ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo secondo
Il quadro normativo comunitario

Daniela Ranalli, 2010

Sommario: 1. Il sistema di coordinamento dei regimi nazionali di sicurezza sociale: il regolamento n. 1408/1971. -1.1. I principi fondamentali del coordinamento -1.2. Ambito di applicazione ratione personae. Estensione della normativa sul coordinamento anche ai non comunitari, innovazione e limiti del regolamento n. 859/2003. - 1.3. Ambito di applicazione ratione materiae. Diversi livelli di coordinamento: prestazioni previdenziali e prestazioni speciali in denaro di tipo non contributivo -2. Il regolamento 883/2004. Un'estensione selettiva e controllata della normativa di coordinamento dei regimi nazionali di sicurezza sociale. -3. Non uniformità del diritto comunitario della sicurezza sociale. Diversi livelli di tutela per ciascuna categoria di beneficiari. - 4. Le tutele sociali degli stranieri. Soluzioni diversificate a seconda dello status del beneficiario ovvero le diverse sfumature di operatività del principio di dis-parità di trattamento. -4.1. Accordi tra Comunità europea e Stati Terzi. Portata applicativa delle clausole di non discriminazione. -4.2. I titolari di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo. -4.3. Le tutele previste per i familiari extracomunitari di cittadini comunitari. -4.4. Apolidi e rifugiati. -5. Anomie di tutela risultanti dal quadro normativo comunitario -6. La Carta di Nizza: la solidarietà sociale come nuovo paradigma costituzionale per l'Unione europea - 6.1. Il valore giuridico della Carta: dall'opera di valorizzazione dei giudici al Trattato di Lisbona -6.2. La "comunitarizzazione" della CEDU.

1. Il sistema di coordinamento dei regimi nazionali di sicurezza sociale: il Regolamento 1408/1971

La normativa comunitaria di sicurezza sociale è stata continuamente modificata e aggiornata, nel corso del tempo, principalmente su impulso della Corte di Giustizia, che ha avuto un ruolo essenziale nell'ampliarne il raggio di tutela. Qui si comincerà l'esame della normativa sul coordinamento a partire dal regolamento 1408/1971 perché, sebbene questo sia stato abrogato e sostituito dal nuovo regolamento 883/2004, attualmente in vigore, continua ad avere efficacia e ad essere applicato nei confronti dei cittadini non comunitari, cui la normativa sul coordinamento è stata estesa ad opera del regolamento 859/2003. Ne risulta un quadro normativo frammentario e disordinato, che qui si cercherà di organizzare, puntando l'attenzione sulle istanze di tutela che stanno alla base dei cambiamenti e ripercorrendo le tappe essenziali dell'estensione dell'ambito di applicazione oggettivo e soggettivo della normativa. Si ricostruisce in questo modo il passaggio da una logica mercantile, alla base della versione originaria del regolamento, che intendeva tutelare il mercato comunitario e la libera circolazione della mano d'opera, ad una logica di cittadinanza, che ha come soggetto di riferimento non più il lavoratore che si sposta all'interno dell'Unione ma il cittadino comunitario (1), al quale viene riconosciuta una protezione sociale più ampia, che va al di là delle prestazioni strettamente connesse al rapporto di lavoro.

La logica originaria del sistema di coordinamento è perfettamente ricalcata dal Regolamento 1408/1971, che concepisce la sicurezza sociale non come diritto autonomo, ma come uno strumento per la realizzazione della libera circolazione della mano d'opera. Il legislatore comunitario, seguendo alla lettera l'articolo 48 TFUE (2), che lo legittima ad intervenire nella materia, adotta solo "le misure necessarie per l'instaurazione della libera circolazione dei lavoratori" (3). L'interesse che si vuole tutelare è la salvaguardia del mercato del lavoro comunitario, predisponendo delle misure volte a rimuovere gli ostacoli alla mobilità della forza lavoro. Quindi s'intende garantire parità di trattamento tra i lavoratori migranti e nazionali, con riferimento alle condizioni di lavoro e ai vantaggi sociali, e assicurare al lavoratore che si sposta all'interno dell'Unione che i propri vantaggi previdenziali lo seguiranno nei suoi spostamenti. Pertanto si prevede un coordinamento delle normative nazionali di sicurezza sociale, si ammette che continuino ad esistere delle differenze, ma si provvede a gettare un ponte tra i vari sistemi nazionali, al fine di garantire il riconoscimento dei diritti previdenziali ai soggetti che circolano e lavorano in più Stati membri.

La previsione di un principio di parità di trattamento previdenziale e delle condizioni di lavoro risponde inoltre all'esigenza di salvaguardare il rispetto del principio della concorrenza nel mercato del lavoro comunitario. E questo è possibile soltanto elevando il costo della mano d'opera straniera a quello della mano d'opera locale, imponendo cioè al datore di lavoro gli stessi oneri previdenziali per tutti i lavoratori. Si impedisce così che l'immissione della mano d'opera straniera nel mercato del lavoro nazionale possa dare luogo a fenomeni di dumping sociale e una corsa al ribasso delle tutele sociali e delle condizioni di lavoro.

1.1. I principi fondamentali del coordinamento

L'obiettivo della disciplina del coordinamento è quello di consentire ai lavoratori in mobilità di continuare a godere delle varie prestazioni in qualunque Stato membro si trovino a risiedere o a lavorare. Per realizzare tale scopo s'impone la così detta denazionalizzazione (4) della legge regolatrice del rapporto previdenziale, cioè ai fini dell'accesso e del calcolo delle prestazioni, ogni Stato membro deve attribuire rilevanza a fatti e circostanze maturati sotto la legislazione di altri Stati membri. L'intento è quello di predisporre una tutela sociale transnazionale e rimuovere gli ostacoli che il principio di territorialità porrebbe altrimenti alla libertà di circolazione dei lavoratori.

Il regolamento individua alcuni principi generali di cui lo Stato competente deve tener conto nello stabilire se il lavoratore migrante ha diritto alle prestazioni (5):

  1. Parità di trattamento: comporta il divieto di ogni discriminazione tra lavoratori migranti e i lavoratori cittadini dello Stato membro ospitante. E riguarda non solo le contribuzioni e le prestazioni, ma ricomprende tutti gli aspetti del rapporto previdenziale. E' enunciato all'articolo 3 del Regolamento 1408/1971 (6), dove si legge che "le persone che risiedono nel territorio di uno degli Stati membri [...] sono soggette agli obblighi e sono ammesse al beneficio della legislazione di ciascuno Stato membro alle stesse condizioni dei cittadini di tale Stato".
  2. Unicità della legislazione applicabile: comporta l'assoggettamento del lavoratore che trasferisca la propria residenza o il luogo di lavoro ad una sola gestione previdenziale o regime di sicurezza sociale per ciascun periodo di occupazione e di assicurazione. Il criterio utilizzato in via generale per individuare la legislazione applicabile è quello della lex loci laboris, cioè la legge applicabile sarà quella dello Stato in cui il lavoratore esercita la propria attività lavorativa.
  3. Principio di totalizzazione dei periodi contributivi: viene in rilievo per tutte quelle situazioni in cui il diritto alla prestazione matura soltanto dopo che il lavoratore sia stato assicurato o abbia lavorato per un determinato periodo di tempo (ad esempio le prestazioni di vecchiaia o di disoccupazione). Mira a garantire la conservazione delle aspettative e dei diritti maturati dal singolo lavoratore nei vari sistemi previdenziali nazionali coinvolti durante la sua carriera lavorativa. In forza di tale principio lo Stato membro competente deve tener conto dei periodi di assicurazione e di contribuzione maturati sotto la legislazione di un altro Stato membro nel decidere se il lavoratore possiede i requisiti richiesti dalla legislazione nazionale per l'accesso ad un certo tipo di prestazione. Pertanto i periodi di assicurazione compiuti sotto la legislazione di più Stati membri sono cumulati ai fini dell'acquisizione, mantenimento o recupero del diritto alle prestazioni (7).
  4. Divieto di cumulo delle prestazioni: mira ad evitare che il lavoratore che eserciti il diritto alla libera circolazione consegua indebiti vantaggi. Si stabilisce che il lavoratore che abbia versato i contributi a regimi di sicurezza sociale di due o più Stati membri per lo stesso periodo di assicurazione non ha diritto a beneficiare di più prestazioni della stessa natura riferendosi ad uno stesso periodo di assicurazione obbligatoria.
  5. Principio di esportabilità delle prestazioni: implica che le prestazioni sociali possono essere erogate ovunque nell'Unione. L'articolo 10 del regolamento 1408/1971 (8) stabilisce che "salvo quanto diversamente disposto [...], le prestazioni in denaro [...] acquisite in base alla legislazione di uno o più Stati membri, non possono subire alcuna riduzione, né modifica, né sospensione, né soppressione, né confisca per il fatto che il beneficiario risiede nel territorio di uno Stato membro diverso da quello nel quale si trova l'istituzione debitrice" (9).

Questo principio opera pienamente soltanto per le prestazioni previdenziali, contributive; il fine è quello di facilitare la mobilità della forza lavoro e tale principio opera sicuramente come incentivo nei confronti dei lavoratori che si spostano all'interno dell'Unione, viene loro assicurato il mantenimento dei propri diritti previdenziali e il godimento ovunque si trovino a risiedere e lavorare.

Delle deroghe sono invece previste per le prestazioni di disoccupazione e per prestazioni speciali in denaro a carattere non contributivo (10) che "sono erogate esclusivamente nello Stato membro in cui gli interessati risiedono" (11). Com'è stato giustamente osservato, tale limitazione sembra esser stata disposta al fine di "prevenire forme di mobilità intracomunitaria che non risultino sicuramente funzionali ad esigenze produttive e allo scopo di impedire -a beneficio delle finanze pubbliche degli Stati membri- il pagamento, al di fuori dei confini nazionali, di talune basilari prestazioni di cittadinanza sociale" (12). Finché a muoversi all'interno dell'Unione è un lavoratore, questa mobilità viene incoraggiata, attraverso la garanzia del pieno godimento dei diritti previdenziali anche in uno Stato membro diverso da quello in cui si trova l'istituzione debitrice. Quando invece a circolare sono dei cittadini comunitari economicamente inattivi, l'interesse tutelato diviene quello di salvaguardare la finanza pubblica ed evitare che le istanze dei cittadini in stato di bisogno vadano a gravare su questa (13). Pertanto secondo una logica utilitaristica, ben distante da un'idea di cittadinanza sociale europea, si pongono dei limiti all'esportabilità e dunque alla circolazione delle prestazioni non contributive, imponendo che le forme di protezione sociale minima per chi versa in condizioni di bisogno non possano essere erogate al di fuori dello Stato membro in cui gli interessati risiedono (14).

1.2. Ambito di applicazione ratione personae. Estensione della disciplina del coordinamento anche ai cittadini non comunitari, innovazione e limiti del regolamento 859/2003

L'articolo 2 stabilisce che il regolamento si applica "ai lavoratori che sono o sono stati soggetti alla legislazione di uno o più Stati membri e che sono cittadini di uno degli Stati membri, oppure apolidi o profughi residenti nel territorio di uno Stato membro, nonché ai loro familiari o superstiti". La nozione di lavoratore (15) cui si fa riferimento non è più da intendersi secondo l'originaria accezione giuslavoristica di prestatore d'opera (16), ma viene inquadrata nell'ottica previdenziale di soggetto assicurato nell'ambito di un sistema di previdenza sociale. Questa impostazione risulta evidente dal terzo considerando, in cui si dice che il Regolamento è applicabile a tutti i cittadini degli Stati membri assicurati nell'ambito dei regimi di sicurezza sociale organizzati a beneficio dei lavoratori subordinati e autonomi (17). La Corte di Giustizia ha poi precisato che "una persona possiede la qualità di lavoratore ai sensi del Regolamento 1408/1971 quando è assicurato, sia pure contro un solo rischio, in forza di un'assicurazione obbligatoria o facoltativa presso un regime previdenziale generale o speciale, indipendentemente dall'esistenza di un rapporto di lavoro" (18). In questo modo si ammettono al beneficio del coordinamento previdenziale anche i lavoratori "atipici", così come quelli con contratto di lavoro temporaneo o part-time, indipendentemente dal livello del reddito percepito. L'ambito di applicazione ratione personae è stato progressivamente esteso, in conformità all'orientamento della Corte di Lussemburgo, anche ai dipendenti pubblici (19) e ai cittadini comunitari che seguono corsi di studi o di formazione professionale (20).

Deficit evidente della normativa è la totale esclusione dal suo raggio d'azione dei lavoratori migranti extracomunitari, tutelati soltanto in quanto rientranti nella categoria di apolidi o profughi oppure solo indirettamente in quanto familiari o superstiti di un cittadino comunitario. Un primo temperamento a questa situazione viene operato dalla giurisprudenza della Corte europea, che cerca di estendere la portata della norma attraverso una interpretazione estensiva della nozione di cittadino comunitario. Nella sentenza Tayeb Belbouab (21) (1978), si stabilisce che la qualità di cittadino comunitario richiesta dall'articolo 2, n. 1, del Regolamento n. 1408/1971, doveva essere valutata "in riferimento all'epoca dello svolgimento dell'attività lavorativa e del versamento dei contributi relativi al periodo di iscrizione e dell'acquisto dei diritti corrispondenti" (22). Così si riconosce l'applicabilità del Regolamento a quelle persone che non possedevano la qualità di cittadino comunitario al momento della domanda della prestazione sociale ma erano cittadini comunitari al momento dello svolgimento dell'attività lavorativa. Questa situazione particolare si è verificata con riferimento ai lavoratori provenienti dalle ex-colonie francesi che avevano perso la nazionalità francese in seguito all'indipendenza del loro Paese d'origine e si trovavano così esclusi dalla fruizione delle prestazioni sociali per carenza del requisito della cittadinanza comunitaria, pur avendo svolto una regolare attività lavorativa e avendo versato i relativi contributi.

L'esigenza di estendere la disciplina del coordinamento anche ai cittadini provenienti da Paesi terzi che si spostano legalmente all'interno dell'Unione viene avvertita anche dal Parlamento europeo. Su iniziativa dello stesso, la Commissione presenta, nel 1997, una proposta di modifica del Regolamento 1408/1971 in modo da estenderne il campo di applicazione soggettiva (23).

In questo clima, il Consiglio europeo straordinario di Tampere (Ottobre 1999) sollecita l'adozione di misure volte a "garantire l'equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio degli Stati Membri; garantire loro diritti e obblighi analoghi a quelli dei cittadini dell'Unione Europea; rafforzare la non discriminazione nella vita economica, sociale e culturale, nonché ravvicinare lo status giuridico dei cittadini dei Paesi terzi a quello dei cittadini degli Stati membri".

Queste istanze trovano realizzazione nel dato positivo con il Regolamento 859/2003, che stabilisce che le disposizioni del Regolamento 1408/1971 e del Regolamento di attuazione (24) si applicano anche ai cittadini di Paesi terzi cui tali disposizioni non siano già applicabili unicamente a causa della nazionalità.

Il diritto comunitario in materia di sicurezza sociale conosce un momento di sostanziale innovazione. L'intento del legislatore comunitario, come emerge dalla lettura dei considerando del Regolamento, è quello di riavvicinare il più possibile lo status dei cittadini non comunitari legalmente residenti a quello dei cittadini comunitari, riconoscendo loro diritti e obblighi analoghi, garantendo equo trattamento e rafforzando la non discriminazione nella vita economica, sociale e culturale (25).

Il maggiore elemento di novità consiste nell'estensione del principio di parità di trattamento, sancito dall'articolo 3 del Regolamento 1408/1971, finora riferito unicamente ai cittadini dell'Unione, ai cittadini di Paesi terzi, nonché ai loro familiari e superstiti, purché siano in una condizione di soggiorno legale nel territorio di uno Stato membro e si trovino in una situazione in cui non tutti gli elementi si collochino all'interno di un solo Stato membro (26).

L'estensione agli stranieri della clausola di parità in tema di accesso alle prestazioni sociali delude tuttavia le aspettative e ha una portata tutt'altro che generale. Schematicamente, gli elementi che ne limitano l'applicazione generalizzata possono essere ricondotti a:

a) Inapplicabilità ad una situazione puramente interna. Il primo sostanziale ostacolo è costituito dal fatto che condizione di applicazione del Regolamento è che il soggetto che intenda invocarlo abbia circolato all'interno dell'Unione, cioè abbia regolarmente soggiornato, lavorato e versato i relativi contributi previdenziali in almeno due Stati membri. L'articolo 1, infatti, richiede, come requisiti per l'applicazione, che il beneficiario si trovi in una situazione di soggiorno regolare e in cui non tutti gli elementi si collochino all'interno di un solo Stato membro (27), escludendo in questo modo dal beneficio della parità di trattamento gli stranieri che abbiano regolarmente soggiornato e lavorato in un solo Stato membro. Ne deriva, secondo un'interpretazione letterale del Regolamento, che la regolarità del soggiorno non è condizione sufficiente perché un cittadino extracomunitario possa vedersi applicato il Regolamento n. 859/2003 e il principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale in esso affermato. La clausola di parità troverà applicazione soltanto nei confronti di coloro che abbiano regolarmente soggiornato e lavorato in almeno due Stati membri e non potrà essere invocata dal cittadino extracomunitario che risieda e lavori legalmente in un solo Stato membro. Con la conseguenza che si determina un'ingiustificata disparità di trattamento rispetto a situazioni del tutto analoghe, e tra i migranti legalmente soggiornanti, potranno accedere alle prestazioni di sicurezza sociale, in condizioni di parità con i cittadini dell'Unione, soltanto quelli che abbiano lavorato e soggiornato in almeno due Stati membri e saranno esclusi gli stranieri legalmente residenti che non soddisfino questo ulteriore requisito. Questa impostazione non è stata superata neppure dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, che si è limitata ad una applicazione letterale del Regolamento e non si è spinta fino a riconoscere l'operatività generale del principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale tra stranieri regolarmente soggiornanti e cittadini dell'Unione.

Nella sentenza Khalil (28), la Corte ha sancito l'inapplicabilità del principio di parità di trattamento a quella che definisce una situazione puramente interna, cioè in cui il richiedente abbia legalmente lavorato e soggiornato all'interno di un solo Stato dell'Unione. Una situazione di questo tipo viene considerata come una questione puramente interna, che interessa il singolo Stato membro coinvolto, ma non rileva per il diritto comunitario, in quanto non connessa con l'ordinamento sopranazionale. Ne deriva che il Regolamento 859/2003 non è applicabile nei confronti del cittadino extracomunitario che abbia lavorato e soggiornato legalmente in un solo Stato membro, conseguentemente non gli potranno essere riconosciuti i diritti enunciati, compreso il principio di parità di trattamento. Nella sentenza Khalil, la Corte di Giustizia dimostra di avere un'impostazione decisamente diversa rispetto a quella assunta dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. La Corte di Strasburgo ha riconosciuto il diritto degli stranieri regolarmente soggiornanti di accedere alla sicurezza sociale attraverso l'applicazione del principio di non discriminazione in base alla nazionalità, censurando come discriminatoria la previsione di condizioni differenziate per l'accesso degli stranieri alle prestazioni sociali.

La Corte di Lussemburgo, nella sentenza Khalil, assume una posizione ben diversa e, riconoscendo l'inapplicabilità del Regolamento nei confronti degli stranieri legalmente residenti in un solo Stato membro, ammette la legittimità di una differenziazione di trattamento tra stranieri regolarmente soggiornanti, fondata esclusivamente sul fatto che abbiano circolato o meno all'interno dell'Unione. Si tratta di una differenziazione che poggia su un elemento del tutto estraneo rispetto alla finalità del Regolamento stesso, che dovrebbe essere quella di riavvicinare il più possibile lo status dei cittadini non comunitari legalmente residenti a quello dei cittadini comunitari, riconoscere diritti analoghi e rafforzare l'operatività del principio di non discriminazione. Dunque si tratta di una differenziazione difficilmente giustificabile sulla base di motivi obiettivi e ragionevoli, tuttavia la Corte di Giustizia non ha ritenuto che la differenziazione integrasse gli estremi di un trattamento discriminatorio.

Il Regolamento n. 859/2003 ammette l'operatività della clausola di parità in materia di sicurezza sociale limitatamente al caso in cui il cittadino di un Paese terzo regolarmente soggiornante si sia anche spostato legalmente all'interno dell'Unione (29). La tutela non è riconosciuta al cittadino extracomunitario in quanto tale come soggetto di diritti, ma solo nella misura in cui la tutela dei suoi diritti risulti anche funzionale ad un efficiente funzionamento del mercato interno e strumentale alla promozione della libera circolazione della forza lavoro regolare. L'interesse del cittadino extracomunitario è tutelato solo indirettamente. Per quanto nella lettura dello stesso preambolo del Regolamento ci siano delle solenni affermazioni che richiamano l'adesione dell'Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e la proclamazione a livello comunitario di un principio di parità di trattamento degli stranieri legalmente residenti, di fatto la direzione seguita sembra essere un'altra.

Questa interpretazione restrittiva è frutto della logica compromissoria che sta alla base della proclamazione del principio stesso. Da un lato, si avverte l'esigenza di una tutela universalistica di primari diritti sociali della persona, che come tali spettano anche ai cittadini extracomunitari, d'altra parte si teme che l'affermazione di tale principio possa essere eccessivamente onerosa per il sistema di sicurezza sociale degli Stati membri e che possa incentivare il così detto "turismo sociale" (30). La soluzione viene trovata non esattamente a metà strada, riconoscendo una tutela parziale alle sole ipotesi in cui convergono e sono conciliabili l'interesse del cittadino extracomunitario a vedersi riconosciuto il diritto alla sicurezza sociale e alla parità di trattamento e l'interesse comunitario ad un efficace funzionamento del mercato comune del lavoro (31). Pertanto, il diritto di accesso alla sicurezza sociale, in condizioni di parità con i cittadini dell'Unione, non viene riconosciuta nei confronti dei cittadini extracomunitari legalmente soggiornanti in uno Stato membro, ma soltanto dei confronti di coloro che siano entrati nel circuito del mercato del lavoro comunitario, soggiornando e lavorando in almeno due Stati membri.

Il limite della inapplicabilità della clausola di parità nei confronti degli stranieri che abbiano risieduto legalmente in un solo Stato membro risulta ancora più evidente se si considera che, in assenza di un sottostante diritto alla libertà di circolazione nell'Unione dei lavoratori di Paesi terzi, sono proprio le situazioni puramente interne quelle che si verificano più frequentemente (32). Un diritto alla libera circolazione per i cittadini provenienti da Stati terzi è stato in parte riconosciuto con la direttiva 2003/109, limitatamente agli extracomunitari titolari di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo. Ne deriva che una vasta fascia di popolazione immigrata legalmente residente e occupata in uno Stato membro risulta esclusa dalla tutela comunitaria di sicurezza sociale e dall'applicazione del fondamentale principio di parità di trattamento (33).

Il Regolamento n. 859/2003 ha avuto il merito quanto meno di aprire la strada per il riconoscimento di un principio di parità di trattamento tra cittadini dell'Unione e cittadini provenienti da Paesi terzi, ed è stato ampiamente utilizzato dalla giurisprudenza di merito italiana, come elemento da cui desumere, al di là dei limiti di applicabilità, l'esistenza di un generale principio di parità di trattamento tra italiani e stranieri nell'accesso alle prestazioni sociali.

b) Base giuridica debole. La base normativa del Regolamento n. 859/2003 è costituita dall'articolo 63, punto 4 (34), del Trattato che istituisce la Comunità europea. Tale norma contiene un elemento di intrinseca debolezza, in quanto legittima la possibilità per uno Stato membro di chiamarsi fuori dall'applicazione del Regolamento stesso (35).

Questa scelta si giustifica con l'esigenza di accaparrare il consenso anche degli Stati più diffidenti (36) nei confronti dell'estensione del principio di parità di trattamento anche ai cittadini extracomunitari, e questo indubbiamente ha comportato una notevole compressione dell'effettiva portata applicativa.

c) Estensione riferita al solo Regolamento 1408/1971. Con l'entrata in vigore del Regolamento 883/2004, che sostituisce e abroga il Regolamento 1408/1971, si pongono una serie di dubbi circa l'estensione di questo anche ai cittadini provenienti da Paesi terzi, mancando un'espressa previsione in tal senso. Sarebbe pertanto opportuna una nuova proposta allo scopo di consentire che le disposizioni del nuovo Regolamento siano applicabili anche ai cittadini di Paesi terzi. Si determinerebbe altrimenti un'innaturale separazione degli strumenti normativi di tutela dei cittadini extracomunitari rispetto a quelli dell'Unione europea, per i quali soltanto varrà il nuovo Regolamento n. 883 del 2004 (37).

d) Non utilizzabilità della direttiva 2000/43. Il principio di parità di trattamento sancito dal Regolamento 859/2003 rimane un principio appena accennato, una mera proclamazione, senza che siano previste le condizioni perché trovi piena realizzazione e applicazione nella vita pratica. Il limite dell'inapplicabilità agli stranieri che abbiano regolarmente soggiornato in un solo Stato membro, che non si siano legalmente spostati all'interno dell'Unione, lavorando e soggiornando in almeno due Stati membri, comporta una notevole compressione dell'effettiva portata della clausola di parità. Questo limite non può essere superato neppure invocando la direttiva 2000/43 in tema di parità di trattamento. Quest'ultima infatti, sebbene vieti qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla razza o l'origine etnica anche nell'accesso alle prestazioni di sicurezza sociale, esclude espressamente dal suo ambito di applicazione le differenze di trattamento basate sulla nazionalità (38).

Nel preambolo della direttiva si richiama l'adesione dell'Unione europea alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e si ribadisce che il diritto all'uguaglianza davanti alla legge e alla protezione di tutte le persone contro le discriminazioni costituisce un diritto universale. Si afferma che per assicurare lo sviluppo di società democratiche e tolleranti, le azioni specifiche nel campo della lotta contro le discriminazioni dovrebbero spingersi fino a coprire ambiti quali l'istruzione, la protezione sociale, compresa la sicurezza sociale e l'assistenza sanitaria e le prestazioni sociali. Scorrendo poche righe più avanti nella lettura del preambolo, le affermazioni precedenti, che sembrano connotate da una certa universalità nel sancire il divieto di discriminazione, si svuotano di significato. Infatti si legge che "qualsiasi forma di discriminazione diretta o indiretta dovrebbe essere proibita dalla Comunità e che tale divieto dovrebbe applicarsi anche nei confronti dei cittadini di Paesi terzi, ma non comprende le differenze di trattamento basate sulla nazionalità". Questa rilevante limitazione sminuisce la pretesa universalista della direttiva, che poteva essere uno strumento normativo volto a confermare a livello comunitario quanto già affermato dalla Convezione europea dei diritti dell'uomo, dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e dalle tradizioni costituzionali di molti Stati membri. Invece pone un irragionevole limite all'operatività del principio di non discriminazione, determinando così una sorta di limbo in cui si collocano le differenze di trattamento basate sulla nazionalità che vengono poste al di fuori dalla sfera di applicazione del principio di non discriminazione e fuori dall'ambito di tutela della direttiva (39).

Così all'articolo 3, dopo aver ricompreso nell'ambito di applicazione ratione materiae anche l'accesso alla protezione sociale, comprese la sicurezza sociale e l'assistenza sanitaria, le prestazioni sociali, l'istruzione, l'accesso a beni e servizi e la loro fornitura, incluso l'alloggio, si specifica che la direttiva non riguarda le differenze di trattamento fondate sulla nazionalità. Tale esclusione non comporta le stesse conseguenze a seconda che si riferisca ad un cittadino comunitario o un cittadino di un Paese terzo. I cittadini degli Stati membri hanno infatti a disposizione degli ulteriori strumenti, di fonte comunitaria, che gli permettono di aggirare il limite posto alla discriminazione in base alla nazionalità. Dall'articolo 45 TFUE (40) che sancisce la libertà di circolazione dei lavoratori e il divieto di discriminazioni in base alla nazionalità, all'articolo 49 TFUE (41) sulla libertà di stabilimento, all'articolo 56 TFUE (42) sulla libera prestazione dei servizi, all'articolo 7 del Regolamento 1612/1968 che prevede l'abolizione di ogni forma di discriminazione basata sulla cittadinanza per quanto riguarda le condizioni di lavoro e i vantaggi sociali, al Regolamento 1408/1971 sulla sicurezza sociale, sono tutti strumenti che, in combinato disposto con il principio generale di non discriminazione di cui all'articolo 18 TFUE (43), sono già sufficienti a rendere effettiva l'operatività del principio di non discriminazione (44).

Diverso significato ha invece una tale limitazione in riferimento ai cittadini non comunitari, che non possono invocare tali strumenti e possono soltanto ricorrere al diritto nazionale dello Stato membro in cui si trovano a soggiornare oppure agli accordi eventualmente esistenti tra la Comunità europea e il loro Stato di provenienza. Neppure il Regolamento 859/2003 può essere d'aiuto in tal senso poiché, come abbiamo visto, può venire in considerazione ed essere invocato soltanto nell'ipotesi in cui il cittadino extracomunitario abbia circolato all'interno dell'Unione, e quindi non è di per sé sufficiente a garantire una generale applicazione del principio.

1.3. Ambito di applicazione ratione materiae. Diversi livelli di coordinamento: prestazioni previdenziali e prestazioni speciali in denaro di tipo non contributivo

Il campo oggettivo di applicazione è individuato dall'articolo 4, che rinvia a tutte le legislazioni in materia di: prestazioni di malattia, di maternità, d'invalidità, di vecchiaia, per i superstiti, per infortuni sul lavoro e malattie professionali, assegni in caso di morte, prestazioni di disoccupazione e prestazioni familiari. Si specifica poi che il Regolamento si applica ai regimi di sicurezza sociale generali e speciali, contributivi e non contributivi ed è esclusa espressamente l'applicazione all'assistenza sociale e medica. Questa formale esclusione ha dato luogo ad un'importante giurisprudenza della Corte di Lussemburgo volta ad includere le prestazioni non contributive sotto la sfera applicativa della normativa.

Occorre sottolineare che il diritto comunitario non conosce la tradizionale distinzione esistente a livello nazionale tra previdenza e assistenza, ma fa riferimento ad una generale nozione di sicurezza sociale che ricomprende al suo interno sia le prestazioni contributive che quelle non contributive, finanziate dalla fiscalità generale. I giudici comunitari hanno elaborato dei criteri precisi sulla base dei quali ricondurre una prestazione non contributiva nell'ambito della sicurezza sociale, e come tale tutelata dal Regolamento, oppure alle prestazioni meramente assistenziali, escluse invece dalla tutela comunitaria. Essi hanno stabilito il principio della forza attrattiva della sicurezza sociale rispetto all'assistenza sociale, e hanno riconosciuto "carattere previdenziale a tutte le prestazioni in cui coesistono elementi caratteristici di entrambe" e in generale "alle prestazioni erogate sulla base di condizioni legalmente definite e non in base ad una valutazione discrezionale dei bisogni" (45). Rientrano invece tra le prestazioni meramente assistenziali quelle concesse in seguito ad una valutazione individualizzata dello stato di bisogno dell'interessato, indipendentemente dal fatto che abbia svolto un'attività lavorativa o che abbia una contribuzione assicurativa.

L'orientamento della Corte di giustizia viene recepito dal Regolamento 1247/1992 (46), che modifica il Regolamento 1408/1971, e introduce nel novero delle prestazioni che rientrano nel campo di applicazione una nuova categoria: le prestazioni speciali in denaro a carattere non contributivo. Sono raggruppate in questa categoria alcune delle più importanti forme di protezione sociale minima istituite nell'ambito degli Stati membri, destinate non solo ai lavoratori, ma alla generalità dei cittadini qualora versino in una condizione di bisogno, e sono finanziate per lo più mediante il ricorso alla fiscalità generale (47).

Si tratta di prestazioni che presentano caratteristiche sia della previdenza che dell'assistenza sociale, per la cui individuazione non si fa riferimento al solo stato di bisogno dell'interessato, di volta in volta considerato, ma sono collocate dalle legislazioni degli Stati membri in una posizione legalmente individuata, qualificabile come di diritto soggettivo. Si tratta di prestazioni che attribuiscono al beneficiario un diritto giuridicamente tutelato, cioè che non consegue ad una valutazione discrezionale dello stato di bisogno, ma è riconducibile ad uno dei rischi protetti da un regime ordinario di sicurezza sociale (48).

Per questo tipo di prestazioni è previsto un sistema speciale di coordinamento, caratterizzato da un lato, dall'assoggettamento delle stesse ai principi di parità di trattamento e di totalizzazione, dall'altro dalla loro esclusione dal principio di revoca della clausola di residenza e quindi dall'operare del principio di esportabilità delle prestazioni, che pertanto rimangono ancorate al criterio della territorialità (49).

Tali prestazioni vengono meglio individuate dal Regolamento 647/2005, che modifica il Regolamento 1408/1971 e le definisce come "prestazioni corrisposte nell'ambito di una legislazione che, a motivo del suo campo di applicazione personale e dei suoi obiettivi e/o condizioni di ammissibilità, presenta caratteristiche sia della legislazione in tema di sicurezza sociale che dell'assistenza sociale" (50). Si tratta di prestazioni che:

  1. Sono destinate a coprire in via suppletiva, complementare o accessoria i rischi corrispondenti ai settori della sicurezza sociale e a garantire alle persone interessate un reddito minimo di sussistenza.
  2. Sono prestazioni destinate unicamente a garantire una protezione specifica per le persone con disabilità, in stretto collegamento con l'ambiente sociale di tali persone nello Stato membro interessato.
  3. Sono finanziate esclusivamente dalla fiscalità destinata a coprire la spesa pubblica generale e le cui condizioni di concessione e modalità di calcolo non sono in funzione di un contribuito per quanto riguarda i beneficiari (51).

Si deve ritenere che rientrino in questa categoria tutte quelle prestazioni sociali a carattere non contributivo previste dal diritto interno, tutte le volte in cui è la legislazione a individuare i requisiti oggettivi e soggettivi per l'erogazione. Sono escluse invece le prestazioni che conseguano ad una valutazione individuale delle condizioni di bisogno lasciata alla discrezionalità degli enti locali.

Per questo tipo di prestazioni c'è una forma più debole di coordinamento, infatti non opera il fondamentale principio di deroga delle clausole di residenza, per cui non possono essere erogate ovunque nell'Unione ma sono rigorosamente rinchiuse entro i confini statuali. Il criterio utilizzato dal Regolamento 1247/1992 per l'individuazione della legislazione applicabile è quello della legislazione dello Stato di residenza, in deroga al generale principio predominante nel Regolamento 1408/1971 della legislazione dello Stato d'impiego.

I limiti posti al godimento delle prestazioni non contributive si concretizzano in limiti alla libertà di circolazione, con l'intento di scoraggiare flussi migratori di cittadini comunitari che si trovano in condizioni di bisogno e andrebbero a gravare sul sistema di sicurezza sociale dello Stato membro ospitante. Diverso livello di tutela dunque per quel tipo di mobilità che non risulta strettamente funzionale ad esigenze produttive (52).

2. Il Regolamento 883/2004. Un'estensione selettiva e controllata della normativa di coordinamento dei regimi nazionali di sicurezza sociale

Il Regolamento 883/2004 abroga e sostituisce il Regolamento 1408/1971, e viene adottato con l'obiettivo di semplificare e modernizzare la disciplina del coordinamento, che si presentava piuttosto complessa e disorganica a causa delle continue modifiche (53).

Il nuovo Regolamento non ha più come referente soggettivo il lavoratore assicurato nell'ambito di un regime legale di sicurezza sociale, ma individua come beneficiari della normativa tutti i cittadini comunitari, assicurati in un qualsiasi Stato membro, agli apolidi, ai rifugiati e ai rispettivi familiari. Si passa dalla logica di libera circolazione dei lavoratori alla libera circolazione dei cittadini dell'Unione, un'apertura che appare orientata decisamente in senso universalista (54). Questo cambio di prospettiva risulta del tutto coerente con la direttiva 38/2004 sulla libera circolazione delle persone nell'Unione europea, che concepisce la libertà di circolazione e di soggiorno come diritti connessi allo status di cittadino comunitario, con un grande passo avanti rispetto alla logica strettamente mercantile sulla base della quale era in precedenza configurata la libertà di circolazione.

L'universalizzazione del referente soggettivo tuttavia risulta decisamente ridimensionata alla luce di diverse considerazioni. In primo luogo la pretesa universalista è immediatamente frustrata dal fatto che il Regolamento non contempla l'estensione della disciplina ai cittadini provenienti da Paesi terzi legalmente residenti e occupati in uno Stato membro. C'è un passo indietro rispetto al Regolamento 859/2003, che determina una "separatezza normativa" (55) per i lavoratori non comunitari, e una palese compromissione di ogni pretesa universalista e di semplificazione. Il risultato è che, con l'entrata in vigore del Regolamento n. 883/2004, per i cittadini comunitari il Regolamento 1408/1971 non trova più applicazione e si osservano le disposizioni del nuovo Regolamento, mentre per i cittadini provenienti da Paesi terzi continua ad applicarsi il Regolamento 1408/1971 come modificato dal Regolamento 859/2003. Sarebbe necessaria la previsione di una clausola che esplicitamente consenta di estendere delle disposizioni della nuova normativa anche a beneficio dei cittadini provenienti da Paesi terzi.

Un'ulteriore compressione della vocazione universalista deriva dalle limitazioni oggettive alla sfera di applicazione del Regolamento. L'estensione del campo di applicazione ratione materiae è limitato alle prestazioni di prepensionamento e a quelle di paternità, e restano invece esclusi i sistemi di assistenza sociale e medica.

L'esclusione dell'assistenza sociale fonda la sua ratio nel timore del "turismo sociale", rafforzato soprattutto in seguito all'allargamento dell'Unione europea e delle sostanziali differenze esistenti tra i sistemi di welfare tra i vecchi e i nuovi Stati membri (56).

Permane inoltre la deroga al principio di esportabilità delle prestazioni di disoccupazione e di quelle non contributive, già prevista dal Regolamento 1408/1971, che costituisce un evidente limite alla libertà di circolazione dei cittadini comunitari economicamente inattivi (57).

Il Regolamento 883/2004 prevede una deroga parziale al principio di esportabilità delle prestazioni di disoccupazione, che opera entro condizioni stringenti, e una deroga totale all'esportabilità delle prestazioni di tipo non contributivo (58).

Le prestazioni di tipo non contributivo non sono erogabili al di fuori dei confini statuali.

Le prestazioni di disoccupazione sono esportabili per un periodo massimo di tre mesi dalla data in cui l'interessato ha smesso di essere a disposizione degli uffici del lavoro dello Stato che ha lasciato, e qualora non faccia rientro nello Stato competente prima della scadenza dei tre mesi, perde automaticamente il diritto alle prestazioni.

La logica sottesa rimane quella di favorire la mobilità dei lavoratori comunitari assicurando anche la mobilità dei vantaggi sociali connessi alla loro condizione di lavoratori e allo stesso tempo scoraggiare la mobilità di cittadini comunitari economicamente inattivi o che versano in condizioni di bisogno, che andrebbero a gravare sul welfare dello Stato ospitante.

3. Non uniformità del diritto comunitario della sicurezza sociale. Diversi livelli di tutela per ciascuna "categoria" di beneficiario

Dall'esame della normativa comunitaria in materia di sicurezza sociale risulta abbastanza chiaramente come le garanzie offerte dal diritto comunitario operino diversamente a seconda sia del tipo di prestazione di cui s'intende usufruire, sia a seconda del beneficiario.

Abbiamo visto come esista un diverso livello di coordinamento dei regimi nazionali di sicurezza sociale per i diversi tipi di prestazioni. Le prestazioni di tipo previdenziale, connesse ad un sottostante rapporto di lavoro e finanziate mediante meccanismi contributivi, godono di un maggior grado di tutela; in riferimento a queste operano senza difficoltà i principi posti dal diritto comunitario al fine di garantire l'accesso a tali prestazioni anche al di fuori dei confini nazionali e in condizioni di parità, in particolare opera il principio di esportabilità delle prestazioni che costituisce il principiale strumento offerto dalla normativa comunitaria per incentivare la libera circolazione dei lavoratori.

Una tutela decisamente più debole è prevista per le prestazioni di tipo non contributivo e per le prestazioni di disoccupazione, per le quali il godimento al di fuori dei confini nazionali è evidentemente più problematico. La circolazione delle persone diviene meno libera e meno incentivata nel momento in cui a circolare non è la forza lavoro, ma un disoccupato comunitario che andrebbe a pesare sulla finanza pubblica dello Stato membro in cui si sposta (59).

Dalle differenze di tutela previste per i diversi tipi di prestazioni si individua già una prima differenza di tutela per i diversi beneficiari: sono previste delle garanzie maggiori per i lavoratori comunitari e delle restrizioni per i cittadini comunitari economicamente inattivi (60).

Dunque la disciplina non è omogenea neppure per i cittadini comunitari.

La direttiva 2004/38, relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, pone un'evidente differenza di trattamento tra lavoratori e cittadini economicamente inattivi (61). Si legge al decimo considerando che occorre "evitare che coloro che esercitano il loro diritto di soggiorno diventino un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante". Pertanto si pone come condizione al diritto di soggiorno per un periodo superiore a tre mesi che il cittadino comunitario disponga "per se stesso e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti, affinché non divenga un onere a carico dell'assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il periodo di soggiorno, e di un'assicurazione di malattia che copra tutti i rischi" (62). E il "pericolo" che il cittadino comunitario diventi un onere eccessivo a carico dell'assistenza sociale dello Stato costituisce legittimo motivo di allontanamento, previa valutazione della situazione. Si specifica che il semplice ricorso all'assistenza sociale non è di per sé sufficiente a legittimare l'allontanamento, ma occorre valutare se si tratta di difficoltà temporanee, tener conto della "durata del soggiorno, dell'ammontare dell'aiuto concesso prima di considerare il beneficiario un onere eccessivo per il proprio sistema di assistenza sociale e procedere all'allontanamento" (63).

Secondo una disposizione di questo tipo, l'esercizio di un diritto fondamentale viene considerato, alla stregua dei motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza, come un comportamento che legittima l'allontanamento dal territorio dello Stato membro. Tale affermazione è poi mitigata dalla specificazione che il ricorso al sistema di assistenza sociale non dà luogo automaticamente ad un provvedimento di allontanamento, e che in ogni caso non può essere adottato qualora i cittadini dell'Unione siano lavoratori subordinati o autonomi o siano entrati nel territorio dello Stato membro per cercare un posto di lavoro. In tal caso non possono essere allontanati fino a quando sono in condizione di dimostrare di essere alla ricerca di un posto di lavoro e di avere buone possibilità di trovarlo (64).

Si prevede, inoltre, un'esplicita deroga al principio di parità di trattamento (65), in forza della quale lo Stato membro ospitate non è tenuto ad attribuire prestazioni di assistenza sociale durante i primi tre mesi del soggiorno per i cittadini che siano entrati nel territorio del paese ospitante per cercarvi un lavoro. Non è tenuto neppure, prima dell'acquisizione del diritto di soggiorno permanente, all'erogazione di aiuti di mantenimento allo studio o alla formazione professionale a persone che non siano lavoratori subordinati o autonomi o loro familiari.

4. Le tutele sociali degli stranieri. Soluzioni diversificate a seconda dello status del beneficiario ovvero le diverse sfumature di operatività del principio di dis-parità di trattamento

Il diritto comunitario della sicurezza sociale non fornisce una risposta unitaria di fronte alla domanda di tutela dei cittadini extracomunitari. Dalla lettura del dato normativo emergono varie sfumature di tutela e diversi livelli di operatività del principio di parità di trattamento a seconda dello status, del titolo di soggiorno, della nazionalità (66). Si potrebbero individuare almeno cinque categorie di stranieri diversamente toccate dal diritto comunitario della sicurezza sociale:

  1. Cittadini provenienti da Paesi Terzi legalmente residenti che abbiano circolato all'interno dell'Unione, ai quali si riferisce il Regolamento 859/2003;
  2. Cittadini provenienti da un Paese terzo che abbia stipulato degli Accordi con la Comunità europea in materia di sicurezza sociale;
  3. Titolari di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo;
  4. Familiari di cittadini comunitari;
  5. Apolidi e rifugiati.

4.1. Cittadini extracomunitari che hanno circolato legalmente all'interno dell'Unione

Abbiamo visto come la normativa comunitaria di coordinamento dei regimi nazionali di sicurezza sociale si applichi, con il Regolamento 859 del 2003, anche ai cittadini provenienti da Paesi terzi purché si trovino in una situazione di soggiorno regolare e a condizione che si siano legalmente spostati all'interno dell'Unione. I cittadini extracomunitari che soddisfino tali requisiti accedono, in condizioni di parità con i cittadini dello Stato membro in cui si trovano a lavorare e soggiornare, al sistema di sicurezza sociale e godono degli stessi vantaggi sociali (67). C'è una piena operatività del principio di parità di trattamento, sancito dall'art. 3 del Regolamento 1408/1971.

Il limite di tale previsione è che ha un'applicabilità limitata se si considera che, a livello comunitario, non è previsto un diritto di libera circolazione nello spazio Schengen per i lavoratori extracomunitari. Una leggera apertura in tal senso è prevista dalla direttiva 2003/109 per i soli stranieri titolari di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo. E un'ulteriore importante limitazione deriva dal fatto che il Regolamento 883/2004, che sostituisce e abroga il Regolamento 1408/1971, non contiene alcuna esplicita disposizione che contempli l'applicabilità della normativa ai cittadini provenienti da Paesi terzi (68).

4.2. Accordi tra Comunità europea e Stati terzi. Portata applicativa delle clausole di non discriminazione

Situazione giuridica particolare è quella dei cittadini provenienti da un Paese terzo che abbia stipulato con la Comunità europea degli accordi di associazione o cooperazione in tema di sicurezza sociale. Molti di questi accordi prevedono l'estensione della normativa del coordinamento in tema di sicurezza sociale, oppure prevedono espressamente l'operatività del principio di non discriminazione nelle condizioni di lavoro e l'estensione dei principi fondamentali della tutela comunitaria di sicurezza sociale. Un'applicazione di questi principi è prevista dagli accordi stipulati con la Turchia e quelli stipulati nel 1976 con i paesi del Maghreb.

In riferimento alla clausola di non discriminazione in materia di sicurezza sociale, contenuta nell'articolo 41 dell'accordo con il Marocco (69), la Corte ha avuto modo di pronunciarsi e di chiarirne la portata applicativa. Nella sentenza Kziber (70) ha riconosciuto l'efficacia diretta del principio di non discriminazione, in quanto l'articolo 41 "consacra in termini chiari, precisi ed incondizionati, il divieto di discriminare, in ragione della nazionalità, i lavoratori di nazionalità marocchina e i loro familiari residenti con essi nel settore della sicurezza sociale" (71); pertanto, è in grado di produrre effetti diretti senza che sia necessaria l'adozione di alcun provvedimento di attuazione (72). Potrà quindi essere direttamente invocato dal cittadino marocchino che intenda accedere alle prestazioni sociali nello Stato membro in cui si trovi a risiedere e soggiornare.

La Corte inoltre ha chiarito che, per ragioni di uniformità del diritto comunitario, la nozione di sicurezza sociale cui si fa riferimento negli accordi deve essere intesa con il medesimo significato attribuito all'identica nozione figurante nel Regolamento 1408/1971, riguarda cioè la non discriminazione nell'accesso alle prestazioni di sicurezza sociale, comprese le prestazioni di tipo non contributivo (73). Per quanto riguarda l'Italia, le prestazioni non contributive elencate nell'allegato 2 bis del Regolamento 1247/1992 comprendono tutte quelle prestazioni che costituiscono diritto soggettivo in base alla legislazione vigente in materia di assistenza sociale, cioè i cui requisiti oggettivi e soggettivi per l'erogazione sono fissati dalla legge e non derivano da una valutazione individualizzata delle condizioni di bisogno del beneficiario. E nell'allegato 2 bis si elencano esplicitamente le pensioni sociali, pensioni e assegni d'invalidità, integrazione della pensione minima, assegno sociale ecc.

Clausole analoghe che prevedono un principio di parità di trattamento sono previste in molti degli Accordi di Associazione euro mediterranei, stipulati tra la Comunità europea e Egitto, Giordania, Libano, Israele, Marocco, Tunisia e Algeria. Si tratta di accordi stipulati tra il 1995 e il 2005 tra la Comunità europea e i paesi del sud del Mediterraneo e gettano le basi per una liberalizzazione degli scambi e la creazione di uno spazio di cooperazione di natura economica, politica e sociale. Una cooperazione sociale più forte è stata realizzata in particolare con Algeria, Tunisia e Marocco: negli accordi con questi Paesi infatti è prevista un'esplicita clausola di parità di trattamento nell'accesso alla sicurezza sociale (74).

L'articolo 68 dell'accordo con l'Algeria (75) prevede che "i lavoratori algerini e i loro familiari conviventi godono di un regime di sicurezza sociale caratterizzato dall'assenza di ogni discriminazione fondata sulla cittadinanza rispetto ai cittadini degli Stati membri nei quali essi sono occupati". E si specifica che rientrano nella nozione di sicurezza sociale le prestazioni relative alla "malattia e maternità, l'invalidità, le prestazioni di vecchiaia e per i superstiti, i benefici relativi agli infortuni sul lavoro, alle malattie professionali, al decesso, le prestazioni relative alla disoccupazione e quelle familiari". Si chiarisce all'articolo successivo che i destinatari della regola di parità sono "i cittadini delle parti contraenti residenti o legalmente impiegati", dunque l'unica condizione richiesta per l'applicazione risulta essere la residenza o l'attività lavorativa legale. Un'analoga condizione è prevista negli accordi con Marocco, Tunisia e Turchia.

Anche a proposito della clausola di non discriminazione contenuta nell'accordo di cooperazione tra la Comunità europea e l'Algeria (76), la Corte di Giustizia è intervenuta chiarendone la portata applicativa. Interpellata dal giudice nazionale belga in riferimento all'applicabilità del principio di non discriminazione per l'accesso alla sicurezza sociale ad una prestazione non contributiva di disabilità, la Corte si è pronunciata nel senso di ricomprendere tale prestazione nel campo oggettivo di applicazione del Regolamento 1408/1971. Un'interpretazione in tal senso risulta per altro più agevole dopo la modifica al normativa introdotta dal regolamento 1247/1992, che include esplicitamente le prestazioni per i minorati nel campo di applicazione ratione materiae (77).

La Corte ha poi avuto modo di specificare che il principio di parità di trattamento si estende anche alle discriminazioni indirette, pertanto lo Stato membro non potrà esigere, nei confronti dei soggetti che rientrano nel campo di applicazione ratione personae dell'accordo, condizioni superiori a quelle previste per i cittadini nazionali (78). Con riguardo all'accordo CE/Turchia, la Corte ha censurato il diniego dello Stato tedesco di concedere gli assegni familiari ad un cittadino turco, fondato sulla mancanza di un permesso di soggiorno. E ha chiarito che non è consentito ad uno Stato membro "esigere da un cittadino turco, rientrante nella sfera di applicazione ratione personae dell'accordo e in possesso di un'autorizzazione al soggiorno provvisorio sul suo territorio, il possesso, ai fini del godimento degli assegni familiari per il figlio convivente nello Stato membro medesimo, di un'autorizzazione al soggiorno o di un permesso di soggiorno, quando il beneficio di tale prestazione sia subordinato, per i cittadini nazionali dello Stato, unicamente al requisiti di essere ivi residente" (79).

Dall'esame della giurisprudenza della Corte di Giustizia sembra si possa pacificamente affermare che i lavoratori di nazionalità marocchina, algerina, tunisina e turca godano di un principio di parità di trattamento con i lavoratori comunitari in relazione a tutte le prestazioni sociali che rientrano nel campo di applicazione della disciplina comunitaria in materia di sicurezza sociale, ivi comprese le prestazioni di tipo non contributivo, e che questo principio sia suscettibile di immediata applicazione (80).

L'orientamento della Corte comincia a trovare riconoscimento anche da parte della giurisprudenza italiana, sebbene per molto tempo, i principi contenuti negli Accordi euro-mediterranei hanno trovato una applicazione decisamente scarsa nell'ordinamento italiano (81).

4.3. Titolari di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo

L'Unione europea riconosce un status giuridico particolare agli stranieri che abbiano un legame di una certa durata e stabilità con lo Stato membro in cui risiedono, con l'intento di ravvicinare la condizione giuridica di questi con i cittadini degli Stati membri e garantire un corredo di diritti il più possibile uniforme e simile a quello di cui sono titolari i cittadini comunitari. In questa direzione si muove la direttiva 2003/109/CE, che introduce il permesso di soggiorno europeo per cittadini di Paesi terzi lungo soggiornanti. La durata del soggiorno e il radicamento nel Paese ospitante legittima una maggiore attenzione del legislatore comunitario verso questa categoria di stranieri: si afferma un'esigenza di parità di trattamento e il riconoscimento di diritti il più possibile uniformi a quelli dei cittadini comunitari, allo scopo di favorire la coesione economica e sociale (82). Si riconosce anche un timido diritto alla libertà di circolazione, in quanto, come si legge nel diciottesimo considerando, "contribuisce alla realizzazione effettiva del mercato interno in quanto spazio in cui è garantita a tutti la libera circolazione e può costituire un importante fattore di mobilità, specie per il mercato dell'Unione".

Si afferma poi che, per poter essere un effettivo strumento di integrazione sociale, lo "status di soggiornante di lungo periodo dovrebbe valere al suo titolare la parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro in una vasta gamma di settori economici e sociali" (83) con riferimento anche all'assistenza sociale.

In questa direttiva, come abbiamo visto anche nel Regolamento 859/2003, il legislatore comunitario, accanto alla norma che sancisce un principio di parità di trattamento, pone un antidoto che ne limiti gli effetti e ne riduca la portata. Come nel Regolamento 859/2003, accanto all'affermazione di un principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale per i cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti, il legislatore pone i limiti della inapplicabilità della normativa ad una situazione puramente interna e la possibilità per gli Stati membri di chiamarsi fuori dall'applicazione del Regolamento stesso, anche nella direttiva 2003/109 la strategia seguita è la stessa. Il legislatore richiama l'esigenza di riavvicinare lo status dei cittadini provenienti da Paesi terzi a quello dei cittadini comunitari, sancisce un principio di parità di trattamento anche nell'accesso alle prestazioni sociali e poi inserisce un elemento che possa contenere gli effetti del principio appena annunciato. Muovendo secondo questo ragionamento dialettico, accanto al principio di parità di trattamento, si prevede la possibilità per gli Stati membri di limitarne l'applicazione alle sole prestazioni essenziali (84).

Non c'è per altro una definizione precisa di cosa debba intendersi per "prestazioni essenziali", la cui individuazione è rimessa alla discrezionalità degli Stati membri. Il legislatore si limita ad affermare che sono sicuramente prestazioni essenziali almeno il sostegno al reddito minimo, l'assistenza in caso di malattia, di gravidanza, l'assistenza parentale e l'assistenza a lungo termine (85). Questa configurazione del principio di parità di trattamento non sembra fornire sufficienti garanzie quanto alla sua effettiva applicabilità. La portata generale del principio viene così ridotta, e si lascia alla discrezionalità degli Stati membri la scelta della misura in cui si vuole realizzare la parificazione in materia di sicurezza sociale.

Il timore di fondo alla base di questo tipo di limitazioni è sempre lo stesso, cioè che il migrante, di lungo corso o meno, o il disoccupato comunitario divengano un onere a carico del sistema di sicurezza sociale dello Stato membro. Affermare un generale principio di parità di trattamento anche in materia di accesso alle prestazioni sociali comporta dei costi notevoli per le finanze dello Stato, per questo accanto all'enunciazione del principio vengono poste tutta una serie di cautele che ne contengano gli effetti.

In riferimento allo status dei soggiornanti di lungo periodo, sono previsti dei meccanismi per neutralizzare il pericolo che divengano un onere a carico dello Stato già nella scelta dei requisiti richiesti per il rilascio del permesso di soggiorno. Oltre alla durata del soggiorno (di almeno cinque anni) è previsto infatti che il richiedente fornisca la prova di disporre per sé e per i familiari a carico di risorse stabili e regolari, sufficienti al sostentamento loro e dei loro familiari, senza fare ricorso al sistema di assistenza sociale dello Stato (86).

La direttiva è stata recepita dall'Italia con il D.lgs. n. 3 del 2007. La scelta del legislatore italiano è stata quella di estendere il principio di parità di trattamento alle prestazioni di "assistenza sociale, di previdenza sociale, quelle relative ad erogazioni in materia sanitaria, scolastica e sociale, di quelle relative all'accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico, compreso l'accesso alla procedura per l'ottenimento di alloggi di edilizia residenziale pubblica" (87). L'Italia non si è avvalsa della facoltà di limitare l'accesso alle sole prestazioni essenziali, il principio di parità di trattamento rispetto a questa categoria di stranieri viene pertanto realizzato in maniera abbastanza estesa, fino a ricomprendere pressoché tutti i settori della protezione sociale (88). Discutibile è l'estensione di queste tutele ai soli stranieri possessori di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo e non anche agli altri stranieri legalmente residenti. E' una differenziazione di trattamento che fatica a trovare giustificazioni alla luce del costituzionale principio di ragionevolezza (89).

4.4. Le tutele previste per i familiari extracomunitari di cittadini comunitari

Il Regolamento n. 883/2004, nella definizione del suo ambito di applicazione soggettivo, ricomprende oltre ai cittadini di uno Stato membro anche gli apolidi e i rifugiati, nonché i loro familiari e superstiti. Non c'è alcun riferimento alla nazionalità dei familiari, per cui si potrebbe dedurre che, in mancanza di specificazioni, debba riferirsi anche ai familiari extracomunitari. Ne consegue che a questi si applica la normativa comunitaria di coordinamento dei regimi nazionali di sicurezza sociale e il principio di parità di trattamento ivi contenuto. Basterebbe questa sola disposizione ad individuare un'area di disciplina separata, riservata a quella particolare categoria di stranieri, che sono legati da un vincolo familiare ad un cittadino comunitario e rispetto ai quali il legislatore prevede dei diritti e delle garanzie direttamente dipendenti dal legame con il cittadino comunitario (90).

Questa situazione viene delineata chiaramente con la direttiva 2004/38/CE. Già dai considerando della direttiva appare evidente come la configurazione di uno status particolare per i familiari extracomunitari sia meramente funzionale all'effettiva realizzazione di un diritto spettante al cittadino comunitario e pertanto non sia qualificabile come una posizione giuridica autonoma dello straniero (91).

Si legge al quinto considerando che "il diritto di ciascun cittadino dell'Unione di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri presuppone, affinché possa essere esercitato in oggettive condizioni di libertà e dignità, la concessione di un analogo diritto ai familiari, qualunque sia la loro cittadinanza". In funzione della realizzazione della libera circolazione, si giustifica la previsione di una disciplina a parte per questa categoria ibrida di stranieri, che da un lato non hanno la cittadinanza dell'Unione e dall'altro sono legati ad un cittadino comunitario da un vincolo di parentela. Nel bilanciamento degli interessi di realizzazione della libera circolazione, da un lato, e controllo della presenza straniera sul territorio degli Stati membri, dall'altro, l'equilibrio viene trovato nella sottrazione al regime generale sugli stranieri e nella definizione di una posizione strumentale dello straniero rispetto al diritto del cittadino dell'Unione (92).

La sottrazione alla disciplina generale sugli stranieri comporta delle agevolazioni per quanto riguarda il diritto di ingresso e, per quello che più ci interessa, comporta la previsione di un principio di non discriminazione in base alla nazionalità nel campo di applicazione del Trattato (93), compresa quindi la parità di trattamento in materia di sicurezza sociale. Una deroga esplicita a tale principio è prevista nel paragrafo 2 dell'art. 24 in cui si legge che "lo Stato membro ospitante non è tenuto ad attribuire il diritto a prestazioni di assistenza sociale durante i primi tre mesi del soggiorno [...], né è tenuto a concedere prima dell'acquisizione del diritto di soggiorno permanente aiuti di mantenimento agli studi, compresa la formazione professionale, consistenti in borse di studio o prestiti per studenti, a persone che non siano lavoratori subordinati o autonomi, che non mantengano tale status o loro familiari".

A parte queste deroghe espresse, la portata applicativa del principio di parità di trattamento appare limitata e circoscritta in origine se si va a guardare ai requisiti richiesti dalla direttiva per il riconoscimento del diritto di soggiorno per i cittadini comunitari e i loro familiari per un periodo superiore a tre mesi. L'articolo 7 richiede che il cittadino comunitario sia lavoratore subordinato o autonomo nello Stato membro ospitante o che disponga, per se stesso e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti "affinché non divenga un onere a carico dell'assistenza sociale nello Stato membro ospitante". La previsione di tali condizioni assicura e rassicura lo Stato membro che il cittadino comunitario e i suoi familiari non andranno a gravare sul proprio sistema di welfare. E, nell'ipotesi in cui si trovino nella situazione di non soddisfare più tali requisiti e divengano un onere eccessivo per l'assistenza sociale dello Stato membro ospitante, potranno essere legittimamente allontanati. Come si legge all'articolo 14 "i cittadini dell'Unione e i loro familiari beneficiano del diritto di soggiorno [...] finché non divengano un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale" (94).

Ne deriva che i familiari extracomunitari, per il fatto stesso che sono legati da un vincolo di parentela con un cittadino comunitario, godono di un principio di parità di trattamento anche nell'accesso alle prestazioni sociali. L'operatività di tale principio è però configurata in modo tale da scongiurare il ricorso all'assistenza sociale dello Stato membro ospitante, chiedendo preventivamente delle garanzie al cittadino comunitario che intenda esercitare il diritto di libera circolazione e di soggiorno, garanzie di essere in grado di mantenere sé stesso e la propria famiglia autonomamente, senza ricorrere al sistema di welfare. Come norma di chiusura, si prevede la possibilità per lo Stato membro di revocare il diritto di soggiorno del cittadino comunitario e dei propri familiari nell'ipotesi in cui non soddisfi più le condizioni iniziali e diventi un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale. Circa l'ammontare delle risorse economiche sufficienti, la direttiva stabilisce che "gli Stati membri si astengono dal fissare un importo preciso [...] ma devono tener conto della situazione personale dell'interessato" e "in ogni caso tale importo non può essere superiore al livello delle risorse al di sotto del quale i cittadini dello Stato membro ospitante beneficiano di prestazioni di assistenza sociale o, qualora non possa trovare applicazione tale criterio, alla pensione minima sociale erogata dallo Stato membro ospitante".

L'Italia, nell'applicazione della direttiva (95), per l'individuazione delle risorse economiche sufficienti rinvia ai criteri di cui all'art. 29, comma 3, lettera b) del Testo unico dell'immigrazione (96), in base ai quali la persona deve avere un reddito non inferiore ad un multiplo dell'importo annuo dell'assegno sociale, proporzionato al numero dei familiari. In contrasto con la direttiva, non c'è alcun riferimento alla situazione personale dell'interessato.

Dal quadro normativo fin qui delineato risulta che i familiari extracomunitari sono destinatari di una disciplina speciale che prevede delle agevolazioni nel diritto d'ingresso e soggiorno e l'applicabilità di un generale principio di parità di trattamento. Questo trattamento di favore si giustifica in quanto funzionale a rendere effettivo il diritto del cittadino comunitario di circolare e soggiornare liberamente, pertanto i diritti e le prerogative attribuite al familiare extracomunitario sono dipendenti dal vincolo con il cittadino comunitario e possono venir meno nell'ipotesi in cui questo vincolo si sciolga (97).

Il decesso o la partenza del cittadino dell'Unione non incidono sul diritto di soggiorno del familiare comunitario; per quanto riguarda invece il familiare extracomunitario si prevede che conserva il diritto di soggiorno solo se ha soggiornato almeno un anno in Italia prima del decesso (98). Nelle altre ipotesi di scioglimento del vincolo, prima dell'acquisto del diritto di soggiorno permanente, il diritto di soggiorno del familiare extracomunitario è subordinato al fatto che dimostri di esercitare un'attività lavorativa subordinata o autonoma, oppure di disporre per sé o per i familiari di risorse economiche sufficienti e di un'assicurazione di malattia. In queste ipotesi i familiari acquistano un diritto di soggiorno autonomo, esclusivamente a titolo personale.

In caso di annullamento del matrimonio, divorzio o scioglimento dell'Unione registrata, oltre ai requisiti suddetti, la permanenza del diritto di soggiorno è subordinata ad ulteriori condizioni cioè:

  1. il matrimonio sia durato almeno tre anni, di cui almeno uno nello Stato membro ospitante;
  2. il coniuge abbia ottenuto l'affidamento dei figli del cittadino dell'Unione;
  3. situazioni particolarmente difficili, come il fatto di aver subito violenza domestica durante il matrimonio;
  4. il coniuge abbia un diritto di visita al figlio minore, a condizione che l'organo giurisdizionale abbia ritenuto che le visite devono obbligatoriamente essere effettuate nello Stato membro ospitante e fintantoché siano considerate necessarie (99).

Il decreto legislativo di attuazione della direttiva riproduce questo schema senza sostanziali cambiamenti (100) e introduce un trattamento di maggior favore per il familiare che non soddisfi il requisito di soggiorno superiore ad un anno in caso di decesso e prevede che possa comunque mantenere il diritto al soggiorno nell'ipotesi regolata dall'art. 30, paragrafo 5, del Testo unico sull'immigrazione. Tale disposizione prevede che "in caso di morte del familiare in possesso dei requisiti per il ricongiungimento e in caso di separazione legale o di scioglimento del matrimonio o, per il figlio che non possa ottenere la carta di soggiorno, al compimento del diciottesimo anno d'età, il permesso di soggiorno può essere convertito in permesso per lavoro subordinato, per lavoro autonomo o per studio, fermi i requisiti d'età per lo svolgimento di attività di lavoro". In queste ipotesi di conversione del permesso di soggiorno non risulta più chiaro quale sia il regime giuridico applicabile ai familiari extracomunitari, che una volta sciolto il vincolo familiare, vengano legittimati a soggiornare ad un titolo diverso. L'assoggettamento alla generale disciplina degli stranieri o alla speciale disciplina per i familiari di cittadini comunitari comporta delle notevoli conseguenze. Solo nei confronti di questi ultimi infatti opera il principio di non discriminazione nell'ambito di applicazione del Trattato, e per ciò che ci riguarda, per l'accesso alle prestazioni sociali.

Ne deriva che il vincolo familiare legittima la predisposizione di un sistema di tutela a parte e di maggior favore, che include agevolazioni nel diritto d'ingresso e l'applicazione del divieto di discriminazione in base alla nazionalità in tutti i settori del diritto comunitario, tuttavia non si configura un autonomo diritto in capo ai familiari extracomunitari, il diritto esiste se e in quanto persiste il vincolo familiare. Venuto meno il vincolo, il diritto di soggiorno permane solo a certe condizioni ed è problematico capire se persista anche l'applicabilità del principio di parità di trattamento o se lo status giuridico degli ex-familiari venga retrocesso alla ordinaria condizione giuridica dello straniero, pertanto esclusa dal divieto di discriminazione in base alla nazionalità di cui beneficiano i cittadini comunitari.

4.5. Apolidi e rifugiati

L'art. 2 del Regolamento 883/2004 include nel suo ambito di applicazione soggettivo gli apolidi e rifugiati che siano residenti in uno Stato membro, con la conseguenza che trova applicazione nei confronti di questi la normativa comunitaria in tema di sicurezza sociale e il relativo principio di parità di trattamento.

Lo status di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale è stato definito a livello comunitario con la direttiva 2004/83/CE. Il Consiglio europeo ha ritenuto opportuno predisporre l'istituzione di un regime europeo comune in materia di asilo basato sull'applicazione della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 28 luglio 1951, integrata dal Protocollo di New York del 31 gennaio 1967. Si richiamano le definizioni della Convenzione di Ginevra per l'individuazione dello status di rifugiato e di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale.

Per quanto riguarda l'accesso al lavoro e la tutela previdenziale, la direttiva stabilisce, all'art. 26, che i beneficiari dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria sono autorizzati ad esercitare un'attività dipendente o autonoma nel rispetto della disciplina generalmente applicabile. Gli Stati membri provvedono affinché siano offerte opportunità di formazione occupazionale per adulti, formazione professionale e tirocinio sul luogo di lavoro secondo modalità equivalenti a quelle previste per i loro cittadini. Si applica la normativa vigente negli Stati membri in materia di retribuzione, di accesso ai regimi di sicurezza sociale connessa all'attività di lavoro dipendente o autonomo, nonché di ogni altra condizione di lavoro.

Per quanto riguarda l'accesso all'assistenza sociale, nei considerando della direttiva si legge che "per scongiurare il disagio sociale, è opportuno offrire ai titolari dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria, senza discriminazioni nel quadro dei servizi sociali, assistenza sociale e mezzi di assistenza adeguati". All'art. 28 della direttiva si stabilisce che gli Stati membri devono provvedere a che i rifugiati e titolari protezione sussidiaria ricevano adeguata assistenza sociale, alla stregua dei cittadini dello Stato membro in questione. In via d'eccezione si prevede che gli Stati membri possano limitare l'accesso all'assistenza sociale alle sole prestazioni essenziali, la cui definizione è rimessa alla discrezionalità degli Stati membri. La direttiva si limita semplicemente ad indicare come prestazioni sicuramente essenziali un sostegno di reddito minimo, l'assistenza in caso di malattia, gravidanza, di assistenza parentale, nella misura in cui le medesime prestazioni siano offerte ai cittadini dello Stato membro in questione conformemente alla legislazione nazionale.

Si prevede, infine, all'art. 31 che gli Stati membri provvedano a che i rifugiati e titolari di una protezione sussidiaria abbiano accesso ad un alloggio secondo modalità equivalenti a quelle previste per altri cittadini di paesi terzi in soggiorno legale nei loro territori.

L'Italia ha recepito la direttiva con il D.lgs. n. 251/2007 e non si è avvalsa della facoltà di limitare l'accesso, in condizioni di parità con i cittadini italiani, alle sole prestazioni essenziali, prevedendo invece espressamente all'art. 27 che "i titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria hanno diritto al medesimo trattamento riconosciuto al cittadino in materia di assistenza sociale e sanitaria" (101).

5. Anomie di tutela risultanti dal quadro normativo comunitario

Dall'analisi fin qui condotta, risulta evidente come non si possa parlare di un unico diritto comunitario della sicurezza sociale, ma si riscontrano soluzioni variegate e diversi livelli di tutela. Si è cercato di porre ordine nella frammentaria e disordinata disciplina comunitaria della sicurezza sociale, prospettando una ricostruzione schematica dei diversi livelli di tutela suddivisi in base allo status o nazionalità del beneficiario.

Dalla lettura dello schema si nota subito un importante vuoto normativo: la disciplina comunitaria nulla dice a proposito degli stranieri legalmente residenti nel territorio di uno Stato membro e in possesso di un titolo di soggiorno che non sia quello di soggiornante di lungo periodo. Abbiamo visto come questa categoria di stranieri sia toccata indirettamente dalla normativa comunitaria solo se i beneficiari siano nella situazione di soddisfare degli ulteriori requisiti. Saranno inclusi nell'ambito di applicazione del Regolamento n. 859/2003, se oltre a risiedere legalmente avranno anche legalmente circolato all'interno dell'Unione. Saranno inclusi nell'ambito di applicazione degli accordi euro mediterranei se, oltre a risiedere regolarmente, avranno anche la cittadinanza marocchina, tunisina, algerina o turca. Avranno una disciplina giuridica a parte se, oltre ad essere legalmente residenti, saranno anche legati da un vincolo di parentela con un cittadino italiano.

Ne consegue che non sarà offerta alcuna risposta alla domanda di tutela di tutti gli altri stranieri regolarmente residenti che non soddisfino le ulteriori condizioni suddette, vuoto normativo che tocca una vastissima fascia di popolazione immigrata, considerando l'assenza di un diritto di libertà di circolazione all'interno dell'Unione per i cittadini extracomunitari.

Dunque, allo stato di cose, il diritto comunitario non risulta in grado di offrire concreti strumenti di tutela di fronte alla situazione che più frequentemente si verifica nella prassi, cioè di fronte all'istanza di tutele sociali dello straniero legalmente residente e in possesso di un titolo di soggiorno diverso dal permesso di soggiorno CE.

6. La Carta di Nizza: la solidarietà sociale assurge a principio fondamentale dell'ordine costituzionale comunitario

La Carta di Nizza segna un traguardo importante nella lenta affermazione dei diritti sociali nell'ordinamento comunitario e comporta un sostanziale mutamento di prospettiva rispetto all'approccio che finora aveva caratterizzato le politiche sociali dell'Unione (102).

La tutela dei diritti sociali non ha mai rappresentato uno dei primari obiettivi che la comunità europea intendeva perseguire, piuttosto gli interessi da tutelare sono stati principalmente le libertà economiche e la libertà di mercato, ed è stato proprio per tramite della tutela del mercato comunitario che si è fatta strada la predisposizione di un sistema comunitario di welfare. A differenza della concezione marshalliana di cittadinanza sociale, pensata in termini opposti rispetto alla logica del mercato e che configura una nozione di diritti sociali come funzionali a proteggere la persona dagli esiti avversi del funzionamento del mercato, in ambito comunitario la tutela del mercato comune e la sicurezza sociale non sono mai stati concepiti come termini opposti ma piuttosto come complementari.

Come è stato giustamente osservato "i contenuti sociali della cittadinanza europea sono stati costruiti a partire da una libertà di mercato, quale quella riconosciuta ai lavoratori migranti" (103) e sono stati originariamente pensati come funzionali alla logica di mercato. Basti pensare al Regolamento 1408/1971, in cui la tutela della sicurezza sociale è dichiaratamente strumentale a rendere effettiva la libertà di circolazione dei lavoratori e l'efficiente funzionamento del mercato comunitario della forza lavoro. La libertà di circolazione e i diritti di cittadinanza sociale sono garantiti prevalentemente ai soggetti economicamente attivi e sono calibrati sull'interesse di favorire l'integrazione dei mercati nazionali in un unico spazio europeo. E la libertà di circolazione e il diritto di accesso al sistema di sicurezza sociale nazionale sono riconosciuti ai lavoratori che si spostano all'interno dell'Unione, in forza del loro apporto contributivo al mercato comunitario (104). Solo attraverso una logica di questo tipo si spiega l'apertura della normativa sul coordinamento ai lavoratori extracomunitari, ma con il limite della inapplicabilità a quella che la Corte di Giustizia ha definito come una situazione puramente interna; la tutela non è riconosciuta direttamente in capo al lavoratore come soggetto di diritti, ma in una sorta di ottica premiale è accordata al solo cittadino extracomunitario che apporta un contributo economico, mediante la sua prestazione lavorativa, al mercato comunitario. Sempre sulla scia di queste considerazioni si spiegano le limitazioni alla circolazione dei cittadini comunitari economicamente inattivi, subordinata alla "prova dei mezzi", cioè alla dimostrazione di essere economicamente autosufficienti e si giustifica la sostanziale esclusione di questi dall'accesso alle prestazioni assistenziali, la cui richiesta proverebbe che sono venute meno le condizioni del soggiorno.

Dal quadro normativo comunitario in tema di sicurezza sociale e di libertà di circolazione, emerge chiaramente come i diritti sociali siano stati concepiti come ancillari all'efficienza del mercato comune. Le tutele sociali sono state previste solo laddove sia stato necessario incentivare la libera circolazione della forza lavoro, e il punto di partenza per il riconoscimento dei diritti non è stato quello di tutelare il cittadino comunitario, in quanto appartenente ad una comunità politica come titolare di diritti, ma di tutelare il mercato comunitario e la libera circolazione, e solo indirettamente la sicurezza sociale dei lavoratori in quanto funzionale alle esigenze del mercato interno. Infatti la circolazione diviene meno libera e il riconoscimento dei diritti più problematico quando a spostarsi all'interno dell'Unione sono cittadini economicamente non efficienti o non autosufficienti, che andrebbero a gravare sui sistemi assistenziali dello Stato membro, senza apportare alcun contributo al processo economico.

Un deciso affrancamento dalla logica mercantile che aveva caratterizzato l'approccio comunitario ai temi della sicurezza sociale avviene con la proclamazione della Carta di Nizza, che procede al ribilanciamento tra i valori della solidarietà e della dignità della persona e quelli della efficienza del mercato unificato (105).

Prima della proclamazione della Carta di Nizza, la fonte primaria di tutela dei diritti sociali era costituita dalla Carta sociale europea, in particolare il testo riformato del 1996, in cui è stato incluso il diritto alla protezione contro la povertà e l'esclusione sociale (106), il quale deve essere garantito attraverso l'adozione, da parte degli Stati firmatari, di misure per promuovere l'effettivo accesso al lavoro, all'abitazione e all'assistenza sociale e medica delle persone che si trovano o rischiano di trovarsi in situazioni di emarginazione sociale o di povertà. Si prevede, poi, il diritto all'assistenza sociale e medica, realizzato attraverso la predisposizione di un'assistenza adeguata per le persone che non dispongono di risorse economiche sufficienti e non sono in grado di procurarsele con mezzi propri e l'erogazione di aiuti, pubblici o privati, per prevenire, alleviare o eliminare lo stato di bisogno personale o familiare. Si ribadisce l'operatività del principio di non discriminazione nel godimento dei diritti enunciati dalla Carta ma con il limite che sarà applicabile soltanto ai cittadini degli Stati contraenti (107).

Le innovazioni della Carta sociale europea rispetto alla legislazione UE vengono ampliate e consolidate nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, proclamata a Nizza il 18 Dicembre del 2000.

La sostanziale innovazione del testo di Nizza consiste nell'affermazione dell'universalità e indivisibilità dei diritti fondamentali; i diritti civili, politici economici e sociali sono equiordinati attorno al valore centrale e unificante della dignità umana. Per la prima volta si pongono le basi per la promozione dei diritti sociali a diritti di rango almeno uguale a quello delle libertà economiche (108). La solidarietà viene posta come principio fondamentale dell'ordine costituzionale europeo (109), superando completamente la vecchia configurazione, prevista nel Trattato di Amsterdam, che concepiva i diritti sociali come diritti di secondo livello, strumentali rispetto ad obiettivi politici e subordinati alla tutela delle libertà economiche. La Carta pone la solidarietà tra le "finalità di interesse generale della Comunità" (110) e la colloca tra i principi ispiratori della tutela dei diritti sociali fondamentali.

La nuova configurazione della solidarietà come valore fondamentale dell'ordinamento comunitario emerge distintamente dalla lettura dell'art. 34, (111) collocato nel capo quarto, specificamente dedicato alla solidarietà e suddivisibile in tre nuclei normativi (112).

Nel primo paragrafo si afferma il diritto d'accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e dalle legislazioni e prassi nazionali. C'è poi un elenco riassuntivo dei rischi che devono essere coperti, conformemente ai regolamenti comunitari e alle Convenzioni O.I.L. in materia, e tra questi viene inserita la "dipendenza", considerata come rischio sociale autonomo, innovando rispetto alla nozione comunitaria tradizionale di sicurezza sociale. Rimane il limite di essere un'affermazione per lo più di natura programmatica, senza delle specificazioni in ordine allo standard di tutela da offrire, rimanendo sostanzialmente affidata agli Stati membri la determinazione delle condizioni di erogazione delle prestazioni e di esercizio dei relativi diritti. Permane la resistenza del diritto nazionale a preservare da invasivi interventi della comunità questa particolare sfera di competenza, che rimane affidata prevalentemente agli Stati membri poiché comporta un'interferenza nella gestione della finanza pubblica, che è da sempre uno dei settori che gli Stati membri custodiscono più gelosamente da invasioni del diritto sovranazionale. Infatti si stabilisce che il godimento dei diritti enunciati è assicurato "secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e dalle legislazioni e prassi nazionali", secondo il principio di sussidiarietà.

Il secondo paragrafo dell'art. 34 riconosce il diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali a "ogni individuo che risieda o si sposti legalmente all'interno dell'Unione". La norma rappresenta il punto d'arrivo dell'evoluzione della tutela comunitaria dei diritti sociali, non ammette esclusioni in base allo status di lavoratore o di cittadino comunitario, ma ha una portata universale che adegua la normativa europea della sicurezza sociale al rispetto dei principi affermati dal Trattato e dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, riconoscendo l'accesso ai diritti sociali anche ai non comunitari, nel rispetto del principio di non discriminazione (113). E' evidente il passaggio dalla logica dei regolamenti n. 1408/1971 e 859/2003 a quella di cittadinanza sociale come garanzia dei diritti sociali fondamentali per qualsiasi individuo, indipendentemente dalla nazionalità, con un solo limite: il riconoscimento del diritto è subordinato al soggiorno regolare.

Il terzo paragrafo dell'art. 34 rappresenta un obiettivo politico dell'Unione, che s'impegna nella lotta contro la povertà e l'esclusione sociale, riconoscendo e rispettando il diritto all'assistenza sociale e abitativa volte a garantire un'esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono i risorse sufficienti. La disposizione costituisce un importante stimolo ad implementare, sia a livello comunitario che delle legislazioni nazionali, politiche sociali adeguate alla liberazione dalla povertà e dal bisogno. E questi obiettivi assumono un significato particolarmente incisivo perché per la prima volta a livello comunitario vengono configurati come diritti fondamentali.

6.1. Il valore giuridico della Carta, dall'opera di valorizzazione dei giudici alle nuove prospettive offerte dal Trattato di Lisbona

In seguito all'arresto del procedimento di ratifica della Costituzione (114), i diritti enunciati nella Carta non hanno potuto trovare subito un formale riconoscimento in un documento normativo che li dotasse di una forza giuridica vincolante. La Carta ha finito per assumere un significato più politico che giuridico; l'importanza politica risiede nella stessa proclamazione solenne di un catalogo di diritti propri dell'Unione europea, che fondano le basi per un'identità costituzionale dell'ordinamento sovranazionale, e inoltre per la prima volta c'è l'esplicita assunzione dei diritti umani come fonte di legittimazione dell'Unione.

La mancata integrazione formale della Carta di Nizza nei Trattati l'ha resa una fonte di tipo debole, priva di carattere giuridico vincolante, tuttavia, la Carta è stata resa uno strumento vivo ed operante grazie all'opera di valorizzazione della giurisprudenza, nazionale e comunitaria (115). La Corte di Giustizia ha fatto per la prima volta esplicito riferimento alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione nel 2006 (116), in una sentenza resa in tema di ricongiungimento familiare dei figli minori dei cittadini di Paesi terzi. Ha affermato che "se è pur vero che la Carta non costituisce uno strumento giuridico vincolante, il legislatore comunitario ha tuttavia inteso riconoscerne l'importanza affermando, al secondo considerando della direttiva [n. 2003/86/CE, relativa al ricongiungimento familiare], che quest'ultima rispetta i principi riconosciuti non solo dall'art. 8 CEDU [cioè il diritto al rispetto della vita familiare e privata], bensì parimenti della Carta". Un'affermazione di questo tipo comporta in qualche modo un'anticipazione giudiziaria del valore giuridico vincolante della Carta; i giudici comunitari ne intuiscono le potenzialità e il significato e permettono un riconoscimento dei diritti sanciti dalla Carta, anche prima della sua positivizzazione normativa.

Fino ad ora i diritti riconosciuti dalla Carta si sono affermati mediante l'opera di valorizzazione dei giudici, che ne hanno intuito le grandi potenzialità e l'hanno utilizzata come norma di riferimento che costituisce l'ossatura costituzionale dell'ordinamento comunitario, usando i principi generali in essa enunciati come veicolo per l'affermazione dei diritti fondamentali (117).

Un deciso cambio di prospettiva nel riconoscimento del valore giuridico della Carta si è avuto con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona (118), che le attribuisce formalmente valore giuridico vincolante. Si legge infatti, nel testo novellato dell'art. 6 che l'Unione "riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea [...] che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati". Questa nuova formulazione riconosce pieno valore giuridico vincolante alla Carta che viene formalmente incorporata nei Trattati e ciò comporta una piena costituzionalizzazione anche dei diritti sociali fondamentali nell'ordinamento comunitario, che assurgono a principi ispiratori della politica dell'Unione. Si tratta di un evidente passaggio di fase da un'unione economica europea ad un'unione politica, intesa anche come condivisione dei valori comuni alle tradizioni costituzionali degli Stati membri. Così al centro della tutela comunitaria non c'è più solamente la difesa delle libertà economiche ma anche della solidarietà e della tutela dei diritti fondamentali, costruiti attorno alla persona e alla dignità umana.

Una configurazione di questo tipo impone alle istituzioni di assumere un ruolo attivo nella tutela dei diritti fondamentali come enunciati nella Carta di Nizza e impone il rispetto anche della connotazione universale di tali diritti. Il referente soggettivo non è più solamente il cittadino comunitario, ma esiste un nucleo di diritti fondamentali che l'Unione si impegna a riconoscere e garantire nei confronti di chiunque, senza distinzioni fondate sulla nazionalità. I diritti sociali sono collocati tra questa categoria di diritti che l'art. 34 impone di riconoscere nei confronti di tutti coloro che non dispongano di risorse economiche sufficienti e nei confronti di ogni individuo che risieda o si sposti legalmente all'interno dell'Unione.

Secondo un'impostazione di questo tipo non sarebbero più giustificabili delle differenziazioni di trattamento nell'accesso alle prestazioni di sicurezza sociale fondate sullo status di lavoratore o di cittadino comunitario o sulla tipologia del titolo di soggiorno, e si renderebbe necessario un adeguamento della normativa comunitaria e nazionale in materia di sicurezza sociale ai principi della Carta dei diritti fondamentali.

Sembra che si possa pacificamente affermare che allo stato attuale ci sono tutte le condizioni sia sul piano normativo che giurisprudenziale per il riconoscimento di un diritto di accesso degli stranieri alle prestazioni sociali in condizioni di parità con i cittadini comunitari, tuttavia resta ancora da vedere quanto tempo ci vorrà perché queste garanzie diventino effettive. Il Trattato di Lisbona è entrato in vigore dal 1 dicembre 2009 e sarebbe prematuro fare delle previsioni sui riflessi che potrà avere sulla tutela dei diritto dei cittadini extracomunitari di accedere all'assistenza sociale: bisogna attendere speranzosi che i principi della Carta possano trovare piena realizzazione nella vita pratica.

Presumibilmente un processo di questo tipo non si realizzerà in tempi molto brevi, considerato che un'estensione delle tutele sociali a chiunque soddisfi i requisiti richiesti dalla legge comporta dei notevoli costi a carico del sistema di welfare.

6.2. La "comunitarizzazione" della Cedu

Un'altra rivoluzionaria novità del Trattato di Lisbona consiste nella formale adesione dell'Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Se fino ad ora l'Unione si era limitata a rispettare i diritti fondamentali quali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, in quanto principi generali del diritto comunitario, nel nuovo art. 6 del Trattato dell'Unione europea si legge che l'Unione "aderisce" alla CEDU. Questo comporta l'intersezione dell'ordinamento comunitario con quello sovranazionale, posto in essere dagli Stati membri del Consiglio d'Europa per dare garanzia e tutela a diritti fondamentali universalmente riconosciuti, e dà luogo ad una serie di sconvolgimenti. In primo luogo dovrebbe cambiare il referente soggettivo del diritto comunitario, quanto meno per i diritti riconosciuti dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Se fino ad adesso il referente originario del diritto comunitario è stato il soggetto avente la cittadinanza di uno Stato membro, adesso questo paradigma viene superato e con l'adesione alla CEDU, l'Unione s'impegna a rispettare i diritti ivi sanciti nei confronti non solo dei cittadini comunitari, ma di tutti. La caratteristica dei diritti tutelati dalla CEDU è infatti la loro universalità, si tratta di posizioni soggettive che spettano all'individuo in quanto tale, senza alcuna distinzione in base alla nazionalità.

Si mette in discussione un intero sistema che finora era incentrato nella predisposizione di diritti, libertà e garanzie a beneficio pressoché esclusivo dei cittadini degli Stati membri e si mette in discussione anche la configurazione del principio di parità di trattamento, originariamente orientato principalmente ad evitare discriminazioni intracomunitarie. Se l'ordinamento dell'Unione ha sempre sancito l'affermazione di diritti e libertà per i cittadini degli Stati membri, l'ordinamento della CEDU al contrario ha sancito dei diritti universali, che spettano a tutti senza alcuna discriminazione. Conciliare questi due punti di vista non sarà facile, bisognerà trovare un punto di equilibrio tra l'impostazione della CEDU, che riconosce un'operatività generalizzata del principio di uguaglianza nei confronti di tutti, e l'impostazione del diritto europeo che finora ha prospettato un'uguaglianza imperfetta, in base alla quale la clausola di parità ha una valenza assoluta soltanto laddove il beneficiario sia un lavoratore comunitario, fuori da quest'ipotesi si realizzano diversi livelli di dis-parità che variano a seconda dello status, nazionalità, titolo di soggiorno del beneficiario.

Occorrerà inoltre conciliare l'operato delle due Corti, che finora hanno mantenuto ciascuna il proprio spazio di autonomia perché hanno operato in due ordinamenti diversi e separati. Non è chiaro come potrà essere impostato un rapporto di questo tipo e quali potranno essere le conseguenze di una pronuncia della Corte di Strasburgo laddove sia chiamata a valutare la conformità della legislazione comunitaria rispetto ai diritti sanciti dalla Convenzione (119).

Sarà necessario trovare un equilibrio tra i diversi punti di vista assunti dalle due Corti, che sono stati finora sostanzialmente diversi nel riconoscere l'operatività del principio di non discriminazione in materia di sicurezza sociale. La Corte di Strasburgo ha garantito il diritto degli stranieri di accedere alle prestazioni di sicurezza sociale mediante l'applicazione del generale principio di non discriminazione, la Corte di Lussemburgo ha invece mostrato maggiori difficoltà nel riconoscere un'operatività piena del principio di non discriminazione nei confronti dei cittadini non comunitari. Confrontando le sentenze Gaygusuz, Koua Poirrez con la sentenza Khalil la distanza tra le due Corti appare evidente. Se l'impostazione della Corte di Strasburgo è quella di ritenere discriminatoria ogni differenziazione tra stranieri e cittadini che non sia fondata su giustificazioni obiettive e ragionevoli, la Corte di Giustizia, al contrario, sancendo l'inapplicabilità del principio di parità di trattamento nei confronti degli stranieri regolarmente soggiornanti che non siano entrati nel circuito del mercato del lavoro comunitario, legittima una disparità di trattamento che probabilmente la Corte di Strasburgo avrebbe considerato irragionevole e pertanto discriminatoria.

Con il nuovo assetto configurato dal Trattato di Lisbona, delle differenziazioni di questo tipo non sarebbero più giustificabili, perché consisterebbero nella violazione dell'art. 14 della Convenzione in combinato disposto con l'art. 1 Protocollo 1 e si concretizzerebbero in una violazione del principio di non discriminazione in base alla nazionalità nel godimento di un diritto patrimoniale. L'obbligo per l'Unione di rispettare i diritti sanciti dalla Convenzione imporrebbe quindi di recepire l'orientamento della Corte di Strasburgo e di riconoscere il diritto d'accesso alle prestazioni di assistenza sociale a chiunque sia nelle condizioni previste dalla legge per beneficiarne senza alcuna discriminazione. Le conseguenze di una tale affermazione sulle finanze degli Stati membri sarebbero decisamente rilevanti, e senza dubbio verrà opposta resistenza perché una situazione del genere possa trovare piena realizzazione nella prassi, non resta che attendere le reazioni dei vari Stati a questo nuovo assetto. Tuttavia si può pacificamente affermare che allo stato attuale ci sono tutte le condizioni per pretendere un'equiparazione del trattamento tra italiani e stranieri nell'accesso alle tutele sociali, e in attesa di un futuro (ed incerto) recepimento dei principi affermati a livello comunitario ed internazionale da parte del legislatore, per il momento ci sono tutti gli strumenti per cui questa pretesa possa trovare soddisfazione quanto meno per via giudiziale.

Note

1. Per un approfondimento sulle due logiche di mercato e di cittadinanza alla base dello sviluppo della disciplina comunitaria di sicurezza sociale, si veda S. Giubboni, Cittadinanza e mercato nella disciplina comunitaria di sicurezza sociale. Spunti per un dibattito sul regolamento n. 883 del 2004, in riv. dir. sic. soc., 2005, n. 2.

2. Ex art. 42 TCE.

3. Per maggiori approfondimenti si veda G. Arrigo, La sicurezza sociale nel diritto comunitario, in Di Stasi (a cura di), I diritti sociali degli stranieri, Roma 2008, pag. 19 e ss.

4. Espressione utilizzata da G. Arrigo, op. cit., p. 23.

5. Per un approfondimento sui principi fondamentali del coordinamento si rimanda ancora a G. Arrigo, op. cit., pag. 21 e ss.

6. Principio ora contenuto nell'art. 4 del Regolamento 883/2004.

7. Per maggiori approfondimenti si veda A. Di Stasi, Profili di diritto della sicurezza sociale dello straniero, in Lavoratore extracomunitario ed integrazione europea. Profili giuridici., Bari, 2007, pag. 318 e ss.

8. Ora art. 7 del Regolamento 883/2004.

9. Nel nuovo art. 7 del Reg. 883/2004, che sostituisce il Reg. 1408/1971, il principio di esportabilità delle prestazioni è enunciato in maniera più chiara. L'art. 7, rubricato "abolizione delle clausole di residenza", stabilisce che "le prestazioni in denaro dovute a titolo della legislazione di uno o più stati membri o del presente regolamento non sono soggette ad alcuna riduzione, modifica, sospensione, soppressione o confisca per il fatto che il beneficiario o i familiari risiedono in uno stato membro diverso da quello in cui si trova l'istituzione debitrice".

10. Cosa debba intendersi per questo tipo di prestazioni sarà meglio specificato nel paragrafo 1.3.

11. Art. 70.4 del Regolamento 883/2004.

12. In questi termini, S. Giubboni, Libertà di circolazione e protezione sociale nell'Unione europea, in Giorn. dir. lav., 1998, n.1, pag. 87.

13. Per un approfondimento, si veda anche S. Giubboni, Libertà di mercato e cittadinanza sociale europea, in dir. imm. citt., 2007, n.4, pag. 13 e ss.

14. Sui limiti all'esportabilità delle prestazioni non contributive e di disoccupazione, si veda, W. Chiaromonte, La limitata esportabilità delle prestazioni di disoccupazione alla luce dei regolamenti 1408/1971/CEE e 883/2004/CE, in riv. dir. sic. soc., 2006, n. 1, pag. 171 e ss.

15. Sulla nozione di lavoratore, si veda S. Giubboni, La nozione di lavoratore subordinato, in S. Sciarra, B. Caruso (a cura di), Il lavoro subordinato, Torino, 2009, pag. 35 e ss.

16. La nozione di lavoratore era invece connotata secondo l'accezione giuslavoristica di prestatore d'opera dal Regolamento 1612/1968 sulla libera circolazione dei lavoratori. Secondo l'interpretazione della Corte di Giustizia (causa 3.7.1986, C-66/85, Lawrie-Blum, in Racc., 1986, 2121) doveva intendersi "lavoratore" ai sensi del Regolamento "chiunque fornisca prestazioni di indiscusso valore economico ad un'altra persona e sotto la direzione della stessa, ricevendo come contropartita una retribuzione". Questa definizione ricalca quella di tipo giuslavoristico di lavoratore subordinato.

17. Per una ricostruzione schematica e completa del campo di applicazione soggettivo, si veda S. Borelli, Il campo di applicazione soggettivo della normativa comunitaria di sicurezza sociale, in riv. dir. sic. soc., 2005, pag. 509 e ss.

18. Corte di Giustizia CE, 11.6.1998, C-275/96, Kuusijarvi, in Racc., 1998, 1, 3419.

19. Regolamento 1606/98 del 29 Giugno 1998.

20. Regolamento 307/1999 dell'8 Febbraio 1999.

21. Corte di Giustizia CE, 12.10.1978, C-10/78, Tayeb Belbouab.

22. Il Signor Belbouab, lavoratore nato in Algeria e in possesso della nazionalità francese, che però aveva perso in seguito all'indipendenza dell'Algeria, si era visto respingere la domanda di pensione per carenza del presupposto al momento della domanda, perché non era più cittadino comunitario al tempo della domanda di pensione. La Corte dichiara invece che il ricorrente "aveva la qualifica di cittadino comunitario [perché] nel periodo in cui svolgeva attività lavorativa nel territorio comunitario aveva la nazionalità di uno degli stati membri", sul punto, G. Arrigo, op. cit. pag. 29 e ss.

23. Proposta di Regolamento del Consiglio, Com (97) 561, presentata dalla Commissione il 10 dicembre 1997.

24. Regolamento 574/1972.

25. Primo considerando del Regolamento 859/2003.

26. Art. 1 Reg. 859/2003.

27. Art. 1 del Regolamento n. 859/2003: "Fatte salve le disposizioni di cui al presente regolamento, le disposizioni del regolamento 1408/1971 e del regolamento 574/1972 si applicano ai cittadini di paesi terzi cui tali disposizioni non siano già applicabili unicamente a causa della nazionalità, nonché ai loro familiari e superstiti, purché siano in una situazione di soggiorno legale nel territorio di uno Stato membro e si trovino in una situazione in cui non tutti gli elementi si collochino all'interno di un solo Stato membro".

28. Corte di Giustizia CE, 11 ottobre 2001, cause riunite C-95/99-98/99, Mervet Khalil e altri, in Racc., 2001, 1, 7413.

29. Sui limiti dell'inapplicabilità ad una situazione puramente interna, si veda, W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per i cittadini non comunitari ed il principio di parità di trattamento. Una rassegna critica della giurisprudenza nazionale ed europea, in giorn. dir. lav. rel. ind., 2008, n.1, pag. 101 e ss.

30. La preoccupazione che il principio di parità di trattamento potesse applicarsi anche agli immigrati extracomunitari che non si fossero spostati legalmente all'interno dell'Unione è stata avvertita in particolare da Regno Unito, Irlanda e Danimarca. Sul punto si rimanda ancora a S. Giubboni, Cittadinanza e mercato nella disciplina comunitaria della sicurezza sociale. Spunti per un dibattito sul regolamento n. 883/2004, in riv. dir. sic. soc., 2005, n. 2, pag. 237 e ss.

31. Per un approfondimento sulle contrapposte istanze di tutela alla base dell'adozione del Regolamento 859/2003, si veda, S. Giubboni, op. cit., pag. 223 e ss.

32. Come è stato osservato, poiché è statisticamente molto più frequente che un cittadino extracomunitario stabilisca un legame con un solo stato membro, "la rigorosa nozione di situazione puramente interna, fatta propria dal Regolamento n. 859, è tale da pregiudicare fortemente l'effettiva portata dell'estensione ai cittadini ed ai lavoratori non comunitari del principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale". In questi termini, W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per i cittadini non comunitari ed il principio di non discriminazione. Una rassegna critica della giurisprudenza nazionale ed europea, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2008, n.1, p.117.

33. Sul punto si rimanda ancora a S. Giubboni, op. cit., pag. 237 e ss.

34. L'art. 63 parr. 3 e 4, del TCE, è stato riformulato dall'art. 79 TFUE che stabilisce che "L'Unione sviluppa una politica comune dell'immigrazione intesa ad assicurare, in ogni fase, la gestione efficace dei flussi migratori, l'equo trattamento dei cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri e la prevenzione e il contrasto rafforzato dell'immigrazione illegale e della tratta". Al par. 4 dell'art. 79 TFUE, si legge: "Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono stabilire misure volte ad incentivare e sostenere l'azione degli Stati membri al fine di favorire l'integrazione dei cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti nel loro territorio, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri".

35. Sul punto si veda, W. Chiaromonte, Accesso al welfare e principio di parità di trattamento dei cittadini non comunitari: riflessioni sul caso italiano in prospettiva europea, in riv. dir. sic. soc., 2006, n. 3.

36. Una particolare resistenza all'estensione del principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale anche ai cittadini extracomunitari è stata manifestata da Regno Unito, Irlanda e Danimarca. Come si legge al diciannovesimo considerando del Regolamento, la Danimarca "non partecipa all'adozione" della normativa e pertanto "non è vincolata da essa né soggetta alla sua applicazione", mentre Regno Unito ed Irlanda hanno acconsentito all'applicabilità del Regolamento nei loro confronti, dopo un iniziale momento di incertezza.

37. Così S. Giubboni, Cittadinanza e mercato nella disciplina comunitaria di sicurezza sociale. Spunti per un dibattito sul Regolamento 883/2004, in Riv. dir. sic. soc., 2005, 2, p. 239.

38. Art. 3, Direttiva 2000/43.

39. Per un approfondimento sul concetto di discriminazione in base alla nazionalità nel diritto comunitario, si veda G. Turatto, Riflessioni su una concezione di "cittadinanza" che non rispetta i diritti fondamentali garantiti a ogni persona, in riv. giur. lav., 2004, n. 1, pag. 677 e seg.

40. Ex art. 39 TCE.

41. Ex art. 43 TCE.

42. Ex art. 49 TCE.

43. Ex art. 12 TCE.

44. Per un approfondimento sul punto, si rimanda a G. Turatto, op. cit., pag. 677 e ss.

45. Sul punto, si veda S. Borelli, Il campo di applicazione soggettivo della normativa comunitaria di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, in riv. dir. sic. soc., 2005, n. 3, p. 514.

46. E successivamente anche dal Regolamento 647/2005, entrambi i regolamenti, 1247/1992 e 675/2005, positivizzano i criteri elaborati dalla Corte per la distinzione tra prestazioni non contributive, incluse nell'ambito di applicazione della normativa sul coordinamento e prestazioni meramente assistenziali, che invece restano escluse dalla tutela comunitaria.

47. Il precedente all'inclusione delle prestazioni non contributive nella sfera di applicazione della tutela comunitaria in materia di sicurezza sociale può essere ravvisato nell'art. 7 del Regolamento 1612/1968, in tema di libera circolazione dei lavoratori, e nell'interpretazione che la Corte di Giustizia ha dato della disposizione. All'art. 7 si prevede un'estensione della clausola di parità di trattamento nelle condizioni di lavoro anche al di là degli aspetti strettamente attinenti al rapporto lavorativo. Si riconosceva, infatti, il godimento per i lavoratori comunitari degli stessi vantaggi sociali dei cittadini dello Stato membro ospitante. La Corte di giustizia ha chiarito il significato di tale espressione nella sentenza Martinéz Sala (C-85/96) e ha ricondotto alla nozione di vantaggi sociali "tutti quei vantaggi che, connessi o meno ad un contratto di lavoro, sono generalmente attribuiti ai lavoratori nazionali primariamente per via del loro status obiettivo di lavoratori, o per via del semplice fatto della loro residenza sul territorio nazionale, e la cui estensione ai cittadini di altri Stati membri appare idonea a facilitare la loro mobilità all'interno della Comunità". Per un approfondimento sul tema, si veda S. Giubboni, Libertà di circolazione e protezione sociale nell'Unione europea, in Giorn. dir. lav., 1998, n.1, pag. 81 e ss.

48. Sulle prestazioni speciali di tipo non contributivo si veda anche, G. Turatto, op. cit., pag. 677 e ss.

49. Per un approfondimento sui limiti all'esportabilità delle prestazioni non contributive e di disoccupazione si rimanda a S. Giubboni, cit., pag. 81 e ss e W. Chiaromonte, La limitata esportabilità delle prestazioni di disoccupazione alla luce dei regolamenti 1408/1971/CEE e 884/2004/CE, in riv. dir. sic. soc., Torino, 2006, n.1, pag. 171 e ss.

50. Art. 4, paragrafo 2 bis del Regolamento 1408/1971, come modificato dal Regolamento 647/2005.

51. Per quanto riguarda l'Italia, le prestazioni che rientrano in questa categoria, indicate all'allegato 2 bis del Regolamento 647/2005, sono: a) Pensioni sociali ai cittadini senza risorse b) Pensioni, assegni e indennità ai mutilati e invalidi civili c) Pensioni e indennità ai ciechi civili d) Pensioni e invalidità ai sordomuti e) Integrazione della pensione minima f) Integrazione dell'assegno di invalidità g) Assegno sociale h) Maggiorazione sociale.

52. In questi termini, M. Cinelli, Diritto del lavoro comunitario e italiano: armonizzazione o conflitto? Il ruolo delle misure di sicurezza sociale, RGL, 1997, 1, pag. 136 e ss.

53. Così si legge nel primo considerando del Regolamento n. 883/2004.

54. Su questa linea di pensiero S. Giubboni, Cittadinanza e mercato nella disciplina comunitaria di sicurezza sociale. Spunti per un dibattito sul Regolamento n. 883 del 2004, in Riv. dir. sic. soc., 2005, n. 2, pag. 223 e ss.

55. In questi termini, S. Giubboni, op. cit., p. 237.

56. Per un approfondimento, si veda B. Grandi, Diritti sociali e allargamento dell'UE; le problematiche connesse all'estensione dei diritti, in riv. dir. sic. soc., 2005, n. 3.

57. Per maggiori approfondimenti, si rimanda ancora a W. Chiaromonte, La limitata esportabilità delle prestazioni sociali alla luce dei regolamenti 1408/1971/CEE e 883/2004/CE, in riv. dir. sic. soc., 2006, n.1, pag. 171 e ss.

58. L'articolo 64 del Regolamento prevede che il diritto di esportabilità delle prestazioni di disoccupazione possa essere esercitato entro stringenti limiti. In primo luogo il soggetto che si reca in un altro Stato membro per cercare lavoro deve, prima della partenza, essere stato iscritto come richiedente lavoro presso gli uffici del lavoro dello Stato competente ed essere rimasto a disposizione per almeno quattro settimane. In secondo luogo deve iscriversi come richiedente lavoro presso gli uffici competenti dello stato in cui si reca entro sette giorni dalla data in cui l'interessato ha cessato di essere a disposizione degli uffici del lavoro dello Stato membro che ha lasciato. Il diritto alle prestazioni è mantenuto per un periodo di tre mesi, prorogabili a sei. Se l'interessato rientra nello Stato competente alla scadenza o prima dei tre mesi continua ad avere diritto alle prestazioni ai sensi della legislazione di tale Stato. Perde ogni diritto alla prestazione se rientra dopo la scadenza dei tre mesi. Sul punto W. Chiaromonte, op. cit., pag. 172 e ss.

59. Ibidem.

60. Per un approfondimento, si veda, S. Giubboni, Un certo grado di solidarietà. Libera circolazione e accesso al welfare nella giurisprudenza della Corte di giustizia CE, in riv. dir. sic. soc., 2008, n. 1, pag. 19 e ss.

61. Sui limiti alla libertà di circolazione dei cittadini economicamente inattivi, si veda anche S. Giubboni, Libertà di circolazione e protezione sociale nell'Unione europea, in giorn. dir. lav. rel. ind., 1998, n. 1, pag. 90 e ss.

62. Per un approfondimento sulla direttiva 38/2004 si rimanda a, M. Cousins, op. cit., pag. 65 e ss.

63. Così si legge al considerando n. 16 della Direttiva 38/2004.

64. Art. 14 direttiva 38/2004.

65. Art. 24 paragrafo 2 della direttiva 38/2004.

66. Per una ricostruzione schematica dei diversi gradi di tutela previsti per le varie "categorie" di stranieri, si veda W. Citti, P. Bonetti (a cura di), L'accesso alle prestazioni di assistenza sociale, 2009.

67. V. infra paragrafo 1.2.

68. V. infra paragrafo 1.2.

69. Trasposto poi nell'accordo euro mediterraneo con il Marocco firmato il 26.02.1996 ed entrato in vigore il 1.03.2000.

70. Sentenza 31 gennaio 1991, C-18/90.

71. Punto 17 della sentenza.

72. Sul punto, si veda, S. Giubboni, Libertà di circolazione e protezione sociale nell'Unione europea, in giorn. dir. lav., 1998, n. 1, pag. 108-109.

73. Per un approfondimento sul punto, si veda G. Turatto, Riflessioni su una condizione di cittadinanza che non rispetta i diritti fondamentali garantiti ad ogni persona, in Riv. giur. lav., n. 1/2004, p. 686. Nel testo citato, si richiamano tra le fattispecie esaminate dalla Corte: un assegno per i giovani in cerca di prima occupazione (Kziber n. C-18/90, del 31 gennaio 1991); un regime di assegni per i minorati (Yousfi, n. C-58/93, del 20 aprile 1994 e Babahenini, n. C-113/1997, del 15 gennaio 1998); un regime di assegni integrativi versati agli anziani titolari di pensioni a carico del regime legale d'importo insufficiente (Krid, n. C-103/94, del 5 aprile 1995); un vantaggio legato alla disciplina sull'assicurazione di vecchiaia (Hallouzu-Choho, n. C-126/1995, del 3 ottobre 1996); un vantaggio legato all'assicurazione contro la disoccupazione (Alami, n. C-23/02, del 12 febbraio 2003).

74. Per un approfondimento sulla clausola di non discriminazione in materia i sicurezza sociale contenuta negli accordi euro-mediterranei, si veda, W. Citti, P. Bonetti, op. cit.

75. Firmato il 22.04.2002 ed entrato in vigore il 10.10.2005.

76. Firmato nel 1976 e poi sostituito dall'accordo euro mediterraneo, firmato il 22.04.2002 ed entrato in vigore il 10.10.2005.

77. Corte di Giustizia europea, sentenza 15.1.1998 n. C-113/97, caso Henia Babahenini c. Belgio.

78. Corte di Giustizia europea, sentenza 4.05.1999 n. C-262/96, caso Surul.

79. Così si legge nel dispositivo della sentenza Surul.

80. Su questa linea di pensiero, W. Citti, P. Bonetti, op. cit.

81. Corte di Cassazione, sez. lavoro, sentenza 29 settembre 2009, n. 24278, conferma l'orientamento espresso nei precedenti gradi di giudizio dal Tribunale di Marsala (sentenza 17.04.2002) e Corte d'appello di Palermo (sentenza 17.01.2005) secondo cui il principio di parità di trattamento contenuto nell'accordo con l'Algeria sarebbe applicabile alle sole prestazioni previdenziali, finanziate mediante meccanismi contributivi e non anche alle prestazioni di tipo assistenziale. Tale orientamento è stato disatteso dalla successiva giurisprudenza di merito, si veda Tribunale di Genova, sentenza 3 giugno 2009, che si pone apertamente in contrasto con la soluzione interpretativa della Corte di Cassazione e riconosce, sulla base della giurisprudenza della Corte di Giustizia, l'applicabilità della clausola di parità di trattamento anche alle prestazioni assistenziali, riconoscendo il diritto all'assegno d'invalidità civile per un cittadino marocchino legalmente residente. V. infra capitolo 3, paragrafo 7.4. Per un approfondimento sui riflessi applicativi degli accordi euro mediterranei nell'ordinamento italiano, si veda, W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per i cittadini non comunitari ed il principio di non discriminazione. Una rassegna critica della giurisprudenza nazionale ed europea, in giorn. dir. lav., 2008, n. 1, pag. 119 e ss.

82. Così si legge al Considerando n. 2.

83. Considerando n. 12.

84. Sul punto, si veda W. Chiaromonte, Accesso al welfare e principio di parità di trattamento dei cittadini non comunitari: riflessioni sul caso italiano in prospettiva europea, in riv. dir. sic. soc., 2006, n. 3, pag. 697 e ss.

85. Considerando n. 13.

86. Art. 5, paragrafo 1, lettera a) della direttiva 2003/109/CE. L'Italia, oltre al requisito delle risorse economiche sufficienti per il sostentamento proprio e dei familiari a carico, richiede per il rilascio della carta di soggiorno anche la disponibilità di un alloggio "idoneo" (Art. 9 comma 1 del D. lgs. 286/1998 come modificato dal D.lgs. n. 3 del 2007).

87. Art. 9, comma 12, lettera c) del d. lgs. 286/1998, come modificato dal D.lgs. n. 3 del 2007.

88. Sull'attuazione della direttiva 2003/109 in Italia e sul diritto degli stranieri lungo soggiornanti di accedere all'assistenza sociale, si veda W. Citti, P. Bonetti (a cura di), op. cit., e W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per i cittadini non comunitari e il principio di non discriminazione. Una rassegna critica della giurisprudenza nazionale ed europea, in gior. dir. lav. rel. ind., 2008, n. 1, pag 122-123.

89. Per una trattazione approfondita dell'argomento, si rinvia al capitolo terzo.

90. Per un approfondimento si veda, G. Perin, La disciplina applicabile ai coniugi stranieri di cittadini italiani: chiarimenti giurisprudenziali e nuovi interrogativi, in dir. imm. citt. 2007, n. 4, pag. 70 e ss.

91. Per maggiori approfondimenti si veda M. Cousins, op. cit., pag. 65 e ss.

92. Così A. Lang e B. Nascimbene in, L'attuazione in Italia della direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini dell'Unione europea, in Dir. imm. citt., n. 2 del 2007, pag. 43 e ss.

93. Art. 24, direttiva 2004/38/CE.

94. Sul punto si veda anche S. Borelli, op. cit., pag. 509 e ss.

95. D.lgs del 19.01.2007.

96. D.lgs 286/1998.

97. Sul punto si veda anche W. Chiaromonte, Il rientro del lavoratore nello Stato membro di cui è cittadino ed il diritto di soggiorno del familiare cittadino di un paese terzo, in dir. imm. citt., 2008, n. 2, pag. 88 e ss.

98. Art. 12, paragrafo 2, direttiva 2004/38/CE.

99. Art. 13, direttiva 2004/38/CE.

100. Prevede delle condizioni più restrittive rispetto alla lettera c) dell'articolo 13. La direttiva richiede delle situazioni particolarmente difficili e il legislatore italiano richiede che l'interessato risulti parte offesa in procedimento penale, in corso o definitivo con sentenza di condanna, per reati contro la persona commessi nell'ambito familiare.

101. Per una ricostruzione schematica dell'accesso di apolidi e rifugiati all'assistenza sociale, si veda, W. Citti, P. Bonetti, op. cit.

102. Per una ricostruzione storica della tutela dei diritti sociali nell'ordinamento comunitario, si veda, S. Giubboni, I diritti sociali fondamentali nell'ordinamento comunitario. Una rilettura alla luce della Carta di Nizza, in Diritto dell'Unione europea, 2003, n. 2-3, pag. 325 e ss.

103. Così S. Giubboni, Libertà di mercato e cittadinanza sociale europea, in dir. imm. citt., 2007, n. 4.

104. Sul punto si rinvia a, S. Giubboni, Libertà di circolazione e protezione sociale nell'Unione europea, in giorn. dir. lav., 1998, n. 1, pag 81 e ss e W. Chiaromonte, La limitata esportabilità delle prestazioni di disoccupazione alla luce dei regolamenti 1408/1971/CEE e 884/2004/CE, in riv. dir. sic. soc., Torino, 2006, n. 1.

105. Per un approfondimento si veda, S. Giubboni, Solidarietà e sicurezza sociale nella Carta dei diritti fondamentali nell'Unione europea, in giorn. dir. lav., 2001, pag. 617 e ss.

106. Art. 30 della Carta sociale europea.

107. Il paragrafo 1 dell'Allegato ("Portata della Carta sociale europea riveduta per quanto concerne le persone protette") stabilisce che sono compresi "gli stranieri solo nella misura in cui si tratta di cittadini di altre Parti che risiedono legalmente o lavorano regolarmente sul territorio della Parte interessata".

108. Così S. Giubboni, I diritti sociali fondamentali nell'ordinamento comunitario. Una rilettura alla luce della Carta di Nizza, in Diritto dell'Unione europea, 2003, n. 2-3, pag. 325 e ss.

109. Per un approfondimento, si veda, M. Ross, Solidarietà: un nuovo paradigma costituzionale per l'Unione europea?, in riv. dir. sic. soc., 2009, n. 1, pag. 239 e ss.

110. Art. 51 della Carta di Nizza.

111. Art. 34 Carta di Nizza: "1.L'unione riconosce e rispetta il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai diritti sociali che assicurano la protezione in casi quali la maternità, la malattia, gli infortuni sul lavoro, la dipendenza o la vecchiaia, oltre che in caso di perdita del posto di lavoro, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e dalle legislazioni e prassi nazionali.
2.Ogni individuo che risieda o si sposti legalmente all'interno dell'Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali.
3.Al fine di lottare contro l'esclusione sociale e la povertà, l'Unione riconosce e rispetta il diritto all'assistenza sociale e all'assistenza abitativa volte a garantire un'esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali.

112. Per un'analisi approfondita dell'art. 34, si rinvia a, G. Arrigo, La sicurezza sociale nel diritto comunitario, in A. Di Stasi (a cura di), I diritti sociali degli stranieri, Roma, 2008, pag. 39 e ss.

113. Sulle potenzialità della Carta di Nizza per il riconoscimento dei diritti sociali dei cittadini non comunitari, si veda, W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per i cittadini non comunitari ed il principio di non discriminazione. Una rassegna critica della giurisprudenza nazionale ed europea, in giorn. dir. lav. rel. ind., 2008, n. 1, pag. 123 e ss.

114. Bloccato dal "no" espresso per via referendaria da Francia e Paesi Bassi, rispettivamente il 29 maggio e il 1 giugno 2005.

115. Sul punto, S. Giubboni, Solidarietà e sicurezza sociale nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, in giorn. dir. lav., pag. 617 e ss.

116. Corte di Giustizia CE, 27 giugno 2006, causa c-540/03, Parlamento c. Consiglio.

117. Per un approfondimento sull'utilizzazione della Carta di Nizza da parte della giurisprudenza di merito italiana ai fini del riconoscimento dei diritti sociali dei non comunitari, si veda, W. Chiaromonte, Il diritto fondamentale dei non comunitari alla sicurezza sociale tra Cedu e Carta di Nizza, in Osservatorio sul rispetto dei diritti fondamentali in Europa, 2007.

118. Il Trattato di Lisbona è stato firmato il 13/12/2007 dai 27 capi di stato e di governo degli Stati membri. E' stato ratificato dall'Italia l'8/8/2008 ed è entrato formalmente in vigore il 1/12/2009.

119. Sul punto, si veda, G. Cinelli, La tutela dei diritti sociali nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'Uomo, in riv. dir. sic. soc., 2006, n. 3, pag 752-753.