loro, con la conseguenza di allungare a dismisura i tempi delle indagini. Il decreto avrebbe dovuto essere emanato entro sessanta giorni, ma ha visto la luce solamente nel 2000, senza comunque diventare mai operativo. Tale provvedimento oltre a presentare delle gravi inadeguatezze (56) non è mai entrato in funzione a causa delle critiche e dell'allarmismo della stampa nazionale, che influenzarono pesantemente l'esecutivo di allora (57).

Il legislatore è così nuovamente intervenuto con la legge 4 agosto 2006, n. 248, di conversione del D.L. 223/2006, all'art. 37, commi 4 e 5, con cui ha modificato l'art. 7 (58), recante "comunicazioni all'anagrafe tributaria", del D.P.R. 605/1973. Con la seguente modifica è stato disposto che l'esistenza dei rapporti con banche od altri intermediari finanziari, nonché la natura degli stessi, siano comunicate all'anagrafe tributaria; le specifiche tecniche, le modalità ed i termini per la comunicazione delle informazioni suddette, nonché il loro aggiornamento periodico, saranno definite con provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle entrate (59).

Quindi si è stabilito che i dati identificativi di ogni soggetto che intrattenga con le banche o gli altri intermediari finanziari qualsiasi rapporto od effettui qualsiasi operazione di natura finanziaria debbano essere rilevati e tenuti in evidenza, e che l'esistenza dei rapporti stessi, nonché la loro natura, debbano essere comunicate all'Anagrafe tributaria ed archiviate con l'indicazione dei dati anagrafici dei titolari. Inoltre il riferimento a qualsiasi rapporto ed operazione sembra comprendere anche i rapporti al portatore, consentendo così di superare le problematiche viste nel decreto 269/2000, nel senso che debbano essere rilevati e comunicati i dati anagrafici di chi abbia acquistato certificati di deposito, dei titolari di conti transitori, di chi abbia l'uso di cassette di sicurezze, o di chi sia cliente di imprese ed enti assicurativi. Quindi adesso non sarà più possibile da parte di banche ed intermediari finanziari sottacere rispetto ai rapporti o titoli di credito al portatore sottoscritti o negoziati dal cliente; anzi, la risposta veritiera rappresenta l'adempimento di un dovere giuridico ben preciso, che sussiste nel momento in cui vengano richieste informazioni da parte degli organi inquirenti (60).

Solo il tempo e l'utilizzo da parte degli inquirenti potrà dirci se tale archivio sarà stato costruito in maniera utile e funzionale a contrastare la criminalità organizzata ed i suoi patrimoni finanziari.

Abbiamo ripercorso tutto l'iter legislativo proprio per sottolineare che ci sono voluti ben venticinque anni dall'entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre del 1982 affinché l'ordinamento giuridico italiano si dotasse di uno strumento efficace per la lotta al fenomeno mafioso. Fino ad oggi, infatti, gli inquirenti erano costretti ad individuare innanzitutto le banche e gli altri intermediari finanziari presso cui il soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione avesse compiuto qualche tipo di operazione, e soltanto dopo, analizzare le varie operazioni compiute. Tale individuazione avveniva attraverso singole richieste di accertamento ai vari istituti di credito e intermediari con la conseguenza inevitabile di appesantire ed allungare tali indagini (61).

Altro provvedimento importante è stato il D.Lgs 21 novembre 2007, n. 231, in applicazione della cosiddetta "terza direttiva antiriciclaggio" 2005/60/CE, contenente le misure per la prevenzione al riciclaggio. Tale provvedimento, oltre che prevedere limitazioni all'uso del contante e dei titoli al portatore (artt. 49 e 50), prevede una estensione del novero dei soggetti (bancari, finanziari, non finanziari) chiamati a collaborare, attraverso precisi compiti di individuazione, registrazione, e comunicazione dei dati identificativi della clientela; l'ampliamento delle operazioni finanziarie rilevabili, comprensiva anche di quelle derivanti da rapporti occasionali o non continuative; l'analitica disciplina dettata per le operazioni sospette. Importante novità è stata introdotta all'art. 6, con l'istituzione presso la Banca d'Italia dell'Unità di informazione finanziaria (UIF) che ha soppresso l'Ufficio italiano dei cambi. Tale organismo svolge le proprie funzioni in piena autonomia ed indipendenza al fine di prevenire e contrastare il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo (62). La UIF analizza le operazioni sospette segnalate dagli intermediari finanziari e da altri soggetti a ciò obbligati, nonché ogni fatto che potrebbe essere correlato a riciclaggio o finanziamento del terrorismo. A tal fine essa acquisisce ulteriori dati dagli intermediari finanziari e dagli altri soggetti; si avvale del contributo delle autorità di vigilanza; coopera con le autorità e le forze di polizia competenti. L'aspetto che a noi più interessa al fine delle indagine di prevenzione finanziarie è l'aspetto che riguarda la segnalazione delle operazioni sospette. Infatti all'art. 41 è previsto che gli intermediari finanziari, gli operatori non finanziari e i professionisti devono inviare alla UIF una segnalazione "quando sanno, sospettano o hanno motivi ragionevoli per sospettare che siano in corso o che siano state compiute o tentate operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo". Il sospetto è desunto dalle caratteristiche, entità, natura dell'operazione o da qualsivoglia altra circostanza conosciuta in ragione delle funzioni esercitate, tenuto conto anche della capacità economica o attività svolta dal soggetto. Appositi indicatori di anomalia, emanati e periodicamente aggiornati su proposta della UIF, agevolano l'individuazione delle operazioni sospette. Una volta acquisite tali informazioni la UIF effettua approfondimenti sulle segnalazioni di operazioni sospette e le trasmette, arricchite dell'analisi finanziaria, al Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza (NSPV) e alla Direzione investigativa antimafia (DIA). Questi poi svolgono le relative investigazioni informando il Procuratore nazionale antimafia qualora attengano a fatti di criminalità organizzata. Ci accorgiamo quindi che anche tali segnalazioni diventano un importante input per gli organi investigativi impegnati nelle indagini di prevenzione per scovare i patrimoni finanziari illeciti della criminalità organizzata (63).

In conclusione possiamo affermare che la nuova normativa è destinata a facilitare le indagini patrimoniali-finanziarie, tenuto conto dell'imprescindibile necessità dei capitali di affidarsi ai circuiti del sistema finanziario. Dall'altro lato è sicuramente prevedibile che le ricchezze di illecita derivazione cercheranno altre forme di occultamento, assumendo una diversa appartenenza nominativa. Infatti, non ne sarà più titolare il mafioso ma uno dei suoi numerosi parenti o uno dei suoi fidati prestanome incensurati, ai quali risulteranno intestati non soltanto i rapporti finanziari ma anche le varie attività economiche di facciata, nelle quali le risorse finanziarie possono essere facilmente riciclate. Di qui la necessità che attraverso le tecniche di polizia si sappia preliminarmente definire l'ambito dei possibili soggetti, gravitanti intorno alla figura del mafioso, nei cui confronti si debbano approfondire i rilevamenti.

3.3 Le garanzie durante le indagini patrimoniali

Visto il silenzio della legge riguardo alle garanzie difensive riconosciute nella fase delle indagini preliminari, la giurisprudenza ne ha escluso l'applicazione (64). Parte della dottrina, invece, ha affermato che devono essere applicate le stesse garanzie previste per le indagini preliminari alla luce di quanto previsto dall'art. 24 comma 2 della Costituzione (65).

Secondo tale orientamento se fossero applicabili tali garanzie, il Procuratore della repubblica, in applicazione analogica dell'art. 365 c.p.p., al momento del sequestro, dovrebbe chiedere al soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione, che sia presente, se assistito da un difensore di fiducia, e, qualora ne sia privo designarne uno d'ufficio. Altrettanto dovrebbe fare l'ufficiale di polizia giudiziaria delegato, il quale avrebbe l'obbligo di richiedere al p.m. di effettuare la designazione. Il difensore avrebbe facoltà di assistere al compimento del sequestro, con divieti di fare segni di approvazione o disapprovazione e facoltà di presentare al p.m. richieste, osservazioni e riserve. Inoltre, vista anche la funzione garantistica dell'informazione di garanzia, la dottrina ritiene che essa troverebbe applicazione anche nel procedimento di prevenzione (66).

Per quanto concerne la disciplina dei termini massimi di durata delle indagini nel procedimento di prevenzione patrimoniale, potrebbe applicarsi in via analogica il termine previsto per le indagini preliminari. Si tratta di una garanzia pro reo che trova la sua giustificazione nell'art. 111, comma 2, della Costituzione: il principio della ragionevole durata del processo, comprensiva quindi anche di quello preventivo. La durata ordinaria delle indagini di prevenzione sarebbe quindi di sei mesi (art 405 c.p.p.) con possibilità di proroga, su richiesta del p.m. per giusta causa, fino ad un massimo di diciotto mesi (art 406 c.p.p.). Sembrerebbe non trovare, invece, applicazione in via analogica il termine di due anni previsto dall'art. 407 comma 2 c.p.p., essendo questo di natura eccezionale (67).

Tra le garanzie estendibili al procedimento di prevenzione troverebbe applicazione anche l'art. 415 bis c.p.p., il quale dispone che al termine delle indagini il p.m., se non richiede l'archiviazione, deve far notificare alla persona sottoposta alle indagini preliminari e al suo difensore l'avviso della conclusione delle indagini stesse, contenente l'enunciazione dei fatti sui quali ha indagato, la data ed il luogo degli stessi, l'indicazione dei beni dei quali intende chiedere la confisca e le norme di legge applicabili, con l'avvertimento che la documentazione delle indagini espletate è depositata presso la segreteria del p.m. e che l'interessato ed il suo difensore hanno facoltà di prenderne visione e copia. L'avviso contiene, inoltre, l'avvertimento che l'indagato ha facoltà, entro il termine di venti giorni, di presentare memorie, produrre documenti, depositare documentazione relativa alle investigazioni del difensore, chiedere al p.m. il compimento di atti di indagine, nonché presentarsi per rilasciare dichiarazioni spontanee.

Come si evince da quanto sopra affermato, rientrerebbe tra le garanzie del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione anche la possibilità di dar atto ad indagini difensive (art. 327 bis c.p.p.). Il difensore della persona sottoposta alle indagini, anche prima che sia proposta la misura preventiva, avrebbe facoltà di svolgere, personalmente o tramite un investigatore privato o un consulente tecnico, investigazioni per ricercare ed individuare elementi di prova per il proprio assistito. Potrebbero essere acquisite notizie sia da persone in grado di riferire circostanze utili all'attività investigativa, sia da documenti (estraendone copia) in possesso della pubblica amministrazione. Potrebbero, inoltre, essere effettuati sopralluoghi ovvero rilievi tecnici, grafici, planimetrici, fotografici o audiovisivi. Infine, potrebbe essere richiesto al Tribunale l'accesso a luoghi privati o non aperti al pubblico (68).

Secondo la dottrina appena vista la non applicabilità di tali garanzie alle indagini di prevenzione appare incomprensibile alla luce del fatto che oramai al procedimento di prevenzione viene riconosciuta natura giurisdizionale. In attesa di una riforma organica del legislatore sarebbe compito della giurisprudenza adeguare il processo di prevenzione al rito penale e alla garanzie ad esso sotteso. Tale posizione dottrinaria tra l'altro è stata raccolta dalla commissione Fiandaca (69) per la riforma delle misure di prevenzione, in cui all'art. 12, comma 4, si prevede che si applichino al procedimento di prevenzione le disposizione del codice di procedura penale per quanto compatibile. Tale richiamo avrebbe reso operanti tutte le garanzie prima viste anche alle indagini di prevenzione.

3.4 Il fascicolo per il giudizio

Il procedimento di prevenzione non prevede la distinzione tra la fase delle indagini e quella del giudizio, per cui i risultati delle prime confluiscono automaticamente nel fascicolo a disposizione del Tribunale, il quale ai sensi dell'art. 2 ter potrà compiere ulteriori indagini ove le ritenga necessarie. Quindi il p.m. in assenza di contraddittorio formerà il fascicolo per il giudizio che trasmetterà poi al Tribunale con la proposta di applicazione della misura di prevenzione. Secondo l'orientamento dottrinario più garantista (70), tale previsione connoterebbe il procedimento di prevenzione di una impostazione inquisitoria poiché i risultati dell'indagine di una parte costituiscono il fondamento probatorio della decisione.

4 L'azione di prevenzione

L'art. 23 bis (71) della l. 646/1982 (72) consente di affermare che il legislatore abbia voluto rendere obbligatorio l'esercizio dell'azione di prevenzione personale e patrimoniale.

La norma dispone che, in presenza di una situazione indiziaria di appartenenza ad associazione mafiosa, debbano attivarsi contemporaneamente, sia il procedimento per l'accertamento del reato associativo, sia il procedimento per l'applicazione della misura di prevenzione. Infatti, l'art. 23 bis, comma 1, stabilisce che il p.m. procedente per il delitto di cui all'art. 416 bis c.p. (o per il delitto di cui all'art. 74 d.P.R. 309/1990) è tenuto a darne, senza ritardo, comunicazione al Procuratore della repubblica competente, al fine di promuovere, qualora non sia già in corso, il procedimento per l'applicazione di una misura di prevenzione. Il comma 2 prosegue affermando che "successivamente, il giudice penale trasmette a quello che procede per l'applicazione della misura di prevenzione gli atti rilevanti ai fini del procedimento, salvo che ritenga necessario mantenerli segreti".

Da un'attenta lettura dell'art 23 bis si evince, quindi, che l'obbligo di comunicazione previsto al comma 1 sorge con l'iscrizione della notizia di reato nell'apposito registro. Quindi il giudice nel giudizio di prevenzione è libero di valutare le stesse circostanze poste a base del processo penale, dovendo necessariamente procedere ad un giudizio di pericolosità per decidere se applicare le misure di prevenzione personali e/o patrimoniali.

Corollario del principio di obbligatorietà dell'azione di prevenzione è l'autonomia di quest'ultimo procedimento da quello penale. A conferma della loro reciproca autonomia, l'art. 2 ter, comma 9, l. 575/1965 prevede la possibilità che, durante l'autonomo sviluppo dei due procedimenti, vengano disposte le misure di prevenzione del sequestro e della confisca anche di beni già sottoposti a sequestro penale. In tal caso, però, gli effetti delle misure previste dalla legge antimafia rimangono sospesi in attesa dell'esito del processo penale, e possono rivivere solo ove venga revocato il sequestro penale. Da questa disposizione emerge quindi il principio della priorità formale del sequestro penale e della eventuale confisca rispetto alle misure di prevenzione patrimoniale, poiché il giudizio penale offre maggiori garanzie sostanziali e formali.

Anche la giurisprudenza si è espressa più volte nel senso di affermare l'autonomia dei due procedimenti (73). Preme qui ricordare l'ordinanza n. 275 del 1996, in cui la Corte costituzionale sottolinea "le profonde differenze, di procedimento e di sostanza, tra le due sedi, penale e di prevenzione: la prima ricollegata a un determinato fatto-reato oggetto di verifica nel processo, a seguito dell'esercizio dell'azione penale; la seconda riferita a una complessiva notazione di pericolosità" e che "alla luce dell'accennata diversità di funzione e di struttura dell'accertamento penale e dello strumento di prevenzione della pericolosità, il legislatore è variamente intervenuto a regolare i punti di possibile interferenza tra le due sedi, abbandonando originarie sovrapposizioni e, di seguito, regole atipiche di pregiudizialità, per pervenire, da ultimo, alla configurazione di ambiti di totale autonomia; salva l'opportuna disposizione di coordinamento e di economia investigativa contenuta nell'art. 23 bis, commi primo e secondo, della legge 13 settembre 1982, n. 646".

5 Le misure cautelari

Nel corso del procedimento di prevenzione nei confronti di indiziati di appartenere ad associazione mafiosa la legge 575/1965 prevede anche misure cautelari di prevenzione patrimoniale. Esse sono suddivisibili in due categorie: le prime che definiremo "tipiche", in quanto presuppongono l'accertamento della pericolosità del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione; le seconde, "atipiche", in quanto sono applicabili al di fuori del procedimento di prevenzione e pertanto prescindono dalla pericolosità del soggetto (74).

5.1 Il sequestro

Tra le misure cautelari tipiche rientra senz'altro il sequestro, che possiamo suddividere a sua volte in diverse tipologie. Il sequestro, previsto dall'art. 2 ter, comma 2 (primo periodo), l. 575/1965, viene disposto nel corso del procedimento di prevenzione e possiamo pertanto definirlo come ordinario. L'articolo appena citato prevede, infatti, che il Tribunale, anche d'ufficio, possa ordinare con decreto motivato il sequestro dei beni dei quali la persona, nei cui confronti è iniziato il procedimento di prevenzione, risulta poter disporre, direttamente o indirettamente, quando il valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o alla attività economica svolta, ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Dal dato letterale della legge sembrerebbe trattarsi di un sequestro obbligatorio, anche alla luce del fatto che, tale sequestro risponda sia alla esigenza di impedire che il soggetto sottoposto a misura di prevenzione possa trarre vantaggio dalla disponibilità di beni che provengono da sue attività illecite o che ne costituiscano il reimpiego e sia per rispondere alla necessità di assicurare i beni stessi alla esecuzione della confisca. La giurisprudenza (75) ha chiarito poi, la non autonoma ed immediata impugnazione del decreto con cui il Tribunale dispone il sequestro, in nome del principio generale di tassatività delle impugnazioni. Il sequestro, infatti, può essere revocato dal Tribunale quando è respinta la proposta di applicazione della misura di prevenzione o quando risulta che esso ha per oggetto beni di legittima provenienza o dei quali il soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione non poteva disporre direttamente o indirettamente (art. 2 ter comma 4).

I commi 4 e 5 dell'art. 2 bis l. 575/1965 prevedono il cosiddetto "sequestro anticipato" che viene disposto nel momento in cui vi sia concreto ed attuale pericolo che i beni di cui si chiede la confisca vengano dispersi, sottratti od alienati. Il Procuratore della repubblica, il Questore o il Direttore della DIA possono richiedere al Presidente del tribunale competente per l'applicazione della misura di prevenzione di disporre anticipatamente il sequestro dei beni prima della fissazione della udienza. Il Presidente del Tribunale provvede con decreto motivato entro cinque giorni dalla richiesta. Il sequestro disposto perde efficacia se non convalidato dal Tribunale entro trenta giorni dalla proposta della misura di prevenzione. Si osservano inoltre le disposizioni dell'art. 2 ter, comma 4, per cui il sequestro è revocato dal Tribunale quando è respinta la proposta di applicazione della misura di prevenzione o quando risulta che esso ha per oggetto beni di legittima provenienza o dei quali il soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione non poteva disporre direttamente o indirettamente.

Se invece i beni sequestrati appartengono a terzi si applica il procedimento di cui all'art. 2 ter, comma 5. I presupposti di questa tipologia di sequestro sono sia quelli visti per quello "ordinario" con in più il pericolo concreto che i beni vengano dispersi, sottratti, od alienati prima che possa essere disposto il sequestro da parte del tribunale ex art. 2 ter comma 2. Tali elementi di concreto pericolo devono essere menzionati nella proposta per l'applicazione della misura patrimoniale, con indicazione specifica dei beni da sequestrare, anche se intestati a terzi, ma nella disponibilità dell'interessato.

L'art. 2 ter, comma 2, secondo periodo, contempla il cosiddetto "sequestro urgente" che viene disposto dal Presidente del tribunale con decreto motivato nei casi di particolare urgenza, a richiesta del Procuratore della repubblica, del Questore, del Direttore della DIA nonché dagli organi incaricati dal Tribunale di svolgere le ulteriori indagini. Anche questo sequestro è soggetto a convalida, sotto pena di inefficacia, ma nel breve termine di dieci giorni successivi al provvedimento, anziché, i trenta giorni previsti del sequestro "anticipato". Si tratta di un provvedimento discrezionale emesso dal Presidente del tribunale inaudita altera parte e destinato alla caducazione in mancanza di convalida da parte del collegio entro dieci giorni.

Tale tipologia di sequestro, a differenza di quello anticipato che viene disposto ancor prima della fissazione dell'udienza di prevenzione, presuppone invece che il procedimento sia in corso e quindi difetta dell'elemento "sorpresa", dal momento che il soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione ha ufficialmente notizia del procedimento a suo carico ed il sequestro mira proprio a precludere manovre elusive sui propri beni. I presupposti di tale sequestro sono gli stessi di quello ordinario oltre che la particolare urgenza del provvedimento.

Infine, il sequestro "successivo" all'applicazione della misura di prevenzione personale (ma prima della sua cessazione) è quello previsto dall'art. 2 ter, comma 6. Ad esso provvede su richiesta lo stesso Tribunale che ha disposto la misura di prevenzione personale. Tale provvedimento non viene adottato inaudita altera parte ma in seguito al contraddittorio sviluppatosi nell'udienza camerale (76).

5.1.1 I presupposti del sequestro di prevenzione

L'art. 2 ter, comma 2, prescrive che i presupposti del sequestro sono, oltre alla pericolosità sociale qualificata dall'appartenenza a sodalizio mafioso del soggetto, la disponibilità diretta o indiretta del bene, e, il valore sproporzionato del bene rispetto al reddito dichiarato o alla attività economica svolta, ovvero, i sufficienti indizi della sua illecita provenienza o reimpiego.

Per quanto riguarda il primo presupposto l'articolo 2 ter è esplicito nel richiedere che risulti che il soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione abbia la disponibilità, diretta o indiretta, del bene da sequestrare e quindi esige la prova, e non semplici indizi, di tale disponibilità. La legge richiede il requisito della disponibilità diretta o indiretta sulla cosa, pertanto un potere di fatto sintomatico dell'effettiva appartenenza uti dominus sulla res. Quindi non è rilevante la titolarità formale dei beni, bensì la disponibilità sostanziale degli stessi (77), perciò una situazione prossima a quella del possesso, svincolata da qualsiasi categoria giuridica formale (78). Il richiamo legislativo alla disponibilità indiretta amplia, dunque, notevolmente la possibilità di intervento del sequestro di prevenzione e rende di fatto inoperanti tutti i tentativi di aggiramento della normativa, in quanto attrae nell'orbita di applicabilità delle misure patrimoniali anche i beni di cui il soggetto non abbia disponibilità giuridica (79).

L'art. 2 ter, comma 5, prevede inoltre che il sequestro sia possibile anche quando risulta che i beni sequestrati appartengano a terzi. Su tale disposizione la giurisprudenza ha precisato due importanti concetti. Innanzitutto che la nozione di "terzo" va intesa non in senso tecnico-civilistico, ma puramente processuale, finalizzata alla legittimazione per la chiamata nel procedimento (80). Per quanto riguarda poi il concetto di appartenenza, esso va distinto da quello di disponibilità appena visto. L'appartenenza, infatti, ha una valenza tecnico-civilistica per cui implica un legame diretto tra il bene ed un determinato soggetto che ne è titolare. Quindi nell'art. 2 ter, quinto comma, l'appartenenza viene riferita esclusivamente ad un terzo, intendendosi per tale il soggetto non inquisito, e sta a significare soltanto la titolarità formale del diritto di proprietà o di altri diritti reali, oltre che diritti relativi che, comunque, apparentemente implichino disponibilità del bene (81). Il dato puramente formale della appartenenza a terzi non preclude pertanto la possibilità del sequestro e della sua successiva confisca di prevenzione, visto che l'art. 2 ter, comma 2, prevede la disponibilità anche nella forma indiretta che, in concreto, significa intestazione fittizia del bene a terzi. In questo caso però l'accertamento della interposizione fittizia non può che essere rigorosa in considerazione della incisività del provvedimento ablativo. La giurisprudenza ha, infatti, ribadito che il giudice ha l'obbligo di spiegare le ragioni di tale interposizione, argomentando non solo sulla base di circostanze sintomatiche di spessore indiziario, ma anche alla luce di elementi fattuali, connotati dai requisiti della gravità, precisione e concordanza, e idonei quindi a costituire prova indiretta dell'assunto che si intende dimostrare (82).

Inoltre l'art. 2 ter, comma 5, prevede che i terzi titolari del bene e, chiunque vanti un diritto reale sul bene stesso, siano chiamati in giudizio a partecipare al procedimento di prevenzione per esercitare il loro diritto di difesa. A tal proposito la Corte di cassazione ha di recente precisato che "nel procedimento di prevenzione per l'applicazione di misure reali, l'omessa citazione del terzo non determina la nullità del procedimento, ma una semplice irregolarità che non inficia il procedimento medesimo, e quindi l'applicazione della misura, ferma restando la facoltà dell'extraneus di esplicare successivamente le sue difese, provocando un incidente di esecuzione" (83).

La giurisprudenza sostiene che, stante l'art. 2 bis, comma 3, sussista una sorta di presunzione semplice nei confronti del coniuge, del figlio e del convivente dell'ultimo quinquennio. Nei confronti di questi "terzi" sussisterebbe, infatti, una presunzione di disponibilità del bene da parte del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione senza quindi che sia necessaria una indagine rigorosa sulla effettiva disponibilità del bene come per gli altri soggetti terzi (84). Tale posizione della giurisprudenza ha suscitato molte perplessità da parte della dottrina la quale invoca il principio della responsabilità personale, per cui, dovrebbe restar ferma l'esigenza di un adeguato livello probatorio sul requisito della disponibilità in capo al soggetto sottoposto ad indagini di prevenzione ai fini del sequestro e della successiva confisca (85). La tesi è avvalorata dal fatto che l'art. 2 bis, comma 3, non prevede alcuna presunzione di intestazione fittizia ma si limita a consentire le indagini patrimoniali verso coniuge, figli e conviventi dell'ultimo quinquennio nonché nei confronti delle altre persone fisiche o giuridiche.

Seconda condizione affinché il Tribunale possa disporre il sequestro, è il valore sproporzionato dei beni rispetto al reddito dichiarato o all'attività economica svolta, ovvero, il fatto che tali beni siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Il testo dell'art 2 ter, comma 2, così come modificato dal legislatore del 1993 (86), esprime chiaramente la volontà del legislatore di porre la prova della sproporzione in alternativa a quella dell'origine illecita. La norma, infatti, recita: "il Tribunale, anche d'ufficio, ordina con decreto motivato il sequestro dei beni dei quali la persona nei cui confronti è iniziato il procedimento risulta poter disporre, direttamente o indirettamente, quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all'attività economica svolta ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego". L'espressione "ovvero quando", indica chiaramente che si tratta di un'ipotesi differente dalla prima. L'intenzione del legislatore appare duplice: da un lato colpire tutti quei patrimoni sproporzionati all'attività svolta che inevitabilmente inquinano l'ordinamento economico lecito, dall'altro, coordinare la norma di prevenzione con la "confisca allargata" che, quasi un anno prima, lo stesso legislatore aveva introdotto all'art. 12 sexies, D.L. 306/1992. Entrambe queste norme, infatti, pur nella loro diversità, ricorrono al criterio della sproporzione tra denaro, beni ed altre utilità, da un canto, e reddito dichiarato od attività economica svolta, dall'altro (87). La dottrina non ha fatto mancare il suo apporto critico sottolineando, sulla base di un orientamento più garantista, che il possesso dei beni di valore sproporzionato è solo un primo, importante ma non sufficiente, indizio, da inserire in un più ampio quadro indiziario circa l'origine illecita (88). Altra dottrina ha sottolineato come in realtà tale distinzione tra le due condizioni di sequestrabilità abbia una portata molto più ridotta. Infatti, entrambe le condicio da un punto di vista indiziario sono strettamente collegate, poiché, qualora il soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione abbia un reddito sottodimensionato rispetto al valore del bene sottoponibile a sequestro, tale elemento è comunque indice, in base ad elementare ragionamento logico-indiziario, dell'alta probabilità che l'attività svolta dal soggetto in questione ed il conseguente reddito, siano illeciti (89).

Come abbiamo visto, l'alternativa al valore sproporzionato del bene è costituita dal fatto che lo stesso sia il frutto di attività illecite o ne costituisca il reimpiego, ossia che vi sia un rapporto di connessione del bene con l'attività illecita. Tale rapporto di connessione è desumibile da "sufficienti indizi". A questo punto dobbiamo effettuare una riflessione sul rapporto di connessione del bene con le attività illecite. Secondo parte della dottrina, l'art. 2 ter, comma 2, si sgancerebbe da quanto previsto per la confisca ex art. 416 bis c.p., infatti, con l'espressione "frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego", si sarebbe ampliato il raggio di azione della misura antimafia in modo indefinito con la conseguenza che sequestro e confisca di prevenzione opererebbero indipendentemente dalla realizzazione degli obiettivi propri del delitto associativo, e produrrebbero i loro effetti in ragione dell'illiceità dei beni (90). Altra dottrina rileva, più coerentemente rispetto alla ratio della norma, che la dizione usata dal legislatore riferita ai "beni che sono il frutto di attività illecita o ne costituiscano il reimpiego" rappresenta la pratica attuazione del principio di connessione con il reato e che, con tale locuzione, si intende rappresentare un concetto molto amplio che ha riguardo non solo al denaro ricavato dallo svolgimento delle attività illecite ma, altresì, proprio ai beni acquistati con tale ricavato e, infine, a tutti gli altri beni comunque acquisiti attraverso successive, ulteriori, operazioni di reimpiego. In tal modo, si osserva, proprio attraverso l'utilizzazione del principio della connessione si possono colpire efficacemente le organizzazioni mafiose (91). Su tali presupposti, si è ulteriormente precisato che la distinzione tra beni pertinenti al reato di cui all'art. 416 bis c.p. e quelli connessi di cui all'art. 2 ter riposa tutta nella portata più ampia attribuita dal legislatore all'operatività della misura di prevenzione proprio attraverso la dizione "frutto di attività illecite o reimpiego", che consente che i beni suscettibili di sequestro e confisca possono avere la loro origine nelle attività illecite più diverse e non solo nel delitto di associazione mafiosa, restando fermi, tuttavia, sia la qualità di indiziato del delitto di associazione di tipo mafioso, sia l'accertamento della attività illecita di costui e la connessione tra dette attività ed il bene appreso (92).

Anche la Cassazione si è attestata su questa posizione, sottolineando come, ferma restando la connessione con il reato, i beni suscettibili di sequestro e successiva confisca possono essere frutto di qualsiasi attività illecita, o costituirne il reimpiego, senza necessità di distinguere se tale attività sia o meno mafiosa (93). In lineare applicazione del principio adesso esposto la Corte, ad esempio, ha ritenuto la legittimità del provvedimento di confisca dei beni appartenenti al soggetto sottoposto a misura di prevenzione che ne aveva giustificato il possesso dichiarando di averli acquistati con i proventi dell'evasione delle imposte sui redditi (94).

Infine, dobbiamo precisare meglio l'ambito di applicabilità del sequestro e della successiva confisca, ed in particolare quali beni possono subire tali provvedimenti. In primo luogo gli interpreti hanno affermato che tali misure non potranno colpire genericamente tutti i beni nel complesso imputabili ad un soggetto del quale è accertata la pericolosità, ma, sarà demandata al giudice l'indagine sul nesso tra l'attività illecita del soggetto e l'uso o l'acquisto del singolo bene. La giurisprudenza non a caso parla a tal riguardo di "valenza reale" (95) dell'indizio, nel senso che nessun problema si pone nei casi in cui il compendio sequestrato e poi confiscato risulti acquisito per intero e nel suo complesso al patrimonio del soggetto per effetto diretto o indiretto di attività illecite compiute dallo stesso (96).

Di contro, invece, esiste la necessità di stabilire i limiti di operatività dell'effetto ablativo nelle ipotesi in cui il reimpiego del denaro, proveniente da fonte sospetta diilliceità penale, avvenga mediante addizioni, trasformazioni o miglioramenti di beni già nella disponibilità del soggetto medesimo, in virtù di pregresso acquisto del tutto giustificato da dimostrato titolo lecito. In queste ultime ipotesi, il provvedimento ablativo deve essere rispettoso del generale principio di equità e, per non contrastare il principio di cui all'art. 42 Cost., non può coinvolgere il bene nel suo complesso ma, nell'indispensabile contemperamento delle generali esigenze di prevenzione e difesa sociale con quelle private della garanzia della proprietà tutelabile, deve essere limitato soltanto al valore del bene medesimo, proporzionato al reimpiego in esso effettuato dei profitti illeciti o, comunque, ingiustificati. Tutto ciò si realizza mediante il sequestro (e la successiva confisca) della quota ideale del bene, rapportata al maggior valore assunto per effetto del reimpiego e valutata al momento della confisca medesima (97).

Il secondo aspetto riguarda la possibilità di sequestrare e confiscare i beni acquisiti dal soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione, direttamente o indirettamente, in epoca antecedente a quella a cui si riferisce l'accertamento della pericolosità (98). Qui la giurisprudenza si è divisa, infatti, una parte di essa si è espressa verso la legittimità della misure ablative anche prima dell'inizio dell'appartenenza mafiosa, purché i beni stessi costituiscano presumibile frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, ovvero, siano sproporzionati all'attività svolta dal soggetto (99). Altra giurisprudenza, in ottica più garantista e rispettosa anche di quanto disposto dall'art. 1 l. 575/65, in cui si esplicita che le misure di prevenzione si applicano ai soggetti indiziati di appartenenza mafiosa e pertanto pericolosi, afferma che "è illegittimo il provvedimento con cui il giudice dispone (il sequestro) e la confisca sui beni del preposto senza verificare se essi siano entrati nella sua disponibilità successivamente o almeno contestualmente al suo inserimento nel sodalizio criminoso, considerato che, a tali fini, non è sufficiente la sussistenza di indizi di carattere personale sull'appartenenza del soggetto ad una associazione di tipo mafioso, implicante una latente e permanente pericolosità sociale, ma occorre che vi sia correlazione temporale tra tale pericolosità e l'acquisto di detti beni" (100).

5.1.2 La natura del sequestro di prevenzione e la sua esecuzione

La natura del sequestro di prevenzione è piuttosto controversa, infatti, sia la dottrina che la giurisprudenza non si sono espresse in maniera univoca (101).

La Corte Costituzionale non ha voluto precisare la sua natura ma si è limitata a definire tale misura genericamente di "ordine cautelare", inerente alla pericolosità di un soggetto e destinata a venir meno cessando, con la pericolosità, le ragioni della cautela (102).

Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno, invece, considerato il sequestro di prevenzione una misura avente natura di sequestro conservativo, pur con le opportune differenze nei presupposti e nelle conseguenze (103); mentre, secondo una sezione feriale (104) della stessa Corte si sarebbe trattato di una misura equiparabile al sequestro probatorio.

Anche la dottrina non si è assestata su di un unica interpretazione: da alcuni, infatti, il sequestro preventivo viene visto in chiave propedeutica alla successiva adozione della confisca e pertanto gli viene attribuita la funzione cautelare di anticipata esecuzione di quest'ultima (105); altri riconoscono un'implicita funzione di prevenzione immediata, dal momento che, il sequestro consente di anticipare i positivi effetti che la definitiva ablazione produrrà (106). Secondo altri ancora, il sequestro di prevenzione avrebbe natura conservativa cautelare, essendo diretto ad evitare la dispersione dei beni del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione e la sottrazione alla successiva confisca. Tale tesi trovava conferma nel vecchio art. 2 quater l. 575/1965, ora completamente riformato dalla legge n. 94/2009, il quale prevedeva riguardo all'esecuzione del sequestro le stesse modalità previste dal codice di procedura civile per il pignoramento presso il debitore o presso il terzo e sugli immobili o mobili registrati. Per cui, il fumus sarebbe stato rappresentato dall'appartenenza del soggetto al sodalizio mafioso, mentre il periculum in mora sarebbe derivato dalla obbligatorietà della misura e dalla esigenza di assicurare i beni stessi all'esecuzione della confisca (107).

Altra dottrina vede, invece, il sequestro ex art 2 ter, comma 2, avente la stessa funzione del sequestro preventivo penale, cioè tutelare gli interessi della collettività onde evitare che i reati vengano portati ad ulteriori conseguenze (108). Tale tesi sembra essere oggi avvalorata dalla citata riforma del 2009, secondo la quale il sequestro antimafia viene oggi eseguito secondo le modalità previste dall'art. 104 delle norme di attuazione del codice di procedura penale, cioè secondo lo schema del sequestro preventivo. Tale riforma ha sicuramente perseguito l'obiettivo di realizzare innanzitutto un'opportuna omologazione della disciplina che regola l'esecuzione dei sequestri in sede penale e di prevenzione. Infatti, attraverso un insieme coordinato di rinvii, si garantisce oggi l'uniformità delle regole che presiedono all'esecuzione dei provvedimenti di sequestro e alla scelta degli amministratori giudiziali.

5.1.3 L'amministrazione dei beni sequestrati

L'art. 2 sexies l. 575/65, comma 1, prevede che una volta deliberato il sequestro, il Tribunale nomina il giudice delegato e l'amministratore a cui vine affidata la gestione dei beni sequestrati sotto la direzione del giudice delegato stesso (109). Nella prassi accade che assuma la funzione di giudice delegato colui che abbia relazionato in sede camerale poiché è il soggetto che ha conoscenza diretta del patrimonio e che ha seguito, in chiave indiziaria, la ricostruzione illecita che ha indotto all'adozione della misura (110); tuttavia è possibile la designazione di un giudice che componga il collegio giudicante ma mai di un magistrato estraneo al collegio (111). In generale il giudice delegato ha la direzione dell'amministrazione nel senso che ne detta le linee ispiratrici e vigila sull'operato dell'amministratore giudiziario, esercitando il controllo sulla gestione per conto del Tribunale, cui deve riferire ove se ne rappresenti la necessità.

Il Tribunale che ha disposto il sequestro ha competenza esclusiva e funzionale in ordine all'adozione di tutti i provvedimenti riguardanti la custodia, la conservazione e la gestione dei beni sequestrati o eventualmente confiscati. Si tratta di competenza che non viene meno neppure nel caso in cui il provvedimento di sequestro e di confisca sia stato riformato dalla Corte di Appello, poiché la giurisprudenza ritiene che non trovi applicazione in materia l'art. 665 c.p.p. (112). Ruolo importante del Tribunale, in composizione collegiale, è anche quello di revoca dell'amministratore giudiziario in caso di inosservanza dei suoi doveri o d'incapacità (113).

Il giudice delegato, dal canto suo, ha la direzione dell'amministrazione; ne individua le linee ispiratrici e vigila sull'operato dell'amministratore, esercitando poteri di controllo e verifica nella fase gestionale (114). Egli, inoltre, deve autorizzare preventivamente gli atti di straordinaria amministrazione (art. 2 septies, comma 1, l. 575/1965) ed ha facoltà di rendere al sottoposto a misura di prevenzione ed alla sua famiglia il provvedimento di autorizzazione alla permanenza nell'abitazione di famiglia, se sottoposta a sequestro, ove ricorrano le condizioni di cui al R.D. 267/1942 art 47, così come disposto dal comma 2, art. 2 sexies l. 575/1965 (115).

L'amministratore è senza dubbio colui che ha il compito di mantenere intatto il patrimonio sequestrato; si tratta di un ruolo assai delicato e difficile poiché la gestione e la conservazione di tali beni è strumentale alla restituzioni in favore di chi ne abbia diritto: lo Stato, in caso di confisca, ovvero il soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione, in caso di revoca del sequestro.

La procedura gestionale prevede che una volta nominato l'amministratore, al fine di tutelare i terzi che abbiano contatti con la compagine attinta dal sequestro, tale nomina vada annotata presso i pubblici uffici che assolvano a funzione siffatta e, dunque, presso la Camera di commercio, la Cancelleria del tribunale ed il Registro delle imprese (116).

L'attività di amministrazione giudiziaria spetta quindi istituzionalmente all'amministratore nominato e quindi il giudice delegato non avrà poteri di amministrazione diretta, tuttalpiù, potrà sollecitarne la revoca da parte del Tribunale. L'amministratore è un incaricato giudiziario, che opera nell'interesse della giustizia e, stante l'art. 2 septies, comma 3, avrà l'obbligo di adempiere alle proprie funzioni utilizzando la diligenza del buon padre di famiglia soprattutto per gli atti più delicati, per i quali consti l'autorizzazione del giudice delegato (117). Lo stesso comma 3, dell'articolo appena citato, prevede che possa essere revocato (dal Tribunale, su proposta del giudice delegato o d'ufficio) nei casi di inosservanza dei doveri o per incapacità. L'inosservanza ricorrerà qualora si verifichino specifiche violazioni di legge o di regolamento, mentre, si avrà incapacità quando si verificherà una conclamata inidoneità del professionista a far fronte alle problematiche che si presentano in amministrazione. La dottrina (118), inoltre, ravvisa anche un'altra motivazione alla base della revoca, che consiste nelle mere "ragioni di opportunità". Queste si verificano quando, pur non verificandosi violazioni di specifiche disposizioni di legge, si ritenere compromesso od intaccato il vincolo di lealtà che deve contraddistinguere il rapporto tra l'amministratore con il Tribunale ed il giudice delegato (119).

L'art. 2 sexies, comma 1, oltre alla conservazione ed alla custodia dei beni sequestrati, auspica anche un incremento della redditività di tali beni, poiché la fase cautelare del sequestro non fa venir meno il diritto formale di proprietà del soggetto sottoposto a misura cautelare e determina, piuttosto, una mera traslazione della disponibilità dei beni stessi. Per quanto possibile, dunque, deve evitarsi che la gestione giudiziaria si rilevi foriera sia di danno emergente che di lucro cessante e si deve, al pari, se possibile, permettere che dai beni si ritraggano quelle utilità che naturalmente avrebbe perseguito il titolare, se avesse mantenuto la gestione diretta del proprio patrimonio (120). Non a caso il legislatore, con il cosiddetto "pacchetto sicurezza" del 2009 (121), è intervento modificando l'art. 2 sexies, l. 575/65, in tema di amministrazione dei complessi aziendali. Sotto quest'ultimo profilo emerge con chiarezza il rilievo che si è inteso attribuire al tema centrale dell'amministrazione dei complessi aziendali, rispetto ai quali si misura l'efficacia e l'autorevolezza dell'azione di contrasto. Per far ciò si è innanzitutto proceduto a comprimere l'autonomia dell'autorità giudiziaria nell'individuazione dell'amministratore giudiziario, stabilendo, nel nuovo comma 4 bis, che la scelta deve ricadere su un professionista inserito in un apposito Albo nazionale degli amministratori giudiziari esperti in gestione aziendale (122), in modo da assicurare così la massima competenza e adeguate capacità gestionali. Il nuovo comma 4 ter prevede, inoltre, una minuta indicazione degli obblighi di gestione connessi alle "concrete prospettive di prosecuzione dell'impresa" e assegna al Tribunale e al giudice delegato tale compito. Inoltre essi dovranno impartire "le direttive di gestione", tenuto conto dell'attività economica svolta dall'azienda, della forza lavoro da essa occupata, della sua capacità produttiva e del suo mercato di riferimento. Come si vede incombenze complesse in cui risulterà decisivo l'apporto degli amministratori giudiziari individuati nell'istituendo Albo nazionale.

Infine, sempre nella prospettiva di favorire la continuità operativa delle imprese sottoposte a sequestro e confisca, in cui spesso l'esecuzione del provvedimento giudiziario cagiona una precoce crisi finanziaria, il comma 4 quinquies ha opportunamente stabilito che le pubbliche amministrazioni sospendano i pagamenti dovuti a quanti non abbiano soddisfatto i debiti fiscali.

Una delle difficoltà più ricorrenti per l'amministratore è sicuramente reinserire la gestione dell'"impresa mafiosa" all'interno di valori economico-sociali rispettosi della legalità; principio, che molto spesso, il modello gestionale precedente aveva completamente ignorato e calpestato. Per questo una volta effettuato il sequestro l'amministratore non potrà permettersi un semplice subingresso nella gestione pregressa al fine di assicurare l'aumento di redditività richiesto, ma, dovrà verificare in via preliminare se esistono margini positivi per rinnovare la gestione del bene in amministrazione. In questo senso occorreranno delle operazioni preliminari di verifica sia sotto il piano formale, che contabile, che patrimoniale. Tale compito oggi è riservato, come disposto dal comma 4 bis, all'amministratore, il quale entro sei mesi dalla nomina, dovrà presentare al Tribunale una relazione particolareggiata sullo stato e sulla consistenza dei beni aziendali sequestrati, nonché sullo stato dell'attività aziendale. Effettuate tali verifiche preliminari, il Tribunale, ove rilevi concrete prospettive di prosecuzione dell'impresa, approva il programma ed impartisce le direttive per la gestione dell'impresa (123).

Altro aspetto assai delicato è la concreta gestione dei beni, in specie i complessi aziendali, sottoposti a sequestro. Durante questa fase il giudice delegato e l'amministratore possono essere chiamati a compiere scelte e decisioni importanti nella vita economica della compagine sequestrata, come ad esempio la vendita di singoli beni (124), trasformazioni definitive nella consistenza dei patrimoni, iscrizioni di ipoteche sui beni in garanzia di finanziamenti per il proseguo dell'attività di impresa stessa (125). La dottrina si è posta il problema, nel silenzio della legge, di come tutelare il soggetto che subisce il sequestro preventivo dei beni, in attesa della eventuale confisca definitiva, al cospetto di determinate posizioni e decisioni di carattere imprenditoriale assunte dall'amministrazione giudiziaria. Alcuni ritengono che non sia ammessa ingerenza dell'imprenditore estromesso e che egli, addirittura, non abbia diritto neppure alle "informazioni" sulle scelte imprenditoriali assunte dall'amministratore. Secondo altri (126), invece, si potrebbero invocare, davanti ad altra autorità giudiziaria, i provvedimenti urgenti ex art. 700 c.p.c. (127), attraverso cui contestare il contenuto di un singolo provvedimento di amministrazione; questo senza inficiare il decreto impositivo della cautela e gli effetti del provvedimento reale. Allo stato e secondo le ricostruzioni dogmatiche e giurisprudenziali tradizionali, non sembra che si possa pensare, per assicurare tutela a queste posizioni, ad istituti diversi da quello dell'istanza rivolta al giudice delegato ovvero della opposizione dinanzi al Tribunale della prevenzione nella forma dell'incidente di esecuzione (128).

Infine, un accenno alle problematiche legate ai costi della gestione giudiziaria. L'art. 2 octies, l. 575/65, disciplina, infatti, sia le spese cui deve farsi fronte nel corso della amministrazione giudiziaria sia la determinazione dei compensi dell'amministratore giudiziario. Il primo comma fa riferimento alle "spese necessarie" che saranno riconducibili alla categoria di interventi non differibili ed imposti dalla natura del bene stesso o dalle caratteristiche tipiche della res colpita dalla misura. Saranno, dunque, riconducibili a siffatto ambito tutte le spese volte alla conservazione ed al mantenimento del bene sequestrato. Lo stesso comma 1 fa anche riferimento alle "spese utili" le quali, invece, configurano tutti gli interventi volti al giovamento, alla valorizzazione ed all'aumento della redditività del bene sequestrato. Entrambe le spese vengono sostenute dall'amministratore mediante prelevamento delle somme da lui riscosse a qualunque titolo, ovvero, novità introdotta con la l. 15 luglio 2009, n. 94, dalle somme sequestrate o comunque nella disponibilità del procedimento. Con tale indicazione, quindi, la legge prefigge come primario l'obiettivo dell'autosufficienza economica dei beni sequestrati (129).

In particolare il riferimento alle "somme sequestrate o comunque nella disponibilità del procedimento" sembrerebbe voler risolvere l'empasse che i decreti legge 112 del 25 luglio 2008 (convertito in l. 133/2008) e n. 143 del 16 settembre 2008 (convertito in l. 181/2008) hanno creato con l'istituzione di un Fondo unico di giustizia. Attraverso tale fondo, infatti, tutte le somme di denaro sequestrate o confiscate nell'ambito dei procedimenti di prevenzione patrimoniale vengono trasferite ad una neo costituita società per azioni, "Equitalia giustizia", così come previsto dall'art. 2, comma 1, decreto n. 143 (130). La gestione di tali risorse è quindi demandata alla indicata struttura di riscossione con conseguenze di non poco conto nella gestione dei bene sequestrati, in particolare nel caso di complessi aziendali. Infatti l'amministratore si vedrebbe così privato della liquidità necessaria a garantire il proseguimento dell'attività economica e del processo produttivo (131). L'intervento del legislatore del 2009 è proprio nell'ottica di mantenere le somme sequestrate nella disponibilità di chi amministra il bene proprio al fine di evitare le problematiche di gestione appena considerate. Inoltre la legge 23 aprile 2009, n. 38, all'art. 6, comma 2 bis, introdotto in fase di conversione, fornisce l'interpretazione autentica del comma 2, art. 2 del D.L. 16 settembre 208, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181. Viene recepito dalla norma il chiarimento che il Ministero di giustizia aveva anticipato con propria circolare del 20 febbraio 2009: "quanto alle somme di denaro, ai conti correnti, ai titoli, ai valori e ad ogni altro rapporto bancario e finanziario facente parte di complessi aziendali, in via di interpretazione deve ritenersi che tali beni, compresi nell'universitas aziendale, essendo destinati all'esercizio dell'attività di impresa, già svolta in forma individuale o societaria e proseguita dall'amministratore giudiziario, non possano affluire al Fondo unico giustizia, se non in occasione dell'eventuale liquidazione dell'azienda stessa. Diversamente, risulterebbero impedite l'attività e la gestione imprenditoriali, con tutti gli adempimenti ad essi connessi, facenti capo all'amministratore giudiziario".

Se, a detta dei complessi aziendali, il legislatore ha tenuto conto delle esigenze degli amministratori, ancora irrisolto rimane il problema della gestione degli immobili confiscati. Se, infatti, fino all'istituzione del Fondo unico giustizia, il Giudice delegato e l'Amministratore giudiziario hanno provveduto, per quando possibile, a gestire gli immobili in un'ottica di mantenimento e/o redditività, da adesso in poi questo sarà più difficile poiché la somme e gli altri titoli e valori sequestrati al soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione confluiranno nel Fondo unico giustizia e non potranno essere utilizzate per le spese di mantenimento dell'immobile. Si pensi alle conseguenze che questo può comportare nei casi in cui vi siano, ad esempio, rate di mutuo gravanti sugli immobili, spese di amministrazione straordinaria ricadenti sul proprietario, spese condominiali arretrate o altri debiti del soggetto sottoposto a misura di prevenzione nei confronti di terzi ritenuti, pur non muniti di ipoteca, meritevoli di tutela. Palese la ricaduta ed i possibili pregiudizi sui terzi. Peraltro, l'art. 5 del citato Decreto Interministeriale 30 luglio 2009 n. 127, nel disciplinare le modalità di utilizzazione delle somme afferenti al Fondo da parte dell'Amministratore Giudiziario e precisamente delle somme o dei beni che formano oggetto di sequestro o confisca per provvedere alla conservazione e all'amministrazione dei beni, prevede che l'Amministratore Giudiziario debba farne espressa richiesta con atto da lui sottoscritto e previamente autorizzato dal Giudice Delegato, ma, in caso di immobili sequestrati, "la richiesta è ammissibile esclusivamente qualora l'immobile risulti oggetto di una utilizzazione idonea a produrre introiti per l'amministratore e, relativamente alle spese di manutenzione, soltanto per quelle che non sono comunque a carico dell'utilizzatore". È presumibile, quindi, che in caso di immobili occupati, non produttivi di reddito (ad esempio abusivamente o da inquilino moroso o inadempiente), dovendo il Giudice delegato e l'Amministratore giudiziario far comunque fronte alle spese per la gestione e la conservazione del bene (si pensi all'adeguamento alla normativa europea degli impianti elettrici, del gas, a lavori di manutenzione ordinaria di stabili deliberati dai condomini ecc) una imputazione delle spese a carico dell'Erario, dovendo le stesse essere anticipate quali spese di giustizia (132).

Per quanto, poi, riguarda i compensi che spettano all'amministratore giudiziario, essi vengono disposti con decreto del Tribunale su relazione del giudice delegato, tenuto conto del valore commerciale del patrimonio amministrato, dell'opera prestata e dei risultati ottenuti (133). L'attività quindi verrà valutata in concreto a seconda che la sua funzione sia sia limitata a porre in essere un'attività meramente conservativa o di liquidazione del patrimonio, ovvero, abbia svolto operazioni di gestione attiva, assumendo e ponderando il rischio di impresa. Punto di partenza di tale valutazione in concreto saranno le tariffe di categoria che andranno poi valutate alla luce dell'incarico effettivamente svolto e del risultato ottenuto.

5.2 La sospensione temporanea dell'amministrazione dei beni

Tra le misure cautelari atipiche, quelle, cioè, che prescindono dall'accertamento della pericolosità del soggetto, rientra la sospensione "temporanea" dell'amministrazione dei beni ed il sequestro precauzionale durante quest'ultima. L'art. 24, D.L. 306/1992, convertito con l. 356/1992, ha aggiunto infatti due nuovi articoli alla legge 576/1965: il 3 quater, cioè sospensione ed eventuale sequestro precauzionale ed il 3 quinquies, cioè la eventuale confisca. Tale novità ebbe una portata piuttosto rilevante, infatti con esse cominciava la strategia dell'actio in rem, cioè si delineava la volontà del legislatore di colpire le ricchezze mafiose in quanto tali, a prescindere dalla irrogazione di una misura di prevenzione personale (134). Si tratta, infatti, di provvedimenti esclusivamente di natura reale, la cui applicazione è del tutto sganciata dall'accertamento della responsabilità penale, o, comunque della pericolosità sociale del destinatario e che ruotano esclusivamente attorno al contributo agevolatore che le attività economiche lecite possono fornire alle organizzazioni criminali. Come ha precisato la giurisprudenza di merito (135), "le persone nei confronti delle quali può essere disposta la sospensione temporanea dell'amministrazione dei beni, sono connotate da una situazione negativa, cioè la totale estraneità dall'associazione mafiosa", altrimenti, là dove risultasse che l'attività al servizio della criminalità organizzata fosse frutto di libera scelta, ovvero, sussistesse un rapporto di interposizione fittizia tra il terzo ed il soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione, scatterebbe l'applicazione delle misure di cui agli artt. 2 bis e ter.

Il meccanismo applicativo della sospensione dell'amministrazione dei beni è normativamente connesso agli accertamenti eseguiti ai sensi all'art. 2 bis della stessa l. 575/65, o comunque a quelli che vengono eseguiti per verificare i pericoli di infiltrazione da parte della delinquenza mafiosa. Infatti, il comma 1, dell'art. 3 quater, prevede che qualora, da tali accertamenti, risultino sufficienti indizi (136) per ritenere che l'esercizio di determinate attività economiche, comprese quelle imprenditoriali, sia, direttamente o indirettamente, sottoposto alle condizioni di intimidazione o di assoggettamento che costituiscono i tipici moduli operativi delle associazioni ex art. 416 bis c.p., o comunque, risulti che l'esercizio stesso possa agevolare l'attività di persone sottoposte a misure di prevenzione personali, ovvero, di persone sottoposte a procedimento penale per uno dei delitti previsti dagli artt. 416 bis, 629, 630, 644, 648 bis, 648 ter c.p., e non ricorrano i presupposti per l'applicazione delle misure contemplate dall'art. 2 l. 575/65, il Procuratore della repubblica (presso il Tribunale del capoluogo del distretto), il Questore, il Direttore della DIA possono richiedere, al Tribunale competente per l'applicazione delle anzidette misure, di procedere ad ulteriori indagini o verifiche anche a mezzo della Guardia di finanza o della Polizia giudiziaria (137). In particolare, le autorità indicate possono ottenere che il Tribunale obblighi chi ha la proprietà o la disponibilità, a qualsiasi titolo, di beni o altre utilità, di valore non proporzionato al proprio reddito o alla propria capacità economica, di giustificarne la legittima provenienza (138).

Quando da questa attività investigativa si perviene all'acquisizione di sufficienti elementi per ritenere sussistente quella relazione qualificata, cioè il rapporto di agevolazione tra l'attività economica lecita e l'attività della persona che si ritiene socialmente pericolosa, il Tribunale dispone la sospensione temporanea dell'amministrazione dei beni utilizzabili, direttamente o indirettamente, per lo svolgimento delle attività predette (art. 3 quater, comma 2) (139). Il comma 2 non a caso utilizza l'espressione "sufficienti elementi", rispetto ai "sufficienti indizi" del primo comma. Secondo gli interpreti, infatti, tale distinzione suggerisce l'idea di una progressione probatoria, nel senso che da una base indiziaria di partenza, attraverso "ulteriori indagini e verifiche", si deve approdare a risultati che confermino i sospetti iniziali e quindi ad una certa corposità del carico indiziario (140). Anche la giurisprudenza ha recepito tale impostazione dottrinaria, la Cassazione ha precisato, infatti, che è necessario che emergano "preganti ed univoci elementi indiziari idonei a far ritenere che quei beni siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego" (141).

Per quanto riguarda il termine massimo di durata della sospensione, termine che la giurisprudenza non ha esitato ha definire perentorio (142), il comma 3, art 3 quater l. 575/65, prevede che tale periodo non possa essere superiore a sei mesi. E' prevista, inoltre, la possibilità di rinnovo della sospensione, per un periodo non superiore complessivamente a dodici mesi, là dove permangano le condizioni in base alle quali tale misura è stata applicata, su richiesta dell'autorità proponente, del Pubblico ministero, o del giudice delegato all'amministrazione.

Il comma 4 dello stesso articolo rinvia, per la conservazione e la gestione di tali beni, alla disciplina dettata in materia di amministrazione dei beni sequestrati ex art. 2 ter, prevedendo così che l'amministratore giudiziario si sostituisca alla persona del terzo agevolante (imprenditore individuale) o all'organo societario nel potere di amministrazione e gestione dei beni oggetto di misura.

Laddove, poi, ricorra il pericolo che i medesimi beni sottoposti al provvedimento di sospensione vengano dispersi, sottratti o alienati, su proposta del Procuratore, del Questore o del Direttore della Dia, il Tribunale ne dispone il sequestro (art. 3 quater, comma 5) (143). La durata del sequestro è disposta sino alla scadenza della sospensione temporanea dell'amministrazione, e cioè, a norma dell'art. 3 quater, comma 3. Tale sequestro ha la peculiarità di non sfociare necessariamente nella confisca, proprio in quanto destinato a perdere efficacia con la revoca della misura principale. Infine è imposta l'osservanza, in quanto applicabili, delle disposizioni degli artt. 2 ter commi 5, 7e8, 2 quater, 2 quinquies, 2 sexies, 2 septies, e2 octies della l. 575/65, che abbiamo già analizzato in relazione al sequestro ed alla amministrazione dei beni sequestrati.

5.2.1 Il concetto di agevolazione

Presupposto per l'applicazione di tali misure è l'agevolazione a favore di un sodalizio criminale posta in essere da un soggetto terzo, non sottoponibile a procedimento penale o di prevenzione. La legge mantiene un silenzio assoluto sul concetto di agevolazione per cui in ambito interpretativo sono state individuate due situazioni indice di tale comportamento (144). La prima situazione si avrebbe in presenza dell'impresa "vittima" della mafia, vale a dire quando il terzo imprenditore, nell'esercizio della propria attività economica, è costretto a perseguire gli interessi mafiosi, in quanto sottoposto alle condizioni di intimidazione o di assoggettamento ex art. 416 bis c.p. In queste ipotesi, l'impresa non sarebbe soltanto la vittima di eventuali reati commessi ai suoi danni, si pensi all'estorsione, ma sarebbe piuttosto costretta a svolgere un ruolo strumentale per la realizzazione di interessi mafiosi, come ad esempio l'assunzione di manodopera imposta o il riciclaggio imposto di profitti illeciti. L'assenza dei presupposti per procedere direttamente ai sensi degli artt. 2 bis e ter, cioè l'estraneità dell'imprenditore al fenomeno delinquenziale, sarebbe in re ipsa, nel fatto stesso della condicio di sottomissione in cui questo verrebbe a trovarsi, che, di per sé, escluderebbe qualsiasi forma di connivenza con la criminalità organizzata (145).

La seconda situazione descritta dal legislatore si realizzerebbe, invece, quando il terzo eserciti un'attività oggettivamente agevolatrice di quella illecita altrui, così come descritto dal comma 2, art. 3 quater, pur non essendo né costretto né tanto meno coinvolto nell'attività delittuosa, altrimenti, sarebbero applicabili le misure di cui agli artt. 2 bis e ter. Quest'ultima situazione è piuttosto intricata e pertanto ci si è chiesti in dottrina quando effettivamente possa verificarsi. La risposta assolutamente più plausibile è quella che individua tale comportamento allorquando l'attività economica agevolatrice degli interessi mafiosi sia esercitata in forma societaria e non tutti i soci o i proprietari siano coinvolti nel comportamento criminoso. In questo caso, infatti, l'impresa non è né vittima dell'organizzazione mafiosa, in quanto parte dei suoi soci sono responsabili di attività illecite; né pienamente coinvolta in quanto non tutti i soci sono responsabili (146).

Il periculum, richiesto ai fini dell'applicazione di tale misura cautelare, è stato individuato nel rischio che determinate attività economiche, di per sé lecite, vengano o continuino ad essere esercitate in posizione di contiguità rispetto alle associazioni criminali. In presenza di sufficienti elementi dai quali desumere che un soggetto esercente un'attività economica lecita contribuisca in qualunque modo ad agevolare l'attività delle persone ex art. 3 quater, comma 2, il Tribunale adotta la misura della sospensione temporanea, la quale, come precisato dalla norma stessa, è rivolta esclusivamente ai beni, in particolare a tutti quelli utilizzabili direttamente o indirettamente per lo svolgimento dell'attività economica dell'agevolante (147). Si tratta, dunque, di una misura che comporta la sostituzione del terzo agevolante, nel potere di amministrazione e di gestione del patrimonio utilizzabile per l'attività economica agevolatrice, con un amministratore giudiziario operante sotto la direzione del giudice delegato al procedimento.

L'istituto della sospensione, per definizione, abbiamo già visto avere carattere temporaneo ed è, quindi, destinato o ad essere revocato, ed eventualmente sostituito dal provvedimento che dispone gli obblighi di informazione di cui al comma 3 dell'art 3 quinquies (148), ovvero, ad essere succeduto dal provvedimento definitivo di confisca.

5.2.2 La posizione del "terzo" nella sospensione temporanea: profili di legittimità

La circostanza che a subire le conseguenze pregiudizievoli del provvedimento cautelare di sospensione e della eventuale confisca sia un soggetto per il quale non ricorre alcuna qualificazione di pericolosità sociale, proprio perché estraneo ad organizzazioni criminali, e dunque non sottoposto né a procedimento penale né a quello di prevenzione, solleva una serie di perplessità in ordine alla conformità di questi strumenti di prevenzione rispetto ai principi costituzionali.

La dottrina ha sollevato diversi rilievi di incostituzionalità fra cui in particolare la violazione dell'art. 27, comma 1, Cost., cioè il principio della personalità della responsabilità penale. Tali misure, infatti, incidono su soggetti sostanzialmente incolpevoli, con conseguente frattura del rapporto tra la cosa ritenuta pericolosa e la persona che deve subire il provvedimento sanzionatorio (149).

La Corte Costituzionale (150), chiamata in causa sulla questione, partendo dalla osservazione che il presupposto della sospensione dell'amministrazione risiede nel carattere ausiliario che una certa attività economica possiede rispetto alla realizzazione degli interessi mafiosi, ha ritenuto che, in una simile prospettiva, i titolari delle attività agevolanti non possono affatto ritenersi "terzi" rispetto alla realizzazione di quegli interessi, considerato che è proprio attraverso la libera gestione dei loro beni che viene ineluttabilmente a realizzarsi quel circuito e commistione di posizioni dominanti e rendite che contribuisce a rafforzare la presenza, anche economica, delle cosche sul territorio. Alla scelta di svolgere una attività oggettivamente agevolatrice si sovrappone la consapevolezza delle conseguenze che dalla stessa ne possono scaturire. Questa situazione, quindi, porta ad escludere quella situazione soggettiva di sostanziale incolpevolezza sulla quale si fonderebbe la censura di incostituzionalità sollevata. Quando in esito alla misura della sospensione dell'amministrazione emergano elementi atti a far ritenere che quei beni siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, e si appalesi quindi una obiettiva commistione di interessi tra attività di impresa e attività mafiosa, ben si spiega la funzione e la legittimità del provvedimento ablatorio, giacché gli effetti che ne scaturiscono si riflettono sui beni di un soggetto certamente non estraneo alla complessiva gestione del patrimonio mafioso, che a sua volta rappresenta, in ultima analisi, l'obiettivo finale della confisca.

La dottrina ha accolto tale pronuncia con alcune considerazioni che lasciano trapelare comunque dubbi sulla legittimità del provvedimento di sospensione. In primo luogo è stato rilevato come la posizione del terzo si trovi in una sorta di "zona grigia", in cui l'agevolante non è ritenuto incolpevole, poiché consapevole del contributo agevolatore dato al mafioso, ma, al tempo stesso, neanche tanto colpevole per essere sottoposto ad un procedimento di prevenzione o penale. La giustificazione che porta al sacrificio dei suoi diritti patrimoniali sarebbe allora non la responsabilità penale o, comunque, la pericolosità sociale, ma il trovarsi in questa zona di mezzo tra la colpevolezza e l'incolpevolezza (151). Altra parte della dottrina evidenzia come la Consulta non si sia soffermata sull'indistinto trattamento che viene riservato a situazioni oggettivamente differenti, quali, da una parte, l'esercizio di attività economiche in condizioni di assoggettamento o di intimidazione, e, dall'altra, l'esercizio di attività economiche finalizzate all'agevolazione degli interessi criminali. Si osserva allora che tali situazioni, sebbene si traducano, l'una e l'altra, in un vantaggio per l'associazione mafiosa, non possono portare ad equiparare la vittima incolpevole con l'imprenditore colluso, col risultato di sottoporli entrambi allo stesso trattamento sulla base di un equivoco giudizio di pericolosità reale basato sull'altrettanto equivoco concetto di contiguità mafiosa (152).

Pur avendo già sottolineato l'importanza di una strategia che vada verso un'actio in rem, che colpisca i beni dei mafiosi in quanto tali, ci rendiamo conto che la sospensione temporanea ponga dei grossi interrogativi di legittimità, poiché si vanno a colpire i diritti (seppur patrimoniali) di soggetti completamente estranei al contesto criminale (si pensi ai soci dell'imprenditore colluso), ed, anzi, in alcuni casi vere e proprie vittime della vessazione mafiosa. Certo non dobbiamo dimenticare che l'art. 42 della Costituzione prevede che la proprietà privata ricopra anche una funzione sociale, che verrebbe inevitabilmente compromessa nel caso di agevolazione di interessi criminali. Ciononostante i dubbi permangono, viste anche le recentissime riforme del legislatore, che hanno separato e reso indipendenti le misure di prevenzione personali da quelle patrimoniali, le quali presuppongono che il sequestro e la confisca ex art. 2 ter vengano applicati dopo una valutazione sulla pericolosità del soggetto, qualificata da indizi di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso.

6 Il giudizio

Oramai è unanime l'idea che il procedimento di prevenzione abbia natura giurisdizionale, anche se non manca l'isolata opinione di chi ritiene si tratti di poteri amministrativi, esercitati con forme processuali a tutela degli interessati (153).

Per quanto riguarda la disciplina applicabile alla fase del giudizio nel procedimento di prevenzione occorre tenere presenti quanto disposto agli art. 2 ter, comma 1, l. 575/65, ed art. 4, comma 6, l. 1423/1956. Il primo articolo legittima il Tribunale, "ove necessario", a "procedere ad ulteriori indagini oltre quelle già compiute a norma dell'articolo precedente". Il secondo articolo citato richiama invece l'osservanza "in quanto applicabili" degli artt. 636 e 637 del codice di rito del 1930, che regolavano il processo delle misure di sicurezza. Con l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale nel 1989, a norma dell'art. 208 delle disposizioni di coordinamento (154), "il richiamo si intende riferito agli istituiti o alle disposizioni che disciplinano la corrispondente materia". Quindi la disciplina vigente sarà quella all'art. 678 c.p.p., il quale prescrive al Magistrato di sorveglianza nella materie attinenti alle misure di sicurezza di procedere a norma dell'art. 666 c.p.p. del medesimo codice, che, a sua volta, fissa le regole da seguire per il procedimento di esecuzione; e quella all'art. 680 c.p.p., che disciplina l'impugnazione dei provvedimenti relativi alle misure di sicurezza. Occorre quindi riferirsi alla disciplina organica dettata per il procedimento di esecuzione, tenendo tra l'altro conto che l'art. 666 c.p.p. deve essere coordinato con l'art. 127 c.p.p., che disciplina il procedimento camerale. Occorre, comunque, tener presente che le disposizioni del procedimento di sorveglianza non operano automaticamente, ma solo "in quanto applicabili", per cui occorre di volta in volta verificare la compatibilità della disciplina dettata per il procedimento di sorveglianza con il sistema delle misure di prevenzione.

In particolare per il procedimento di applicazione delle misure patrimoniali valgono in via generale le medesime regole previste per quelle personali, salvo particolarità che riguardano singole misure, come la non diretta impugnabilità del provvedimento che dispone il sequestro, l'effetto sospensivo dell'impugnazione per i provvedimenti patrimoniali ablativi e l'applicazione anche d'ufficio del sequestro e della confisca (155).

6.1 La competenza

Sulla base dell'art. 4, l. 1423/1956, competente per l'applicazione delle misure di prevenzione è il Tribunale del capoluogo di provincia in cui la persona interessata dimora (156). Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato che nel procedimento di prevenzione la competenza "si radica, in stretta correlazione con il criterio dell'attualità della pericolosità sociale, nel luogo in cui, al momento della proposta, o, per esser più precisi, della decisione, la pericolosità si manifesti; e nell'ipotesi in cui plurime siano le manifestazioni del tipo in esame e si verifichino, poi, in luoghi diversi, dove le condotte di tipo qualificato appaiono di maggior spessore e rilevanza" (157).

Gli interpreti sostengono che la competenza non viene a radicarsi sulla scorta di una permanenza provvisoria o meramente saltuaria, ma di un soggiorno in un determinato luogo apprezzabilmente continuativo, oltreché non stabile. Ciò significa che occorre sempre aver riguardo allo spazio geografico -ambientale nel quale il soggetto è concretamente inserito ed esplica, sia pure con brevi e saltuari soggiorni, la sua attività illecita od ivi tiene comportamenti sintomatici della sua pericolosità (158). Ne deriva che non può considerarsi dimora la località in cui la persona, in epoca successiva a tali comportamenti, ha dovuto obbligatoriamente risiedere, per motivi inerenti a provvedimenti dell'autorità giudiziaria. In questi casi, è necessario far riferimento all'ultimo luogo di effettiva dimora del soggetto, prima dell'inizio di limitazioni o vincoli frapposti alla libertà personale (159).

Secondo parte della dottrina l'eccezione di incompetenza territoriale, regolata, in mancanza di specifica disposizione, dall'art. 21 comma 2 c.p.p., deve essere sollevata e trattata, a pena di decadenza, solo in apertura di udienza o tutt'al più prima della sua conclusione (160). Per altri invece tale eccezione deve essere sollevata e trattata, a pena di decadenza, in via preliminare, anteriormente all'inizio dell'esame del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione, ove ne abbia fatta richiesta, e del vaglio di altri elementi utili per la decisione, deducendo il predetto termine preclusivo, pur in assenza di specifica norma, dal contenuto del sistema espresso ex art. 491 c.p.p. (161). La giurisprudenza ha invece avuto occasione di ribadire che il momento ultimo per l'eccezione è quello della conclusione della discussione in primo grado, precisando ulteriormente che nel procedimento di prevenzione l'incompetenza territoriale del giudice non può perciò essere eccepita per la prima volta con il ricorso in Cassazione (162). Nel caso in cui tale eccezione venga accolta, la richiesta di applicazione della misura deve essere dichiarata inammissibile, non potendosi ricorrere al principio stabilito dall'art. 23 c.p.p. e far luogo quindi alla trasmissione degli atti al giudice ritenuto competente (163). Se, poi, dovesse sorgere un conflitto di competenza sono senza dubbio applicabili al procedimento di prevenzione le disposizioni in tema, dettate dagli artt. 28 ss. c.p.p., che ne attribuiscono la risoluzione alla Corte di Cassazione (164).

6.2 Il procedimento di primo grado

Questione preliminare all'udienza di primo grado è l'ammissibilità della proposta (165). Gli interpreti si sono interrogati sui limiti di applicabilità in materia dell'art. 666, comma 2, c.p.p., che consente al Presidente del collegio, sentito il Pubblico ministero, di dichiarare l'inammissibilità della richiesta, con decreto motivato, quando appare manifestamente infondata per difetto di legittimazione ovvero costituisce mera riproposizione di una richiesta già rigettata, poiché avanzata sulla base dei medesimi elementi. Quindi può essere dichiarata inammissibile la richiesta proveniente da qualsiasi parte, sia essa avanzata dal Pubblico ministero, sia essa avanzata dall'interessato, come accade, ad esempio, per la revoca o la modifica del provvedimento applicativo della misura (166).

Qualora la richiesta sia ritenuta ammissibile (167), il Presidente fissa la data della udienza dandone avviso alle parti ed ai difensori, mediante comunicazione al Pubblico ministero e notificazione alle parti almeno dieci giorni prima dell'udienza (artt. 666, comma 3, e 127, comma 1, c.p.p.). Controversa è la questione concernente la individuazione delle precise finalità dell'invito a comparire, di cui all'art. 4, comma 6, l. n. 1423/56, ed in particolare se abbia la mera funzione di vocatio in iudicium (chiamata in giudizio), ovvero costituisca uno strumento volto a contestare l'accusa all'interessato. La legge purtroppo tace in materia per cui è fondamentale riferirsi ad alcune sentenze di rigetto della Corte costituzionale, che hanno dichiarato non fondate le eccezioni sollevate nei confronti degli artt. 636 e 637 c.p.p. (1930) e 4 l. 1423/1956, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost (168). Tali sentenze hanno stabilito che l'interessato deve essere tempestivamente edotto sui fatti in merito ai quali è chiamato a rendere dichiarazioni, affinché, in ordine ad essi, sia posto in grado di svolgere le proprie difese; ne deriva, quindi, che l'invito a comparire non può limitarsi ad indicare la misura proposta, ma deve precisare puntualmente gli elementi su cui verterà il giudizio, proprio perché detto invito è mezzo di contestazione per l'accusa, attraverso il quale si esercita il diritto di difesa e si instaura il contraddittorio tra le parti. Grazie alla Corte costituzionale è oramai pacifico che l'avviso, oltre ai consueti elementi formali, deve enunciare i fatti da cui si desume la pericolosità del soggetto e la misura che viene proposta. In definitiva, l'avviso della udienza in camera di consiglio, ex art. 666, comma 3, c.p.p., assolve una duplice funzione: la prima, come il decreto di citazione nel giudizio penale, ha lo scopo di una vocatio in iudicium, la seconda, è strumento di contestazione, in quanto deve contenere, non soltanto l'indicazione della forma di pericolosità ascritta all'interessato, che giustifica la misura proposta, ma anche gli elementi di fatto da cui evincere la predetta pericolosità sociale. Un avviso che sia privo di tali caratteristiche è nullo, ma il vizio è sanabile se non viene dedotto nei termini.

Con l'apertura della udienza il Presidente compie l'accertamento della regolare costituzione delle parti e qualora il difensore del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione non sia presente, in applicazione analogica dell'art. 97 comma 4 c.p.p., gli designa come sostituto un altro difensore (169).

Circa la presentazione di memorie da parte dell'interessato, l'art. 4, comma 6, l. 1423/56 non contempla alcun termine, quindi non solo non risultano applicabili le disposizioni di cui agli artt. 127, comma 2, e 666, comma 3, c.p.p. (170), ma deve ritenersi che quella facoltà possa sempre essere esercitata, anche nel corso della stessa udienza (171).

Superate sono le questioni attorno all'applicabilità in materia dell'istituto della contumacia, qualora l'interessato non compaia all'udienza, e ciò perché in proposito sovvengono gli artt. 127 e 666 c.p.p., i quali entrambi prevedono l'audizione del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione qualora compaia e ne faccia richiesta; il legittimo impedimento di quest'ultimo a comparire comporta il rinvio dell'udienza ove egli abbia chiesto di essere sentito personalmente (artt. 127, comma 4, e 666, comma 4, c.p.p.). Ne consegue, quindi, che, qualora l'interessato non compaia senza allegare un legittimo impedimento, non deve esserne dichiarata la contumacia (172).

Problema interpretativo riguarda la perdurante vigenza dell'art. 4, comma 7, l. 1423/1956, il quale testualmente dispone che "ove l'interessato non intervenga ed occorre la sua presenza per essere interrogato, il Presidente del tribunale lo invita a comparire e, se egli non ottempera all'invito, può ordinare l'accompagnamento a mezzo della forza pubblica". La dottrina prevalente si è espressa, invece, nel senso di una abrogazione implicita del comma appena citato, a favore dell'art. 127, comma 3, c.p.p., in cui la presenza dell'interessato nel rito camerale è contemplata solo se costui compaia e ne faccia richiesta (173).

L'udienza si svolge con la partecipazione necessaria del difensore e del Pubblico ministero, così come stabilito dall'art. 666, comma 4, c.p.p. (174). Si tratta, quindi, di un contraddittorio necessario, che comporta la nullità dell'udienza in caso di assenza dei soggetti in questione (175).

Nel caso in cui sorga la necessità dello svolgimento di una istruttoria dibattimentale (176), nel rispetto delle regole del contraddittorio, si applicherà l'art. 185 disp. att. c.p.p., il quale stabilisce che nel procedimento di esecuzione, il giudice non è tenuto ad osservare particolari formalità, per quanto concerne la citazione e l'esame dei testimoni (177).

La presenza obbligatoria del Pubblico ministero e del difensore importa che essi debbano necessariamente formulare le loro conclusioni (178).

Il Tribunale provvede in camera di consiglio, con decreto motivato, entro trenta giorni dalla proposta. Il termine anzidetto ha carattere meramente ordinatorio, sicché la sua inosservanza non comporta alcuna nullità, mentre la motivazione mancante o viziata produce la nullità del decreto (art. 125, comma 3, c.p.p.). Anche nel procedimento di prevenzione deve sicuramente ritenersi applicabile il principio di immutabilità del giudice, previsto dall'art. 525, comma 2, c.p.p. (179)

Come già visto in precedenza, stabilito il carattere giurisdizionale del procedimento di prevenzione, il decreto emesso dal Tribunale ha gli stessi effetti della sentenza, fra i quali è da annoverare la definitività. Si tratta, infatti, di un provvedimento decisorio nel merito, che conclude una fase o grado di giudizio e nei cui confronti sono possibili le stesse impugnazioni previste per le sentenze (180). Inoltre, si è avuto modo di precisare che, stante la peculiarità dell'oggetto del giudizio, la definitività della sentenza in questione implica il suo passaggio in giudicato rebus sic stantibus (181). Ne discende che nei confronti della stessa persona non può essere irrogata un'altra misura di prevenzione per gli stessi fatti che avevano portato ad una precedente proposta e decisione. Ed è pure evidente, in base a quanto sopra esposto, che il passaggio in giudicato del provvedimento sana eventuali vizi del procedimento, i quali non possono più essere fatti valere, ad esempio, nel processo penale per violazione degli obblighi inerenti alla comminata misura di prevenzione.

La struttura del microsistema in esame e la particolare natura dei presupposti indicati dalla legge per far luogo alla applicazione di una misura di prevenzione rendono il problema della motivazione del decreto assai delicato e complesso. La motivazione dovrà contenere, quindi, la dimostrazione della sussistenza dei presupposti delle misura applicata. Nel caso delle misure patrimoniali, in specie la confisca, presupposti sono gli indizi di appartenenza ad associazione di tipo mafioso e quindi la pericolosità sociale del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione; la prova della disponibilità, diretta o indiretta, del bene; il valore sproporzionato dello stesso bene; ovvero, che lo stesso risulti essere frutto di attività illecite o ne costituisca il reimpiego. Tali elementi dovranno rispondere a criteri di correttezza, ossia di aderenza intrinseca alle risultanze processuali; di completezza, vale a dire di estensione a tutti gli elementi influenti per la formazione dei singoli giudizi; e di logicità, cioè la sua conformità ai canoni che presiedono allo svolgersi del ragionamento. La motivazione mancante ovvero viziata comporta la nullità del decreto, a norma dell'art. 125 comma 3 c.p.p., analogicamente operante nel procedimento di prevenzione.

6.3 Il rito camerale del processo di prevenzione di fronte alla CEDU

La Corte europea dei diritti dell'uomo recentemente si è pronunciata ben due volte sulla questione della compatibilità col principio del "giusto processo" del rito camerale nel processo di prevenzione (182). La Corte di Strasburgo ha affermato, infatti, che il rito camerale italiano per l'applicazione delle misure di prevenzione, previsto dall'art. 4 l. 1423/56, si pone in violazione dell'art. 6 §1 (183) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. In particolare, esso non prevede per i sottoposti alla procedura, la possibilità di ottenere una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei Tribunali e delle Corti di appello. Quindi la CEDU, a fronte di una procedura finalizzata alla confisca di beni e capitali, afferma che il "controllo pubblico" nell'udienza diventa una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell'uomo; in particolare attraverso tale trasparenza si realizzerebbe lo scopo stesso dell'art. 6: le procès équitable. Lo stesso art. 6 prescrive, inoltre, che le uniche eccezioni tali da escludere una udienza con la presenza delle stampa e del pubblico sono interessi reputati superiori: moralità, ordine pubblico, sicurezza nazionale, protezione dei soggetti minorenni o la privacy delle parti.

Il Governo italiano si è difeso appellandosi ad un orientamenti precedente dei giudici di Strasburgo, secondo cui il principio sancito dall'art. 6 viene meno di fronte a procedimenti che riguardano questioni di diritto e non di fatto, ovvero, controversie altamente tecniche. In particolare la difesa italiana si è appellata alla natura tecnica del procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali, che vede la base decisoria fondata su documenti, indagini finanziarie e bancarie, consulenze tecniche e contabili, le quali renderebbero inutile la presenza del pubblico, non potendosi effettuare su tale documentazione alcun controllo ex stantibus. A ciò la difesa ha aggiunto anche ragioni di riservatezza relative al possibile coinvolgimento di "terzi", quali formali intestatari di beni, oltre che, una maggior celerità del procedimento camerale.

Nonostante le ragionevoli e meritevoli motivazione apportate dal Governo italiano, i Giudici di Strasburgo hanno stabilito che, data la gravità degli effetti che queste misure possono spiegare sulla situazione patrimoniale ma anche personale dell'interessato, deve ritenersi "essenziale" che gli sia data la possibilità di richiedere un'udienza pubblica tanto in primo grado, quanto in grado d'appello. Quindi, per la sua armonia con la Convenzione, il rito non deve essere necessariamente pubblico, ma, quantomeno deve essere data la possibilità di divenire pubblico a richiesta dell'interessato, titolare del relativo diritto potestativo.

Visto quanto disposto dalla CEDU, gli interpreti si sono interrogati sui possibili scenari che tale pronuncia può comportare nel sistema italiano (184). La risposta si trova nelle sentenze della Corte costituzionale n. 348 e 349 del 2007. Tali pronunce hanno attribuito centralità allo strumento dell'art. 117, comma 1, Cost (185)., il quale crea un meccanismo di interposizione che attribuisce competenza alla Corte costituzionale sulle questione che riguardano il contrasto tra norma interna e norma CEDU. La Consulta, infatti, da un lato rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, ma, dall'altro lato attrae le stesse nella sua sfera di competenza, poiché gli eventuali contrasti con le norme interne fanno sorgere questioni di legittimità. Tutto ciò comporta che il giudice comune non ha il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, ma può sollevare una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell'art. 117, primo comma, Cost.

Si è specificato, inoltre, che il meccanismo cui all'art. 117 Cost. diventa operativo solo se vengono determinati quali siano gli obblighi internazionali che vincolano Stato e Regioni e che assumono quindi la funzione di "fonte interposta", in quanto di grado intermedio tra la Costituzione, cui sono subordinati, e la legge ordinaria. Tali obblighi di adeguamento, secondo la Corte, non sarebbero le norme astratte previste dalla Convenzione ma le norme così come interpretate dalla CEDU. Tale principio non comporta, però, che le norme interpretate dalla Corte di Strasburgo acquistino forza delle norme costituzionali e perciò immunità rispetto al controllo di costituzionalità. Al contrario, proprio in quanto destinate ad integrare il parametro costituzionale, esse si collocano sempre ad un livello sub-costituzionale, con la necessità che esse siano conformi ai principi della nostra Carta costituzionale.

In conclusione il giudice nazionale alla luce delle sentenze di Strasburgo appena viste potrebbe dubitare della legittimità dell'art. 4 l. 1423/56 e sollevare una proposta di scrutinio di fronte ai giudici della Consulta per violazione dell'art. 117, comma 1, Cost. Il giudice interno potrebbe, infatti, far valere il fatto che la mancata possibilità per il soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione di richiedere una udienza pubblica per l'applicazione di una misura personale/patrimoniale di prevenzione costituisca una violazione dell'art 6 §1, della CEDU, così come interpretato dalla CEDU nelle sue pronunce. La Corte Costituzionale valuterà la fondatezza di tale questione alla luce del ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali ex art. 117 Cost. e la tutela degli altri interessi costituzionalmente protetti, poiché, come abbiamo visto in precedenza, le norme convenzionali interpretate dai giudici di Strasburgo rimangono pur sempre di rango sub-costituzionale.

6.4 I procedimenti atipici

I casi di procedimenti atipici previsti dalla legge sono due. Il primo riguarda la persona assente, residente o dimorante all'estero, ovvero sottoposta ad una misura detentiva od alla libertà vigilata; il secondo è quello per l'applicazione delle misure ex art 3 quater e3 quinquies che riguarda i soggetti coinvolti in attività economiche agevolatrici degli interessi mafiosi (186).

Il primo procedimento atipico è quello previsto dall'art. 2 ter, comma 7 e 8 l. 575 / 65 il quale consente di iniziare o proseguire il procedimento di prevenzione, su proposta del Procuratore della repubblica, del Direttore della DIA o del Questore competente per il luogo di ultima dimora dell'interessato, "ai soli fini dell'applicazione dei provvedimenti di cui al presente articolo relativamente ai beni che si ha motivo di ritenere che siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego". Anche un procedimento cominciato nella forma tipica può proseguire con la forma atipica se l'assenza, la residenza o la dimora all'estero, ovvero la sottoposizione ad una misura di sicurezza detentiva o alla libertà vigilata intervengono in corso di causa. In questi casi il procedimento prosegue nella forma atipica ai soli fini dell'adozione dei provvedimenti di sequestro e confisca di prevenzione. Si consente, quindi, un procedimento mirato esclusivamente al sequestro ed alla confisca dei beni dell'interessato senza il previo accertamento della pericolosità sociale di quest'ultimo. Parte della dottrina (187), facendo leva anche su alcune pronunce giurisprudenziali (188), ha fortemente criticato questa forma di actio in rem. Secondo tale orientamento, infatti, i beni non potrebbero avere una pericolosità intrinseca svincolata completamente da quella del soggetto a cui appartengono, senza contare che tale procedimento urterebbe con diversi principi costituzionali come quello della personalità della responsabilità penale, di non colpevolezza e del diritto di difesa.

Il procedimento atipico de quo, pur avendo un ambito di applicazione limitato ai provvedimenti di sequestro e confisca di prevenzione, si svolge con le stesse forme di quello tipico, ad esclusione, ovviamente, di tutte quelle attività connesse alla partecipazione dell'interessato allorché questi non sia presente all'udienza (si pensi ad esempio all'interrogatorio). Ovviamente il soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione dovrà prima essere messo nelle condizioni di poter partecipare all'udienza camerale per cui saranno applicabili le norme riguardanti le notificazioni all'imputato ex artt. 157, 159 e 169 c.p.p.

Altro procedimento atipico è quello nei confronti di persone, per definizione non pericolose, previsto dagli artt. 3 quater e3 quinquies l. 575/65. Tali disposizioni, come abbiamo già visto, consentono: la sospensione temporanea dell'amministrazione dei beni e delle imprese che si possa ritenere agevolino l'attività delle persone nei cui confronti è stata proposta o applicata una delle misure di prevenzione ex art. 2 l. 575/65 ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti previsti dagli artt. 416 bis, 629, 630, 644, 648 bis e 648 ter c.p.; l'eventuale sequestro "precauzionale" e la conseguente confisca dei beni che si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego.

L'art 3 quater non disciplina il procedimento né nella fase della richiesta di "ulteriori indagini e verifiche" e dell'imposizione dell'obbligo di giustificare la legittima provenienza dei beni (comma 1); né in quella della decisione di disporre la sospensione temporanea dell'amministrazione dei beni (comma 2). Per questo motivo sembrerebbe trattarsi di una procedura camerale in cui il Tribunale decide sulle richieste del Procuratore, del Direttore della DIA, del Questore inaudita altera parte, cioè con esclusione dell'intervento dei terzi interessati (189). Tale procedura solleverebbe dubbi di legittimità, in quanto contrasterebbe con l'art. 111, comma 2, Cost., che prescrive in ogni processo, per cui anche in quello di prevenzione, il contraddittorio tra le parti (190).

La decisione sul sequestro precauzionale è invece adottata osservando, in quanto applicabili, le disposizioni degli artt. 2 ter, commi 5, 7 e 8; 2 quater; 2 quinquies; 2 sexies; 2 septies e 2 octies. Quindi, se risulta che i beni sequestrati appartengono a terzi, questi sono chiamati dal Tribunale, con decreto motivato, ad intervenire nel procedimento e possono, anche con l'assistenza di un difensore, nel termine stabilito dal Tribunale, svolgere in camera di consiglio le loro deduzioni e chiedere l'acquisizione di ogni elemento utile ai fini della decisione.

L'art. 3 quinquies non disciplina il procedimento per la decisione sulla revoca della sospensione temporanea o sulla confisca dei beni che si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. In particolare, nulla si prevede quanto all'intervento del Pubblico ministero, degli interessati e del loro difensore. L'interpretazione più conforme al dettato costituzionale sarebbe quella che alla camera di consiglio, disposta dal Tribunale di prevenzione per adottare le misure appena viste, partecipino il Pubblico ministero e l'interessato e/o il suo difensore. Per quanto riguarda poi la tutela dei terzi nella confisca ex art. 3 quinquies non è prevista dalla legge la citazione dei soggetti non prevenuti coinvolti nella sospensione dell'amministrazione dei beni e nella eventuale successiva confisca. Comunque sia la rarissima giurisprudenza di merito non vieta ai terzi di intervenire nel procedimento di prevenzione per far valere le proprie ragioni (191).

7 La confisca dopo la riforma del 2008

La confisca di prevenzione prevista dall'art. 2 ter, comma 3, ha subito un importante riforma con il D.L. 92/2008, convertito dalla l. 125/2008 (192).

Prima della riforma, infatti, l'art. 2 ter, comma 3, l. 575/65, prevedeva "la confisca dei beni sequestrati dei quali non sia stata dimostrata la legittima provenienza" e, al comma 4, la revoca del sequestro quando fosse dimostrata la legittima provenienza dei beni. Nella versione riformata l'art. 2 ter prevede, invece, che "con l'applicazione della misura di prevenzione il Tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati di cui la persona nei cui confronti è instaurato il procedimento non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego".

Secondo la relazione al disegno di legge n. 733, l'intervento sarebbe stato finalizzato ad armonizzare l'oggetto della misura di prevenzione con quello della misura di sicurezza patrimoniale dell'art. 12 sexies del D.L. n. 306/'92 (la cosiddetta "confisca allargata"). Dalla lettura della relazione in esame sembrerebbe che sino ad ora l'oggetto della confisca preventiva fosse stato diverso da quello della misura di sicurezza, e la riforma consentisse di armonizzare le due fattispecie. In realtà, invece, parrebbe che con la nuova formulazione il legislatore miri a ribadire in maniera più chiara i presupposti della confisca misura di prevenzione, che nella precedente versione venivano dedotti da quelli richiesti ai fini del sequestro: a) titolarità o disponibilità, anche per interposta persona, dei beni; b) valore sproporzionato dei beni stessi rispetto al reddito o all'attività economica svolta, ovvero, il fatto che gli stessi beni "risultino essere frutto di attività illecite o di reimpiego"; c) l'impossibilità da parte della persona, nei cui confronti è instaurato il procedimento, di giustificarne la legittima provenienza.

Rispetto alla precedente formulazione, quindi, si possono registrare due fondamentali novità. In primis, la norma chiarisce che l'onere della giustificazione della provenienza lecita spetta alla "persona nei cui confronti è instaurato il procedimento", mentre questo aspetto, nella disciplina previgente, non era previsto in maniera chiara, poiché la norma prevedeva "la confisca dei beni sequestrati dei quali non fosse stata dimostrata la legittima provenienza". In secondo luogo, l'art. 2 ter non richiede più, come nella precedente formulazione, sufficienti indizi di origine illecita, che sono solo richiesti ai fini del sequestro, ma si prevede che i beni risultino di origine illecita. L'espressione "risultino" sembra quindi indicare che deve essere accertata l'origine illecita, richiedendo per lo meno la prova indiziaria ex art. 192 c.p.p. (indizi gravi, precisi, concordanti). Questo non significa che deve essere fornita la prova del nesso causale tra uno specifico bene e un determinato reato e, quindi, la prova dei crimini dai quali derivino i profitti, ma soltanto che l'accusa faccia emergere una serie di circostanze concrete, tali da fondare una prova indiziaria, da cui emerga l'origine illecita e la mancanza di una giustificazione alternativa. Sostanzialmente non cambierà molto nella prassi perché la richiesta della prova di origine illecita è alternativa alla richiesta della prova della sproporzione, considerata sufficiente per procedere alla confisca. Comunque, anche prima della riforma, una parte della giurisprudenza, in base ad un indirizzo interpretativo più garantista, parlava "dell'obbligo da parte del giudice di individuare il nesso di causalità tra attività mafiosa (o assimilata) e illeciti profitti" (193).

Inoltre, si deve evidenziare che al comma 7 (194), la norma continua a parlare della confisca dei "beni che si ha motivo di ritenere che siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego"; probabilmente, secondo la dottrina, si tratta di una mera dimenticanza e di un mancato coordinamento. Non sembra ragionevole, d'altronde, ritenere che abbia voluto prevedere uno standard della prova inferiore in relazione alla confisca dei beni di soggetti assenti, residenti o dimoranti all'estero (anzi in quest'ipotesi la diminuita capacità di difesa dovrebbe essere compensata da un più rigoroso standard probatorio), tanto è vero che in quest'ipotesi non si ritiene sufficiente la prova della sproporzione (195).

Per quanto riguarda l'onere della giustificazione della provenienza lecita dei beni, invece, si deve evidenziare che antecedentemente alla riforma dottrina e giurisprudenza si chiedevano se l'art. 2 ter imponesse l'inversione dell'onere della prova a carico del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione laddove prevedeva "la confisca dei beni sequestrati dei quali non sia stata dimostrata la legittima provenienza". La norma riformata chiarisce che spetta al soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione la giustificazione dell'origine lecita, come del resto la prassi riteneva anche prima della riforma, e continua a ribadire che l'accusa debba accertare la titolarità o disponibilità, la sproporzione ovvero l'origine illecita. Sembrerebbe, allora, che la norma in esame non preveda tout court l'inversione dell'onere della prova, ma pone a carico della difesa l'onere di giustificazione della origine lecita solo se l'accusa adempia al suo onere di accertare il valore sproporzionato dei beni ovvero se dimostri che quest'ultimi siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Sembra opportuno a tal proposito ricordare il dibattito precedente la riforma sul profilo in esame. Parte della dottrina riteneva che l'art. 2 ter prevedesse un'inversione dell'onere della prova nella prospettiva di evitare attività investigative eccessivamente onerose, al fine di consentire il sequestro e la confisca dei beni di sospetta origine (196). Tale interpretazione è stata espressamente riconosciuta da un orientamento minoritario della giurisprudenza della Suprema Corte, che ha affermato che la disciplina in esame si fonda sull'inversione dell'onere della prova e che tale anomalia del sistema trova la sua giustificazione nella colorazione che l'accertamento di pericolosità conferisce a tutte le attività, anche economiche del soggetto stesso (197). La Suprema Corte finiva per disconoscere la valenza, in relazione ai soggetti in esame, del diritto al silenzio (espressione del diritto alla difesa e della presunzione d'innocenza) e del conseguente divieto di trarre conseguenze negative a carico dell'imputato da tale comportamento; si è affermato, infatti, che l'impossibilità colpevole o "più ancora il rifiuto volontario" di allegazione sui punti pertinenti alle indagini circa l'illecita provenienza dei beni "assume a sua volta valore indiziario a carico del medesimo eventualmente confermativo del complessivo quadro già emerso" (198).

In base all'orientamento prevalente della Suprema Corte, però, l'art. 2 ter l. 575/65 non prevedeva una mera inversione dell'onere della prova, ma un onere di allegazione in capo al soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione, poiché le prove circa la provenienza dei beni dovevano essere acquisite con un normale procedimento probatorio ad opera dell'accusa (199). A sostegno di tale interpretazione, si osserva che l'art. 2 ter prevede, non a caso, che "nel caso di indagini complesse il provvedimento può essere emanato anche successivamente, entro un anno dalla data dell'avvenuto sequestro; tale termine può essere prorogato di un anno con provvedimento motivato del tribunale". Questa norma sembra indicare, infatti, che il giudice, prima di emanare il provvedimento di confisca, debba compiere un attività di ricerca e quando non la ritenga sufficiente può continuare le sue indagini, ma non oltre un anno dopo il sequestro.

In tale prospettiva è importante, allora, sottolineare che la riforma richiedendo "sufficienti indizi" solo ai fini del sequestro e la prova dell'origine illecita ai fini della confisca (salva l'ipotesi in cui si accerti solo il valore sproporzionato), sembra confermare quell'orientamento più garantistico della Cassazione che, già prima della riforma, riteneva che il giudice della prevenzione, in sede di confisca, non possa più accontentarsi di semplici indizi, come nel sequestro, ma abbia l'obbligo di dimostrare, per l'appunto, con argomenti esaustivi, l'illecita provenienza dei beni. (200) Così argomentando, si comprende come nessuna lesione della presunzione di colpevolezza, se non in maniera del tutto apparente, attui l'articolo 2 ter, comma 4, della legge numero 575 del 1965, nella parte in cui sembra attribuire al soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione l'onere di dimostrare la legittima provenienza dei beni. Sempre in tale direzione, una recentissima sentenza della Suprema Corte ha precisato che "sia in ordine all'appartenenza del bene al soggetto sottoposto a misura di prevenzione, sia in ordine alla provenienza illecita di detto bene, è richiesto un livello di dimostrazione diverso a seconda che si debba adottare il provvedimento di sequestro ovvero quello definitivo della confisca: nel primo caso, è necessaria e sufficiente una valutazione di "ragionevole probabilità", mentre ai fini della confisca la relativa dimostrazione (quand'anche effettuata facendo ricorso alla prova presuntiva) deve caratterizzarsi per la presenza dei requisiti della gravità, precisione e concordanza" (201). Si distingue, quindi, lo standard probatorio che è necessario adempiere ai fini del sequestro e ai fini della confisca, ma soprattutto tale giurisprudenza richiede, già prima della riforma, una vera e propria prova indiziaria ai fini della confisca con onere della prova in capo all'accusa.

Prima della riforma tale giurisprudenza così garantista da richiedere la prova indiziaria dell'origine illecita non era, però, pacifica (202); dopo la riforma tale orientamento garantista dovrebbe prevalere in quanto supportato dal testo normativo, anche se la norma continua ad accontentarsi della prova della sproporzione.

In seguito alla riforma, gli indizi, che sono prove indirette, debbono fare apparire, nel rispetto del principio del libero convincimento del giudice e, quindi, del principio in dubio pro reo (e della presunzione d'innocenza come regola di giudizio), in base ad un ragionamento conforme alle regole del pensiero e dell'esperienza, come certa o altamente probabile l'origine illecita dei beni da confiscare.

Si ricorda, infine, che prima della riforma in qualche rara sentenza la Suprema Corte richiedeva l'accertamento sia della sproporzione sia dei sufficienti indizi di origine illecita, osservando che la novella del '93, n. 256 (203), avrebbe avuto un'incidenza contenutistica meno marcata di quella suggerita ad una prima lettura (204). In base a tale orientamento, il possesso di res di valore sproporzionato è solo un primo importante, ma non sufficiente, indizio, da inserire in un più ampio quadro indiziario circa l'origine illecita del patrimonio del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione. La riforma, però, come già sottolineato continua a richiedere la prova della sproporzione o la prova dell'origine illecita alternativamente; la norma usa, infatti, l'espressione "nonché dei beni che risultino", indicando chiaramente che si tratta di un'ipotesi alternativa (205).

7.1 La confisca (e il sequestro) per equivalente

Un'altra novità introdotta con il decreto del 2008, consiste nella possibilità di procedere alla confisca per equivalente qualora "la persona nei cui confronti è proposta la misura di prevenzione disperde, distrae, occulta o svaluta i beni al fine di eludere l'esecuzione dei provvedimenti di sequestro o di confisca su di essi" (art. 2 ter, comma 10) (206). La ratio di questa disposizione sembra essere quella di prevenire i comportamenti del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione volti ad impedire od ostacolare la misura ablatoria attraverso la minaccia della confisca di altri beni di valore equivalente, o, comunque, quella di garantire che in ogni caso si realizzi la confisca di cespiti patrimoniali in misura equivalente al patrimonio di origine illecita. Si richiede una sorta di dolo specifico e cioè che i comportamenti del soggetto volti a distruggere, occultare o svalutare i beni siano realizzati allo specifico fine di sottrarre i beni al sequestro e alla confisca (207).

Si ammette la confisca per equivalente anche di beni distrutti prima del sequestro senza stabilire un limite temporale e, quindi, sarebbe teoricamente possibile procedere alla confisca per equivalente di beni distrutti o svalutati anche in epoca remota. Sembra più ragionevole pensare che in realtà l'accusa possa fare riferimento solo a beni dispersi, distrutti od occultati, in prossimità del sequestro perché si deve dimostrare che i comportamenti del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione erano finalizzati a sottrarre i beni al sequestro. Inoltre, poiché occorre dimostrare che tali beni abbiano valore sproporzionato o siano di origine illecita ai fini della confisca, sarebbe impossibile per l'accusa dimostrare ciò rispetto a beni non più presenti nel patrimonio del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione e distrutti in epoca troppo risalente. Tale interpretazione sembra senz'altro quella più conforme ai principi di ragionevolezza e proporzione, se così non fosse, si rischierebbe di trasformare tale forma di confisca in una misura patrimoniale antimafia dagli esiti incontrollabili.

Quindi la confisca del valore equivalente, quale strumento che consente di superare le manovre fraudolente del proprietario volte a sottrarre specifici beni alla confisca, può assumere un significato solo laddove si accoglie l'orientamento in base al quale la confisca ex art. 2 ter può colpire solo singoli beni (oramai non più presenti nel patrimonio) rispetto ai quali sia stato accertato dall'accusa il carattere sproporzionato o l'origine illecita (208). In base a questa interpretazione la confisca per equivalente può, allora, intervenire laddove non sia più possibile confiscare (perché distrutto, disperso, occultato o svalutato) lo specifico bene o cespite patrimoniale il cui acquisto è risultato sproporzionato o che comunque "risulti" di origine illecita, consentendo di sequestrare e confiscare altri beni di valore equivalente. Chiaramente l'applicazione della confisca per equivalente presuppone che sussistano nel patrimonio del soggetto sia beni di valore sproporzionato (al momento dell'acquisto) o di origine illecita, sia altri beni di valore proporzionato o di origine lecita, perché in caso contrario tutti i beni potranno essere sottoposti alla confisca ex art. 2 ter.

L'art. 2 ter, comma 10, prevede, inoltre, anche la confisca per equivalente "quando i beni non possano essere confiscati in quanto trasferiti legittimamente, prima dell'esecuzione del sequestro, a terzi in buona fede". Garantire la confisca per equivalente in quest'ipotesi esprime chiaramente la precisa volontà di sottrarre i beni non per la loro pericolosità connessa alla persona pericolosa, ma al fine di impedire l'illecito arricchimento dell'organizzazione criminale attraverso l'alienazione dei beni stessi e, quindi, l'infiltrazione criminale nell'economia; senza dimenticare, tra l'altro, la volontà di frustrare qualunque manovra fraudolenta volta a sottrarre il patrimonio illecito.

Si rileva, però, che tale disposizione allarga la confisca per equivalente a qualunque bene, oggetto di transazione da parte del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione prima dell'esecuzione del sequestro senza alcuna delimitazione temporale. Infatti, con questa novità il soggetto in questione rischia di diventare debitore di un valore economico pari al valore di tutti i beni trasferiti nella sua vita, senza alcuna delimitazione. Tutto ciò purché l'accusa, stante una possibile interpretazione conforme ai principi di proporzione e alla presunzione d'innocenza, accerti il carattere sproporzionato o illecito di ogni singolo bene oggetto di trasferimento a terzi. Tale ipotesi, nella prassi, si dovrebbe delimitare solo in relazione a trasferimenti compiuti nel periodo oggetto di indagine o conclusi poco prima del sequestro per sottrarre i beni alla confisca, perché difficilmente l'accusa potrà accertare il carattere sproporzionato o illecito rispetto a beni che non si trovano più nel patrimonio del soggetto e che siano stati trasferiti in epoca ormai remota (209).

Solo l'applicazione e le pronunce giurisprudenziali potranno sciogliere tali dubbi interpretativi; certo è che si potrebbe provare anche ad ipotizzare una soluzione che preveda di estendere tale confisca a tutti i trasferimenti compiuti dal momento in cui sussistono indizi della partecipazione del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione all'associazione mafiosa, ovvero dall'inizio dell'attività criminale in base alla presunzione che da quel momento tutto il suo patrimonio sia di origine illecita.

7.2 La confisca dei beni trasferiti a terzi fittiziamente

La confisca per equivalente, appena vista, deve essere coordinata con gli ultimi due commi dell'art. 2 ter, che prevedono che il giudice, con il provvedimento che dispone la confisca, può dichiarare la nullità degli atti di disposizione quando accerta che taluni beni siano stati fittiziamente intestati o trasferiti a terzi (210). Quindi, laddove il giudice riesce a provare il carattere fittizio del trasferimento, cioè la simulazione, può dichiarare nullo l'atto e confiscare direttamente i beni che il soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione aveva tentato di sottrarre con l'atto di disposizione. Pertanto la confisca per equivalente, prima esaminata, dovrebbe intervenire solo nelle ipotesi in cui il giudice non riesca ad accertare il carattere fittizio del trasferimento oppure quando realmente il soggetto abbia ceduto i beni a terzi in buona fede.

La norma, richiedendo che il bene sia stato trasferito legittimamente a terzi in buona fede sembrerebbe, inoltre, subordinare la legittimità del trasferimento non solo al carattere non simulato, ma anche all'accertamento della buona fede del terzo. Ne deriva che se il terzo avente causa non è in buona fede, anche se il trasferimento non è fittizio, dovrebbe essere possibile confiscare il bene acquistato dal terzo (211).

Occorre stabilire a questo punto cosa si intende per buona fede. La giurisprudenza ha sviluppato il criterio della buona fede ma come presupposto per garantire il riconoscimento dei diritti reali di garanzia, che il terzo vuole fare valere sui beni confiscati. Si parla di "buona fede e di affidamento incolpevole" (212), per cui si ha un comportamento in buona fede a seguito di una mancanza di collegamento del proprio diritto con l'altrui condotta criminosa o con l'attività illecita del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione (213), mentre l'affidamento si dice incolpevole, se si verifica nell'ipotesi in cui un simile nesso sia invece configurabile e qualora derivi da una situazione di apparenza che rendeva scusabile l'ignoranza o il difetto di diligenza (214). Ai fini della valutazione della buona fede, insomma, si attribuisce rilievo anche ad atteggiamenti colposi del terzo, imponendo ai cittadini una sorta di obbligo generale di diligenza nello svolgimento degli affari, in linea con la previsione nell'ordinamento penale italiano della fattispecie dell'incauto acquisto. Inoltre, in relazione ai terzi creditori, la giurisprudenza, appena vista, ritiene che spetta al terzo l'onere di provare la sua buona fede e il suo affidamento incolpevole, nonché la mancanza di qualsiasi collegamento del proprio diritto con l'attività illecita del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione. Tale giurisprudenza modifica il generale principio civilistico per cui la buona fede è presunta (art. 1147 c.c.) e inverte l'onere della prova della buona fede a carico del terzo.

L'art. 2 ter riformato, invece, sembra imporre al giudice la verifica della buona fede degli aventi causa, tranne in alcune ipotesi in cui si presume il carattere fittizio dei trasferimenti. Si tratta dei casi sia di trasferimenti e intestazioni, anche a titolo oneroso, effettuate nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione nei confronti dell'ascendente, del discendente, del coniuge o della persona stabilmente convivente, nonché dei parenti entro il sesto grado e degli affini entro il quarto grado; sia dei trasferimenti e intestazioni, a titolo gratuito o fiduciario, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione. In conclusione in relazione ai trasferimenti a titolo gratuito (o fiduciario) compiuti nei due anni precedenti si dovrebbe dichiarare la nullità e quindi applicare direttamente la confisca nei confronti dei beni (e non la confisca per equivalente), e lo stesso anche se si tratta di trasferimenti a titolo oneroso nei confronti dei parenti indicati nella norma.

Con tali presunzioni si introduce un'inversione dell'onere della prova a carico del terzo, in deroga alla previsione dello stesso art. 2 ter che stabilisce che spetta all'accusa la prova della disponibilità dei beni in capo al soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione. Nel caso di beni formalmente intestati a terzi, la Suprema Corte, prima della novella del 2008, ha sempre precisato che spetta all'accusa l'onere di dimostrare "che i beni, formalmente intestati a terzi, siano nella disponibilità dell'indiziato e derivino dalla sua illecita attività", "infatti, non va dimenticato che la presunzione di illecita accumulazione patrimoniale riguarda solo il soggetto ritenuto socialmente pericoloso" (215). La giurisprudenza, però, riteneva che mentre in relazione al terzo estraneo l'indagine sulla disponibilità del bene doveva "essere rigorosa, non essendo consentito il ricorso a presunzioni come per il giudizio di pericolosità" (216), sussisteva una presunzione semplice di disponibilità del bene da parte del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione se il terzo fosse il coniuge, il figlio od il convivente nell'ultimo quinquennio (in virtù del disposto dell'art. 2 bis che consente le indagini nei loro confronti). La dottrina riteneva, invece, che tale presunzione semplice sarebbe dovuta sussistere solo ai fini dell'indagine, ferma restando l'esigenza di un adeguato livello probatorio sul requisito della disponibilità in capo al soggetto sottoposto alle indagini di prevenzione ai fini del sequestro e della confisca (217). In tale direzione, infatti, la Suprema Corte aveva specificato che la presunzione in parola va letta connessa all'accertata assenza di disponibilità economiche proprie dei terzi intestatari, sintomatica della fittizietà dell'intestazione, e quindi quale lecito criterio interpretativo della situazione di fatto, non comportante illegittime inversioni di onere della prova a carico dei terzi (218).

Il legislatore della riforma, senza indugi, ha invece introdotto delle vere presunzioni, con inversione dell'onere della prova, estendendole ai parenti sino al sesto grado e affini sino al quarto per gli atti a titolo oneroso e nei confronti di tutti per gli atti a titolo gratuito (o fiduciario), perseguendo il preciso disegno di semplificare gli accertamenti e di fare "terra bruciata" attorno ai mafiosi, pur prevedendo un limite temporale di due anni.

In entrambe le ipotesi sarà possibile che i terzi, compresi i parenti, che abbiano realmente acquistato i beni (sia a titolo gratuito sia a titolo oneroso), possano confutare la presunzione e dimostrare che i trasferimenti non sono fittizi. Nel caso in cui l'accusa non riesca a dimostrare la malafede dei terzi, sarà eventualmente possibile procedere nei confronti di altri beni di valore equivalente rispetto a quelli trasferiti, purché si tratti di beni di valore sproporzionato o di origine illecita (e sempre che vi siano altri beni nel patrimonio del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione oltre a quelli di cui si accerta direttamente il carattere sproporzionato o l'origine illecita) (219). Le presunzioni circa il carattere fittizio confermano, in ogni caso, che, al di fuori di queste ipotesi, la legittimità del trasferimento al terzo in buona fede dovrebbe essere accertata dal giudice della prevenzione.

Tale disciplina potrebbe apparire come l'introduzione di una novità e di uno strumento importante che semplifica a monte le procedure di applicazione della confisca, evitando lunghi procedimenti in sede esecutiva volti ad accertare il carattere fittizio del trasferimento. Gli interpreti (220) hanno però sottolineato che in realtà già nella disciplina precedente la riforma si consentiva, da una parte, al giudice di accertare indirettamente il carattere fittizio degli atti di trasferimento dovendo stabilire quali fossero i beni di cui il soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione disponesse effettivamente e, dall'altra, si consentiva al terzo avente causa di partecipare al giudizio, con la conseguenza che il provvedimento di confisca che, sottraendo un bene, sanciva il carattere simulato del trasferimento, faceva già stato tra le parti.

Tale disciplina, imponendo al giudice di verificare il carattere legittimo del trasferimento al terzo in buona fede (per stabilire l'eventuale confisca di valore o la diretta ablazione dei beni presso il terzo), nonché di decidere circa il carattere fittizio dei trasferimenti (con l'applicazione anche delle presunzioni), ha perseguito l'obiettivo di fornire al giudice strumenti adeguati per risolvere le controversie con i terzi e snellire quel contenzioso che spesso rallenta o talora impedisce la stessa destinazione di beni definitivamente confiscati, come emerge dalla Relazione della Commissione Antimafia della passata legislatura (221). Tale disposizione, inoltre, persegue l'intento di trasferire nel procedimento di prevenzione le decisioni circa i diritti dei terzi evitando, invece, di rimandare tali questioni alla fase esecutiva, rallentando quindi il procedimento di destinazione del bene confiscato. Si risponde così alla necessità, sottolineata nella Relazione della Commissione Antimafia, "di imprimere una svolta risolutiva a procedimenti troppo lunghi, che vanificano le previsioni normative in materia di destinazione dei beni sottratti alle organizzazioni criminali" e sollecita "la ricerca di soluzioni tecniche tese a concentrare nel procedimento di prevenzione la risoluzione di ogni questione che concerna il bene oggetto del procedimento di prevenzione, nel rispetto delle garanzie previste dalla legge e nell'equo contemperamento degli interessi in gioco, in maniera da garantire che il bene giunga alla definitiva confisca libero da vincoli e da gravami e dunque sia celermente destinabile".

Un'ultima disposizione è stata inserita nella riforma del 2008, al penultimo comma dell'art. 2 ter, per garantire l'efficacia della confisca. Si prevede che "quando risulti che beni confiscati con provvedimento definitivo dopo l'assegnazione o la destinazione siano rientrati, anche per interposta persona, nella disponibilità o sotto il controllo del soggetto sottoposto al provvedimento di confisca, si può disporre la revoca dell'assegnazione o della destinazione da parte dello stesso organo che ha disposto il relativo provvedimento". Il legislatore ha risposto concretamente ad una prassi che dimostra, purtroppo, come le organizzazioni criminali continuano anche nella fase della destinazione dei beni ad infiltrarsi per cercare di riottenere i beni confiscati, chiaramente attraverso interposte persone, società o cooperative di comodo; la disposizione in esame prevede che nel caso limite in cui si accerti che il bene confiscato sia rientrato nella disponibilità di colui cui era stato sottratto, il provvedimento di assegnazione può essere revocato.

7.3 La confisca ex art. 3 quinquies

La confisca prevista dall'art. 3 quinquies, l. 575/65, è ricollegata alla misura cautelare della sospensione temporanea dell'amministrazione dei beni (art. 3 quater), in precedenza analizzata. La Corte di Cassazione ha specificato che "con le nuove misure di prevenzione patrimoniali antimafia della sospensione temporanea dall'amministrazione dei beni e dell'eventuale confisca che ne può conseguire, il legislatore ha previsto un complesso procedimento che, caratterizzato dalla radicale e peculiare rottura del nesso di presupposizione fra pericolosità qualificata della persona che dispone del bene e provvedimento ablatorio, risulta articolato in due fasi nettamente distinte per presupposti e finalità; la prima, di natura più propriamente cautelare, culmina nella sospensione temporanea dall'amministrazione dei beni allo scopo di impedire che determinate attività economiche e/o imprenditoriali, pure di per sé lecite, vengano esercitate in posizione di contiguità rispetto a persone proposte per la misura di prevenzione personale o sottoposte a procedimento penale per gravi delitti di criminalità organizzata, presentando così connotazioni agevolative e rafforzative della presenza sul territorio del fenomeno mafioso; la seconda fase si risolve, invece, nella confisca di quegli stessi beni a conclusione della prima, qualora emergano pregnanti ed univoci elementi indiziari idonei a far ritenere che essi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, di talché si appalesa al riguardo un'obiettiva commistione di interessi tra attività di impresa e attività mafiosa, pure riferita quest'ultima ad altre persone anche soltanto proposte per una misura di prevenzione personale" (222).

Il comma 2 dell'art. 3 quinquies prevede, infatti, che nel termine di quindici giorni antecedenti la scadenza della sospensione temporanea dell'amministrazione, il Tribunale possa disporre la confisca dei beni che si ha motivo di ritenere che siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Si tratta di una confisca atipica perché oltre a poter essere disposta anche senza previo sequestro, può inoltre colpire persone nei confronti delle quali non sussiste il requisito di pericolosità qualificata previsto dall'art. 1 l. 575/65.

Il legislatore, con le norme in questione, ha inteso creare una sorta di cordone di sicurezza attorno ai soggetti appartenenti ad organizzazioni criminali mafiose, così da essiccare alla radice le fonti di approvvigionamento (223). Si profila, quindi, quella strategia dell'actio in rem, in base alla quale vengono colpiti i patrimoni in qualche modo connessi alle attività criminali, indipendentemente dall'accertamento della responsabilità dei proprietari. In particolare, con la fattispecie in esame che prevede la confiscabilià, in pregiudizio di soggetti estranei all'organizzazione criminale, di beni che si ha motivo di ritenere essere provenienti da attività illecite, si è aderito a quella giurisprudenza che ha ravvisato nei beni aventi detta origine uno strumento di sviluppo dell'organizzazione mafiosa o di taluno dei suoi membri e, quindi, una intrinseca pericolosità che determina una sorta di pubblica utilità alla espropriazione di essi ed alla restituzione alla collettività di quanto è stato ad essa sottratto e mascherato in forma di attività lecita (224).

L'ambito di applicazione della sospensione temporanea e della confisca in esame è parzialmente diverso (225). Infatti, la confisca ex art. 3 quinquies può colpire solo i beni che si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, mentre, la sospensione temporanea si rivolge ad attività economiche il cui libero esercizio agevoli l'attività delle persone predette, non richiedendo, quindi, l'origine illecita di queste attività, ma è sufficiente che esse in qualche modo siano strumentali alle attività degli indiziati o degli imputati. La sospensione temporanea si estende, perciò, anche ai beni mezzo o comunque a qualunque attività che dalle predette persone sia destinata a tali scopi. In definitiva, ai fini della sospensione, rileva non l'origine illecita ma la destinazione illecita dei beni, mentre ai fini della confisca tale destinazione illecita non è sufficiente esigendo la legge che si abbia motivo di ritenere che tali beni siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego (226).

Tuttavia, nella prassi la distinzione tra le attività economiche sottoponibili alla confisca ed alla sospensione non è sempre certa. Secondo la giurisprudenza di merito, infatti, la confisca sarebbe applicabile ai beni che rappresentano il frutto di un illecito o il reimpiego di proventi illeciti, con la conseguenza che, qualora nell'attività economica originariamente lecita sia stata investito denaro illecito, si dovrebbe confiscare l'intera attività. Tale conclusione si adotta anche nell'ipotesi in cui, pur essendo originariamente leciti, i beni aziendali vengano poi utilizzati a scopi illeciti, inquinando così l'attività originariamente lecita (227).

La dottrina (228) ha rilevato che in questo modo si finisce per non colpire più dei beni di origine illecita, ma piuttosto dei beni "macchiati" in quanto coinvolti in un'attività illecita; ciò in contrasto con la lettera della legge che parla di beni che siano frutto o reimpiego, e con quell'orientamento giurisprudenziale che richiede, per garantire il rispetto dell'art. 42 Cost., che il provvedimento ablativo non colpisca il bene nel suo complesso, ma sia limitato al valore del bene proporzionato al reimpiego in esso effettuato di profitti illeciti; o in contrasto a quella giurisprudenza che chiede l'accertamento dell'origine illecita con riferimento a ciascun bene. In questo modo quindi, si rischierebbe di dilatare a dismisura la sfera di operatività della confisca in esame nei confronti anche dell'impresa vittima, in quanto si ritiene possono essere considerati illeciti i proventi di un'attività, pur originariamente lecita, ma che tale commistione abbia subito anche solamente perché direttamente o indirettamente sottoposta a condizioni di intimidazione o, addirittura, di assoggettamento da parte di associazioni mafiose con i tipici metodi di tali sodalizi.

Di diverso orientamento è la Suprema corte, la quale ha invece osservato che l'obiettiva commistione di interessi tra attività mafiosa ed impresa mafiosa può certamente rappresentare una forma di manifestazione dell'origine illecita dei beni, ma per procedere alla confisca rimane pur sempre la necessità che emergano indizi idonei a far ritenere che quei beni siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego (229).

Infine la dottrina (230) ha rilevato che, il legislatore della riforma del 2008, più garantista in relazione all'accertamento dell'origine illecita ai fini della confisca ex art. 2 ter, che si applica a soggetti con pericolosità qualificata, non ha però mostrato tale sensibilità garantista nell'ipotesi della confisca ex art. 3 quinquies, la quale si applica a soggetti che non sono neanche indiziati, ma la cui attività "possa comunque agevolare l'attività" di persone indiziate ai fini dell'applicazione delle misure di prevenzione o imputate di taluni crimini connessi al crimine organizzato. In quest'ipotesi continua ad ammettersi "la confisca dei beni che si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego", ritenendo sufficiente qualcosa di meno di una prova indiziaria (si ha motivo di ritenere) ai fini della confisca, e l'inversione dell'onere della prova in capo al proprietario, su cui incombe un obbligo di giustificare la legittima provenienza dei propri beni di valore non proporzionato. Emerge, insomma, che il legislatore ha dimenticato di richiedere un maggior rigore probatorio (in conformità alla presunzione d'innocenza) in relazione ad una fattispecie che, come appena visto, ricorrendo ad una tecnica di tipizzazione ambientale troppo distante dalle soglie di effettiva responsabilità penale, rischia di equiparare in maniera irragionevole vittima e colluso, sottoponendoli allo stesso trattamento sulla base di un giudizio di "pericolosità reale" che si fonderebbe su un fascio di relazioni ambigue e difficilmente afferrabili, il tutto in aperto contrasto con il principio di legalità (231).

7.4 L'oggetto della confisca

Oggetto di sequestro e confisca può essere ogni tipologia di bene. La giurisprudenza annovera beni mobili, immobili, mobili registrati, crediti, quote di società, aziende, universalità di beni, diritti reali ed azioni (232).

Se pacifica è la confiscabilità di azioni o quote di società di capitali, controversa è la possibilità di sottoporre a misura ablatoria le quote di una società di persone. Tali quote, infatti, costituiscono il titolo della partecipazione diretta del socio all'esercizio dell'impresa, caratterizzata dall'intuitus personae, che si differenza dalla società di capitali, in cui la quota rappresenta, oltre che la misura della partecipazione al capitale sociale, anche un complesso di diritti ed obblighi compendiati nel documento cartolare. In dottrina è prevalente la tesi che ammette il sequestro di prevenzione sulle quote della società di persone, non già come diritti di credito, bensì come frazioni ideali del patrimonio alle quali corrispondono le somme di cui alla futura liquidazione (233).

In caso di società non può essere confiscato il patrimonio sociale ma le singole quote "inquinate" (234), stante l'autonomia della società rispetto ai soci; salve le ipotesi del cosiddetto "socio tiranno" ovvero di società di comodo in cui è possibile colpire direttamente l'intera struttura aziendale (235). In ogni caso, anche se non si è in presenza di una società apparente, se il libero esercizio delle attività imprenditoriali finisce per agevolare lo svolgimento delle attività illecite del mafioso, si potrà procedere alla sospensione temporanea degli organi di amministrazione, ex art. 3 quater l. 575/65.

Si ricorda, inoltre, che possono essere oggetto di confisca anche i beni in comunione, per la quota che fa capo alla persona ritenuta pericolosa.

Sulla possibilità che oggetto della confisca siano quei beni acquistati dal soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione quando ancora non sussistevano gli indizi di appartenenza ex art. 1 l. 575/65, la giurisprudenza appare divisa. Una parte di essa è propensa per la legittimità di tale misura anche prima dell'accertamento della pericolosità sociale del soggetto, purché tali beni abbiano valore sproporzionato rispetto alla capacità economica del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione ovvero siano di origine illecita o frutto di reimpiego (236). Altro orientamento, invece, è più propenso verso la necessaria correlazione temporale tra la pericolosità del soggetto e l'acquisto di detti beni (237).

Come già visto per il sequestro, nel caso in cui la confisca abbia ad oggetto beni nella disponibilità del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione in forza di un lecito titolo giustificativo, e che, successivamente abbiano subito addizioni, miglioramenti e trasformazioni grazie ad illeciti proventi, la misura ablatoria non può investire il bene nella sua interezza, ma solo limitatamente al valore del bene proporzionato all'ingiustificato aumento patrimoniale (238).

Infine, è esplicitamente prevista la possibilità di disporre il sequestro e la confisca dei beni sottoposti a sequestro in un procedimento penale, ma "i relativi effetti sono sospesi per tutta la durata dello stesso, e si estinguono ove venga disposta la confisca degli stessi in sede penale" (art. 2 ter comma 9, l. 575/65).

7.5 La natura della confisca

L'art. 2 ter dovrebbe attribuire alla confisca una mera funzione preventiva (239). Anche la dottrina ha inteso esaltare il momento preventivo, volto alla neutralizzazione della situazione di pericolosità insita nel permanere della ricchezza nelle mani di chi può continuare ad utilizzarla per produrre altra ricchezza attraverso la perpetuazione dell'attività delinquenziale (240). Per cui il fondamento giuridico ed il riferimento teorico del provvedimento di confisca, viene individuato nella pericolosità attribuibile al bene oggetto del provvedimento per i caratteri suoi propri e per la relazione esistente tra questo e le persone che ne dispongono.

Altra parte della dottrina, invece, più che la natura preventiva ne ravvede una funzione di "controllo reale di ambiti economici non legittimati", come d'altronde dimostra la tendenza legislativa e giurisprudenziale a spersonalizzare sempre di più le misure patrimoniali (241).

Altri autori evidenziano il carattere punitivo di tale forma di confisca, poiché, partendo dal presupposto che la confisca in esame è la conclusione di precedenti attività, e dato che la fattispecie consente di confiscare tali beni senza dover provare il nesso causale con un determinato reato in un regolare processo, se ne può dedurre che il suo scopo sia quello di sanzionare dei reati, dei quali non si riescono a fornire le prove, attraverso la sottrazione di beni di provenienza illecita sulla base di meri elementi indiziari, e, quindi, affidando alla confisca una funzione afflittiva che non le spetta (242).

Nella direzione appena vista la Corte Costituzionale ha riconosciuto che la confisca comporta conseguenze ablatorie definitive (art. 2 nonies, l. 575/65) e si distacca, perciò, dalla contingente premessa che giustifica tanto il sequestro quanto tutte le altre misure di prevenzione, valide al permanere della situazione di pericolosità del soggetto. La ratio della confisca comprende, ma eccede, quella delle misure di prevenzione, consistendo nel sottrarre definitivamente il bene al circuito economico di origine, per inserirlo in altro, esente da condizionamenti criminali che caratterizzano il primo (243). Anzi la Corte Costituzionale nelle varie pronunce riguardanti la confisca ravvisa che tale misura può presentarsi nelle leggi che la prevedono con varia natura giuridica, e quindi, con natura e funzione di pena, di misura di sicurezza, ovvero, di misura civile ed amministrativa. Quindi la Corte sottolinea una struttura polifunzionale di tale misura patrimoniale, che deve essere accertata, volta per volta, in base alla specifica disciplina (244).

La Corte di cassazione, a Sezioni unite, ha riconosciuto anch'essa il carattere polifunzionale della confisca nell'ordinamento italiano. La confisca antimafia ex art. 2 ter, viene ricondotta ad un tertium genus, costituito da una sanzione amministrativa equiparabile, quanto al contenuto ed agli effetti, alla misura di sicurezza prevista dall'art. 240, comma 2, c.p. Si è, inoltre, sottolineato il carattere punitivo, quando viene definita "sanzione patrimoniale", applicata come risposta all'acquisizione illecita di beni (245). La Suprema Corte, quindi, riconosce che non si può considerare misura di prevenzione ante delictum una misura considerata definitiva ed istantanea, applicata proprio sulla base di un'attuale consumazione di un delitto (appartenenza ad associazione mafiosa) e di precedenti delitti (l'origine illecita dei beni) poiché, una misura preventiva dovrebbe per sua natura essere provvisoria, cioè perdurare finché sussistono le condizioni di pericolosità, che l'hanno giustificata. Quindi si riconosce non solo la natura eclettica e polifunzionale della misura, che di volta in volta viene perseguita dal legislatore, ma si ritiene che essa risponda ad una logica prevalentemente sanzionatoria, configurandosi come uno strumento strategico di politica criminale, inteso a contrastare fenomeni sistematici di criminalità organizzata (246).

Le recenti riforme delle misure di prevenzione, poi, sganciando le misure patrimoniali dalle personali hanno confermato che la ratio di tali misure non è connessa alla attualità della pericolosità degli indiziati di associazione mafiosa e che la finalità della confisca antimafia non può essere ricondotta al classico modello delle misure ante delictum, ma va ricondotta, da una parte, in un'ottica macrocriminale, ad esigenze di prevenzione dell'infiltrazione criminale nell'economia, come espressamente affermato dalla Corte Costituzionale (1992/464), e della connessa alterazione dei normali meccanismi di un sistema economico di tipo tendenzialmente concorrenziale, e dall'altra, ad esigenze di incapacitazione economica della criminalità organizzata.

8 Il ricorso

L'art. 3 ter l. 575/65 disciplina le impugnazione, definite in tale materia "ricorsi", avverso i provvedimenti di prevenzione patrimoniale (247). Al comma 1 si stabilisce, infatti, che "i provvedimenti con i quali il Tribunale, a norma degli artt. 2 ter e3 bis dispone, rispettivamente, la confisca dei beni sequestrati, la revoca del sequestro ovvero la restituzione della cauzione o la liberazione delle garanzie o la confisca della cauzione o la esecuzione sui beni costituiti in garanzia sono comunicati senza indugio al Procuratore generale presso la Corte di appello, al Procuratore della Repubblica e agli interessati". Il comma 2 prosegue aggiungendo che le impugnazioni contro detti provvedimenti sono "regolate dalle disposizioni dei commi ottavo, nono, decimo ed undicesimo dell'art. 4 l. 1423/56, ma i provvedimenti che dispongono la confisca dei beni sequestrati, la confisca della cauzione o l'esecuzione sui beni costituiti in garanzia diventano esecutivi con la definitività delle relative pronunce". Attualmente però, l'art. 41423/56 è stato modificato dall'art. 15 l. n. 128 del 26 marzo 2001, che sostituendo il quarto comma con i commi 4 e 5, ha così modificato i riferimenti alle disposizioni che regolano le impugnazione che diventano adesso i commi 9, 10, 11 e 12 del medesimo art. 4.

In particolare i commi 9, 10, 11 prevedono una disciplina speciale per il ricorso alla Corte di appello e di Cassazione. Nel caso in cui vi fosse una lacuna di tale speciale disciplina il comma 12 prescrive che, "salvo quanto stabilito nella presente legge", per la proposizione e la decisione dei ricorsi si osservano, "in quanto applicabili", le norme del codice di procedura penale "riguardanti la proposizione e la decisione dei ricorsi relativi alla applicazione delle misure di sicurezze", quindi l'art. 680 c.p.p. (248)

8.1 I provvedimenti impugnabili

Anche nel procedimento di prevenzione vige il principio della tassatività delle impugnazioni, pertanto si è escluso che possano essere impugnati provvedimenti diversi da quelli specificatamente dichiarati impugnabili al comma 1 dell'art. 3 ter, in particolare con riferimento al sequestro ed alla cauzione (249). Rispetto al sequestro alcuni autori rilevano che dovrebbe ritenersi ammissibile l'eventuale ricorso. Infatti, vista l'interpretazione ormai pacifica sulla natura giurisdizionale del procedimento di prevenzione, si dovrebbero applicare, in via analogica, le garanzie difensive dettate per il processo penale (250). Parte della giurisprudenza, invece, ha ammesso contro il provvedimento che rigetta l'istanza di revoca del sequestro il rimedio della opposizione allo stesso giudice nella forma dell'incidente di esecuzione, ex art. 666 c.p.p. (251) Altre pronunce affermano che non solo non sarebbe consentita l'autonoma ed immediata impugnazione del decreto di sequestro, in considerazione del principio di tassatività delle impugnazioni, della natura meramente strumentale del provvedimento e delle caratteristiche sommarie della fase procedimentale, ma non sarebbe nemmeno ammessa l'opposizione allo stesso giudice nella forma dell'incidente di esecuzione, che condurrebbe ad eludere, mediante il riesame della vicenda da parte del giudice dell'esecuzione prima, e poi, eventualmente dalla Corte di cassazione, il principio generale della tassatività delle impugnazioni (252).

Infine, la Corte costituzionale ha di fatto reso impugnabile, oltre ai provvedimenti espressamente previsti, anche la confisca ex art. 3 quinquies, eventualmente conseguente alla sospensione temporanea dell'amministrazione dei beni. Infatti, è stato dichiarato illegittimo, per irragionevole disparità di trattamento, l'art. 3 quinquies comma 2, nella parte in cui non prevede un regime di impugnazioni identico anche negli effetti a quello previsto dall'art. 3 ter avverso il provvedimento di confisca nei confronti dei soggetti indicati nell'art. 1 l. 575/65 (253).

8.2 I soggetti legittimati, le forme ed i termini

In grado di appello i soggetti legittimati al ricorso sono il Procuratore della repubblica, il Procuratore generale presso la Corte di appello e l'interessato (art. 4, comma 9, l. 1423/56). In Cassazione la titolarità del ricorso spetta, invece, al Pubblico ministero ed all'interessato (254). La dottrina si è poi interrogata sulla configurabilità di un autonomo diritto di impugnazione in capo al difensore dello stesso interessato, stante il silenzio in tal senso dell'art. 4 l. 1423/56 (255). Con l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, nel 1988, la questione è risolta dal momento che l'art. 680, comma 3, c.p.p. impone l'osservanza delle disposizioni generali sulle impugnazioni e quindi anche dell'art. 571, comma 3, che riconosce autonomo diritto di impugnazione anche al difensore dell'imputato al momento del deposito del provvedimento ovvero al difensore nominato a tal fine (256).

Quanto ai termine ed alle modalità per le impugnazioni, l'art. 4 commi 10 e 11 l. 1423/56 stabilisce che la presentazione del ricorso in appello ed in cassazione deve avvenire entro dieci giorni dalla comunicazione o notificazione del provvedimento, termine da intendersi a pena di inammissibilità, a causa del rinvio alle norme del codice di procedura penale operato dal comma 12 della stessa disposizione e quindi, in particolare, all'art. 591 c.p.p. Qualora la comunicazione del provvedimento all'interessato ed al difensore avvenga in tempi diversi, trova applicazione l'art. 585 comma 3 c.p.p., secondo il quale la decorrenza è determinata dall'ultima delle comunicazioni o notificazioni (257).

L'impugnazione deve essere motivata, a pena di inammissibilità (258). Infatti, nonostante il silenzio dell'art. 4 l. 1423/56, il richiamo alle impugnazioni previste per le misure di sicurezza e quindi alla disciplina generale in materia, impone l'osservanza del principio generale per cui qualsiasi impugnazione deve essere supportata dai motivi che la sostengono (259). I motivi devono essere specifici, così come prescritto dall'art. 581, comma 1 lett. c) c.p.p., il quale esige l'enunciazione dei motivi con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta.

I termini di impugnazione, che decorrono dalla comunicazione del provvedimento al pubblico ministero o dalla sua notificazione all'interessato, sono indicati nell'art. 4 commi 10 e 11 l. 1423/56 e sono di dieci giorni per il ricorso sia in appello che in cassazione, a pena di inammissibilità.

Pertanto l'impugnazione è inammissibile quando è proposta da chi non è legittimato o non ha interesse, quando il provvedimento non è impugnabile o quando non sono osservate le disposizioni degli artt. 581, 582, 583, 585 e 586 c.p.p. Competente a giudicare l'inammissibilità è il giudice ad quem, cioè il giudice della impugnazione, il quale decide con ordinanza ricorribile in Cassazione, a norma dell'art. 591 commi 2 e 3 c.p.p. L'inammissibilità, quando non è stata rilevata dal giudice dell'impugnazione, può esser dichiarata in ogni stato e grado del procedimento (art. 591 comma 4 c.p.p.) (260).

Infine, l'effetto sospensivo dell'impugnazione non può trovare accoglienza nel procedimento di prevenzione. Difatti dal coordinamento tra l'art. 4 l. n. 1423/56 e le disposizioni generali in tema di impugnazioni previste dal codice di rito risulta che i provvedimenti sulla restituzione della cauzione e sulla liberazione delle garanzie sono immediatamente esecutivi, in virtù del rinvio all'art. 4 commi 9, 10, 11 e 12; mentre quelli sulla revoca del sequestro divengono esecutivi dopo dieci giorni dalla comunicazione alle parti. I provvedimenti che sanciscono la confisca dei beni sequestrati, la confisca della cauzione e l'esecuzione sui beni costituiti in garanzia diventano esecutivi con la definitività delle relative pronunce. L'art. 3 ter, comma 2 l. 575/65, sancisce, però, una espressa deroga a tale principio, stabilendo che venga disposta la sospensione alla esecuzione, ma limitatamente al provvedimento di revoca del sequestro. Tale provvedimento, infatti, diviene esecutivo trascorsi dieci giorni dalla data della comunicazione effettuata alle parti. Entro detto termine è attribuita al Pubblico ministero la facoltà di chiedere alla Corte di appello la sospensiva e, quest'ultima deve decidere nel lasso perentorio dei successivi dieci giorni, altrimenti il provvedimento diventa esecutivo. In caso di accoglimento della istanza, la sospensione opera sino alla emanazione del provvedimento definitivo.

8.3 Il ricorso alla Corte di appello

Come abbiamo appena visto, il Procuratore della repubblica, il Procuratore generale e l'interessato possono proporre ricorso alla Corte di appello, anche per il merito, entro dieci giorni dalla comunicazione, con atto depositato nella cancelleria del Tribunale (art. 4, comma 9, l. 1423/56).

Il giudizio di appello si svolge con l'osservanza, in quanto applicabili, delle disposizioni di cui all'art. 666 c.p.p. Tale disposizione concernente, infatti, le misure di sicurezza, cui rinvia l'art. 4 comma 12 l. 1423/56. Pertanto tale giudizio, stante l'art. 680 comma 1 c.p.p., viene devoluto al Tribunale di sorveglianza, il quale, per esplicito disposto dell'art. 678 comma 1 c.p.p., procede a norma dell'art. 666 c.p.p. per le misure di sua competenza.

Dovendosi seguire le regole di cui all'art. 666 c.p.p. si osserva il rito stabilito per l'appello davanti al Tribunale di sorveglianza. Pertanto il Presidente del collegio provvede a fissare la data della udienza in camera di consiglio e a farne dare avviso almeno dieci giorni prima, comunicandolo al Pubblico ministero e notificandolo all'interessato ed al suo difensore, a norma dell'art. 666 comma 3 c.p.p. La Corte di appello provvede in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del difensore e del pubblico ministero e sentito personalmente l'interessato che ne abbia fatto richiesta.

I poteri del giudice di appello sono regolati dall'art. 597, commi 1 e 2 lett. a) e b), c.p.p. Di conseguenza il giudice di secondo grado deve prendere cognizione del decreto impugnato limitatamente ai punti della decisione cui si riferiscono i motivi proposti (261). Pertanto, sussistendo i presupposti di cui all'art. 603 c.p.p. è consentita la rinnovazione dell'istruzione probatoria. In tal caso è stato sostenuto che il combinato disposto degli artt. 666, comma 5, c.p.p. e 185 disp. att. c.p.p. consentirebbero una libertà di forme di acquisizione probatoria (262).

La decisione della Corte di appello, quando appellante è il solo soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione, deve rispettare il divieto di reformatio in peius di cui all'art. 597 comma 3 c.p.p., in forza del richiamo operato dall'art. 4 comma 12 l. 1423/56 (263). Qualora la Corte revochi la misura applicata dal primo giudice, la decisione ha carattere rescindente, avendo il decreto impugnato efficacia provvisoria. Se ne è tratta la conseguenza che l'annullamento trova la sua fonte nella mancanza originaria delle condizioni che ne legittimavano l'adozione, per cui gli obblighi imposti sono caducati ex tunc (264).

8.4 Il ricorso alla Corte di cassazione

Contro il decreto della Corte di appello è ammesso ricorso in Cassazione per "violazione di legge" da parte del Pubblico ministero, dell'interessato e del suo difensore, entro il termine di dieci giorni dalla comunicazione o notificazione dell'avviso di deposito del provvedimento (265). La Corte provvede in camera di consiglio nel termine, considerato ordinatorio, di trenta giorni dal ricorso. Essa svolge il proprio sindacato sulla legittimità del provvedimento e, se non dichiara l'inammissibilità del ricorso, pronuncia una sentenza di rigetto oppure di annullamento con o senza rinvio (266).

L'unica motivazione deducibile di fronte la Corte di cassazione, secondo l'art. 4 comma 11 l. 1423/56, richiamato dall'art. 3 ter comma 2 l. 575/65, sarebbe la violazione di legge. La giurisprudenza della Cassazione anche di recente si è orientata nel senso di "escludere dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità le ipotesi previste dall'art. 606 comma 1 lett. e), c.p.p., potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso il caso di motivazione inesistente o meramente apparente, qualificabile come violazione dell'obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d'appello dal comma 9 del predetto art. 4 l. n. 1423 del 1956" (267). La Suprema corte ha così ritenuto inammissibili le questioni aventi ad oggetto la "critica sulla scelte degli elementi indizianti di pericolosità sociale ed il correlativo tentativo di fornire spiegazioni alternative a quelle fatte proprie dai giudici di merito" (268).

La dottrina, invece, ha espresso altra opinione affermando che debba essere valutata la congruità logica della motivazione anche al di là del testo del provvedimento impugnato (269). Inoltre si è rilevato che anche per le misure di prevenzione dovrebbe trovare applicazione tutta la disciplina del ricorso per Cassazione, il quale potrebbe esser presentato per tutti i motivi indicati nell'art. 606 c.p.p. (270)

8.5 La revoca della confisca e la soluzione delle Sezioni unite

Gli interrogativi sorti in dottrina e giurisprudenza riguardo alla possibilità di revocare la confisca antimafia traggono origine dalla mancanza di coordinamento tra la l. 1423/56, che regola le misure di prevenzione personali, e la successiva introduzione nell'ordinamento, con la legge 31 maggio 1965, n. 575, delle misure di prevenzione patrimoniali (271).

La soluzione ha originato un contrasto giurisprudenziale (272) definitivamente risolto dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione (273), le quali hanno ritenuto che "la misura di prevenzione della confisca è soggetta soltanto alla revoca con effetti ex tunc, per il caso in cui si accerti, sulla base di elementi nuovi sopravvenuti, l'invalidità genetica del provvedimento per difetto di uno o più dei presupposti di legge, dati dalla pericolosità del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione, dalla disponibilità diretta o indiretta del bene da parte di questi, dalla sproporzione del valore del bene rispetto al reddito dichiarato o all'attività economica svolta, dall'essere il bene frutto di attività illecite o del reimpiego di profitti illeciti. La Corte ha inoltre aggiunto che il rimedio esperibile verso "il provvedimento definitivo di confisca deliberato ai sensi dell'art. 2 ter l. 31 maggio 1965, n. 575, è la revoca a norma dell'art. 7, comma 2, l. 27 dicembre 1956, n. 1423, "allorché sia affetto da invalidità genetica e debba, conseguentemente, essere rimosso per rendere effettivo il diritto, costituzionalmente garantito, alla riparazione dell'errore giudiziario, non ostando al relativo riconoscimento l'irreversibilità dell'ablazione determinatasi, che non esclude la restituzione del bene confiscato all'avente diritto o forme comunque riparatorie della perdita patrimoniale da lui subita".

La Suprema Corte ha quindi sancito limiti soggettivi ed oggettivi molto precisi per tale revoca in funzione di revisione, finalizzata a "porre rimedio ad un errore giudiziario" ai sensi dell'art. 24 Costituzione, esperibile solo da chi abbia partecipato al procedimento di prevenzione o sia stato messo in grado di parteciparvi, purché vengano prospettate prove nuove sopravvenute alla conclusione del procedimento, sono tali anche quelle non valutate neanche implicitamente (o, sulla falsa riga della revisione, di inconciliabilità di provvedimenti giudiziari o di procedimento di prevenzione fondato su atti falsi o su un altro reato) che dimostrino l'insussistenza dei presupposti del provvedimento reale (pericolosità del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione, disponibilità diretta o indiretta del bene, sproporzione con il reddito dichiarato, reimpiego di attività illecite).

Tali principi vengono stabiliti, in primis, sulla base del fatto che il decreto che irroga la misura esercita una preclusione rebus sic stantibus la quale, proprio perché allo stato degli atti, non impedisce una rivalutazione dei presupposti sulla base di nuove acquisizioni probatorie (274). Secondariamente non può esservi dubbio circa la necessità di assicurare rimedi straordinari nel caso in cui abbiano ad acquisirsi elementi che attestino l'esaurimento o il mutamento del quadro indiziario dedotto a base del provvedimento di prevenzione ("quando sia cessata o mutata la causa che lo ha determinato"). Soprattutto ove si consideri il valore polisemantico della locuzione "sia cessata la causa che lo ha determinato", riferibile sia ai fatti sopravvenuti quanto a una nuova e più attenta "valutazione retrospettiva" della situazione iniziale sulla base dei noviter producta (275).

Per quanto, poi, riguarda i soggetti legittimati ad richiedere la revoca del provvedimento ablatorio le Sezioni unite hanno affermato la limitazione a proporre la relativa istanza unicamente ai soggetti partecipanti al giudizio di prevenzione o che siano stati messi in condizioni di parteciparvi (276), mentre, per coloro che sono rimasti estranei al giudizio resta esperibile l'incidente di esecuzione. Tale orientamento ha sollevato qualche dubbio nella dottrina. Si è obiettato che il terzo, rimasto senza colpa estraneo al procedimento nel corso del quale è stata disposta la confisca, si trova così ad usufruire di un solo grado di cognizione di merito, anziché dei due ordinariamente accordati a chi, per maggior diligenza altrui o per solerzia propria, sia stato parte del giudizio principale a carico del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione (277). L'articolo 666 c.p.p., infatti, ammette quale rimedio avverso l'ordinanza che decide dell'incidente d'esecuzione il solo ricorso per cassazione (278).

In conclusione, come rilevato anche dalla passata Commissione parlamentare antimafia (279), occorre un intervento del legislatore volto a garantire che "l'eventuale revoca della confisca definitiva non dia luogo alla restituzione del bene, bensì solo al riconoscimento del risarcimento a favore dell'avente diritto". Questo per evitare il rischio che sui beni confiscati si inneschi un meccanismo di impossibilità di programmare investimenti pubblici o comunitari e la conseguente dilatazione sui tempi di destinazione dei beni, in quanto l'Agenzia del demanio, non sarà in grado di emettere il provvedimento di destinazione, in attesa della decisione sull'istanza di revoca (280).

9 La destinazione dei beni confiscati

La destinazione dei beni confiscati è regolata dalla legge 07 marzo 1996, recante "Disposizioni in materia di gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati". Tale impianto legislativo, tende, come si legge nella relazione dei deputati proponenti ad una "più razionale amministrazione dei beni confiscati ai sensi della l. 575/65 e successive modificazioni, e ad una più puntuale destinazione degli stessi a fini istituzionali e sociali".

A tal fine sono state apportate modifiche sostanziali e procedurali. Si è abrogando l'art. 4 D.L. 230/89, convertito nella l. 282/89, che per primo aveva disciplinato l'attività e la gestione dei beni; si è sostituito il comma 3 dell'art. 2 sexies; si è introdotto gli artt. 2 nonies, decies, undecies, duodecies alla l. 575/65.

9.1 Il procedimento di destinazione

Nella prima fase, il comma 1 dell'art. 2 nonies, l. 575/65 (281), prescrive che, divenuta definitiva, la pronuncia sulla confisca è esecutiva ed il bene viene devoluto alloStato, restando, quindi, irrilevante la sopravvenuta cessazione della pericolosità del soggetto per morte o risocializzazione (282). Il provvedimento definitivo di confisca è comunicato, dalla cancelleria dell'ufficio giudiziario che ha emesso il provvedimento, all'ufficio del territorio competente del Ministero delle finanze (sostituito dal 2001 dalla filiale dell'Agenzia del Demanio) che ha sede nella provincia ove si trovano i beni o ha sede l'azienda confiscata, nonché al Prefetto ed al Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell'interno. Il comma 2 della citata norma prevede che, in questa fase, l'amministratore nominato dal Tribunale a norma dell'art. 2 sexies svolge le proprie funzioni sotto il controllo dell'ufficio del Ministero delle finanze territorialmente competente (283). L'amministratore può esser revocato in ogni tempo, ai sensi dell'art. 2 septies, sino all'esaurimento delle operazioni di liquidazione, o sino a quando sia data attuazione al provvedimento di cui al comma 1, dell'art. 2 decies, della stessa l. 575/65. Il comma 3 precisa che l'amministratore gestisce i beni ai sensi dell'art. 20 l. 23 dicembre 1993, n. 559, nonché in quanto applicabili, ai sensi dell'art. 2 octies della medesima l. 575/65 ed ai sensi del decreto del ministro del tesoro, di concerto con quello delle Finanze, 27 marzo 1990 (284). Al rimborso ed alla anticipazione delle spese, nonché alla liquidazione dei compensi che non trovino copertura nelle risorse della gestione, provvede il dirigente dell'ufficio del Ministero delle finanze territorialmente competente, secondo le attribuzioni di natura contabile previste dall'art. 42 comma 4 d.P.R. 27 marzo 1992, n. 287 (285).

La seconda fase regolata dall'art. 2 decies l. 575/65 (286) ha subito di recente, con la legge 15 luglio 2009, n. 94, importanti modifiche. La disciplina previgente prescriveva, infatti, che la destinazione dei beni immobili e dei beni aziendali confiscati fosse effettuata con provvedimento, immediatamente esecutivo, del Direttore centrale dell'ufficio del demanio del Ministero delle finanze (Agenzia del demanio), su proposta non vincolante del dirigente del competente ufficio del territorio (da formulare entro novanta giorni dal ricevimento della comunicazione del provvedimento definitivo di confisca), sulla base della stima del valore dei beni effettuata dal medesimo ufficio, acquisiti i pareri del Prefetto e del Sindaco del Comune interessato e sentito l'amministratore di cui all'articolo 2 sexies. Inoltre, era previsto all'art. 2 decies che il provvedimento del Direttore centrale dell'Agenzia del demanio fosse emanato entro trenta giorni dalla comunicazione della proposta (comma 2). Prima della emanazione del provvedimento del Direttore centrale era contemplata l'ipotesi di far comunque salva l'applicazione dell'art. 823 comma 2 c.c. (comma 3), per cui, spettando all'autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del demanio pubblico, essa ha facoltà sia di procedere in via amministrativa sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso regolati dal codice civile.

La disciplina, appena vista, è stata modificata dall'art. 2, comma 20, della l. 15 luglio 2009, n. 94, per far fronte ad una esigenza di maggiore celerità nella assegnazione dei patrimoni di mafia. Oggi è stata introdotta una inedita ripartizione tra Agenzia del demanio e Prefetto. Al comma 1 si prevede che, "ferma la competenza dell'Agenzia del demanio per la gestione dei beni confiscati alle organizzazioni criminali di cui agli articoli 2 nonies e2 undecies della presente legge e 12 sexies del D.L. 306/92", la destinazione dei beni immobili e dei beni aziendali sia effettuata con provvedimento del Prefetto "su proposta non vincolante del dirigente regionale dell'Agenzia del demanio, sulla base della stima del valore risultante dagli atti giudiziari", salvo, comunque, "che sia ritenuta necessaria dal Prefetto una nuova stima, sentite le amministrazioni di cui all'articolo 2 undecies della presente legge interessate, eventualmente in sede di conferenza di servizi, nonché i soggetti di cui è devoluta la gestione dei beni". Inoltre il comma 2 prevede la possibilità, al fine di accelerare le procedure di dismissione del patrimonio, che il Prefetto proceda d'iniziativa se la proposta di cui al comma 1 non è formulata dall'Agenzia del demanio entro 90 giorni. Infine la rinnovata norma, al comma 3, ha previsto che "il provvedimento del Prefetto deve essere emanato entro novanta giorni dalla proposta di cui al comma 1 o dal decorso di cui al comma 2, prorogabili di ulteriori novanta giorni in caso di operazioni particolarmente complesse" (287). Come si vede termini assolutamente contenuti che dovrebbero evitare il protrarsi di dispendiose e spesso inconcludenti amministrazioni e la definitiva dismissione dei beni (288).

Terza, ed ultima fase, è la destinazione vera e propria dei beni confiscati. In quest'ultimo stadio, la destinazione finale dei beni varia a seconda che si tratti di beni mobili, immobili, aziendali e, novità della l. 94/2009, beni mobili iscritti in pubblici registri.

9.1.1 I beni mobili

Per quanto riguarda i beni mobili il comma 1, art. 2 undecies, l. 575/65 (289), prevede che l'amministratore, ex art. 2 sexies, nominato dal Tribunale è tenuto a versare all'Ufficio del registro le somme di denaro confiscate che non debbano essere utilizzate per la gestione di altri beni confiscati e che non debbano essere utilizzate per il risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso; le somme ricavate dalla vendita di beni mobili non costituiti in azienda, ivi compresi quelli registrati; le somme derivanti dal recupero dei crediti personali. Il comma 5 dell'art. 2 undecies prevede inoltre che le ultime due somme elencate vengano versate nell'entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate in egual misura al finanziamento degli interventi per l'edilizia scolastica e per l'informatizzazione del processo (290).

Con l'istituzione, nel 2008, del Fondo unico giustizia si è posto un problema di coordinamento rispetto alla disciplina della normativa antimafia appena vista. Con L'art. 61, comma 23, del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella l. 06 agosto 2008, n. 133, si è previsto, infatti, che "le somme di denaro sequestrate nell'ambito dei procedimenti penali o per l'applicazione di misure di prevenzione di cui alla l. 575/1995, e successive modificazioni, o di irrogazione di sanzioni amministrative, anche di cui al D.L.vo 231/2001, affluiscono ad un unico fondo (291). Allo stesso fondo affluiscono altresì i proventi derivanti dai beni confiscati nell'ambito di procedimenti penali, amministrativi o per l'applicazione di misure di prevenzione di cui alla L. 575/1965 e successive modificazioni, nonché alla l. 1423/1956, e successive modificazioni, o di irrogazione di sanzioni amministrative, anche di cui al D.L.vo 231/2001, e successive modificazioni" (292).

Com'è stato giustamente rilevato dal Commissario straordinario del Governo per la gestione e la destinazione dei beni confiscati ad organizzazioni criminali (293), emerge in primo luogo, una considerazione di carattere formale relativa al mancato aggiornamento delle disposizioni regolamentari in tema di gestione, rendicontazione e versamento delle somme di denaro e dei proventi, da parte degli amministratori giudiziari e finanziari per quanto attiene ai riferimenti al versamento presso l'Ufficio del registro, ormai soppresso per effetto dei provvedimenti di riorganizzazione dell'Amministrazione finanziaria (cfr. D.P.R. 27.03.1992, n. 287, Regolamento degli uffici e del personale del Ministero delle Finanze) e sostituito con il versamento diretto nelle tesorerie provinciali, con imputazione all'entrata del bilancio dello Stato sui pertinenti capitoli di bilancio, nonché ai provvedimenti dell'Intendente di Finanza e dell'Ufficio del Territorio del Ministero delle Finanze, anch'essi sostituiti nelle rispettive competenze con riguardo alla specifica materia, dall'Agenzia del demanio.

Inoltre, le previsioni di cui alla l. 133/2008, art. 61, comma 23, per la destinazione ad un unico fondo delle somme di denaro sequestrate nell'ambito di procedimenti penali o per l'applicazione di misure di prevenzione così come dei proventi derivanti dai beni confiscati nell'ambito di procedimenti penali o per l'applicazione delle misure di prevenzione, se hanno abrogato espressamente (art. 61 comma 25) i commi 102, 103 e 104 dell'art. 2 della l. 24 dicembre 2007, n. 244, che aveva istituito il Fondo per la legalità, non hanno disposto alcuna abrogazione espressa delle altre previsioni in precedenza richiamate sulla destinazione delle somme e proventi derivanti dal procedimento di prevenzione in materia di criminalità organizzata. Ne deriva un mancato coordinamento con alcune norma tra cui la l. 22.12.1999, n. 512, e l. 23.02.1999, n. 44, nonché dei D.P.R. 455/1999 e 284/2001, in tema di fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso e vittime dell'usura, alimentato da "una quota pari alla metà dell'importo, per ciascun anno, delle somme di denaro confiscate ai sensi della l. 575/1965, e successive modificazioni, nonché una quota pari ad un terzo dell'importo del ricavato, per ciascun anno, delle vendite disposte a norma dell'articolo 2 undecies" della stessa legge (somme derivanti dalla vendita di beni mobili o immobili costituiti in azienda ex L. 575/1965). Va, altresì rilevato. che la l. 181/2008 (art. 2 comma 7), già citata, ha previsto un procedimento di ripartizione delle risorse intestate al "Fondo unico giustizia", che "fa salva l'alimentazione" del Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dei reati di tipo mafioso, peraltro ancora indicato, con il riferimento alle norme istitutive del "Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive di cui all'articolo 18, comma1, lettera c), della legge 23 novembre 1999, n. 44, e del Fondo di rotazione per la solidarietà delle vittime dei reati di tipo mafioso di cui all'articolo 1 della legge 22 dicembre 199, n. 152".

Non pongono, invece, problemi interpretativi le disposizioni che prevedono specifiche destinazioni non più attive, in considerazione della natura temporanea delle relative disposizioni. Si fa riferimento alle destinazioni presso fondo presso le Prefetture, prevista per tre anni a decorrere dall'esercizio finanziario 1995 (294) e a quelle presso l'Organizzazione delle nazioni unite (ONU) "Office for Drug Control and Crime Prevention", in quanto prevista solo per il triennio 2001-2003 (295).

In conclusione è stato rilevato dal Commissario che occorrerebbe una riconsiderazione delle disposizioni in esame alla luce del fatto che rimangono in vigore le leggi n. 22.12.1999, n. 512 (296), e n. 23.02.1999, n. 44 (297), nonché dei D.P.R. 455/1999 e 284/2001, in tema di Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso e vittime dell'usura. Va peraltro rilevato che la l. 181/2008 (art. 2 comma 7) ha previsto un procedimento di ripartizione delle risorse intestate al "Fondo unico giustizia", che "fa salva l'alimentazione" del Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dei reati di tipo mafioso, peraltro ancora indicato, con il riferimento alle norme istitutive del "Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive di cui all'articolo 18, comma1, lettera c), della legge 23 novembre 1999, n. 44, e del Fondo di rotazione per la solidarietà delle vittime dei reati di tipo mafioso di cui all'articolo 1 della legge 22 dicembre 199, n. 152".

Infine, delle destinazioni introdotte con la legge finanziaria 2007 che ha modificato direttamente l'art. 2 undecies della L. 575/1965 (298) prevedendo che le somme ricavate dalla vendita di beni mobili non costituiti in azienda, dei titoli e quelle derivanti dal recupero dei crediti personali, nonché i proventi derivanti dall'affitto, dalla vendita o dalla liquidazione dei beni aziendali sono versati all'entrata del bilancio dello Stato per essere rassegnati in egual misura al finanziamento degli interventi per l'edilizia scolastica e per l'informatizzazione del processo. In tal modo, fatte salve le spese della procedura, alle vittime di mafia risultano destinate le somme di cui all'art. 2 undecies, comma 1, lett. a) (somme confiscate) e quelle di cui sopra (somme ricavate dalla vendita di beni mobili non costituiti in azienda, dei titoli e quelle derivanti dal recupero dei crediti personali, nonché i proventi derivanti dall'affitto, dalla vendita o dalla liquidazione dei beni aziendali) che non siano da destinare all'edilizia scolastica e all'informatizzazione del processo. Vi è in sostanza, come rilevato dal Commissario straordinario per la gestione dei beni confiscati, una convergenza di destinazioni che presuppone una ripartizione con provvedimenti del ministero dell'economia.

Infine, la l. 15 luglio 2009, n. 94, ha aggiunto all'art. 2 undecies il comma 3 bis, in cui si prevede la possibilità di affidare in custodia giudiziale i beni mobili iscritti in pubblici registri, le navi, le imbarcazioni, i natanti e gli aeromobili sequestrati agli organi di polizia, i quali ne facciano richiesta per l'impiego in attività di polizia, ovvero che questi beni possano essere affidati ad altri organi dello Stato o ad altri enti pubblici non economici, per finalità di giustizia, di protezione civile o di tutela ambientale.

9.1.2 I beni aziendali

Il comma 3, art. 2 undecies, l. 575/65, prevede che i beni aziendali siano mantenuti nel patrimonio dello Stato. La loro destinazioni può essere triplice a seconda che vi siano fondate prospettive di continuazione o di ripresa dell'attività produttiva o meno (299).

In primo luogo le aziende possono essere destinati all'affitto, quando vi siano fondate prospettive di continuazione o di ripresa dell'attività produttiva, a titolo oneroso, previa valutazione del competente ufficio del territorio del Ministero delle finanze, a società e ad imprese pubbliche o private, ovvero a titolo gratuito, senza oneri a carico dello Stato, a cooperative di lavoratori dipendenti dell'impresa confiscata. Nella scelta dell'affittuario sono privilegiate le soluzioni che garantiscono il mantenimento di livelli occupazionali. I beni non possono essere destinati all'affitto alle cooperative di lavoratori dipendenti dell'impresa confiscata se taluno dei relativi soci è parente, coniuge, affine o convivente del sottoposto a misura di prevenzione.

La seconda destinazione possibile scelta dal legislatore prevede che i beni aziendali siano venduti, per un corrispettivo non inferiore a quello determinato dalla stima del competente ufficio del territorio del Ministero delle finanze, a soggetti che ne abbiano fatta richiesta, qualora vi sia una maggiore utilità per l'interesse pubblico o qualora la vendita sia sia finalizzata al risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso (300). Nel caso di vendita disposta alla scadenza del contratto di affitto dei beni, l'affittuario può esercitare il diritto di prelazione entro trenta giorni dalla comunicazione della vendita del bene da parte del Ministero delle finanze.

Ultima possibilità prevista è quella della liquidazione del bene, qualora vi sia una maggiore utilità per l'interesse pubblico o qualora la liquidazione sia finalizzata al risarcimento delle vittime dei rati di tipo mafioso (301).

Il comma 4, dell'art. 2 undecies, prescrive che alle operazioni appena viste provvede il dirigente del competente Ufficio del Territorio del Ministero dell'Economia e delle Finanze, che può affidarle all'amministratore dei cui all'art. 2 sexies, con l'osservanza delle disposizioni di cui al comma 3 dell'art. 2 nonies, entro sei mesi dalla data di emanazione del provvedimento del Direttore Centrale dell'Agenzia del Demanio del Ministero delle Finanze di cui al comma 1 dell'art. 2 decies.

Come abbiamo visto per i beni mobili, il comma 5, art. 2 undecies, prevede che i proventi dell'affitto, dalla vendita o della liquidazione dei beni aziendali siano versati all'entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnati in egual misura al finanziamento degli interventi per l'edilizia scolastica e per l'informatizzazione del processo. Rispetto a quest'ultima disposizione valgono le problematiche già esaminate nel precedente paragrafo.

9.1.3 I beni immobili

Per i beni immobili l'art. 2 undecies prescrive le seguenti destinazioni. Alla lett. a) del comma 2 si prevede che gli immobili siano mantenuti nel patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile. La legge finanziaria 2007 (302) ha inoltre aggiunto anche l'eventualità degli ulteriori usi governativi o pubblici connessi allo svolgimento di attività istituzionali, di Amministrazioni statali, Agenzie fiscali, Università statali, Enti pubblici ed Istituzioni culturali di rilevante interesse, salvo che si debba procedere alla vendita degli stessi finalizzata al risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso.

La seconda destinazione (lett. b) comma 2) consiste nel trasferimento per finalità istituzionali o sociali, in via prioritaria, al patrimonio del Comune ove l'immobile è sito, ovvero al patrimonio della Provincia o della Regione (303). Il legislatore, ha voluto sottolineare l'importanza della destinazione sociale dei beni immobili confiscati, stabilendo esplicitamente, attraverso l'utilizzo della formula "in via prioritaria", che quest'ultima soluzione prevalga rispetto alla prima analizzata. Si è inoltre stabilito, e qui sta il "cuore" della disciplina sulla destinazione sociale, che gli Enti territoriali possono amministrare direttamente il bene o assegnarlo in concessione a titolo gratuito a comunità, ad enti, ad associazioni maggiormente rappresentative degli enti locali, ad organizzazioni di volontariato di cui alla l. 266/1991 e successive modificazioni, a cooperative sociali di cui alla l. 381/1991, e successive modificazioni o a comunità terapeutiche e centri di recupero e cura di tossicodipendenti di cui al T.U. delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti o sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al D.P.R. 309/1990, e successive modificazioni, nonché alle associazioni ambientaliste riconosciute ai sensi dell'art. 13 della L. 349/1986, e successive modificazioni.

Infine è previsto il trasferimento al patrimonio del Comune ove l'immobile è sito, se confiscati per il reato di cui all'art. 74 del citato T.U. approvato con D.P.R. 309/1990.

In questo caso il Comune può amministrare direttamente il bene oppure, preferibilmente, assegnarlo in concessione, anche a titolo gratuito, secondo i criteri di cui all'art. 129 del medesimo T.U., ad associazioni, comunità o enti per il recupero di tossicodipendenti operanti nel territorio ove è sito l'immobile (304).

La recente legge "finanziaria 2010" ha modificato la disciplina dell'art. 2 undecies in tema di destinazione degli immobili confiscati (305). Adesso è previsto che i beni immobili, non destinati agli Enti territoriali o allo Stato entro i termini previsti dall'art. 2 decies, l. 575/65 (90 giorni prorogabili di altri 90), siano venduti. L'art. 2 undecies prevede, inoltre, che il personale delle Forze armate e di polizia che abbiano costituito delle cooperative edilizie, ovvero, gli Enti locali ove sono ubicati i beni stessi, abbiano diritto di prelazione sulla vendita.

Le operazioni di vendita vengono effettuate dal dirigente territoriale dell'Agenzia del demanio ove è sito il bene, sentito il parere obbligatorio del Commissario straordinario per la gestione e destinazione dei beni confiscati alle mafie. E' previsto, inoltre, che tale operazione possa essere delegata all'amministratore giudiziario ex art. 2 sexies, l. 575/65. Per evitare infiltrazioni durante questa fase, è prescritto che il dirigente del competente ufficio dell'Agenzia del demanio debba richiedere al Prefetto della provincia interessata un parere obbligatorio, sentito il Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, e ogni informazione utile affinché i beni non siano acquistati, anche per interposta persona, dai soggetti ai quali furono confiscati ovvero da soggetti altrimenti riconducibili alla criminalità organizzata.

Infine è disposto che il ricavato della vendita confluisca nel Fondo unico giustizia per poter essere poi riutilizzato dal Ministero dell'interno per la tutela della sicurezza pubblica e del soccorso pubblico e dal Ministero della giustizia, per assicurare il funzionamento e il potenziamento degli uffici giudiziari e degli altri servizi istituzionali.

Tale provvedimento, fin dalla sua discussione nelle aule parlamentari, è apparso molto discutibile, tanto che l'associazione "Libera" ha promosso una raccolta di firme affinché l'emendamento che prevedeva tali disposizioni venisse ritirato (306). Ma questo non è stato possibile, nonostante la disponibilità in tal senso anche di alcuni esponenti della maggioranza (307), in quanto la "legge finanziaria" è stata votata attraverso il meccanismo della "fiducia", che ne ha impedito qualsiasi modifica.

Tale decisione del legislatore appare molto negativa sotto vari punti di vista. Innanzitutto, svilisce il senso e la portata della legge 109 del 1996 attraverso cui si era lanciato un messaggio molto forte: i beni mafiosi, frutto della violenza e della sopraffazione, devono tornare alla collettività affinché tutti possano beneficiare del riuso sociale o istituzionale che essi comportano.

In secondo luogo, questo provvedimento sembra fornire alla criminalità organizzata una corsia preferenziale per il riacquisto dei beni a lei confiscati. Infatti, nonostante la previsione dell'intervento del Prefetto e del Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza, al fine di scongiurare il pericolo di infiltrazioni durante la vendita, tale alienazione appare comunque molto rischiosa, vista la capacità delle organizzazioni criminali di farsi scudo, oltre che con prestanome, con "società di comodo" di cui è molto difficile rintracciare l'appartenenza.

Inoltre, da un punto di vista operativo, è molto improbabile che le destinazioni vadano a buon fine entro i termini previsti dall'art. 2 decies, l. 575/65. Secondo i dati forniti dall'Agenzia del demanio (308), infatti, su un totale di 8933 beni immobili confiscati dall'entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre del 1982, ben 3213, circa il 36%, sono ancora in attesa di destinazione, poiché risultano gravati da ipoteche, procedure espropriative, occupazioni o altri procedimenti in corso, che ne impediscono l'assegnazione finale. Se poi andiamo ad analizzare i tempi per la destinazione, ci accorgiamo che pochissimi beni attualmente destinati hanno rispettato i termini previsti dalla legge. Infatti, su 5407 immobili ora assegnati, 3754, circa 70%, hanno avuto la loro destinazione finale in un arco di tempo compreso tra i 2 ed i 10 anni, con un tempo medio necessario di 5 anni e mezzo (309). Questi dati appaiono a dir poco preoccupanti, poiché se questo trend verrà mantenuto anche in futuro, ci rendiamo conto di quanto possa divenire difficile che gli immobili confiscati alle mafie possano seguire un iter di riutilizzo sociale o istituzionale.

Infine, il legislatore ha deciso di devolvere le somme ricavate dalla vendita per finalità di ordine pubblico e giustizia. Sarebbe stato più opportuno impiegare tali fondi per finanziare il riutilizzo degli immobili confiscati, poiché molto spesso il mancato riutilizzo è dovuto proprio alla carenza di risorse da parte degli Enti locali destinatari dei beni.

9.2 Il Commissario straordinario per la gestione dei beni confiscati ed il Protocollo nazionale sui beni confiscati

Per garantire la rapida restituzione dei beni confiscati alla collettività, il Governo ha istituito con il D.P.R. 6 novembre 2007, il Commissario straordinario per la gestione e la destinazione dei beni confiscati ad organizzazioni criminali, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Per il primo biennio la carica è stata ricoperta dal dott. Antonio Maruccia, ed attualmente è ricoperta dal Prefetto Alberto di Pace.

Si tratta di un'Autorità centrale di coordinamento operativo delle diverse competenze, amministrative e giudiziarie, voluta al fine di dare continuità all'azione pubblica sui beni confiscati, rafforzando i meccanismi applicativi delle leggi vigenti. Per questo difficile e importante obiettivo, le attribuzioni dell'Ufficio sono state rese più incisive dal potere di emanare direttive e atti di impulso nelle procedure amministrative, mentre per la prima volta si è attribuito il compito del raccordo con la fase giudiziaria, secondo una visione unitaria dell'intervento dello Stato, che abbia al centro la valorizzazione del bene, dal sequestro giudiziario e fino alla fase dell'utilizzo sociale e pubblico.

Oggi, intanto, il compito prioritario dell'Ufficio del Commissario è realizzare la massima collaborazione tra tutti i soggetti impegnati in questa attività. Gli obiettivi immediati, si legge sul sito internet, sono: mettere in rete le risorse dell'Agenzia del Demanio, delle Prefetture, delle Regioni e degli Enti locali e collegarle alle associazioni e alle cooperative che sono i protagonisti principali della funzione sociale del bene confiscato; raccordare la fase del sequestro giudiziario alla fase della destinazione e dell'utilizzo; individuare modelli di intervento condivisi da praticare sui territori con continuità amministrativa. L'ufficio del Commissario si prefigge l'obiettivo di dirigere l'azione all'utilizzo effettivo dei beni, a promuovere pubblicità e trasparenza nelle assegnazioni, a sostenere gli enti locali, le associazioni e le cooperative nella proposta di progetti sostenibili e nella ricerca delle risorse finanziarie, al fine di assicurare l'utilizzo effettivo e lo sviluppo dei beni e delle aziende confiscate.

Per realizzare tali obiettivi l'ufficio del commissario ha realizzato un protocollo nazionale operativo. Infatti, i modelli procedurali utilizzati per la destinazione dei beni confiscati sono stati fin'ora differenti, poiché ogni provincia ha operato secondo canoni difficilmente riconducibili ad unità e legati ad iniziative riferibili alla sensibilità di questo o quel Prefetto, ovvero alla proposta di qualche Ente locale o, ancora, all'attivismo di questa o quella associazione.

10 La tutela dei terzi nel procedimento di prevenzione patrimoniale

L'art. 2 ter, comma 5 l. 575/65, prevede che siano citati nel procedimento di prevenzione i terzi che risultino proprietari dei beni che siano stati sequestrati, in quanto ritenuti nella disponibilità effettiva del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione (310). I terzi, cui la disposizione fa riferimento, sono quindi i proprietari formali, o quanti vantano sui beni diritti reali di godimento. Infatti, le misure cautelari ed ablatorie possono incidere anche sulla sfera giuridica di soggetti diversi dall'appartenente ad associazione mafiosa, i quali debbono perciò poter contraddire, intervenendo nel procedimento. L'intervento del terzo, inoltre, può essere anche volontario ed immediato, nel momento stesso in cui costui ha avuto conoscenza del provvedimento cautelare di sequestro dei beni, poiché questo può avanzare richiesta di revoca, allegando e producendo le prove a sua difesa, senza attendere di esser chiamato ad intervenire nel procedimento (311). In caso di mancata citazione del terzo, parte della dottrina (312) e la giurisprudenza (313) affermano che ciò non comporterebbe la nullità del procedimento, essendo possibile esplicitare il proprio diritto di difesa attraverso incidente di esecuzione. Secondo altri, invece, tale mancanza provocherebbe la nullità del provvedimento di confisca per violazione del diritto di difesa (314).

Il terzo intervenuto in giudizio avrebbe il mero onere di provare l'indisponibilità della res da parte del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione, e non la provenienza del bene, che è circostanza che riguarda il giudizio di prevenzione nei confronti del sottoposto (315). Per altri, invece, il terzo dovrebbe fornire anche la prova dell'origine lecita del bene (316). La giurisprudenza nelle sue pronunce ha sostenuto quest'ultima tesi, per cui il terzo dovrà anche dimostrare la mancanza di collegamento del diritto stesso con l'attività illecita del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione, derivante da condotte di agevolazione o di fiancheggiamento (317).

Nel caso in cui il terzo sia rimasto estraneo, senza sua colpa, al giudizio di primo grado, non potrà proporre appello. L'unico rimedio che potrà esperire sarà quello dell'incidente di esecuzione (318). Alcuni autori hanno riconosciuto la scarsa tutela che tale impugnazione fornisce al soggetto in questione, essendo priva di efficacia sospensiva della misura cautelare di prevenzione (319). Altra dottrina ha anche sottolineato la gravità della mancanza, all'interno del nostro ordinamento, di una espressa disposizione legislativa che riconosca al terzo un mezzo di impugnazione (320). Infatti, dovrebbe legislativamente prevedersi un autonomo diritto di impugnazione del terzo e qualcuno propone di ritenerlo ricompreso nell'ampio concetto di "interessato", legittimato all'impugnazione ex artt. 3 ter l. 575/65 e 4 l. n. 1423/56, in quanto portatore di un interesse autonomo e diretto (321).

10.1 I terzi titolari di diritti di credito

Nessuna previsione legislativa prende in considerazione i terzi titolari di diritti di credito, maturati in epoca antecedente al sequestro, nei confronti del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione (322).

Si può, però, affermare che, poiché il sequestro e la confisca antimafia non hanno carattere di universalità ma colpiscono sempre singoli beni, il soggetto sottoposto a misura di prevenzione, per effetto del sequestro di taluni suoi beni, non perde la capacità di agire, con la conseguenza che egli, ai sensi dell'art. 2740 c.c., continua a rispondere con tutto quanto il suo restante patrimonio non sottoposto a sequestro delle obbligazioni originariamente assunte con i terzi (323).

La questione della tutela dei diritti dei terzi nell'abito dei procedimento di prevenzione riguarda allora essenzialmente i terzi in buona fede che abbiano mantenuto specifici diritti in ordine al singolo determinato bene sottoposto a misura reale. Si tratta cioè di garantire tutela sia ai creditori muniti di privilegio speciale, purché sia il credito sia la garanzia siano stati costituiti in epoca antecedente al sequestro, sia a quanti abbiano già intrapreso sui beni atti di esecuzione forzata in epoca antecedente al sequestro.

Finora la soluzione del problema relativo alla tutela dei diritti dei terzi è stata ricollegata alla natura giuridica della ablazione operata dallo Stato. Ci si è chiesti se la confisca avesse carattere repressivo-sanzionatorio, nel qual caso avrebbe costituito acquisto a titolo originario, ovvero, se avesse natura preventiva, nel qual caso si sarebbe trattato di acquisto a titolo derivativo. La Cassazione, riconoscendo alla confisca la natura di acquisto a titolo derivativo, ha ritenuto l'inammissibilità dell'intervento nel procedimento dei titolari del diritto di credito garantito da pegno o ipoteca, ritenendo costoro abilitati a far valere il loro diritto nei confronti dell'Erario dopo la definitività della confisca (324).

Per quanto riguarda la tutela di questi soggetti allora, si è ritenuto condivisibile l'orientamento ribadito da ultimo dalle Sezioni unite della Cassazione (325) che, pur riconoscendo la finalità preventiva e sanzionatoria delle "confische speciali", tra cui va senz'altro annoverata la confisca antimafia, afferma tuttavia che "nessuna forma di confisca può determinare l'estinzione dei diritti reali di garanzia costituiti sulla cosa, in puntuale sintonia col principio generale di giustizia distributiva, per cui la misura sanzionatoria non può ritorcersi in ingiustificati sacrifici delle posizioni giuridiche soggettive di chi sia rimasto estraneo all'illecito". Di recente la Corte di Cassazione ha riconosciuto, inoltre, al terzo titolare di un diritto di garanzia la possibilità di far valere in sede esecutiva penale il suo diritto, purché in buona fede e purché lo abbia trascritto anteriormente al sequestro antimafia. Si è precisato, poi, che in sede di esecuzione, più che la revoca della confisca, il titolare del diritto può chiedere l'accertamento della sussistenza del proprio diritto reale, riguardo alla sussistenza delle condizioni per la sua tutelabilità, con particolare attenzione alla buona fede; non può invece richiedere l'accertamento dell'obbligo dello Stato di liberare l'immobile dall'ipoteca, ovvero l'accertamento del proprio diritto di promuovere l'esecuzione forzata, trattandosi di questioni estranee all'incidente di esecuzione penale e appartenenti propriamente agli ambiti di tutela civilistica (326).

Si manifestano quindi due esigenze da salvaguardare. La prima è quella di impedire che il soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione possa procurarsi prestiti bancari attraverso una schiera di creditori di comodo muniti di titoli con data certa, in modo da poter sottrarre il denaro così ottenuto a confisca, poiché vincolato dalla garanzia di terzi creditori. La seconda è quella di escludere che l'accertamento della legittimità del diritto di sequela vantato dal terzo creditore privilegiato possa consistere nel mero controllo della data di iscrizione della formalità ipotecaria, vanificando così l'intervento sanzionatorio dello Stato. L'accertamento del diritto del terzo imporrà pertanto un'indagine più approfondita per valutare in modo rigoroso l'esercizio dell'onere probatorio gravante sul terzo in ordine ai fatti costitutivi della pretesa fatta valere sulla cosa confiscata, dovendo lo stesso fornire la dimostrazione di tutti gli elementi che concorrono ad integrare le condizioni di sostanziale estraneità ai fatti che hanno dato luogo ai provvedimenti di sequestro o confisca. La miglior sede giudiziaria in cui tali verifiche devono essere svolte per tutelare i terzi in buona fede è il Tribunale della prevenzione con le forme dell'incidente di esecuzione. In questo senso, del resto, si è già espressa la giurisprudenza della Suprema Corte, anche in sede civile. Essa ha affermato che "l'esigenza di non vanificare l'intervento sanzionatorio dello Stato induce a dubitare e quindi ad escludere che l'accertamento della legittimità del diritto di sequela vantato dal terzo creditore privilegiato possa consistere nel mero controllo della data di iscrizione della formalità ipotecaria e nell'astratta verifica dell'esistenza di un credito, peraltro agevolmente documentabile nell'ipotesi di illecito accordo. L'accertamento del diritto del terzo impone un'indagine più estesa ed approfondita che, per intuibili ragioni, può essere svolta solo dal giudice penale, con garanzia del contraddittorio, in sede di procedimento di esecuzione" (327). Il Giudice della prevenzione, infatti, oltre ad avere poteri di indagine più incisivi (potendo anche delegare specifici accertamenti alla Polizia giudiziaria), ha un patrimonio di conoscenze, acquisito nel procedimento per l'applicazione della misura di prevenzione, che normalmente investe anche l'accertamento relativo alla buona o mala fede del terzo creditore ipotecario o pignoratizio rispetto al bene sottoposto a confisca. Inoltre, a differenza di quanto accade in sede civile, ove vige il principio di presunzione della buona fede del creditore ipotecario, accerta l'opponibilità del credito rispetto alla pretesa ablatoria dello Stato imponendo al creditore l'onere di dimostrare la propria buona fede (328).

A rendere tuttavia problematica la possibilità che il creditore, munito di pegno o ipoteca, possa esercitare le proprie ragioni dopo la confisca, sussistono motivi di ordine logico e giuridico. In primo luogo i beni confiscati entrano a far parte del patrimonio indisponibile dello Stato, con conseguente inespropriabilità; e, in secondo luogo, la destinazione di tali beni è espressamente vincolata al soddisfacimento delle finalità indicate dalla legge n. 109/1996. La giurisprudenza di legittimità, che tendenzialmente ha demandato alla definitività della confisca la tutela dei diritti di credito garantiti da privilegio speciale, ha sostenuto l'inammissibilità dello ius distrahendi, sicché, gli ambiti della tutela del terzo, riconosciti in via di principio grazie alla valorizzazione delle disposizioni di cui agli artt. 2913 ss c.c., risultano poi, comunque, notevolmente limitati a causa della concreta inespropriabilità del bene (329), poiché la natura giuridica dei beni confiscati (in via definitiva) ma non ancora destinati con provvedimento assunto dal Prefetto, si può parificare ai beni demaniali. Recentemente, il Consiglio di Stato (330) ha inoltre chiarito che "la destinazione del bene confiscato è elemento ulteriore rispetto alla confisca; [...] essa è da un lato vicenda successiva all'acquisizione del bene e, dall'altro, rappresenta un fatto interno all'Amministrazione e non certo una condizione di procedibilità della confisca del bene e del suo concreto apprendimento" evidenziando la necessità di acquisire il bene nella sua materialità proprio per individuare le destinazioni sociali; una volta infatti "che il bene è stato confiscato ed è entrato nella disponibilità giuridica dello Stato, la pubblica amministrazione ha il potere di disporre sullo stesso tutte le misure concrete per la sua acquisizione materiale, ivi compreso quello relativo alla liberazione delle persone che lo occupano". In tale ottica essendo il bene entrato nella disponibilità giuridica dello Stato, il procedimento di destinazione non dovrebbe essere bloccato o rallentato da istanze di terzi, potendosi forse prevedere una tutela risarcitoria in sede civile in caso di accoglimento delle ragioni degli istanti (331) o la corresponsione del valore del bene. In quest'ottica il diritto di sequela non può comprendere anche lo ius distrahendi per cui il titolare del diritto reale di garanzia potrebbe far valere nei confronti dell'Erario solo il diritto di credito e non anche la garanzia specifica vantata sul bene confiscato.

Per porre fine a questa annosa questione, che incide pesantemente, come vedremo, sul procedimento di destinazione dei beni, occorrerebbe un intervento risolutore del legislatore che preveda, ad esempio, una mera tutela risarcitoria per i terzi in buona fede che vantino diritti sullo specifico bene sottoposto a misura ablatoria.

10.2 I rapporti con il fallimento (332)

Il problema del rapporto tra procedura concorsuale e procedimento di prevenzione, seppur molto frequente, non è normativamente disciplinato ed ha dato adito a notevoli discussioni dottrinarie e ad interventi della Corte di Cassazione. Il Commissario straordinario straordinario nella sua relazione annuale sullo stato dei beni confiscati alla criminalità organizzata evidenzia che le soluzioni astrattamente proponibili sul punto sono tre (333).

La prima teorizza una prevalenza, in ogni caso, del sequestro antimafia. Gli argomenti a supporto di tale tesi partono dalla ratio perseguita dal legislatore: evitare che il mafioso possa godere e trarre vantaggio dai beni che provengono da attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. La confisca poi rappresenterebbe una misura ablativa che incide sulla titolarità dei beni e, come tale, non potrebbe essere preclusa o superata da procedimenti che incidono solo sulla legittimazione a disporre, come accade per il fallimento. Si osserva poi che il fallimento, pur determinando l'indisponibilità del bene da parte del debitore, non garantirebbe in modo pieno che il bene sia definitivamente sottratto alla disponibilità di quest'ultimo non solo sotto il profilo della possibile insinuazione al passivo del fallimento di creditori muniti di titoli di comodo, ma altresì sotto l'ulteriore profilo dell'esistenza di creditori effettivi che hanno concesso finanziamenti a fronte della complessiva garanzia patrimoniale offerta dal patrimonio del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione e che si sono prestati ad operazioni di riciclaggio. E' infatti evidente che il soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione può chiedere finanziamenti su beni provento di attività illecite, investendo autonomamente le disponibilità liquide così create e lasciando ai creditori di soddisfarsi sui beni che egli sa essere a rischio di confisca. Per tale orientamento (334), la sentenza dichiarativa di fallimento priva il fallito della amministrazione e della disponibilità dei beni, ma non ne implica il trasferimento alla massa dei creditori: la curatela fallimentare non sarebbe quindi legittimata ad intervenire nel procedimento di cui all'art. 2 ter, comma 5, l. 575/1965; il curatore fallimentare avrebbe il mero potere di ricognizione dei beni "senza in alcun modo interferire nell'attività dell'amministratore giudiziario e ciò avuto riguardo essenzialmente alla priorità dell'interesse pubblico perseguito dalla normativa antimafia (la quale contempla in particolare l'acquisizione a titolo originario, mediante confisca, da parte dello stato, dei beni sequestrati una volta divenuta definitiva la confisca) rispetto all'interesse privatistico della par condicio creditorum perseguito dalla normativa in materia di fallimento" (335).

La seconda tesi, invece, afferma la prevalenza in ogni caso del fallimento. Secondo questo orientamento la dichiarazione di fallimento renderebbe privo di effetti il sequestro antimafia anche se antecedente alla stessa, poiché l'art. 2 ter, comma 2, l. 575/1965 presuppone che i beni oggetto del provvedimento ablatorio si trovino nella disponibilità del soggetto sottoposto a misura di prevenzione, disponibilità che verrebbe meno con il fallimento che travolgerebbe così lo stesso presupposto di ammissibilità del sequestro. In caso di dichiarazione di fallimento in pendenza di procedimento di prevenzione, i beni sequestrati, al pari di tutti gli altri beni del fallito, devono essere appresi dal curatore fallimentare e da questi amministrati; qualora il fallimento sia dichiarato prima dell'emanazione del decreto di sequestro, l'amministratore giudiziario potrà solo limitarsi a chiedere, con istanza di rivendica, la consegna di quanto dovesse residuare a conclusione della procedura concorsuale.

Infine, per l'ultima soluzione vale il criterio temporale, in cui la Cassazione segue un indirizzo ispirato al principio della prevenzione temporale: la prevalenza della misura penale resterebbe legata alla sua anteriorità cronologica rispetto alla declaratoria fallimentare. In particolare la giurisprudenza ha escluso che i beni sequestrati al fallito prima della dichiarazione di fallimento entrino a far parte della massa fallimentare. Si è inoltre negato che la curatela fallimentare sia legittimata ad intervenire nella procedura di prevenzione o debba essere invitata ad intervenire nel procedimento (336), non trasferendosi i beni alla massa dei creditori nè costituendosi a favore di questi alcun diritto reale di garanzia; si è precisato, infine, che, ove il fallimento intervenga successivamente all'esecuzione del sequestro, il curatore potrà proporre incidente di esecuzione per dimostrare la legittima provenienza dei beni sequestrati e rivendicarne la titolarità (337). In base a tali principi non può disporsi il sequestro di beni dell'imprenditore nei cui confronti sia già stata aperta una procedura fallimentare, perdendo, ex art. 42 legge fallimentare, la disponibilità del proprio patrimonio; così come il curatore del fallimento non potrà apprendere all'attivo fallimentare i beni sequestrati prima della dichiarazione di fallimento.

Si è affermato che il criterio della prevenzione temporale, riguardato alla stregua del momento in cui si producono gli effetti dei provvedimenti in questione, pare essere l'unico che in mancanza di diverse indicazioni legislative, può risolvere il conflitto tra la pretesa satisfattoria dei creditori del fallito e la pretesa ablatoria dello Stato sui medesimi beni. In base a tale criterio la dichiarazione di fallimento non può essere impedita dal preesistente sequestro così come non saranno impedite da questo tutte quelle attività tipiche della procedura fallimentare (ad esempio quelle volte all'accertamento del passivo ovvero alla liquidazione dei beni non sequestrati ovvero al recupero di attività sottratte nel periodo sospetto) che non siano con esso incompatibili. La Corte Costituzionale, più volte chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità della mancata predisposizione da parte dell'ordinamento di strumenti di tutela delle ragioni dei creditori chirografari e privilegiati di chi abbia subito un sequestro antimafia, ha sempre negato ogni sua possibilità di intervento nell'ambito del procedimento di prevenzione, indicando varie possibili soluzioni (consentire ai creditori di intervenire nel procedimento per l'applicazione della misura di prevenzione ovvero fornire loro azione all'interno della procedura fallimentare) la cui individuazione non può che spettare al legislatore (338).

La Corte ha dichiarato pertanto l'inammissibilità della questione sotto il profilo dei limiti dei suoi poteri decisori rispetto alla discrezionalità del legislatore in relazione al tipo di intervento additivo richiesto. Le Sezioni Unite (339) della Cassazione hanno aperto la strada alla tutela dei terzi creditori, sancendo il carattere derivativo dell'acquisto a favore dello Stato. La confisca non è più considerata un modo di acquisto a titolo originario in quanto non prescinde dal rapporto esistente tra il bene ed il titolare, ma anzi, presuppone proprio detto rapporto che si vuole far venire meno per ragioni di prevenzione e di politica criminale.

Per quanto riguarda la posizione dei terzi, questi devono essere in buona fede ed estranei al reato (340). La coessenziale inerenza del requisito della buona fede e dell'affidamento incolpevole alla condizione della persona estranea al reato, cui appartengono le cose confiscate, rappresenta l'inevitabile corollario della impossibilità di attribuire alla confisca una base meramente oggettiva, assolutamente incompatibile col principio di personalità della responsabilità penale, sancito dall'art. 27, comma 1, Costituzione (341). I terzi dovranno quindi provare la titolarità del loro diritto, derivante da atto certo anteriore al sequestro o alla confisca, la mancanza di collegamento del proprio diritto con la condotta delittuosa del soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione e l'affidamento incolpevole ingenerato da una situazione di apparenza tale da rendere scusabile l'ignoranza o il difetto di diligenza, fatti salvi i poteri del Giudice del procedimento di prevenzione di disporre indagini.

Per quanto concerne la prassi applicativa, sono prevalsi i criteri della prevenzione temporale o della prevalenza del sequestro antimafia. Non risultano, tra l'altro, provvedimenti di rigetto di istanze di sequestro di prevenzione su beni già appresi dalla procedura concorsuale e, per quanto riguarda la gestione dei beni, questa rimane in capo all'amministratore giudiziario, sotto la direzione del Giudice Delegato, non potendo il curatore interferire con quest'ultima (342). Le Sezioni Unite (343) hanno anche affrontato il problema della coesistenza dei procedimenti. Tale pronuncia, relativa alla possibilità di disporre il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca facoltativa (art. 240, comma 1, c.p.) di beni provento di attività illecita dell'indagato e di pertinenza di un'impresa dichiarata fallita, ha sancito principi generali applicabili al rapporto della procedura concorsuale col procedimento di prevenzione. Si è rivalutata, infatti, la portata della finalità delle norme fallimentari: nei rapporti tra fallimento e sequestro preventivo, deve premettersi che non appare esatta una perentoria esclusione del rilievo pubblicistico degli interessi perseguiti dalla procedura concorsuale, che sovrastano quelli dei singoli creditori (344); la stessa Relazione Ministeriale alla legge fallimentare evidenzia che tale legge "assume la tutela dei creditori come un altissimo interesse pubblico".

Alla luce di quanto detto sembrerebbe necessaria una modifica legislativa. Appare preferibile l'idea della prevalenza del sequestro antimafia temperato dal criterio della prevenzione temporale. Questo alla luce del fatto che l'art. 2 ter, l. 575/1965, quando prevede nel procedimento di prevenzione che le misure ablative possano essere disposte anche in relazione a beni sottoposti a sequestro penale, pur restando sospesi i relativi effetti per tutta la durata dello stesso, fa implicitamente ritenere, stante la mancata previsione di altre ipotesi di "soccombenza" del sequestro di prevenzione rispetto ad altre procedure, che il sequestro prevalga rispetto ad altre situazioni processuali, nelle quali il soggetto sottoposto a procedimento di prevenzione sia privato della disponibilità dei propri beni. Infatti, le due procedure perseguono finalità del tutto differenti, con profili di interferenza solo per l'amministrazione e per il possesso dei beni in sequestro: il Curatore fallimentare non amministra e non gestisce il patrimonio (salvo il caso di esercizio provvisorio), l'Amministratore giudiziario deve gestire, sotto la direzione del Giudice delegato, anche al fine di incrementare la redditività dei beni. Peraltro la coesistenza della procedura di prevenzione e di quella fallimentare è ammessa dalla stessa Cassazione (345) nell'ipotesi in cui il soggetto dichiarato fallito sia proprietario di beni estranei alla misura di prevenzione, e che, pertanto, ben possono essere acquisiti alla massa fallimentare per il soddisfacimento delle ragioni dei creditori.

Note

1. Le misure di prevenzione sono provvedimenti special-preventivi diretti ad evitare la commissione di reati da parte di determinate categorie di soggetti considerate socialmente pericolose. Principale caratteristica è la loro applicazione indipendentemente dalla commissione di un precedente reato. Si distinguono infatti dalle misure di sicurezza le quali vengono invece applicate ai soggetti socialmente pericolosi che abbiano già commesso un reato. La distinzione tra prevenzione e repressione-prevenzione penale è andata delineandosi sotto l'influenza delle concezione penalistiche di orientamento liberale. Nel diritto penale premoderno infatti condotte sintomatiche di pericolosità sociale (es. vagabondaggio e oziosità) venivano elevate a fattispecie di reato pur in assenza di fatti lesivi di beni giuridici. A partire dalla seconda metà dell'ottocento la pericolosità connessa alla mere caratteristiche soggettive viene tendenzialmente espunta dai codici penali per essere trasferita in un autonomo diritto della prevenzione; alle misure extrapenali di prevenzione spetta il compito di arginare la pericolosità di alcune categorie di soggetti per evitare che commettano concreti fatti delittuosi. Nonostante tale distinzione il sistema delle misure ante delictum ha vissuto e continua a vivere una vicenda piuttosto tormentata poiché tali provvedimenti, previsti all'interno di uno Stato di diritto, inevitabilmente suscitano interrogativi sulla loro legittimità, trattandosi di misure restrittive della libertà personale basate su semplici sospetti o indizi. In G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte Generale, Zanichelli, 2004, pp. 839 ss.

2. Il testo originario della legge 1423/1956, recante Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e la pubblica moralità, prevedeva l'intervento preventivo nei confronti di talune categorie di soggetti pericolosi per la sicurezza e la moralità pubblica. Si trattava in particolare di: a) oziosi e vagabondi; b) soggetti dediti a traffici illeciti; c) proclivi a delinquere; d) sospetti sfruttatori di prostitute; contrabbandieri; trafficanti di stupefacenti; e) soggetti abitualmente dediti allo svolgimento di attività contrarie alla morale pubblica o al buon costume. Il legislatore del 1988 poi, con la legge n. 327, Norme in materia di misure di prevenzione personali, ha modificato le categorie dei soggetti a cui poter applicare le misure di prevenzione personali, raccogliendo di fatto le perplessità avanzate da dottrina e giurisprudenza sulle precedenti categorie soggettive. Adesso il novero di persone portatrici di "pericolosità comune" sono così individuate: a) coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto abitualmente dediti a traffici delittuosi; b) coloro che per la condotta ed il tenore di vita debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, vivere abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose; c) coloro che per il loro comportamento debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.

3. Così recita il comma 1: "Le disposizioni della legge 31 maggio 1965, n. 575, si applicano anche a coloro che: 1) operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l'ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I, titolo VI, del libro II del codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale; 2) abbiano fatto parte di associazioni politiche disciolte ai sensi della legge 20 giugno 1952, n. 645, e nei confronti dei quali debba ritenersi, per il comportamento successivo, che continuino a svolgere una attività analoga a quella precedente; 3) compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla ricostituzione del partito fascista ai sensi dell'articolo della citata legge n. 645 del 1952, in particolare con l'esaltazione o la pratica della violenza; 4) fuori dei casi indicati nei numeri precedenti, siano stati condannati per uno dei delitti previsti nella legge 2 ottobre 1967, n. 895, e negli articoli 8 e seguenti della legge 14 ottobre 1974, n. 497, e successive modificazioni, quando debba ritenersi, per il loro comportamento successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine indicato nel precedente n. 1)".

4. Così recita il comma 1: "Le disposizioni di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575, si applicano anche alle persone indicate nell'articolo 1, numeri 1) e 2) della legge 27 dicembre 1956, n. 1423. Nei casi previsti dal presente comma, le funzioni e le competenze spettanti, ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto sono attribuite al procuratore della Repubblica presso il tribunale nel cui circondario dimora la persona. Nelle udienze relative ai procedimenti per l'applicazione delle misure di prevenzione di cui al presente comma, le funzioni di pubblico ministero possono essere esercitate anche dal procuratore della Repubblica presso il tribunale competente".

5. Si ricordano tra gli altri il capo della Procura di Palermo Gaetano Costa (1980), il Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella (1980), il prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa (1982) e il promotore della legge stessa, segretario regionale siciliano del P.C.I. e membro della commissione parlamentare antimafia, Pio La Torre (1982).

6. Tale provvedimento consentì tra l'altro l'istruzione da parte del pool antimafia di Palermo, composto dai giudici Antonino Caponnetto, Leonardo Guarnotta, Giuseppe di Lello, Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, del "maxiprocesso" contro i vertici della mafia siciliana. Il processo si apre a Palermo il 10 febbraio 1986 con 474 imputati e si conclude il 16 dicembre 1987 con 19 ergastoli e 2665 anni di carcere inflitti. Nonostante l'omicidio di Antonino Scopelliti, il giudice che avrebbe dovuto sostenere l'accusa presso la Corte di Cassazione, avvenuto per chiari scopi intimidatori, il 30 gennaio 1992 vengono confermati gli ergastoli del maxiprocesso anche presso la Suprema Corte.

7. G. Fiandaca, Osservazioni a decreto Sez. I, 11 novembre 1985, Nicoletti, in Foro.it 1986.

8. Tribunale e la Corte di appello di Roma nei decreti del 26/11/1984 e 09/02/1985 (Nicoletti).

9. Corte di Cassazione penale, sez. I, n. 2773, 11 novembre 1985.

10. "Salvo che si tratti di procedimenti di prevenzione già pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, da tale data le disposizioni della legge 31 maggio 1965, n. 575, concernenti le indagini e l'applicazione delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale, nonché quelle contenute negli articoli da 10 a 10 sexies della medesima legge, si applicano con riferimento ai soggetti indiziati di appartenere alle associazioni indicate nell'articolo 1 della predetta legge o a quelle previste dall'articolo 75 della legge 22 dicembre 1975, n. 685, ovvero ai soggetti indicati nel numero 2) del primo comma dell'articolo 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, quando l'attivita' delittuosa da cui si ritiene derivino i proventi sia quella prevista dall'articolo 630 del codice penale". Articolo oggi abrogato dall'art. 11 ter D.L. 125/2008, convertito nella l. 24 luglio 2008, n. 125.

11. Si è esteso l'ambito di applicazione ai soggetti ex art. 1, nn. 1) e 2) legge 1423/1956, quando l'attività delittuosa dalla quale si ritiene derivino i proventi sia una di quelle previste dagli artt. 600, 601, 602, 629, 644, 644, 648 bis, 648 ter c.p. ovvero quella di contrabbando. Inoltre il D.L. 144/2005 (c.d. "decreto Pisanu"), convertito con la legge 55/2005, ha esteso al comma IV dell'art. 18 della l.152/1975 l'intervento ablativo patrimoniale della legge antimafia anche ai fenomeni di terrorismo internazionale.

12. Si prevede una procedura di destinazione suddivisa in quattro fasi. Nella prima fase gli enti ed i soggetti coinvolti sono quattro. Infatti i provvedimenti definitivi di confisca devono essere comunicati, a cura delle cancellerie del Tribunale, della Corte di Appello e della Corte di Cassazione, alle Intendenze di Finanza (oggi Agenzia del Demanio) della provincia nella quale aveva sede l'azienda o si trovavano i beni confiscati. Nella seconda fase gli enti e i soggetti coinvolti sono tre. Per cui fini della destinazione dei beni immobili e dei beni costituiti in azienda e confiscati, l'Intendenza di Finanza acquisisce dall'Ufficio tecnico erariale la stima del valore dei beni e ne informa il Prefetto. Nella terza fase gli enti e i soggetti coinvolti sono cinque. Infatti il Prefetto, sentito il Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, integrato dall'Intendente di finanza e dal sindaco del comune in cui si trova l'immobile o ha sede l'azienda e con la partecipazione dell'amministratore, formula al Ministro delle finanze una serie di proposte motivate in ordine alla destinazione finale del bene. La proposta può riguardare la conservazione del bene al patrimonio dello Stato e la relativa utilizzazione, il trasferimento a titolo gratuito ad altro ente pubblico per essere destinato al perseguimento di fini istituzionali o sociali o, per i beni costituiti in azienda, la cessione anche a titolo gratuito a società e imprese a partecipazione pubblica per la continuità produttiva e occupazionale. Se ritenuta di maggiore utilità per l'interesse pubblico, è possibile anche la vendita, per un corrispettivo determinato nella proposta medesima e comunque non inferiore alla stima dell'ufficio tecnico erariale, a soggetti che ne facciano richiesta, ovvero la liquidazione dei beni. Se si procede per il reato di cui all'art. 75 della legge 22 dicembre 1975, n. 685, i beni immobili confiscati possono essere assegnati ad associazioni, comunità od enti che si occupano del recupero delle persone tossicodipendenti, sempre che diano garanzie di affidabilità e svolgano la propria attività nel territorio ove l'immobile insiste e ne facciano motivata richiesta. Infine, nell'ultima fase il Ministro delle finanze ricevuta la proposta, provvede con proprio decreto in ordine alla destinazione dei beni, eventualmente anche in difformità dalla proposta medesima in considerazione di situazioni sopravvenute, ovvero di esigenze di carattere generale.

13. Vedi nota n. 6.

14. La legge 109/1996 viene approvata direttamente dalla Commissione Giustizia in sede deliberante, secondo la procedura consentita solo per i provvedimenti ritenuti di particolare importanza ed in grado di raccogliere un consenso unanime. Rispetto però alla proposta portata avanti dal mondo dell'associazionismo presenta alcune significative differenze. Prima tra tutte l'eliminazione della parte dedicata all'uso sociale dei beni confiscati ai corrotti, stralciata e mai più ripresa; e poi la limitazione a tre anni di attività del fondo prefettizio che dovrebbe gestire le risorse per i progetti di sostegno all'utilizzo dei beni confiscati.

15. Cfr. D. Fondaroli, Le ipotesi speciali di confisca nel sistema penale, Bologna 2007, pp. 171 ss.

16. Secondo Cass., sez I pen., 17 gennaio 2008, n. 6613: "Ai fini della formulazione del giudizio di pericolosità, funzionale all'adozione, nei confronti di un determinato soggetto, di misure di prevenzione ai sensi della l. n. 575 del 1965 (disposizioni contro la mafia), è legittimo valersi di elementi di prova e/o indiziari tratti da procedimenti penali, benché non ancora conclusi, e, nel caso di processi definiti con sentenza irrevocabile, anche indipendentemente dalla natura delle statuizioni terminali in ordine all'accertamento della penale responsabilità dell'imputato, sempre che gli indizi non abbiano i caratteri della gravità, precisione e concordanza richiesti dall'art. 192 c.p.p., e rappresentino comunque elementi certi, dai quali legittimamente desumere l'appartenenza del soggetto a un'associazione di tipo mafioso e, quindi, la sua pericolosità". In senso conforme: Cass., sez. I pen., 15 ottobre 2003, n. 43046; Cass., sez. VI pen, 3 aprile 2000 n. 5786.

17. Secondo Cass., Sez. VI pen., 22 marzo 1999, n. 950: "Ai fini dell'applicazione delle misure di prevenzione, devono intendersi quali soggetti indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso coloro nei confronti dei quali risultino acquisiti elementi di sicuro valore sintomatico tali da rendere ragionevolmente fondata la probabilità che costoro siano effettivamente aderenti a un'organizzazione criminosa appartenente al genere indicato nella norma (art. 1 l. 31 maggio 1965 n. 575, nel testo sostituito dall'art. 13 l. 13 settembre 1982 n. 646). A tale scopo vanno valorizzati i presupposti soggettivi, ponendosi l'accento sul tipo di condotta che possa apparire sintomatica del collegamento con fenomeni mafiosi e sul modo di estrinsecazione della personalità del soggetto. Gli indici rivelatori di un contesto indiziario di tale tipo sono il tenore di vita, la frequentazione con pregiudicati e mafiosi, i precedenti penali e le altre concrete manifestazioni comportamentali contrastanti con la sicurezza pubblica".

18. D. Fondaroli, Le ipotesi speciali di confisca nel sistema penale, cit., pp. 175 ss.

19. Secondo Cass., sez. I pen., 12 febbraio 2002, n. 5649: "In tema di misure di prevenzione, il concetto di "appartenenza" ad una associazione mafiosa va distinto sul piano tecnico da quello di "partecipazione", risolvendosi in una situazione di contiguità all'associazione stessa che -pur senza integrare il fatto-reato tipico del soggetto che organicamente è partecipe (con ruolo direttivo o meno) del sodalizio mafioso -risulti funzionale agli interessi della struttura criminale e nel contempo denoti la pericolosità sociale specifica che sottende al trattamento prevenzionale".

20. Secondo Cass., sez. VI pen., 22 gennaio 2009, n. 17229: "Le misure di prevenzione personale e patrimoniale disciplinate dalla l. 575/1965 si applicano anche a carico di coloro che siano indiziati di appartenere a un'associazione mafiosa nella qualità di concorrenti esterni. La distinzione che sussiste tra la nozione di "appartenenza" regolata dall'art. 1 l. 575/1965 e quella di "partecipazione" punita ai sensi dell'art. 416 bis c.p. si riflette nella possibilità di assoggettare alle sanzioni preventive antimafia anche i soggetti che svolgano attività contigue e di sostegno dell'organizzazione criminale. Nel caso in cui l'impresa mafiosa (nella specie una banca) risulti gestita in modo da entrare stabilmente nel circuito delle attività criminali di un gruppo mafioso, possono essere sottoposti a confisca tutti i proventi dell'attività d'impresa, senza alcun ulteriore accertamento circa l'origine lecita o meno di tali utili. Ne deriva che possono essere confiscate le somme attribuite per la percezione dei dividendi e per la cessione del pacchetto azionario dell'impresa. In senso conforme anche Cass., sez. pen., 4 luglio 2007, n. 33479; Cass., sez. II, 16 dicembre 2005, n. 1023; Cass., sez. VI pen., 17 marzo 1997, Prisco.

21. Secondo Cass., sez. I, 16 aprile 2007, n. 21048: "Ai sensi degli art. 1 e 2, l. 31 maggio 1965 n. 575, in materia di misure di prevenzione da applicarsi nei confronti di soggetti indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, il requisito della "attualità della pericolosità" è insito nella ritenuta attualità della presumibile appartenenza del proposto a un sodalizio mafioso, in quanto, in tal caso, la pericolosità del proposto è presunta dal legislatore e non richiede, a differenza di quanto previsto per le misure di prevenzione di cui alla l. 27 dicembre 1956 n. 1423, l'accertamento in concreto della sua pericolosità. Ne deriva che, una volta che il giudice della prevenzione abbia fornito adeguata motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza della partecipazione a un'associazione mafiosa e non sussistono elementi -a parte il decorso del tempo, di per sé non decisivo -dai quali possa ragionevolmente desumersi che l'appartenenza sia venuta meno, non occorre alcuna specifica motivazione che dia conto delle ragioni per le quali il soggetto sia da considerare anche attualmente pericoloso". In senso conforme anche Cass., sez. II, 16 febbraio 2006, n. 7616; Cass., sez. VI pen., 23 novembre 2004, n. 114; Cass.; sez. VI pen., 22 marzo 1999, n. 950.

22. Secondo Cass., sez. II pen., 23 gennaio 2007, n. 1174: "Tale principio si fonda sulla considerazione che le associazioni di tipo mafioso per un verso presentano un elevato stato di stabilità e permanenza ne tempo, e, per altro verso non sono circoli dei quali si possa cessare di far parte semplicemente non rinnovando l'iscrizione o comunicando la disdetta, ma uscire dai quali, il più delle volte comporta rappresaglie o gravi conseguenze per l'interessato ed i suoi familiari".

23. Cass., sez. I pen., 27 giugno 1987; Cass., sez. I, 21 aprile 1987; Cass., sez. V pen., 18 settembre 1987.

24. Cass., sez. pen., 17 gennaio 2008; Cass., sez. V pen., 28 marzo 2002, n. 23041; Cass., sez. I pen., 20 novembre 2000, n. 8914; Cass., sez. I pen., 20 novembre 2000, n. 8922.

25. Gli organi creati appositamente per la lotta alla criminalità organizzato sono essenzialmente due: 1) la Direzione Nazionale Antimafia e la Direzione Investigativa Antimafia. La prima è stata istituita con la legge del 20 gennaio 1992 n.8, nell'ambito della Procura generale presso la Corte di Cassazione, ed ha il compito di coordinare le indagini relative alla criminalità organizzata. La DNA è diretta dal Procuratore nazionale antimafia (PNA), nominato direttamente dal Consiglio Superiore della Magistratura. Il PNA si avvale, per il suo lavoro, delle indagini svolte dalla Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.) che dipende da Ministero. Infatti, il PNA non ha né il potere di indagine né quello dell'esercizio dell'azione penale. Il Procuratore collabora con i magistrati addetti alle indagini antimafia, le Direzioni Distrettuali Antimafia (DDA); risolve eventuali conflitti riguardanti lo svolgimento delle indagini; assume le indagini preliminari svolte dai procuratori distrettuali, se non sono state osservate le direttive impartite o non si è efficacemente realizzato il coordinamento. Il PNA risponde al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, che riferisce al Consiglio Superiore della Magistratura, sia per l'attività della DNA sia per le attività delle DDA. Le funzioni del PNA sono (art. 371 bis c.p.p.) "funzioni di impulso" per: rendere effettivo il coordinamento delle attività di indagine; garantire la funzionalità dell'impiego della polizia giudiziaria nelle sue diverse articolazioni; assicurare la completezza e tempestività delle investigazioni; risolvere eventuali conflitti riguardanti lo svolgimento delle indagini. Tra i poteri esercitati dal Procuratore nazionale si ricordano: potere di acquisire ed elaborare notizie, informazioni e dati attinenti alla criminalità organizzata; potere di accedere ai registri delle notizie di reato e alle banche dati costituite presso le Procure distrettuali; potere di applicazione temporanea di magistrati della stessa direzione nazionale o delle direzioni distrettuali per soddisfare specifiche e contingenti esigenze investigative o processuali; potere di avocazione delle indagini preliminari svolte dai procuratori distrettuali, allorché il coordinamento non risulti possibile per inerzia o violazione di doveri. Nell'ottobre del 2005 il Consiglio Superiore della Magistratura nomina procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, con 18 voti favorevoli (tra cui quello del vice presidente, Virgilio Rognoni, di Unicost, Magistratura Indipendente, Movimento per la Giustizia) e 5 astensioni (Magistratura democratica). 2) La Direzione Investigativa Antimafia è stata costituita con la legge del 30 dicembre 1991 n.410 con il compito di coordinare lo svolgimento dell'attività investigativa specializzata sulla criminalità organizzata. Si avvale di un organizzazione interforze ed opera a livello nazionale. Dipende dal Ministero dell'Interno. La DIA è diretta da un Direttore scelto, a rotazione, tra gli alti funzionari della Polizia di Stato, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza. La DIA gode di autonomia gestionale amministrativo-contabile -si compone di una Struttura centrale e di una Struttura periferica, costituita da 12 Centri Operativi (Torino, Milano, Genova, Padova, Firenze, Roma, Bari, Napoli, Reggio Calabria, Catania, Palermo e Caltanissetta e 7 Sezioni Operative (Trieste, Salerno, Lecce, Agrigento, Messina, Catanzaro e Trapani. Fonte: DIA Direzione investigativa Antimafia.

26. La precedente rubrica "Associazioni di tipo mafioso" è stata sostituita da "Associazioni di tipo mafioso anche straniere", così come previsto dall'art. 1, comma 1, lett. b bis), n. 5), del D.L. 23 maggio 2008, n 92.

27. Art. 11 ter legge 125/2008.

28. G. Abbatista, Misure di prevenzione patrimoniali antimafia e pacchetto sicurezza del 2008: un equilibrio instabile tra efficienza del sistema e recupero delle garanzie, in F. Cassano (a cura di), Le misure di prevenzione patrimoniale dopo il pacchetto sicurezza, Nel diritto editore, 2009, pp. 289 ss.

29. Cass., sez. II pen, 15 maggio 2009, n. 33597 "Le misura patrimoniali di prevenzione del sequestro e della confisca, previste nei confronti dei soggetti indicati dall'art. 1 l. n. 575/65, come modificato dall'art. 10 del d.l. n. 92/08, conv. nella l. n. 125/08, sono applicabili anche ai soggetti pericolosi ai sensi dell'art. 1 n. 1 e 2 l. n. 1423/56. Infatti il rinvio di cui all'art. 19 comma 1 l. 22 maggio 1975 n. 152 contenente norme a tutela dell'ordine pubblico non ha carattere erariale o recettizio ma di ordine formale nel senso che in difetto di una espressa esclusione o limitazione, deve ritenersi esteso a tutte le norme successivamente interpolate nell'atto-fonte in sostituzione, integrazione o modificazione di quelle originarie". Vedi anche Cass., sez. I, 04 febbraio 2009, n. 6000.

30. La precedente epigrafe: "Disposizioni contro la mafia" è stata così sostituita: "Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere".

31. L'esperienza giudiziaria ha fatto riscontrare delle ipotesi in cui l'organizzazione criminale ha preferito sacrificare la vita di un proprio membro piuttosto che subire la confisca dei beni di cui il proposto risultava titolare o di cui aveva disponibilità.

32. Presentato nel marzo del 2001 al Ministero della giustizia in versione non definitiva.

33. Misure di contrasto alla criminalità organizzata. Delega al governo per l'emanazione di un testo unico delle disposizioni in materia di misure di prevenzione. Disposizioni in materia di ordinamento giudiziario e patrocinio a spese dello Stato.

34. Approvata dalla Commissione nella seduta del 27 novembre 2007 e trasmessa alle Presidenze delle Camere il 28 novembre 2007.

35. F. Fiorentin, Il direttore Dia può proporre la sorveglianza, in Guida al diritto, n. 32, 9 agosto 2008, pp. 109 ss.

36. "Nel corso del procedimento per l'applicazione i una delle misure previste dall'art. 3 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, iniziato nei confronti delle persone indicate nell'articolo 1, il tribunale, ove necessario, può procedere ad ulteriori indagini oltre quelle già compiute a norma dell'articolo precedente [...]".

37. "I provvedimenti previsti dal presente articolo possono essere adottati, [...] anche dopo l'applicazione della misura di prevenzione, ma prima della sua cessazione".

38. A.M. Maugeri, Profili di legittimità costituzionale delle sanzioni patrimoniali (prima e dopo la riforma introdotta dal decr. n. 92/2008): la giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Suprema Corte; A. Gialanella, La confisca di prevenzione antimafia, lo sforzo sistemico della giurisprudenza di legittimità e la retroguardia del legislatore, in F. Cassano (a cura di), Le misure di prevenzione patrimoniali dopo il pacchetto sicurezza, cit., pp. 39 ss.

39. A.M. Maugeri, La riforma delle sanzioni patrimoniali: verso un actio in rem, in O. Mazza, F. Viganò (a cura di), Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica, Giappichelli, 2008, p. 12.

40. Corte Costituzionale, 8 ottobre 1996, n. 335.

41. Nella Relazione si auspica anche "la specializzazione degli operatori di polizia e dell'Autorità Giudiziaria inquirente nella gestione di indagini patrimoniali complesse, anche attraverso il contributo della Procura nazionale antimafia; ciò, nell'ottica del continuo affinamento delle tecniche investigative e della diffusione della cultura degli accertamenti patrimoniali per contrastare la capacità della criminalità di infiltrarsi nei gangli dell'economia".

42. Vedi D.D.L n. 692-B in cui si afferma che la riforma intende valorizzare l'esperienza delle Direzioni distrettuali antimafia.

43. In merito, si ricorda che gli incentivi pubblici si dividono in due grandi categorie: i contributi ed i finanziamenti agevolati. I primi sono aiuti finanziati a fondo perduto, che non devono essere restituiti dal beneficiario come le sovvenzioni (che hanno carattere periodico o una tantum e sono dirette a favorire la patrimonializzazione dell'impresa o a riequilibrare la complessiva economicità gestionale della stessa) e i premi, corrisposti in base a risultati dell'impresa beneficiaria. I finanziamenti agevolati rappresentano invece delle vere e proprie operazioni di credito con obbligo di restituzione entro un termine genericamente lungo a condizioni assai favorevoli per il beneficiario: caratteristica dei finanziamenti agevolati è l'obbligo del loro impiego per un fine specifico e preventivamente determinato.

44. Presso il Ministero dell'Interno è istituito un Centro elaborazione dati per la raccolta delle informazioni e dei dati che devono essere forniti anche dalla forze di polizia in materia di tutela dell'ordine, della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione della criminalità. La circolazione delle informazioni ruota in entrambi i sensi, cioè dall'autorità giudiziaria alla polizia, e, viceversa. L'art. 6, comma 1 lett. a) l. 121/1981, impone, infatti, un obbligo di trasmissione a carico di tutte le forze di polizia delle informazioni e dei dati che devono essere forniti in materia di tutela dell'ordine, della pubblica sicurezza, e di prevenzione e repressione della criminalità.

45. Cass., sez. I penale, 20 dicembre 1989.

46. C. Taormina, Il procedimento di prevenzione nella legislazione antimafia, Giuffrè, 1988, pp. 125 ss.

47. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, CEDAM, 2002, pp. 103 ss.

48. Cass., sez. VI pen., 11 ottobre 2000, Mancuso.; Cass., sez. VI pen., 22 febbraio 1999, Contino.; Cass., sez. I pen., 17 gennaio 1995, Boccolato.

49. Cfr G. Nanula, La lotta alla mafia, Giuffrè, 2009 pp. 27 ss. e N. Pollari, Tecnica delle inchieste patrimoniali per la lotta alla criminalità organizzata, Laurus, 2000 pp. 315 ss.

50. Tra quelle più significative si ricordano gli schedari delle Forze di Polizia, dei Registri pubblici, degli Albi nazionali, dei Ruoli di categoria, delle Camere di Commercio, dell'Anagrafe Tributaria, dell'I.N.P.S., del Casellario Giudiziario, dei giornali, delle aziende di soggiorno, degli uffici di statistica. Per le indagini patrimoniali assumono particolare importanza il Registro delle imprese; le Conservatorie dei registri immobiliari; l'ufficio tecnico erariale; gli uffici che si occupano di Opere pubbliche; i Pubblici registri automobilistico, navale ed aeronautico; la Motorizzazione civile.

51. Cfr G. Nanula, La lotta alla mafia, cit., p. 27 ss. e N. Pollari, Tecnica delle inchieste patrimoniali per la lotta alla criminalità organizzata, cit., pp. 315 ss.

52. Le loro ricchezze erano rappresentate da libretti al portatore (contraddistinti da nomi di fantasia o numeri), da certificati di deposito al portatore, da titoli in gestione fiduciaria, da cassette di sicurezza, nonché da rapporti intestati alla cerchia familiare o a prestanomi incensurati. In questa situazione, alle richieste della polizia giudiziaria per la ricostruzione dei patrimoni illeciti le banche e gli altri intermediari finanziari rispondevano soltanto sulla base delle risultanze nominative, vanificando quindi ogni possibilità di far emergere la ricchezza finanziaria occulta della criminalità organizzata.

53. Tale legge però dimostrò subito alcuni inconvenienti. In primo luogo la limitazione a venti milioni di lire comportò che i libretti venissero utilizzati come moltiplicatore della normale carta moneta. Bastavano ad esempio dieci libretti al portatore per trasferire anonimamente duecento milioni delle vecchie lire. In secondo luogo il legislatore non dispose che i libretti circolanti per un valore superiore ai venti milioni dovessero rientrare. Infine le banche continuavano ad emettere "certificati di deposito al portatore", titoli di credito senza limiti di importo.

54. L'art. 20, commi 2 b), 4 e 5 disponeva che: le banche e gli altri intermediari finanziari dovessero rilevare e tenere in evidenza i dati identificativi, compreso il codice fiscale, di ogni soggetto che intrattenesse con loro rapporti di conto o di deposito; tale rilevamento ed evidenziazione riguardasse ovviamente tutti i soggetti che intrattenessero un qualunque rapporto di conto o di deposito e dunque anche i rapporti al portatore; che tale misura riguardasse i rapporti in essere alla data della entrata in vigore della legge, ancorché istituti precedentemente.

55. L'Anagrafe Tributaria, istituita con Decreto del Presidente della Repubblica del 29 settembre 1973 n. 605, è la banca dati utilizzata per la raccolta e l'elaborazione dei dati relativi alla fiscalità dei contribuenti italiani. Si tratta in particolare di un Centro di raccolta e di elaborazione, su scala nazionale, dei dati e delle notizie riguardanti la capacità contributiva dei singoli soggetti, nonché di smistamento di tali dati agli uffici preposti all'accertamento e al controllo. Vi sono iscritti tutti i contribuenti cui, peraltro, viene attribuito un numero di codice fiscale individuale. Mediante l'anagrafe è possibile, quindi, ottenere un elenco preciso dei contribuenti ma anche una raccolta di dati utili ai fini dell'accertamento e dello studio dei fenomeni tributari. L'anagrafe, inoltre, raccoglie elementi e notizie in ordine a movimenti economici fiscalmente rilevanti, che possono essere utilizzati, con controlli incrociati, da altre pubbliche amministrazioni; non a caso la banca-dati dell'anagrafe viene impiegata per la lotta al riciclaggio del denaro sporco e per verificare l'effettivo reddito di quanti vogliono usufruire di particolari benefici assistenziali e previdenziali.

56. Si escludeva, infatti: 1) la comunicazione dei nominativi di coloro che intrattenessero conti transitori bancari e comunque rapporti non continuativi nell'affidamento della propria gestione patrimoniale all'attività istituzionale degli intermediari creditizi e finanziari; 2) non comprendeva coloro che investivano in certificati di deposito ed analoghi titoli al portatore; 3) escludeva tutti coloro i cui rapporti consistevano nella tenuta di cassette di sicurezza; 4) fra i soggetti obbligati alla segnalazione erano escluse le imprese e gli enti assicurativi. Ad esempio, se il mafioso avesse investito in certificati di deposito o detenesse un tesoro in cassette di sicurezza, non sarebbe mai stato rilevato ed il suo nominativo non sarebbe stato comunicato.

57. Molti i problemi che si agitavano sulla stampa più o meno specializzata. Ci si chiedeva se dovessero essere segnalati all'Anagrafe tributaria soltanto i titolari di conti superiori a venti milioni delle vecchie lire; se dovessero invece essere segnalati tutti coloro che possedevano un conto; se dovesse trattarsi di una semplice trasmissione di dati, gestiti dalla stessa società (Sogei) concessionaria della gestione dell'Anagrafe tributaria ovvero se dovesse essere costituito un apposito centro informatico gestito dal Ministero del tesoro; se dovesse essere prevista una speciale griglia di ingresso alla consultazione dei dati e per i quali organi della stessa Amministrazione finanziaria potesse essere consentito l'accesso; e via dicendo.

58. Tenuto conto delle modifiche del D.Lgs. 231/2007 l'attuale art 7, comma 6, recita: "Le banche, la società Poste italiane Spa, gli intermediari finanziari, le imprese di investimento, gli organismi di investimento collettivo del risparmio, le società di gestione del risparmio, nonché ogni altro operatore finanziario, fatto salvo quanto disposto dal secondo comma dell'articolo 6 per i soggetti non residenti, sono tenuti a rilevare e a tenere in evidenza i dati identificativi, compreso il codice fiscale, di ogni soggetto che intrattenga con loro qualsiasi rapporto o effettui, per conto proprio ovvero per conto o a nome di terzi, qualsiasi operazione di natura finanziaria ad esclusione di quelle effettuate tramite bollettino di conto corrente postale per un importo unitario inferiore a 1.500 euro; l'esistenza dei rapporti e l'esistenza di qualsiasi operazione di cui al precedente periodo, compiuta al di fuori di un rapporto continuativo, nonché la natura degli stessi sono comunicate all'anagrafe tributaria, ed archiviate in apposita sezione, con l'indicazione dei dati anagrafici dei titolari e dei soggetti che intrattengono con gli operatori finanziari qualsiasi rapporto o effettuano operazioni al di fuori di un rapporto continuativo per conto proprio ovvero per conto o a nome di terzi, compreso il codice fiscale".

59. Provvedimento del 29/02/2008, n. 31934, recante Disposizioni integrative del provvedimento del 19 gennaio 2007 in attuazione dell'art. 7, sesto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 605, così come modificato dall'art. 63, comma 1, del Decreto Legislativo 21 novembre 2007, n. 231.

60. Stante l'allegato 3 del Provvedimento del Direttore dell'agenzia delle entrate del 22/12/2005, gli operatori finanziari obbligati alla segnalazione dei dati all'Anagrafe tributaria sono i seguenti: Banche; Poste Italiane spa; Soggetti ex artt. 106-107-113-155 TUB; cambiavalute; casse peota; agenti in attività finanziaria; addetti al commercio in oro; istituti di moneta elettronica (IMEL); imprese di investimento (SIM); organismi di investimento collettivo del risparmio; società di gestione del risparmio (SGR); società fiduciarie; altri intermediari. Per quanto riguarda i dati oggetto della comunicazione, il Provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate del 19/01/2007, prevede che siano comunicati i dati identificativi, compreso il codice fiscale, di coloro che (persona fisica o giuridica) risultino titolari di una serie di rapporti specificati in apposita tabella. Tali rapporti sono: conto corrente; conto deposito titoli e obbligazioni; conto deposito a risparmio; rapporto fiduciario; gestione collettiva del risparmio; gestione patrimoniale; certificati di deposito e buoni fruttiferi; portafoglio; conto terzi individuale o globale; dopo incasso; cessione indisponibile; cassette di sicurezza; depositi chiusi; contratti derivati su crediti; carte di credito o di debito; crediti di firma; crediti; fondi pensione; patto compensativo; finanziamento in pool; partecipazioni; operazioni extraconto; altro rapporto.

61. Per questi motivi gli investigatori per non disperdere tempo e forze preziose erano costretti a fare rilevamenti solamente sull'area circoscritta di influenza dell'indiziato, allargando le indagini su scala nazionale all'intero sistema bancario e finanziario solo per i soggetti la cui movimentazione di interessi si estendesse su tutto il territorio nazionale.

62. Art. 6 comma 2: "La UIF esercita le proprie funzioni in piena autonomia e indipendenza. In attuazione di tali principi la Banca d'Italia disciplina con regolamento l'organizzazione e il funzionamento della UIF, ivi compresa la riservatezza delle informazioni acquisite. La Banca d'Italia attribuisce alla UIF mezzi finanziari e risorse idonei ad assicurare l'efficace perseguimento dei suoi fini istituzionali".

63. Cfr. G. Nanula, La lotta alla mafia, cit., pp. 289 ss.

64. Secondo Cass., sez. VI pen., 21 maggio 2003, n. 36317: "È manifestamente infondata la q.l.c. degli art. 4 l. n. 1423 del 1965 e 2 bis e 2 ter l. n. 575 del 1965, sollevata in riferimento all'art. 111 cost., per la mancanza di contraddittorio nelle indagini che il questore ed il p.m. compiono ai fini della proposta, in quanto la natura camerale del procedimento è funzionale all'adozione delle misure di carattere patrimoniale, e quindi all'emissione del provvedimento di sequestro, e pertanto il contraddittorio si instaura dopo la formulazione della proposta, che l'interessato è ammesso a contrastare, chiedendo le necessarie indagini e proponendo i mezzi di prova". In senso conforme: Cass., sez. I pen., 7 marzo 1977, Ortoleva; Cass., sez. I pen., 12 novembre 1974, Serra; Cass., sez. I pen., 29 novembre 1985, Di Maio.

65. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 139 ss; L. Filippi Il diritto di difesa nel procedimento di prevenzione patrimoniale, in F. Cassano (a cura di), Le misure di prevenzione patrimoniale dopo il pacchetto sicurezza, cit., pp. 487 ss.

66. Cfr. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 139 ss.

67. Ibid.

68. Ibid.

69. Vedi nota n. 33.

70. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 166 ss.

71. Questo articolo è stato aggiunto dall'art. 9 della legge 19 marzo 1990, n. 55, recante Disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso.

72. "Quando si procede nei confronti di persone imputate del delitto di cui all'art. 416 bis del codice penale o del delitto di cui all'art. 75 della legge 22 dicembre 1975, n. 685, il Pubblico ministero ne da senza ritardo comunicazione al Procuratore della repubblica competente, per il promuovimento, qualora non sia già in corso, del procedimento per l'applicazione di una misura di prevenzione, ai densi della legge 31 maggio 1965, n. 575. Successivamente, il giudice penale trasmette a quello che procede per l'applicazione della misura di prevenzione gli atti rilevanti ai fini del procedimento, salvo che ritenga necessario mantenerli segreti".

73. Cass., sez. VI pen., 18 dicembre 2008, n. 16030; Cass., sez. II pen., 09 maggio 2000, n. 2542.

74. Cfr. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 196 ss.

75. Cass., sez. VI pen., 23 ottobre 2008, n. 42707; Cass. pen. n. 30871 del 2003, Cass. pen. n. 6280 del 2003, Cass. pen., sez. I, 21 maggio 1999 n. 3814.

76. Cfr. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 198 ss.

77. Cass., sez. I pen., 26 novembre 1998, n. 5897.

78. Cass., sez. II pen., 14 febbraio 1997, Nobile.

79. Sul tema A. Mangione, La misura di prevenzione patrimoniale tra dogmatica e politica criminale, CEDAM, 2001, pp. 241 ss. Qui si ricorda il caso del mandato senza rappresentanza, cui l'indiziato di mafia potrebbe far ricorso al fine di non risultare proprietario degli acquisti effettuati dal mandatario. In questo caso si può disporre il sequestro e la successiva confisca dove si possa dimostrare che i beni acquistati dal mandatario risultino nella disponibilità indiretta o di fatto del mandante. Anche nella ipotesi di intestazione fiduciaria, in cui si procede al trasferimento del bene al fiduciario con l'accordo che questi ne farà l'uso prescritto dal fiduciante. Quest'ultimo, se indiziato di appartenenza ad associazione mafiosa, pur essendo sfornito di poteri di disposizione sui beni "in fiducia" ed essendo solo creditore del risultato della gestione fiduciaria, potrò tuttavia subire il sequestro dei beni nella proprietà e disponibilità giuridica del fiduciario solo se ha disponibilità di fatto sugli stessi beni.

80. Corte di Appello di Reggio Calabria, decreto del 06/03/1986; Cass., sez. I pen., 26/05/86, Priolo.

81. Cass., sez. II pen., 18 novembre 1992, Trappinari; Cass., sez. I, 14 febbraio 1988, Nicoletti.

82. Cass., sez. II pen., 23 giugno 2004, Palombo; Cass., sez. I pen., 15 ottobre 2003, n. 43046; Cass., sez. I pen., 10 novembre 2007, n. 6279.

83. Cass., sez. I pen., 22 giugno 2007, n. 28032.

84. Cass., sez. I pen., 7 dicembre 2005, n. 2960; Cass., sez. II pen., 21 marzo 1997, Nobile; Cass., sez. II pen., 5 dicembre 1996, Liso.

85. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 196 ss; P. Corso, Profili costituzionali delle misure di prevenzioni: aspetti teorici e prospettive di riforma, in G. Fiandaca e S. Costantino (a cura di), La legge antimafia tre anni dopo, Milano, 1986, p. 138.

86. Art. 3 della legge 24 luglio 1993, n. 256, recante modifica all'istituto del soggiorno obbligato.

87. Cfr. A. Gialanella, Patrimoni di mafia, Edizioni scientifiche italiane, 1998, pp. 98 ss.

88. Secondo A.M. Maugeri, La riforma delle sanzioni patrimoniali: verso un actio in rem?, cit., pp. 3031, tale orientamento più garantista sarebbe stato maggiormente conforme alle indicazioni della decisione quadro GAI 212/2005 che prevede poteri estesi di confisca solo laddove non sussista una condanna ma sia stata accertata la sproporzione di ogni bene ed il giudice sia convinto, in base a fondati motivi, della loro origine illecita.

89. A. Gialanella, Patrimoni di mafia, cit., p. 118.

90. C. Taormina, Il procedimento di prevenzione, cit, p. 251.

91. G. Conte, Poteri di accertamento, misure patrimoniali e sanzioni amministrative antimafia, in Foro it., 1984, V, pp. 261 ss.

92. G. Fiandaca, Osservazione a Cass., sezione feriale 7 agosto 1984, Aquilino, in Foro it., 1985, c. 274, ove si distingue la confisca penale da quella di prevenzione. Si osserva, infatti, che il diverso oggetto comporta una estensione applicativa diversa. La prima, accedendo specificatamente al reato associativo mafioso ex art. 416 bis c.p., si riferisce alle "cose che servirono o furono destinate a commettere il reato" ed a quelle "che sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l'impiego". La confisca di prevenzione, invece, ha una portata più ampia, avendo ad oggetto beni che si ha motivo di ritenere "siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego", per cui tali beni possono derivare dalle attività illecite più diverse realizzate dagli associati di mafia e non dal solo delitto di associazione mafiosa.

93. Cass., sez. VI pen., 27 maggio 2003, n. 36762; Cass., sez. V pen, 23 aprile 2003, n. 29997; Cass., sez. V, 05 giugno 2000, n. 3203; Cass., sez. II, 06 maggio 1999, 2181; Cass., sez. I pen, 15 gennaio 1996, 148.

94. La già citata sentenza n. 2181 del 06 maggio 1999, precisa che è legittimo il provvedimento di confisca di prevenzione di beni del prevenuto che ne giustifichi il possesso dichiarando di averli acquistati con i proventi dell'evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto; né assume rilievo, in proposito, la circostanza che in seguito del perfezionamento dell'iter amministrativo previsto dalla l. 30 dicembre 1991, n. 413 (c.d. condono tombale), le somme di cui all'evasione fiscale siano entrate a far parte del patrimonio del prevenuto medesimo, dal momento che l'illiceità originaria del comportamento con cui se le procurate continua a dispiegare i suoi effetti ai fini della confisca.

95. Cass., sez. II pen., 23 giugno 2004 n. 35628; Cass., sez. V pen, 28 marzo 2002, n. 23041; Cass., sez. VI, 19 marzo 1997, n.1171; Cass., sez. VI pen., 24 gennaio 1995, n. 249; Cass., sez. I pen, 21 aprile 1987, n. 1486. Inoltre A. Gialanella, Patrimoni di mafia, cit., p. 119; E. Amodio, Misure di prevenzione nella legge antimafia, in Giust. Pen., 1985, III, c. 632; D. Siracusano, Indagini, indizi e prove nella nuova legge antimafia, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1984, pp. 898 ss.

96. Cfr. A. Gialanella, Patrimoni di mafia, cit., pp. 98 e ss.

97. Cass., sez. I pen., 04 luglio 2007, n. 33479.

98. Cfr. A. Gialanella, Patrimoni di mafia, cit., pp. 98 e ss.

99. Cass., sez. II pen., 08 aprile 2008, n. 21717; Cass., sez. I, 05 ottobre 2006, n. 35481.

100. Cass., sez. V pen., 23 marzo 2007, n. 18822. In senso conforme anche: Cass., sez. V pen., 13 giugno 2006, n. 24778; Cass., sez. pen; 1998, n.5365; Cass., sez. I pen., 02 maggio 1995, n. 2654.

101. Cfr. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 204 ss.

102. Corte Costituzionale, 17 dicembre 1993, n. 465.

103. Cass., sez. UU, 15 novembre 1985, Giovinazzo.

104. Cass., sez. feriale, 07 agosto 1984, Aquilino.

105. R. Guerrini e L. Mazza, Le misure di prevenzione. Profili sostanziali e procedurali, Padova, 2004.

106. D. Siracusano, Commento all'art. 14 l. 13/09/1982 n. 646, in Legislazione penale, 1983, p. 308.

107. V. Macrì, Le nuove misure di prevenzione patrimoniali, in Quaderni del C.S.M., Le misure di prevenzione, 1982, pp. 99 ss.

108. Guida al diritto, 2002, n. 21, p. 80.

109. Cfr. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 236 ss.

110. Cfr. F. Cassano, L'amministrazione dei beni in sequestro e la tutela dei diritti dei terzi, in Quaderni del C.S.M., 1998, p. 142.

111. F. Cassano, Misure di prevenzione patrimoniale e amministrazione dei beni, cit., p. 232.

112. Cass., sez. I pen, 20 gennaio 1994, Ferraro; Cass., sez. I pen., 04 marzo 1985, Spadaro.

113. Il potere può essere esercitato, previa udienza camerale, su proposta del giudice delegato ovvero ex officio. La convocazione camerale deve contenere l'indicazione specifica dei doveri non osservati da parte dell'organo di amministrazione e/o delle censure di incapacità che si muovono.

114. Ad esempio può vietare quegli atti di ordinaria amministrazione che non ritenga in linea con le direttive impartite in via preliminare sulla gestione.

115. Secondo Cass., sez. VI pen., 16 maggio 1995, Romano, tali provvedimenti adottati dal giudice delegato nei confronti del proposto e della sua famiglia in tema di alimenti e di abitazione nella casa di proprietà sono considerati dalla giurisprudenza inoppugnabili attraverso l'opposizione prevista all'art. 26 del R.D. citato. La Suprema corte (Cass., sez. V pen, 23 maggio 2006, n. 25621; Cass., sez. I pen., 23 maggio 2000, Nicoletti; Cass., sez. I pen. 11 novembre 1998, Alfieri) ha tuttavia individuato nell'incidente di esecuzione innanzi al Tribunale un possibile modello di tutela per coloro che intendano dolersi del contenuto della decisione in tale ambito.

116. A. Cairo, L'amministrazione giudiziaria dei beni in sequestro, in Le misure di prevenzione patrimoniali dopo il pacchetto sicurezza, cit., p. 411.

117. Ivi, p. 403.

118. Ivi, p. 413.

119. Ad esempio le ipotesi in cui il professionista assume incarico ulteriore e concorrente con quello di amministratore giudiziario, in altro procedimento pendente innanzi al Tribunale. In quel caso non v'è dubbio che si realizzi una situazione di imbarazzo e che motivi di opportunità sconsiglino all'amministratore stesso di svolgere contemporaneamente ruolo identico nell'interesse del Tribunale e di altre parti, sia pure in diverse procedure.

120. Cfr. A. Cairo, L'amministrazione giudiziaria dei beni in sequestro, in Le misure di prevenzione patrimoniali dopo il pacchetto sicurezza, cit., pp. 403 ss.

121. L. 15 luglio 2009, n. 94.

122. L'art. 2, commi 13-14-15, l. 94/2009, fissa i tempi e le modalità per l'istituzione e la tenuta dell'Albo nazionale degli amministratori giudiziari. In particolare, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge dovrà essere emanato il decreto legislativo di istituzione dell'Albo e, nei successivi novanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo, dovrà essere emanato il decreto del Ministro della giustizia recante modalità di tenuta e pubblicità dell'Albo.

123. Cfr. A. Cairo, L'amministrazione giudiziaria dei beni in sequestro, in Le misure di prevenzione patrimoniali dopo il pacchetto sicurezza, cit., pp. 403 ss.

124. Cass., sez. I pen, 14 luglio 1995, n. 3388, considera tale atto in linea con l'art. 2 sexies l. 575/65 e pertanto non abnorme.

125. Tribunale di Trapani, 14 marzo 2005: "L'amministratore giudiziario, il quale, ove il sequestro ex l. n. 575 del 1965 abbia per oggetto le quote o le azioni facenti capo al soggetto proposto per la misura di prevenzione, si viene a trovare nella stessa situazione del socio, può contrarre mutui, stipulare transazioni, compromessi e/o fideiussioni, concedere ipoteche, alienare immobili e compiere altri atti di straordinaria amministrazione con l'autorizzazione scritta del giudice delegato, e la stessa eventuale e successiva confisca delle quote intestate a persona già sottoposta a misura di prevenzione non determina alcuna estinzione della società, attuando piuttosto una successione a titolo particolare dello Stato nella titolarità delle predette quote".

126. A. Cairo, L'amministrazione giudiziaria dei beni in sequestro, in Le misure di prevenzione patrimoniali dopo il pacchetto sicurezza, cit., p. 408.

127. "Fuori dai casi regolati nelle precedenti sezioni di questo capo, chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti di urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione di merito".

128. Cass., sez. I pen., 15 ottobre 2003, n. 41690.

129. A. Cairo, L'amministrazione giudiziaria dei beni in sequestro, in Le misure di prevenzione patrimoniali dopo il pacchetto sicurezza, cit., pp. 403 ss.

130. Il Fondo di cui all'articolo 61, comma 23, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, denominato: "Fondo unico giustizia", e' gestito da Equitalia Giustizia S.p.A. con le modalità stabilite con il decreto di cui al predetto articolo 61, comma 23.

131. Si pensi al fatto che le quotidiane attività si sostanziano in interventi non di rado indilazionabili ed in dinamiche in continua evoluzione. Proviamo ad immaginare, ad esempio, cosa possa significare indugiare nel pagamento di stipendi dei dipendenti, delle forniture aziendali e delle banche. Al pari sono indifferibili tutti gli interventi tesi a garantire la continuità del processo di produzione, al fine di evitare stalli gestionali che possono compromettere la produttività e, dunque, indurre crisi anche irreversibili.

132. Cfr. A. Marruccia, Relazione annuale sulle attività del Commissario straordinario, 2009, Roma, pp. 143 ss.

133. Il provvedimento di liquidazione è appellabile dall'amministratore entro venti giorni dalla comunicazione dell'avviso di deposito. La forma del gravame è un ricorso che viene deciso in camera di consiglio dalla Corte di appello, previa audizione del ricorrente. La giurisprudenza si è orientata nella impugnabilità del provvedimento della Corte di appello in Cassazione, ex art. 111 co. 2 Cost., poiché si tratta di un provvedimento che risolve con carattere di definitività una controversia relativa ad un diritto soggettivo.

134. Cfr. A.M. Maugeri, Le sanzioni patrimoniali come moderno strumento di lotta contro il crimine, Giuffrè 2008, pp. 1 ss.

135. Corte di Appello di Palermo, 01 ottobre 1996, Soc. Tre noci s.r.l. e altri.

136. I sufficienti indizi come ha ricordato la Corte Costituzionale (23 marzo 1964, n. 23) devono essere fondati su una oggettiva valutazione dei fatti in modo da escludere valutazioni puramente soggettive ed incontrollabili da parte di chi promuove o applica le misure di prevenzione. In altre parole deve trattarsi di fatti obiettivi e verificabili da parte del Tribunale che facciano ritenere probabile che l'attività economica si trovi in uno stato di soggezione ovvero che il libero esercizio della medesima attività agevoli i summenzionati soggetti, proposti o sottoposti a misura di prevenzione personale o a procedimento penale per i citati delitti.

137. Secondo L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., p. 265, "gli atti di indagine che il Tribunale può disporre consistono quindi in accertamenti sull'attività economica o imprenditoriale svolta, quale perizia contabile, anche se non si esclude la possibilità di assumere sommarie informazioni dal titolare dell'attività economica o dell'impresa.

138. Ivi, p. 265, "sembra più ragionevole interpretare la disposizione nel senso che la richiesta di ulteriori indagini e verifiche debbe essere necessariamente coniugata con quella della imposizione dell'obbligo di giustificazione, che è complementare alle altre indagini e verifiche. Tra l'altro, la lettera della legge, usando la particella congiuntiva "nonché", non lascia spazio ad interpretazioni diverse. Di altro avviso L.G. Pascali e D. Cherubini, La misura di prevenzione patrimoniale nella normativa antimafia, Cacucci, 1999, pag. 74, secondo cui l'obbligo di giustificazione è solo eventuale e la confisca può essere pronunciata indipendentemente da tale imposizione.

139. Il Tribunale decide in camera di consiglio senza intervento né del Pubblico ministero né degli interessati. Secondo L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., p. 278, l'assenza di qualsiasi contraddittorio si pone in contrasto con l'art. 111, comma 2, Cost.

140. A. Mangione, Le misure di prevenzione patrimoniale - Profili dogmatici e di politica criminale, cit., p. 105.

141. Cass., sez. I pen.., 08 febbraio 1999, Crimi.

142. Cass., sez. I pen, 24 gennaio 2003, n. 10237; Cass., sez. V pen., 21 aprile 1998, n. 2411, "il termine previsto dall'art. 3 quater, comma 3 l. n. 575 del 1965, per la misura della sospensione temporanea dall'amministrazione dei beni indiziati di provenire da attività illecite ha natura perentoria e costituisce condizione di validità del successivo provvedimento di confisca".

143. G. Di Chiara, Commento all'art. 24 d.l. 08 giugno 1992 n. 306, in Legisl. Pen., 1992, p. 243, osserva che lo strumento del sequestro dà luogo ad un vincolo assai più intenso rispetto alla semplice sospensione dell'amministrazione, ed è comunque più idoneo a dispiegare i suoi effetti sino alla scadenza dei termini per il provvedimento di sospensione temporanea. Di diverso avviso è, invece, P. Celentano, Il sequestro, la confisca, e la sospensione temporanea dell'amministrazione dei beni, in AA.VV., Nuove forme di prevenzione della criminalità organizzata: gli strumenti di aggressione dei profitti di reato e le misure di prevenzione, in Quaderni del C.S.M., 1998, fasc. 104, p. 133, secondo il quale si tratta di una misura di cui non si riesce a comprendere l'utilità pratica, posto che non par dubbio che anche il provvedimento che dispone la sospensione temporanea dell'amministratore dei beni comporti la provvisoria sottrazione di questi dalla materiale disponibilità del titolare e vada, ove riguardi beni immobili o beni mobili registrati, trascritto nei pubblici registri".

144. Cfr. A.M. Maugeri, Le sanzioni patrimoniali come moderno strumento di lotta contro il crimine, cit., pp. 341 ss.

145. Corte di appello di Palermo, decreto 01 ottobre 1996, Tre Noci s.r.l. ed altri.

146. A.M. Maugeri, Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e garantismo, Giuffrè, 2001, p. 417.

147. Ad esempio, di fronte ad un'impresa commerciale, il provvedimento verrebbe ad incidere sopra l'intero patrimonio aziendale (G. Nanula, op. cit., p. 103). In proposito si è rimarcato che anche nell'ipotesi di attività agevolatrice esercitata in forma collettiva, oggetto del provvedimento sarebbe pur sempre il complesso dei beni appartenenti alla società, e non le azioni o le quote sociali o la stessa società (P. Grillo, Gli artt. 3 quater e 3 quinquies della l. 575/65, op. cit., p. 348).

148. L'art 3 quinquies, comma 2, l. 575/65, prevede, infatti, che entro quindici giorni antecedenti la scadenza della sospensione temporanea, il Tribunale può revocare la misura, qualora non ne disponga il rinnovo. Il comma 3 dello stesso articolo prescrive che con tale provvedimento il Tribunale può stabilire l'obbligo nei confronti di chi ha la proprietà, l'uso o l'amministrazione dei beni, o di parte di essi, di comunicare, per un periodo non inferire a tre anni, al Questore e la Nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale, ovvero del luogo in cui si trovano i beni se si tratta di residenti all'estero, gli atti di disposizione, di acquisto o di pagamento effettuati, gli atti di pagamento ricevuti, gli incarichi professionali, di amministrazione o di gestione fiduciaria ricevuti e gli altri atti o contratti indicati dal Tribunale, di valore non inferiore ad euro 25.822 o del valore superiore stabilito dal Tribunale in relazione al patrimonio ed al reddito della persona. Detto obbligo va assolto entro dieci giorni dal compimento dell'atto e comunque entro il 31 gennaio di ogni anno per gli atti posti in essere nell'anno precedente. L'omessa effettuazione entro i termini indicati delle sopra riportate comunicazioni è sanzionata con la reclusione da uno a quattro anni ed alla condanna segue la confisca dei beni acquistati e dei pagamenti ricevuti per i quali è stata omessa la comunicazione. Secondo A. Mangione, La misura di prevenzione patrimoniale fra dogmatica e politica criminale, cit., p. 356, tale disposizione appare inutilmente vessatoria poiché una volta revocata la sospensione, o si è accertata la collusione che ha prodotto illecite attività e quindi si perviene alla confisca ovvero la si esclude, in quest'ultimo caso, non si comprende quale ragione possa imporre ulteriori obblighi.

149. Ivi, p. 724, il quale osserva che "la pericolosità reale è l'equivalente della responsabilità oggettiva, in quanto il carattere afflittivo che si produce è riversato su una persona della quale non sia accertata la pericolosità" e che, pertanto si pone, in violazione del principio ex art. 27, comma 1, Cost.

150. Corte Costituzionale, 29 novembre 1995, n. 487.

151. A. Aiello, La sospensione temporanea dell'amministrazione dei beni e la successiva confisca ex artt. 3 quater e 3 quinquies l. 575/65 quali misure aventi ad oggetto i beni di pertinenza del terzo, in A.M. Maugeri (a cura di), Le sanzioni patrimoniali come moderno strumento di lotta contro il crimine: reciproco riconoscimento e prospettive di armonizzazione, cit., p. 362.

152. A. Mangione, La misura di prevenzione patrimoniale fra dogmatica e politica criminale, cit., p. 705.

153. F. Cordero, Procedura penale, VI ed., Milano, 2001, pp. 1241 ss.

154. Recante "Corrispondenza tra gli istituti e le disposizioni del codice e del codice abrogato".

155. P.V. Molinari, Misure di prevenzione, cit., p. 578.

156. Il concetto di dimora è qui assunto nel significato civilistico che ritiene, per tale, il luogo in cui un soggetto permane in modo né abituale, né puramente accidentale, e ciò per differenziarlo sia dalla nozione di residenza che di domicilio.

157. Cass., sez. UU, 17 luglio 1996, Simoncelli.

158. Cass., sez. I pen., 26 aprile 1989, Galliano; Cass., sez. I pen., 16 marzo 1982, Sibilia. In dottrina M. Codagnone, Il concetto di dimora nelle misure di prevenzione, in Giust. Pen., 1966, II, c. 809.

159. Cass., sez. I pen., 20 gennaio 1976, Crimi. Nel senso che si tratta di competenza di natura funzionale, Cass., sez. I pen., 15 maggio 1989, Stilo; Cass., sez. I pen., 12 gennaio 1983, Schiavone.

160. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., p. 320.

161. R. Guerrini, L. Mazza, Le misure di prevenzione. Aspetti sostanziali e processuali, cit., p. 214.

162. Cass., sez, VI pen., 25 gennaio 2000, Santaguida.

163. R. Guerrini, L. Mazza, Le misure di prevenzione. Aspetti sostanziali e processuali, cit., p. 214.

164. Cass., sez. I pen., 16 marzo 1982, Sibilia. In dottrina, P. Miletto, Misura di prevenzione, cit., p. 127.

165. Cfr. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 285 ss.

166. R. Guerrini, L. Mazza, Le misure di prevenzione. Aspetti sostanziali e processuali, cit., p. 219.

167. Se così non fosse, il decreto deve essere notificato all'interessato entro cinque giorni ex art. 666 c.p.p. o senza ritardo ex art. 127 c.p.p., ai fine della proposizione del ricorso in Cassazione.

168. Corte Costituzionale, 25 marzo 1975, n. 69; Corte costituzionale, 28 novembre 1972, n. 168.

169. Cfr. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 285 ss.

170. Termine fissato in cinque giorni prima della udienza.

171. P. Miletto, Le misure di prevenzione, Utet, 1989, p. 218.

172. Cass., sez. I pen., 28 aprile 1995, n. 2583. Un ulteriore questione riguarda l'applicabilità dell'istituto della partecipazione a distanza (in videoconferenza), previsto dagli artt. 45 bis e 146 bis disp. att. c.p.p., qualora il proposto sia detenuto per i delitti di criminalità organizzata. In senso negativo si è espressa Cass. 8 febbraio 2000, in Cass. Pen., 2000, p. 1580, con nota di P.V. Molinari, Videoconferenza e procedimento di prevenzione, essenzialmente sulla base di una natura eccezionale dell'istituto. Di parere contrario, I. Iai, Partecipazione di persone detenute al procedimento di prevenzione "a distanza", in Giurisprudenza italiana, 2000, p. 2139, il quale muove dal presupposto che, nel procedimento di prevenzione, la presunta commissione di un fatto costituente reato costituisce un antecedente logico giuridico per la valutazione della pericolosità, sicché il riferimento delle disposizioni citate al procedere per determinati delitti e all'imputato o indagato non dovrebbe considerarsi estraneo al procedimento di prevenzione.

173. R. Guerrini, L. Mazza, S. Riondato, Le misure di prevenzione, profili sostanziali e processuali, CEDAM, 2004, p. 290; L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., p. 332.

174. Ricordiamo la sentenza n. 76 della Corte Costituzionale che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 4, l. 1423/56, nella parte in cui non prevedeva l'assistenza obbligatoria del difensore all'udienza.

175. In particolare avremo nullità assoluta ex artt. 178, comma 1 lett. c) e 179 comma 1 c.p.p. per l'assenza del difensore, mentre, nullità a "regime intermedio" ex art. 178, comma 1 lett. b) e 180 c.p.p. in caso di assenza del Pubblico ministero.

176. Ad esempio richiesta di documenti ed informazioni, assunzione di prove testimoniali.

177. P. Miletto, Misure di prevenzione (profili processuali), cit., p. 129.

178. Si ricorda che il verbale dell'udienza è di regola redatto in forma riassuntiva a norma dell'art. 140, comma 2, c.p.p. (art. 666, ult. comma, c.p.p.).

179. La giurisprudenza di recente pare aver adottato tale orientamento: Cass., 8 maggio 2002, in Cass. Pen., 2003, 405, con nota di P. Molinari, Ritorno alla costante precedente giurisprudenza in tema di immutabilità del giudice nel procedimento di prevenzione.

180. P. Molinari, Misure di prevenzione, cit., p. 567; Cass., sez. VI pen., 26 giugno 2002, n. 28837 che ha affermato che "La decisione che dispone misure di prevenzione, pur assumendo natura sostanziale di sentenza -trattandosi di decisione di merito che conclude una fase o un grado del processo, suscettibile di impugnazione ed idonea ad acquistare autorità di giudicato -, conserva la forma di decreto e non quella di sentenza e, pertanto, non deve contenere i requisiti richiesti dall'art. 546 c.p.p. ed è destinata ad assumere rilevanza esterna con il deposito nella sua interezza, senza che rilevi un formale ed autonomo dispositivo".

181. A. Marucci, Il processo di prevenzione, in Rass. St. penit., 1958, p. 552; Cass., sez. I pen., 16 gennaio 2002, n. 5649.

182. CEDU, sez. II, 08 luglio 2008, n. 1905 Perre; CEDU, sez. II, 13 novembre 2007, n. 399 Bocellari e Rizza.

183. "Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l'accesso alla sala d'udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità puó pregiudicare gli interessi della giustizia".

184. A. Macchia, P. Gaeta, Il rito camerale nel processo di prevenzione davvero incompatibile con il "giusto processo"? Pensieri sparsi e perplessità a margine di una pronuncia della Corte di Strasburgo, in Cass.pen., 2008, 6, p. 2658.

185. "La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali".

186. Cfr. L Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 435 ss.

187. Ivi, p. 438.

188. Corte costituzionale, 08 ottobre 1996, n.335; Corte costituzionale, 28 dicembre 1993, n. 465; Cass., sez. UU, 07 febbraio 2001, Madonia; Cass., sez UU, 14 luglio 1993, Tumminelli.

189. F. Cassano, Misure si prevenzione patrimoniale e amministrazione dei beni, in Questioni e materiali di dottrina e giurisprudenza, Milano, 1998, pp. 220 ss, in cui si lamenta la non sufficiente tipizzazione dell'iter procedimentale.

190. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., p. 443.

191. Corte di Appello di Catania, 22 gennaio 1998, Spampinato ed altri.

192. Cfr A.M. Maugeri, La riforma della sanzioni patrimoniali: verso un actio in rem?, cit., pp. 26 ss. eA. Gialanella La confisca di prevenzione antimafia, lo sforzo sistemico della giurisprudenza di legittimità e la retroguardia del legislatore, cit., pp. 132 ss.

193. Cass., sez. II pen, 16 dicembre 2005, n. 1014; Cass., sez. II pen., 23 giugno 2004, n.35628; Cass., sez. V pen., 28 marzo 2002, n. 23041.

194. Confisca in caso di assenza, residenza o dimora all'estero della persona alla quale potrebbe applicarsi la misura di prevenzione.

195. A.M. Maugeri, La riforma delle sanzioni patrimoniali: verso un actio in rem?, cit., p. 26.

196. G. Turone, Le strategie di contrasto dell'economia criminale, in Quest. giust., 1994, pp. 42 ss.

197. Cass., 19 agosto 1987, Sibilia; Cass., 11 febbraio 1987, Gambino; Cass., 24 febbraio 1986, Porcelli.

198. Cass., 3 aprile 1995, Annunziata.

199. Cass., 17 febbraio 1998, Petruzzella G. ed altro; Cass., 28 novembre 1996, n. 5218, Brodella.

200. Cass., sez. I pen., 07 agosto 1984, Aquilino.

201. Cass., sez. II pen., 16 gennaio 2007, n. 5234.

202. Cass., sez. II pen., 16 febbraio 2006, n.7616.

203. Art. 3 della legge 24 luglio 1993, n. 256.

204. Cass., sez. II pen, 16 dicembre 2005, n. 1014; Cass., sez. II pen., 23 giugno 2004, n. 35628.

205. La dottrina (A.M. Maugeri, La riforma delle sanzioni patrimoniali: verso un actio in rem?, cit., p. 31) ha rilevato tra l'altro che tale interpretazione più garantista sarebbe stata maggiormente conforme alle indicazioni della decisione quadro GAI 212/2005 che prevede poteri estesi di confisca solo laddove, non solo sussista una condanna (che manca nel procedimento in esame), ma sia stata accertata la sproporzione di ogni bene e il giudice sia convinto in base a fondati motivi della loro origine illecita (art. 3 lett. c). La richiesta di tale duplice tipologia di indizi, la sproporzione come indizio chiave nell'ambito di una più ampia prova indiziaria circa l'origine illecita dei beni da confiscare, si presenterebbe maggiormente in linea con la presunzione d'innocenza.

206. Cfr. A.M. Maugeri, La riforma delle sanzioni patrimoniali:verso un actio in rem?, cit., pp.26ss eA. Gialanella La confisca di prevenzione antimafia, lo sforzo sistemico della giurisprudenza di legittimità e la retroguardia del legislatore, cit., pp. 132 ss.

207. La dottrina (A.M. Maugeri, La riforma delle sanzioni patrimoniali: verso un actio in rem?, cit., p. 89) ha rilevato che se il bene ha perso valore per mancanza di lavori di manutenzione a causa di mera incuria, colpevole o incolpevole, ma non finalizzata a frustrare la confisca, non dovrebbe essere possibile applicare questa forma di confisca per equivalente.

208. Ivi, p. 91.

209. Ivi, p. 37.

210. Ivi, pp. 26 ss e A. Gialanella La confisca di prevenzione antimafia, lo sforzo sistemico della giurisprudenza di legittimità e la retroguardia del legislatore, cit., pp. 132 ss.

211. Questo perché il terzo in malafede non potrà rivendicare alcun diritto di ripetizione in quanto, in virtù dell'art. 1418 c.c., il suo atto è nullo poiché la causa è contraria a norme imperative ed al buon costume. Infatti la violazione di norme penalmente rilevanti rientra in questo concetto (art. 2035 c.c.).

212. Cass., sez. I pen., 18 aprile 2007, n. 19761; Cass., sez. V, 19 novembre 2003, n. 47887; Cass., pen., sez. II, 16 febbraio 2000, n. 998; Cass., sez. UU, 28 aprile 1999, Baccherotti.

213. Cass., sez. I pen., 11 febbraio 2005, n. 12317.

214. Secondo Cass., sez. civ., 20 ottobre 2003, l'affidamento incolpevole è ravvisabile "nella non conoscibilità, con l'uso della diligenza richiesta dal caso concreto, del rapporto di derivazione della loro posizione di vantaggio dalla condotta delittuosa del proposto". Tale situazione è compatibile con l'aver "ricevuto indirettamente un vantaggio dall'altrui attività criminosa".

215. Cass., sez. V pen., 23 giugno 2004, n.31764; Cass., sez. I, 15 ottobre 2003, n. 43046; Cass., sez. V pen., 28 marzo 2002 in cui si afferma "La presunzione di illecita accumulazione patrimoniale riguarda solo il soggetto ritenuto socialmente pericoloso e non investe la posizione del terzo intestatario del bene; quindi è onere del giudice dimostrare che i beni, formalmente intestati a terzi, siano nella disponibilità dell'indiziato e derivino dalla sua illecita attività, in quanto diversamente, mancando nei confronti dei terzi la misura di prevenzione personale, non può applicarsi nei loro confronti quella patrimoniale, sicché non può pretendersi che siano i terzi a dover giustificare la titolarità dei beni, offrendo la dimostrazione che essi non derivino da illecite attività dei proposti".

216. Va ricordato che per i beni formalmente intestati a determinati terzi - coniuge, figli e conviventi nell'ultimo quinquennio - è presunto il requisito della disponibilità da parte dell'indiziato di mafia, mentre per gli altri terzi di tale disponibilità, diretta od indiretta, devono risultare elementi di prova. Tra le pronunce si ricorda Cass., Sez. II, 14 febbraio 1997, Nobile ed altri; Sez. II, 5 dicembre 1996, Liso, ivi; Sez. I, 16 aprile 1996, Biron ed altri.

217. A. Gialanella, I patrimoni di mafia, cit., pag. 130.

218. Cass., sez. V pen., 28 marzo 2002, n. 23041; Cass., sez. I pen., 20 novembre 1998, n.5760.

219. La dottrina (A.M. Maugeri, La riforma delle sanzioni patrimoniali:verso un actio in rem?, cit., p. 41) ha rilevato che il rischio di questa normativa è che gli atti a titolo gratuito saranno considerati tout court fittizi e nulli se compiuti nei due anni precedenti il sequestro, perché sarà ben difficile per il terzo dimostrarne il carattere non fittizio; la norma rischia di introdurre una sorta di causa di nullità di tutti gli atti a titolo gratuito compiuti dal soggetto nei due anni precedenti il sequestro.

220. Vedi nota precedente.

221. Relazione sullo stato di attuazione della normativa e delle prassi applicative in materia di sequestro, confisca e destinazione dei beni della criminalità organizzata della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata o similare, XV legislatura.

222. Cass., sez. I pen., 08 febbraio 1999, Crimi; vedi anche Cass., sez. II pen., 16 febbraio 2006, n 7616 "La confisca, ai sensi dell'art. 3 quinquies comma 2 l. 31 maggio 1965 n. 575, di beni che si abbia motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, non può essere disposta se non sia stata preceduta dal provvedimento di sospensione temporanea dall'amministrazione degli stessi beni previsto dall'art. 3 quater comma 3 della legge anzidetta".

223. V. Giglio, Strategia antiriciclaggio e norme di condotta per gli intermediari, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, p. 937.

224. Cass., 07 maggio 1993, n. 704; Cass., 05 agosto 1992, n. 2186.

225. Cfr. A. Aiello La sospensione temporanea dall'amministrazione dei beni e la successiva confisca ex artt. 3 quater e 3 quinquies l. 575/65 quali misure aventi ad oggetto i beni di pertinenza del terzo (persona fisica o giuridica) esercente l'attivita' agevolatrice, cit., pp 341 ss; L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 267 ss.

226. A.M. Maugeri, Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e garantismo, cit., p. 413.

227. Tribunale di Palermo 28 novembre 2006, Centralgas spa ed altri ha rilevato che il criterio del raffronto tra i capitali leciti e quelli illeciti utilizzati per finanziare le società potrebbe rilevarsi insufficiente, se non inutile, ai fini della determinazione dei beni da sottoporsi a confisca"; vedi anche Corte di Appello di Palermo 16 luglio 2004; Corte d'Appello di Catania, 22 gennaio 1998, Spampinato, in cui si afferma tra l'altro che l'imprenditore, operando la scelta di svolgere un'attività con connotazione agevolative, normalmente dettate dalla concreta prospettiva di un più alto rendimento, accetta il rischio connesso consentendo, così, di escludere una situazione di sostanziale incolpevolezza.

228. A.M. Maugeri, Le sanzioni patrimoniali come moderno strumento, in cit., p. 117.

229. Cass., sez. I pen., 08 febbraio 1999, Crimi.

230. A.M. Maugeri, La riforma delle sanzioni patrimoniali: verso un actio in rem?, cit., p. 32.

231. A. Mangione, La "contiguità" alla mafia fra "prevenzione" e "repressione": tecniche normative e categorie dommatiche, in Riv. it. dir. proc. Pen. 1996, p. 705.

232. Cass., sez. I pen., 05 aprile 1985, Labate.

233. A Gialanella, Genesi dell'amministrazione giudiziaria dei beni: oggetto di esecuzione del sequestro, in Le misure di prevenzione patrimoniali. Teoria e prassi applicativa (Atti del Convegno organizzato dall'Osservatorio barese sulla giustizia e dall'Associazione Studi Giuridici Lodovico Mortara), Bari 14-16 febbraio 1997, p. 207; A. Mangione, La misura di prevenzione patrimoniale tra dogmatica e politica criminale, cit., pp. 313 ss.

234. A. Bracciodiete, in Le misure di prevenzione patrimoniale - Teoria e prassi applicativa, Bari, 1998, pp. 96 ss.

235. Secondo Cass., sez. VI pen., 22 gennaio 2009, n. 17229 "In tema di misure di prevenzione, è legittima la confisca, ex art. 2-ter L. 31 maggio 1965 n. 575, dei dividendi e del ricavato della vendita di quote azionarie di una società, appartenenti ad un indiziato mafioso, quando l'intera azienda sia stata utilizzata come strumento funzionale a procacciarsi variamente il favore dello schieramento mafioso e per finanziarne le attività, così da attuare una attività imprenditoriale prevalentemente illecita. (Nella specie, la Corte ha ritenuto legittima la confisca di tutti i dividenti che il preposto aveva percepito, quale azionista di un istituto di credito, e l'intero prezzo di vendita del suo pacchetto azionario, in quanto frutto di attività illecita posta in essere attraverso l'esercizio dell'attività bancaria)". Vedi anche G. Bongiorno, Tecniche di tutela dei creditori nel sistema delle leggi antimafia, in Riv. dir. Proc., 1988, p. 445.

236. Cass., sez. I pen., 11 dicembre 2008, n.47798; Cass., sez. I pen., 04 luglio 2007, n. 33479; Cass., sez. VI pen., 27 maggio 2003, n. 36726.

237. Cass., sez. V pen., 23 marzo 2007, n. 18822; Cass., sez. V pen., 13 giugno 2006, n. 24778; Cass., sez.pen., 1998, n. 5365.

238. Cass., sez. VI, 28 marzo 2007, n. 30131.

239. Cfr. A.M. Maugeri, Profili di legittimità costituzionale delle sanzioni patrimoniali (prima e dopo la riforma introdotta dal decr. n. 92/2008): la giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Suprema Corte, cit., pp. 39 ss e A. Gialanella, Patrimoni di mafia, cit., pp. 142 ss.

240. G. Fiandaca, Misure di prevenzione, in Dig. pen., Utet, Torino, 1994, pp. 123.

241. L. Fornari, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie, CEDAM, 1997, pp. 69 ss.

242. E. Gallo, Misure di prevenzione, in Enciclopedia giuridica treccani, Roma, 1990, p. 15.

243. Corte Costituzionale, 1996, n. 335.

244. Corte Costituzionale, 25 maggio 1961, n. 29 e 04 giugno 1964, n. 46.

245. Cass., sez. UU, 03 lugio 1996. Vedi anche Cass., 11 giugno 2008 n. 25676; Cass., sez. UU, 08 gennaio 2007, n. 57; Cass., 04 luglio 2007, n. 33479; Cass., 15 giugno 2005, n. 27433.

246. A.M. Maugeri, Profili di legittimità costituzionale delle sanzioni patrimoniali (prima e dopo la riforma introdottadal decr. n. 92/2008): la giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Suprema Corte, cit., pag. 123. Tra l'altro le Sezioni unite della Corte di cassazione recentissimamente, 27 marzo 2008, hanno ribadito che "sulla base della tracciata evoluzione normativa, appare assai arduo, oggi, catalogare l'istituto della confisca nel rigido schema della misura di sicurezza, essendo agevole per esempio riconoscere, in quella di valore, i tratti distintivi di una vera e propria sanzione e, in quella speciale, una natura ambigua, sospesa tra funzione specialpreventiva e vero e proprio intento punitivo. Con il termine confisca, in sostanza, al di là del mero aspetto nominalistico, si identificano misure ablative di natura diversa, a seconda del contesto normativo in cui lo stesso termine viene utilizzato". Vedi anche Cass., 07 maggio 2008, n. 22903.

247. Cfr. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 548 ss.

248. Ivi, p. 550 "E' ovvio che, se nemmeno alla luce dell'art. 680 c.p.p. di dovesse risolvere il dubbio interpretativo, è giocoforza ricorrere ai principi generali in tema di impugnazioni".

249. Le Sezioni unite della Corte di Cassazione (26 ottobre 1985, Giovinazzo) hanno affermato il principio dell'ammissibilità dell'impugnazione soltanto nei confronti del provvedimento definitivo che dispone la confisca. Inoltre la stessa Corte (sez. I pen., 27 ottobre 1986, Teardo) ha affermato che contro il diniego di restituzione dei beni è stata riconosciuta la possibilità di esperire incidente di esecuzione e ricorso per Cassazione avverso la successiva ordinanza. Più di recente la Cassazione (sez. VI pen., 23 ottobre 2008, n. 42707) ha affermato che "in tema di sequestro di beni nella disponibilità di indiziati dell'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, così come in tema di proroga del termine di efficacia del sequestro in caso di indagini complesse, ai sensi dell'art. 2-ter, comma terzo, della L. n. 575 del 1965, non è consentita l'autonoma e immediata impugnazione del relativo decreto, in considerazione del principio generale di tassatività delle impugnazioni, della natura meramente strumentale del provvedimento e delle caratteristiche sommarie della fase procedimentale, connotata da incisive decadenze". Vedi anche Cass. pen. n. 30871 del 2003; Cass. pen. n. 6280 del 2003; Cass. pen., sez. I, 21 maggio 1999 n. 3814.

250. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., p. 562.

251. Cass., sez. UU, 26 ottobre 1985, Giovinazzo; Cass., sez. UU, 26 ottobre 1985, Piromalli, le quali ammettono il rimedio dell'incidente di esecuzione contro il provvedimento che dispone il sequestro "antimafia". Vedi anche Cass., sez. I pen., 10 aprile 2008, n. 17827; Cass. pen. n. 34048 del 2006; Cass., sez. I, 26 gennaio 1998, Giuffrida; Cass., sez. I, 12 novembre 1997, Alfieri; Cass., sez. I pen., 03 agosto 1992 Alula.

252. Cass. pen. n. 13788 del 2002; Cass., sez. I pen., 25 giugno 1999, Di Lernia; Cass., sez. VI pen., 18 dicembre 1997, Coluccia; Cass., sez. VI pen., 17 luglio 1995, Romano.

253. Corte costituzionale, 08 novembre 1995, n. 487.

254. Cfr. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 548 ss.

255. Inizialmente la giurisprudenza, legata ad una interpretazione letteraria, aveva escluso che il difensore fosse titolare di un autonomo diritto di impugnazione. In seguito alla sentenza della Corte costituzionale (76/1970) che ha ribadito l'obbligatorietà dell'assistenza tecnica, anche la Corte di cassazione mutava radicalmente il proprio orientamento giungendo ad affermare l'indefettibile diritto del difensore, anche se non munito di procura speciale, ad impugnare le decisioni pregiudizievoli per il suo assistito. Vedere ad esempio Cass., sez. I pen., 11 settembre 1985, Porto; Cass., sez. I pen. 13 settembre 1977, Serrelli.

256. Senza dimenticare che, stante l'art. 571 comma 4 c.p.p., l'interessato ha un diretto ed immediato potere dispositivo sul meccanismo delle impugnazioni perché può togliere effetto alla impugnazione proposta dal difensore, sia nominare un nuovo difensore all'espresso fine di impugnare.

257. Cass., sez. I pen., 02 novembre 1990, Cinci; Cass., sez. I pen., 11 febbraio 1989, Samgani.

258. Cass., sez. I pen., 14 marzo 1969, De Melas.

259. P. Miletto, Misure di prevenzione (profili processuali), cit., p. 132.

260. Cfr. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 548 ss.

261. M.C. Russo, voce Processo di prevenzione, in Enciclopedia giuridica treccani, 1991, p.14.

262. P. Miletto, voce Misure di prevenzione (profili processuali), in Digesto penale, VIII, Torino, 1994, p.133; R. Guerrini e L. Mazza, Le misure di prevenzione. Aspetti sostanziali e processuali, cit., p. 236.

263. Cass., sez. I pen., 20 febbraio 1991, Ribisi; Cass., sez. I pen., 27 ottobre 1989, Magliulo.

264. R. Guerrini e L. Mazza, Le misure di prevenzione. Aspetti sostanziali e processuali, cit., p. 236; F Severini, Revoca ed annullamento del decreto di sottoposizione a misura di prevenzione, in Giust. Pen., 1975, II, c. 660. In giurisprudenza Cass., sez. I pen., 03 marzo 1988, Pagnozzi.

265. Cfr. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 548 ss.

266. La Cassazione (04 giugno 1996, Laudani) ha ritenuto che, nel caso in cui la Corte annulli il decreto impugnato, sia applicabile l'art. 623 comma 1 lett. a) c.p.p., il quale prescrive che la Corte disponga che gli atti siano trasmessi al giudice che l'ha pronunciata, il quale provvede uniformandosi alla sentenza di annullamento. Tale posizione è stata criticata dalla dottrina (vedi L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 584-5; M.C. Russo, voce Processo di prevenzione, in op. cit. pag. 15), la quale partendo dal presupposto che al decreto in tema di misura di prevenzione vada attribuito il carattere sostanzialmente di sentenza, ha affermato che il giudizio deve essere rinviato ad un'altra sezione della stessa Corte di appello o, in mancanza, alla Corte di appello più vicina.

267. Cass., sez. VI pen., 10 marzo 2008, n. 25795. Vedi anche Cass., sez. VI pen., 17 dicembre 2003, n. 15107; Cass., sez. VI, 26 giugno 2002, n. 28837; Cass., sez. V pen., 28 marzo 2002, n. 23041; Cass., sez. II pen., 03 febbraio 2000, n. 703; Cass., sez. II pen., 06 maggio 1999, n. 2181.

268. Cass., sez. I pen., 30 luglio 1986, Enea.

269. R. Guerrini e L. Mazza, Le misure di prevenzione. Aspetti sostanziali e processuali, cit., pag. 237.

270. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., p. 583.

271. Cfr. A. Maruccia, Relazione annuale 2008 sulle attività del Commissario straordinario del Governo, Roma, 2008 pp. 157 ss e P.V. Molinari La riparazione dell'errore giudiziario in tema di confisca antimafia: un annoso contrasto giurisprudenziale finalmente risolto, in Cassazione penale, 2007 fasc. 4, pp. 1435 ss.

272. Il primo, ammetteva l'applicazione ai provvedimenti di confisca, ex art. 2 ter l. 575/65, della revoca di cui all'art. 7, comma 2, l. 1423/56. In particolare tale orientamento riteneva ammissibile tout court il ricorso proposto per conseguire la sola caducazione del decreto di confisca ogniqualvolta la parte istante avesse dedotto l'insussistenza ab origine dei presupposti per l'ablazione patrimoniale. Il secondo, invece, ammetteva tale revoca per la confisca, ma esclusivamente nel caso in cui manchino fin dall'origine le condizioni per l'applicazione della misura di prevenzione personale. Nel caso in cui, invece, ferma la pericolosità dell'indiziato di mafia, definitivamente accertata, può essere esperito l'incidente di esecuzione ex art. 676 c.p.p. esclusivamente dal terzo che non abbia partecipato al giudizio di prevenzione. Infine il terzo orientamento ritiene irrevocabile la confisca antimafia definitiva ed esclude sia la revisione, sia le revoca, sia l'incidente di esecuzione. Questo perché letteralmente, l'art. 2 ter, comma 4, della legge 575/1965 regola la sola ipotesi della revoca del sequestro non operando alcuna menzione della confisca e, l'articolo 3 ter della legge n. 575 del 1965, che attiene sempre alle misure di prevenzione patrimoniale, pur richiamando altre disposizioni della legge n. 1423 del 1956 in tema di impugnazioni, non richiama il suddetto art. 7, con la conseguenza che la revoca delle misure di prevenzione patrimoniali non è consentita dalla legge. Inoltre l'estensione analogica della norma non è consentita data la diversità dei beni implicati dalle misure personali e da quelle patrimoniali, per cui difetta l'eadem ratio che giustificherebbe il ricorso all'analogia. Sul piano sistematico (e del principio di ragionevolezza), poi, l'intangibilità della confisca non può esser considerata irragionevole, in considerazione del fatto che, nel momento del passaggio in giudicato della sentenza che la dispone, alla confisca consegue un istantaneo trasferimento a titolo originario in favore del patrimonio dello Stato del bene che ne costituisce l'oggetto e che, conseguentemente, è impossibile riconoscere un diritto patrimoniale che non esiste più, in quanto la cosa confiscata ormai appartiene ad altri.

273. Cass., sez. UU, 19 dicembre 2006, n. 57; Vedi anche Cass., sez. I pen., 14 maggio 2008, n. 21369.

274. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., p. 589; Cass., sez. UU, 03 luglio 1996 Simonelli.

275. A Cisterna, Una retrocessione di beni incamerati che aveva suscitato molte polemiche, in Guida al diritto, n. 7, 2007, pp. 76 ss.

276. Secondo P.V. Molinari La riparazione dell'errore giudiziario in tema di confisca antimafia: un annoso contrasto giurisprudenziale finalmente risolto, cit., "anche dopo la pronuncia delle Sezioni Unite (09/1999) il terzo che chieda la revoca della confisca definitiva, deducendo nuove prove non entrate nel procedimento di prevenzione, sembrerebbe soggetto ai limiti previsti dall'art. 395 c.p.c. ed all'onere della prova in ordine ad una delle cause indicate ed alla dimostrazione che la mancata allegazione non sia dipesa da colpa; tale soluzione, oltre che essere aderente ai principi della Cassazione, consentirebbe di raggiungere un punto di equilibrio tra la esigenza di certezza giuridica dei rapporti patrimoniali e la legittima richiesta del terzo incolpevole di presentare tutte le prove a suo favore".

277. P.V. Molinari, Tutela del terzo creditore di un diritto reale di garanzia nel procedimento di prevenzione con riferimento al sequestro ed alla confisca antimafia, in Cassazione penale, 2000, p. 2771.

278. A. Cisterna, Una retrocessione di beni incamerati che aveva suscitato molte polemiche, cit., pp.76 ss.

279. Nella Relazione sullo stato di attuazione della normativa e delle prassi applicative in materia di sequestro, confisca e destinazione dei beni della criminalità organizzata, Roma, p. 24.

280. Commissario straordinario per la gestione e la destinazione dei beni confiscati ad organizzazioni criminali, nominato con D.P.R. 06 novembre 2007. Il quale aggiunge, inoltre, la prospettiva di introduzione di una norma che disciplini l'istituto della revoca di confische patrimoniali con effetti ex tunc divenute irrevocabili, ispirata ai seguenti principi: a) oggetto della istanza devono essere solo i provvedimenti definitivi (tutte le istanze presentate prima della definitività sono inammissibili o vanno riqualificate come appello o ricorso per Cassazione) senza alcun correlazione con la misura personale e la sua applicazione o esecuzione; anche ai fini della razionalizzazione che sarà attuata con il SIPPI, trattandosi di una fase processuale, peraltro eventuale, strettamente connessa al procedimento principale di prevenzione patrimoniale, una registrazione sullo stesso numero di registro della misura di prevenzione; b) legittimati alla proposizione della revoca sono i soggetti che hanno partecipato al procedimento di prevenzione o che sono stati messi in condizione di partecipare (escludendosi, quindi, coloro che, pur chiamati a partecipare al procedimento di prevenzione, non vi abbiano preso parte); c) motivi deducibili: elementi nuovi e non esaminati nel corso del procedimento principale; d) Autorità giudiziaria competente è il Giudice che ha emesso il provvedimento di confisca (il Tribunale se ha accolto la proposta, la Corte d'Appello se la proposta è stata rigettata dal Tribunale e accolta dalla Corte d'Appello); e) contraddittorio: convocazione di udienza in camera di consiglio delle parti; f) impugnazioni: appello e ricorso per Cassazione anche per saltum entro 10 giorni dalla notifica; g) effetti: in caso di accoglimento il provvedimento non è immediatamente esecutivo; l'esecuzione è sospesa fino alla definitività; h) revoca definitiva: in caso di caducazione irrevocabile della confisca previsione della attribuzione di una somma di danaro pari al valore di mercato dei beni calcolato alla data della revoca (ciò dovrebbe escludere o meglio includere implicitamente interessi, svalutazione e eventuali migliorie) in ogni caso in cui il bene sia già stato destinato ad uso sociale e/o effettivamente utilizzato; i) la restituzione del bene all'originario intestatario potrebbe essere prevista solo quando ciò sia economicamente più conveniente per lo Stato (bene non ancora destinato, bene confiscato pro quota, bene gravato da mutuo); l) eventuale previsione di rinuncia all'azione di regresso nell'ipotesi di immobile per il quale sia stata concessa l'autorizzazione al proposto a permanere subordinatamente al pagamento delle rate di mutuo, dell'ICI (ove ora ancora richiesto), delle spese condominiali; imposte: nessuna imposta è dovuta da chi riottene i beni per gli anni antecedenti; m) prevedere che la mera presentazione di un'istanza di revoca non sospenda la destinazione ma comporti solo la comunicazione della richiesta all'ente che cura il procedimento di destinazione; n) dispositivo del decreto di revoca e relative impugnazioni da annotare sull'originale del decreto che ha disposto la confisca; o) previsione di condanna, in caso di rigetto dell'istanza, alle spese forfetarie previste per il Tribunale del riesame e di tutte le altre spese recuperabili sostenute nel corso del procedimento.

281. Articolo aggiunto dall'art. 3, comma 2, l. 109/96.

282. Cfr. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 610 ss. e G. Merola, La destinazione sociale dei beni confiscati, in F. Cassano (a cura di), Le misure di prevenzione patrimoniale dopo "il pacchetto sicurezza", cit., pp. 493 ss.

283. La norma precisa che nel caso in cui risulti la competenza di più uffici del territorio, il controllo è esercitato dall'ufficio designato dal Ministero delle finanze.

284. Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, 28 aprile 1990, n.98.

285. La norma conclude affermando che "a tal fine detto dirigente può avvalersi di apposite aperture di credito disposte, a proprio favore, sui fondi dello specifico capitolo istituito nello stato di previsione della spesa del ministero delle finanze, salva, in ogni caso, l'applicazione della normativa di contabilità generale dello Stato e del d.P.R. 20 aprile 1994, n. 367".

286. Articolo aggiunto dall'art. 3, comma 2, l. 109/96.

287. Il nuovo articolo 2 decies ha mantenuto la possibilità di applicare il comma 2 dell'art. 823 del codice civile per la tutela dei beni confiscati, anche prima dell'emanazione del provvedimento di confisca.

288. A. Cisterna, Mafia: uniformità di regole per l'esecuzione, in Guida al diritto, 29 agosto 2009, n. 34, p. 64.

289. Articolo aggiunto dall'art. 3, comma 2, l. 109/96.

290. Questo comma è stato così modificato dall'art. 1, comma 221, l. 27 dicembre 2006, n. 296 (c.d. "finanziaria 2007").

291. Fonte: Commissario straordinario per la gestione e destinazione dei beni confiscati.

292. Il successivo D.L. 16.09.2008 (G.U. n. 217), convertito nella L. 181, del 13 novembre 2008, ha stabilito che il fondo di cui all'art. 61, comma 23, l. 133/2008 è denominato "Fondo unico giustizia" e gestito da "Equitalia Giustizia S.p.A." precisando che vi rientrano, con i relativi interessi, le somme di denaro o i proventi: -di cui all'art. 61, comma 23 (sopra indicati); -di cui all'art. 262, comma 3 bis c.p.p.; -relativi a titoli al portatore, a quelli emessi o garantiti dallo Stato anche se non al portatore, ai valori di bollo, ai crediti pecuniari, ai conti correnti, ai conti di deposito titoli, ai libretti di deposito e ad ogni altra attività finanziaria a contenuto monetario o patrimoniale oggetto di provvedimento di sequestro nell'ambito di procedimenti penali o per l'applicazione di misure di prevenzione di cui alla L. 575/1965 o di irrogazione di sanzioni amministrative di, inclusi quelli di cui al D.L.vo 231/2001; i depositi presso "Poste italiane S.p.A." banche e altri operatori finanziari, in relazione a procedimenti civili ci cognizione esecutivi o speciali, non riscossi o non reclamati dagli aventi diritto entro cinque anni dalla data in cui il procedimento si è estinto o è stato comunque definito o è divenuta definitiva l'ordinanza di assegnazione, di distribuzione o di approvazione del progetto di distribuzione ovvero in caso di opposizione dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce la controversia; di cui all'art. 117, 4 comma, del R.D. datato 16.03.1942, n. 267, come sostituito dall'art. 109 del D.L. n. 5/2006. L'art. 3 della legge detta, inoltre, le modalità ed i termini per intestare al "Fondo unico giustizia" le somme di denaro ed i proventi indicati nell'art. 2; l'art. 4 prevede analoga intestazione di tutti i conti correnti ed i conti di deposito che "Equitalia Giustizia S.p.A.", successivamente alla data di entrata in vigore del decreto, intrattiene per farvi affluire le ulteriori risorse derivanti dall'applicazione dell'art. 61, comma 23, L. 133/2008, dell'art. 262, comma 3 bis c.p.p., i relativi utili di gestione nonché i controvalori degli atti di disposizione dei beni confiscati di cui al predetto art. 61, comma 23.

293. Vedi nota n. 250.

294. L'art. 2 duodecies, della L. 575/1965 prevede, con norma transitoria, che per un periodo di tre anni a decorrere dall'esercizio finanziario 1995, le somme versate all'Ufficio del registro ai sensi dei commi 1 e 5 dell'art. 2 undecies, devono (o meglio dovevano) affluire in un fondo, istituito presso la Prefettura competente, per l'erogazione, nei limiti delle disponibilità, di contributi destinati al finanziamento, anche parziale, di progetti relativi alla gestione a fini istituzionali, sociali o di interesse pubblico, degli immobili confiscati, nonché relativi a specifiche attività di: a) risanamento di quartieri urbani degradati; b) prevenzione e recupero di condizioni di disagio e di emarginazione; c) intervento nelle scuole per corsi di educazione alla legalità; d) promozione di cultura imprenditoriale e di attività imprenditoriale per giovani disoccupati.

295. L'art. 145, comma 64 della L. 388/2000, che ha disposto che "una parte stabilita nella misura del 25% del valore complessivo dei beni provenienti da reato, oggetto di confisca ai sensi dell'art. 2 decies della L. 575/1965, ovvero una parte, stabilita nella stessa misura, dei fondi provenienti dalla loro vendita, è destinata per il triennio 2001-2003 all'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) "Office for Drug Control and Crime Prevention", per il conseguimento delle sue finalità istituzionali.

296. Detta legge, oltre a modificare l'art. 2 undecies della L. 575/1965 prevede che lo stesso sia alimentato (art. 1): a) da un contributo dello Stato pari a lire 20 miliardi annue; dai rientri previsti dall'art. 2 (ovvero dalle somme e dai proventi di cui al, comma 1, lettere a) e b); comma 2, lettera a); comma 3, lettere b) e c) e cioè da: somme confiscate, somme ricavate dalla vendita di beni mobili non costituiti in azienda, vendita di beni immobili; vendita e liquidazione di beni aziendali. Peraltro tali fonti di finanziamento appaiono configurate, nelle previsioni anzidette, come prelievi "a valle delle spese di procedura" e "a monte" rispetto ai versamenti delle rimanenze in entrata al bilancio dello Stato.

297. La L. 23.02.1999, n. 44, all'art. 18, ha istituito il "Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive" e dell'usura unificandolo con il Fondo di solidarietà per le vittime dell'usura alimentato da contributi in percentuale su premi assicurativi (lettera a), un contributo annuo dello Stato (lettera b) e da "una quota pari alla metà dell'importo, per ciascun anno, delle somme di denaro confiscate ai sensi della l. 575/1965, e successive modificazioni, nonché una quota pari ad un terzo dell'importo del ricavato, per ciascun anno, delle vendite disposte a norma dell'articolo 2 undecies" della stessa legge (somme derivanti dalla vendita di beni mobili o immobili costituiti in azienda ex l. 575/1965).

298. La legge 27 dicembre 2007, n. 296, ha sostituito il comma 5, art. 2 undecies, l. 575/65.

299. Cfr. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 610 ss. e G. Merola, La destinazione sociale dei beni confiscati, cit., pp. 493 ss.

300. Quest'ultimo periodo è stato inserito con l'art. 2, comma 1, lett. d), della l. 22 dicembre 1999, n. 512.

301. Quest'ultimo periodo è stato inserito con l'art. 2, comma 1, lett. e), della l. 22 dicembre 1999, n. 512.

302. All'art. 1, comma 201, l. 27 dicembre 2006, n. 296.

303. Il comma 202, art. 1, l. 296/2006 (l. finanziaria 2007) ha ampliato la possibilità di utilizzo dei beni confiscati anche a Province e Regioni, là dove prima erano previsti solamente i Comuni. La precedente norma così recitava "il comune può amministrare direttamente il bene o assegnarlo in concessione a titolo gratuito a comunità, ad enti, ad organizzazioni di volontariato di cui alla legge 11 agosto 1991, n.266, e successive modificazioni, a cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, o a comunità terapeutiche e centri di recupero e cura di tossicodipendenti di cui al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309".

304. Cfr. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., pp. 610 ss. e G. Merola, La destinazione sociale dei beni confiscati, cit., pp. 493 ss.

305. Si tratta della legge 23 dicembre 2009, n. 191 recante Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 302 del 30 dicembre 2009, S.O. n. 243. L'art. 2, comma 52, della suddetta legge ha modificato l'art. 2 undecies, l.575/65. Dopo il comma 2, sono inseriti i seguenti commi: a) 2 bis "I beni di cui al comma 2, di cui non sia possibile effettuare la destinazione o il trasferimento per le finalità di pubblico interesse ivi contemplate entro i termini previsti dall'articolo 2 decies, sono destinati alla vendita"; b) 2 ter "Il personale delle Forze armate e il personale delle Forze di polizia possono costituire cooperative edilizie alle quali è riconosciuto il diritto di opzione prioritaria sull'acquisto dei beni destinati alla vendita di cui al comma 2bis"; c) 2 quater "Gli enti locali ove sono ubicati i beni destinati alla vendita ai sensi del comma 2 bis possono esercitare la prelazione all'acquisto degli stessi. Con regolamento adottato ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, sono disciplinati i termini, le modalità e le ulteriori disposizioni occorrenti per l'attuazione del presente comma. Nelle more dell'adozione del predetto regolamento è comunque possibile procedere alla vendita dei beni di cui al comma 2 bis ai sensi del comma 4 del presente articolo". Il comma 4 è sostituito dal seguente: "Alla vendita dei beni di cui al comma 2 bis e alle operazioni di cui al comma 3 provvede, previo parere obbligatorio del Commissario straordinario per la gestione e la destinazione dei beni confiscati alle organizzazioni mafiose, il dirigente del competente ufficio del territorio dell'Agenzia del demanio, che può affidarle all'amministratore di cui all'articolo 2 sexies, con l'osservanza delle disposizioni di cui al comma 3 dell'articolo 2 nonies, entro sei mesi dalla data di emanazione del provvedimento del direttore centrale dell'Agenzia del demanio di cui al comma 1 dell'articolo 2 decies. Il dirigente del competente ufficio dell'Agenzia del demanio richiede al Prefetto della provincia interessata un parere obbligatorio, sentito il Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, e ogni informazione utile affinché i beni non siano acquistati, anche per interposta persona, dai soggetti ai quali furono confiscati ovvero da soggetti altrimenti riconducibili alla criminalità organizzata". Dopo il comma 5 è inserito il seguente: 5 bis "Le somme ricavate dalla vendita dei beni di cui al comma 2 bis, al netto delle spese per la gestione e la vendita degli stessi, affluiscono, previo versamento all'entrata del bilancio dello Stato, al Fondo unico giustizia per essere riassegnati, nella misura del 50 per cento, al Ministero dell'interno per la tutela della sicurezza pubblica e del soccorso pubblico e, nella restante misura del 50 per cento, al Ministero della giustizia, per assicurare il funzionamento e il potenziamento degli uffici giudiziari e degli altri servizi istituzionali, in coerenza con gli obiettivi di stabilità della finanza pubblica".

306. L'associazione "Libera" con l'appoggio della rete di Enti locali "Avviso pubblico" e di buona parte della stampa è riuscita a raccogliere in pochi giorni circa 200000 firme.

307. Tra questi si ricordano l'on. Angela Napoli, componente della Commissione antimafia e gli onorevoli Veltroni (Pd), Granata (Pdl), Garavini (Pd), Pescante (Pdl), Tassone (Udc), Orlando (Idv), Adornato (Udc), Centemero (Pdl), Occhiuto (Udc), Minniti (Pd), Misiti (Misto), Picierno (Pd), Realacci (Pd), Carra (Pd).

308. Dati aggiornati al 30 giugno 2009.

309. Dati (fonte Agenzia del Demanio) elaborati dal Commissario straordinario per la gestione e la destinazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata.

310. Cfr. F. Cassano, La tutela dei diritti dei terzi nel sistema della prevenzione, cit., pp. 341 ss; e A. Maruccia, Relazione annuale 2008 sulle attività del Commissario straordinario del Governo, cit., pag. 130.

311. Cass., sez. I pen., 12 settembre 1991, Barbaro ed altri.

312. C. Nocerino, I profili processuali delle misure di prevenzione, in Mafia e criminalità organizzata, Aa. Vv. Utet, 1995, p. 280.

313. Cass., sez. I pen., 22 giugno 2007, n. 28032; Cass., sez. II pen., 17 ottobre 2002, n. 40880; Cass., sez. V pen., 14 aprile 1999, n. 2357.

314. C. e V. Macrì, La legge antimafia, Napoli, 1987, p. 120.

315. P.V. Molinari e U. Papadia, Le misure di prevenzione nella legge fondamentale e nelle leggi antimafia, Milano, 2002, p. 505.

316. C. Taormina, Il procedimento di prevenzione nella legislazione antimafia, cit., p. 342.

317. Cass., sez. I pen., 14 gennaio 2009, n. 2501. Vedi anche Cass. pen. n. 19761 del 2007, Cass. pen., sez. I, 10 maggio 2005 n. 22157, Cass. pen., sez. I, 9 marzo 2005 n. 13413, Cass. pen., sez. I, 11 febbraio 2005 n. 12317, Cass. pen., sez. V, 19 novembre 2003 n. 47887.

318. Cass., sez. I, 18 marzo 2008, n. 16709 "Nel procedimento di prevenzione, il terzo proprietario o comproprietario del bene prima sequestrato e poi confiscato, rimasto estraneo al procedimento, è legittimato a proporre incidente di esecuzione, purché il provvedimento di confisca sia già divenuto definitivo". Vedi anche Cass., sez. II pen., 04 marzo 2000, Ienna; Cass., sez. IV pen., Fall. Finmanagment s.r.l.

319. L. Panzani, La natura della confisca nel sistema delle misure di prevenzione, in Aa. Vv., Le misure di prevenzione patrimoniale. Teoria e prassi applicativa, Bari, 1998, p.119.

320. L. Filippi, Il procedimento di prevenzione patrimoniale, cit., p. 339.

321. A.M. Maugeri, Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e garantismo, cit., p. 403.

322. Cfr. A. Maruccia, Relazione annuale 2008 sulle attività del Commissario straordinario del Governo, cit., p. 130.

323. F. Cassano, La tutela dei diritti dei terzi nel sistema della prevenzione, in F. Cassano (a cura di), Le misure di prevenzione patrimoniale dopo il pacchetto sicurezza, cit., p. 363.

324. Cass., sez. pen., 21 gennaio 1992, n. 250; Cass., sez. I civile, 12 novembre 1999, n. 12535.

325. Cass., sez. UU, 08 giugno 1999, n. 9.

326. Cass., sez. I pen., 21 novembre 2007, n. 45572 afferma che "il terzo titolare di diritto reale di garanzia su bene confiscato può far accertare, mediante incidente di esecuzione dinanzi al competente giudice penale (o della prevenzione, se si tratta di confisca "ex" art. 2 ter l. n. 575 del 1965), l'esistenza delle condizioni di permanente validità del diritto, costituite dall'anteriorità della trascrizione del relativo titolo rispetto al provvedimento ablatorio e da una situazione soggettiva di buona fede, intesa come affidamento incolpevole, con onere della prova a carico dell'interessato". Vedi anche Cass., sez. I pen., 09 Marzo 2005, n. 13413; Cass., sez. I pen., 10 maggio 2005, Virga.

327. Cass. Sez. I civ., n. 12535/1999.

328. Cass., sez. I pen., 06 febbraio 2007, n. 8015 afferma che "in materia di misure di prevenzione patrimoniale, ai fini dell'opponibilità del diritto di garanzia reale sul bene oggetto del provvedimento di confisca, non basta che l'ipoteca sia stata costituita mediante iscrizione nei registri immobiliari prima del sequestro ex art. 2 ter della legge n. 575 del 1965, ma è richiesta l'inderogabile condizione della buona fede e dell'affidamento incolpevole del creditore ipotecario, la cui prova deve essere fornita dal creditore ipotecario originario nel procedimento di prevenzione". Vedi anche Cass. 13.6.2001 n. 34019; Cass. 19.11.2003 n. 47887 e Cass. 11.2.2005 n. 12317.

329. Cass., sez. I, 09 marzo 2005, n. 13413 ha affermato che "emerge univocamente che gli immobili confiscati a norma della legislazione antimafia sono inalienabili, con l'unica eccezione della vendita finalizzata al risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso, e acquisiscono, per effetto della confisca, una impronta rigidamente pubblicistica, che tipicizza la condizione giuridica e la destinazione dei beni, non potendo essere distolti da quella normativamente stabilita ("finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile" ovvero "finalità istituzionali o sociali" in caso di trasferimento degli immobili nel patrimonio dei comuni)". Vedi anche Cass., sez. I pen., 11 febbraio 2005, Fuoco; Cass., sez. I pen., 19 marzo 2003, Monte dei Paschi di Siena ha affermato che i diritti reali di garanzia vantati dai terzi sui beni confiscati in sede di prevenzione sono "destinati inevitabilmente a soccombere, lasciando la tutela del terzo affidata agli strumenti ordinari, con la precisazione che "il sacrificio imposto, nella specie, al creditore non riguarda l'esistenza o l'entità del credito, ma solo le modalità per ottenere il pagamento".

330. Consiglio di Stato, sentenza n. 6169/06.

331. Come prospettano le Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza 19 dicembre 2006 n. 57 per i terzi di cui non risultava l'appartenenza dei beni durante il procedimento di prevenzione.

332. Per la stesura di questo paragrafo ci si è basati sul prezioso lavoro del Commissario straordinario per la gestione dei beni confiscati.

333. A. Marruccia, Relazione annuale 2008 sulle attività del Commissario straordinario del Governo, cit., pp. 147 ss.

334. Cass., sez. I pen., 14 febbraio 1987, Nicoletti.

335. Cass., sez. I pen., 23 marzo 1998, Comisso.

336. Cass., 20 ottobre 1997, Cifuni.

337. Cass., sez. I pen., 30 ottobre 1997, Nicoletti.

338. Corte costituzionale, sent. 190/1994.

339. Secondo Cass., Sez. UU., 08 giugno 1999, n. 9 (Bacherotti): "La fattispecie traslativa si connota nel senso della originarietà per l'unica ragione che il trasferimento del diritto si realizza autoritativamente, indipendentemente dalla volontà del precedente titolare e su basi esclusivamente legali: il che non significa, tuttavia, che il trasferimento stesso possa avere ad oggetto un diritto di contenuto diverso e più ampio di quello che faceva capo al precedente titolare. In altri termini, la confisca, quale che sia la configurazione che voglia adottarsi, investe il diritto sulla cosa nella esatta conformazione derivante dalla peculiare situazione di fatto e di diritto esistente all'epoca del provvedimento, con l'ovvia conseguenza che lo Stato, quale nuovo titolare di esso, non può legittimamente acquisire facoltà di cui il soggetto passivo della confisca aveva già perduto la titolarità. Tali notazioni trovano inequivoca conferma nella funzione della confisca, la cui causa giuridica non è costituita dall'acquisizione del bene al patrimonio dello Stato, con il sacrificio dei diritti dei terzi, ma è identificabile, invece, nell'esigenza, tipicamente preventiva, di interrompere la relazione del bene stesso con l'autore del reato e di sottrarlo alla sfera di disponibilità di quest'ultimo. Va riconosciuto, pertanto, che l'acquisizione del bene allo Stato è una conseguenza della sottrazione, non già l'obiettivo della confisca, il cui fine primario e immediato è la spoliazione del reo nei diritti che egli ha sulla cosa e l'acquisto di tali diritti da parte dello Stato costituisce soltanto una conseguenza necessaria di tale spoliazione di talché il richiamo al bilanciamento tra interesse pubblico e privato può essere pertinente soltanto nell'ottica della specifica funzione che caratterizza la confisca e, quindi, ha un senso rispetto ai diritti del condannato sulla cosa e non anche riguardo alle situazioni giuridiche soggettive dei terzi".

340. Il concetto di "estraneità" è stato chiarito dalle stesse Sezioni Unite (09/1999) che affermano che: "il concetto di estraneità al reato è individuabile anche in presenza dell'elemento di carattere oggettivo integrato dalla derivazione di un vantaggio dall'altrui attività criminosa, purché sussista la connotazione soggettiva identificabile nella buona fede del terzo, ossia nella non conoscibilità, con l'uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta, del predetto rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso dal condannato".

341. In tal senso vedi Corte Cost., 17.07.1974, n. 229; Corte Cost., 29.12.1976, n. 259; Corte Cost., 19.01.1987, n. 2, e da ultimo Corte Cost., 10.01.1997, n. 1.

342. E' da segnalare che anche alcuni Tribunali hanno risolto, durante la gestione, problemi concreti attraverso intese con le sezioni fallimentari, pagando, ad esempio debiti pregressi all'esecuzione del sequestro in favore di creditori insinuati al passivo o dando esecuzione, accertata la buona fede e la non fittizietà, di contratti preliminari (si pensi ad immobili in corso di costruzione da parte di imprese mafiose) in accordo con il curatore ed il Giudice delegato del fallimento.

343. Cass., sez. UU., 24 maggio 2004, n. 29951, Focarelli.

344. Cass. Civ.; 6 febbraio1998, n. 1213; 6 marzo 1995, n. 2570; 27 luglio 1994, n. 7024; 23 ottobre 1992, n. 11572.

345. Secondo Cass., 1947/1998, "E' quindi possibile dichiarare il fallimento di un soggetto nei cui confronti sia in corso una procedura di prevenzione con sequestro di beni, che si ritengano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Ma non è possibile esperire da parte degli organi del fallimento attività che possano interferire nella gestione e nella amministrazione dei beni sottoposti a sequestro nel procedimento di prevenzione".