ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Osservazioni conclusive

Daniela Ranalli, 2010

Con l'analisi condotta nello svolgimento di questo lavoro si è cercato di porre in evidenza i numerosi strumenti offerti dal diritto internazionale, dal diritto dell'Unione europea e dalla nostra Carta Costituzionale, che stabiliscono un principio di parità di trattamento tra stranieri e cittadini nell'accesso alle prestazioni sociali. Tuttavia, finora, queste affermazioni di principio hanno trovato un'effettiva realizzazione soltanto per via giurisprudenziale, e faticano ad incontrare una concreta attuazione nelle scelte legislative.

Il ruolo della giurisprudenza italiana, sia quella di legittimità che di merito, si è rivelato fondamentale per consentire una progressiva applicazione del principio di uguaglianza. La tendenza del legislatore nazionale è stata quella di legiferare in maniera del tutto disarmonica e contrastante rispetto al principio di parità di trattamento. Le scelte legislative, ponendosi in contrasto con il principio di parità di trattamento, affermato dalla CEDU e dal diritto dell'Unione europea, non sembrano essere state rispettose del limite posto dall'art. 117, primo comma, all'esercizio della potestà legislativa. Sono apparse inoltre in contrasto con lo stesso art. 3 Cost., che impone al legislatore di legiferare nel rispetto del principio di uguaglianza e di esercitare la propria discrezionalità secondo ragionevolezza.

Le modifiche legislative successive al Testo Unico del 1998 sono intervenute in senso restrittivo e hanno progressivamente limitato il diritto dello straniero di accedere alle prestazioni sociali, prevedendo, come condizione per l'accesso, il soddisfacimento di requisiti inerenti alla durata del soggiorno, alla tipologia del titolo di soggiorno, alla residenza. Inoltre non sono mancati, come è stato illustrato, dei provvedimenti, sia a livello nazionale che locale, che hanno escluso in partenza gli stranieri dal godimento dei diritti assistenziali, fondando l'esclusione sul difetto della cittadinanza italiana (1). Mediante l'interpretazione giurisprudenziale è stato possibile superare i profili discriminatori delle previsioni legislative e rispondere alle istanze di tutela dei cittadini stranieri.

Tuttavia, si è verificata la situazione per cui l'unico strumento a disposizione degli stranieri per vedersi riconosciuto il proprio diritto di accedere alle prestazioni di assistenza sociale è stato quello di adire le sedi giudiziarie. Dunque, nonostante numerosi strumenti normativi riconoscano il diritto dello straniero regolarmente soggiornante di accedere al sistema di sicurezza sociale, in condizioni di parità con i cittadini, il ricorso all'autorità giudiziaria è divenuta condizione necessaria e indispensabile perché il diritto possa essere effettivamente riconosciuto.

In una situazione fisiologica, il diritto di ottenere le prestazioni assistenziali dovrebbe essere riconosciuto in capo al titolare dal momento che c'è una norma che glielo attribuisce, e c'è la verifica positiva della sussistenza dei requisiti sanitari, di reddito e di età che legittimano l'accesso alla prestazione. Il ricorso al giudice dovrebbe intervenire solo in una fase patologica del diritto, quando si frappongono degli ostacoli tra la titolarità del diritto e il suo concreto esercizio. Per quanto riguarda il diritto degli stranieri di accedere, in condizioni di parità, alle prestazioni di assistenza sociale la patologia è divenuta cronica, e l'intromissione di ostacoli tra la titolarità del diritto e il suo concreto esercizio è divenuta una condizione permanente. La conseguenza che ne è derivata è il riconoscimento del diritto in maniera ridotta e sacrificata.

Il necessario ricorso al giudice comporta una riduzione delle utilità che si sarebbero conseguite al momento in cui il diritto è sorto rispetto a quelle che si conseguono quando il diritto viene accertato giudizialmente. E il sacrificio di utilità diviene ancora maggiore se si considera la tipologia dei diritti in questione: si tratta di diritti fondamentali, costituzionalmente garantiti, a contenuto ma non a funzione patrimoniale, che mirano a rimediare a situazioni d'indigenza e consistono nell'erogazione di prestazioni economiche che forniscono ai beneficiari i mezzi indispensabili per il loro sostentamento e per condurre una vita dignitosa (2).

Se per i cittadini italiani il riconoscimento del diritto consegue alla sola verifica positiva dei requisiti richiesti dalla legge per l'accesso alle prestazioni, per gli stranieri, invece, finché non interviene una sentenza che ne accerti l'esistenza, il diritto non viene riconosciuto, e diviene praticamente un diritto a necessario esercizio giudiziale.

Il riconoscimento giudiziale del diritto ha rappresentato comunque l'ipotesi più favorevole rispetto alla situazione, probabilmente maggioritaria, di chi ha incassato il rigetto dell'INPS senza presentare ricorso. Si consideri anche come possa essere problematico l'accesso alla giustizia da parte di chi si trova in una condizione di indigenza, di scarsa conoscenza dell'ordinamento italiano, sia della legislazione che dei rimedi giudiziali, e magari anche in una situazione di validità precaria del permesso di soggiorno, che deve sopravvivere ai tempi di durata del processo. Le difficoltà, i costi, i tempi, la diffidenza verso un sistema molto esigente nel chiedere garanzie e adempimenti amministrativi allo straniero e restio nel riconoscimento dei diritti, sono tutti deterrenti al ricorso alla giustizia.

Il percorso per il riconoscimento del diritto degli stranieri di accedere alle prestazioni sociali è stato finora decisamente in salita, e ha richiesto l'adempimento di oneri (il ricorso al giudice) e l'attesa di tempi ulteriori (quelli di svolgimento del processo) che al cittadino italiano non sono richiesti.

Tuttavia, la recente sentenza del 27 maggio 2010, n. 187, della Corte Costituzionale, apre una prospettiva di tutela che può consentire il superamento, almeno in parte, di questa situazione. La sentenza, come abbiamo visto, censura l'illegittimità dell'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000, nella parte in cui prevede la carta di soggiorno come requisito per l'accesso alle prestazioni di assistenza sociale. Con questa declaratoria d'illegittimità, la Corte ristabilisce l'operatività del principio di parità di trattamento tra stranieri regolarmente soggiornanti e cittadini per l'accesso alle prestazioni assistenziali (3), considerate prestazioni essenziali, dirette alla tutela dei bisogni primari della persona umana.

Lo strumento utilizzato dalla Corte per dichiarare l'illegittimità costituzionale della norma è stato l'art. 117, primo comma, Cost., che si ritiene violato in quanto l'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000 si pone in contrasto con il principio di non discriminazione stabilito dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

In questo modo la Consulta accoglie l'orientamento della Corte di Strasburgo, che ha avuto un ruolo essenziale nella predisposizione di un efficace strumento di tutela contro le discriminazioni fondate sulla nazionalità nell'accesso alle prestazioni di assistenza sociale. Interpretando il diritto a percepire le provvidenze economiche assistenziali come un diritto patrimoniale, tutelato dall'art. 1 del Protocollo 1 alla Convenzione, i giudici di Strasburgo hanno consentito di estendere l'operatività del principio di non discriminazione, sancito dall'art. 14 della Convenzione, anche in materia di sicurezza sociale. Dunque, in base al ragionamento dei giudici di Strasburgo, deve essere considerata discriminatoria la previsione di un trattamento differenziato tra stranieri e cittadini, ove la differenziazione non sia fondata su giustificazioni obiettive e ragionevoli. Si è predisposto, in questo modo, uno strumento generale di tutela contro le discriminazioni fondate sulla nazionalità in materia di sicurezza sociale, e si tratta peraltro dell'unico rimedio contro la discriminazione suscettibile di un'applicazione generalizzata. Infatti, come abbiamo posto in evidenza, il diritto dell'Unione europea non ha finora previsto un generale principio di parità di trattamento tra cittadini dell'Unione e cittadini provenienti da paesi terzi, nell'accesso al sistema di sicurezza sociale. Il principio è stato esteso nei confronti dei cittadini extracomunitari in maniera selettiva, soltanto a determinate condizioni e soltanto per determinate categorie di beneficiari (4). Il diritto dell'Unione ha offerto uno strumento efficace di tutela nei confronti di quelle categorie di stranieri direttamente toccate dal diritto dell'Unione, ma non ha previsto una soluzione generale.

Si è posto in evidenza come neppure il diritto antidiscriminatorio dell'Unione europea ha consentito di superare una tale situazione, infatti il principio di non discriminazione, stabilito dalla direttiva 2000/43/CE, ha un'operatività ridotta nei confronti dei cittadini extracomunitari, dal momento che esclude dal suo ambito di applicazione le differenze di trattamento fondate sulla nazionalità. I cittadini provenienti da paesi terzi sono inclusi nell'ambito di applicazione ratione personae della direttiva, ma solo nella misura in cui sono discriminati per motivi inerenti alla razza o all'origine etnica, quasi sempre invece il motivo alla base di un trattamento differenziato è fondato sul difetto della cittadinanza, e rispetto a questo la direttiva non sembra aver offerto un'efficace soluzione.

Il divieto di discriminazione stabilito dalla CEDU ha invece una valenza generale, e il fatto che la Corte Costituzionale abbia fatto riferimento a questo principio per censurare la disposizione di legge italiana lascia ben sperare sulla portata tendenzialmente estensiva della pronuncia. Accogliendo la posizione dei giudici di Strasburgo, si presume che la Corte Costituzionale applichi il ragionamento seguito nella sentenza n. 187/2010 anche ad altre situazioni, e consideri discriminatoria, e pertanto illegittima, la previsione di ingiustificate e irragionevoli differenziazioni di trattamento tra stranieri e cittadini nell'accesso al fondamentale diritto all'assistenza sociale.

Inoltre ci sono buone prospettive perché il principio di non discriminazione, come previsto dalla CEDU e interpretato dalla Corte di Strasburgo, trovi applicazione effettiva anche nell'ordinamento dell'Unione. Sembra questo lo scenario prospettato dal Trattato di Lisbona (5), che prevede la formale entrata in vigore della Carta di Nizza, che acquista lo stesso valore giuridico dei Trattati, e l'adesione dell'Unione europea alla CEDU.

Si è posto in evidenza come già la Carta di Nizza comporti un radicale ripensamento del diritto europeo della sicurezza sociale, che si emancipa dalla connotazione iniziale secondo la quale era concepito come meramente strumentale alla realizzazione delle libertà economiche, e assurge al rango di diritto fondamentale. L'art. 34 della Carta riconosce il diritto alla sicurezza sociale in termini tendenzialmente universali, nei confronti di tutti coloro che non dispongano di risorse economiche sufficienti e nei confronti di ogni individuo che risieda o si sposti legalmente all'interno dell'Unione.

Infine, l'adesione dell'Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo comporta un necessario confronto tra l'impostazione del diritto dell'Unione, che finora ha riconosciuto un'operatività imperfetta e limitata del principio di non discriminazione e l'impostazione della CEDU, che ha riconosciuto un'applicazione generalizzata del principio.

La tendenza dell'Unione è stata finora quella di riconoscere il principio di uguaglianza con una valenza esclusivamente intracomunitaria, i cittadini provenienti da paesi terzi sono stati ammessi al beneficio dell'uguaglianza soltanto entro certi limiti e a certe condizioni. Questa impostazione dovrà necessariamente trovare un punto d'incontro con quella della CEDU, che stabilisce un principio di uguaglianza e di non discriminazione di tutti gli uomini nel godimento dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

Non è ancora chiaro come sarà definito il rapporto tra l'ordinamento dell'Unione europea e l'ordinamento della CEDU e come sarà conciliato l'operato delle due Corti, tuttavia sembra si possa affermare che, aderendo alla Convenzione, l'Unione europea sia tenuta a garantire il rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo. Dal momento che i giudici di Strasburgo hanno ricondotto il diritto ad ottenere le prestazioni sociali nell'ambito dei diritti fondamentali dell'uomo, si presume che, rispetto a questi, il diritto dell'Unione europea debba garantire l'operatività di un generale principio di non discriminazione, in conformità dell'art. 14 della Convenzione. Pertanto, per non porsi in contrasto con la CEDU, il diritto dell'Unione dovrà assicurare, rispetto al fondamentale diritto alla sicurezza sociale, il superamento del paradigma dell'uguaglianza dei soli cittadini dell'Unione e garantire, come stabilito dalla Convenzione, un'operatività generale del principio anche nei confronti dei cittadini non comunitari.

Note

1. Si fa riferimento, ad esempio, alla "carta acquisti", prevista dall'art. 81, comma 32, della legge, 6 agosto 2008, n. 133; alla "carta bambini", prevista dall'art. 19, comma 18, della legge 28 gennaio 2009, n. 2; al "bonus bebè"introdotto dalla Giunta comunale di Brescia, delibera 21 novembre 2008, n. 1062/52053 P.G.

2. Si tratta di quei diritti il cui contenuto e/o la funzione non patrimoniale rende particolarmente acuta l'esigenza di ridurre al minimo lo scarto di utilità garantite dal diritto sostanziale e utilità che il processo riesce ad assicurare, posto che il permanere in uno stato di insoddisfazione per tutto il tempo necessario ad ottenere una sentenza esecutiva è fonte di pregiudizio irreparabile, si veda A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, p. 45, pp. 550-551.

3. Il principio di parità di trattamento era già previsto dall'art. 41 del T.U. sull'immigrazione, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

4. Sul punto, si rinvia a quanto detto nel capitolo 2.

5. Entrato in vigore il primo Dicembre 2009.