ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Appendice di aggiornamento
La sentenza n. 187 del 2010 della Corte Costituzionale

Daniela Ranalli, 2010

Il 27 maggio 2010, quando la stesura del presente lavoro era ormai conclusa, è sopraggiunta la sentenza n. 187 della Corte Costituzionale, in cui la Consulta, incalzata dalle ormai numerose questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000, ha preso finalmente una posizione netta e ha dichiarato l'illegittimità della norma in questione, nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti delle prestazioni di assistenza sociale.

E' stato lento e graduale il percorso attraverso il quale la Corte è giunta a riconoscere l'illegittimità del requisito della carta di soggiorno ai fini dell'accesso degli stranieri alle prestazioni sociali. E' stato necessario sollevare molteplici questioni di legittimità in riferimento all'art. 80, comma 19, e l'illegittimità del requisito della carta di soggiorno è stata censurata per tappe. Abbiamo visto, nella sentenza n. 324/2006, come la Corte Costituzionale sia stata inizialmente reticente, evitando di pronunciarsi sulla legittimità dei requisiti introdotti dall'art. 80, comma 19, risolvendo la questione attraverso l'applicazione del generale principio di irretroattività della legge. Con le successive sentenze n. 306/2008 e n. 11/2009, la Corte si è pronunciata sulla legittimità dell'art. 80, comma 19, rimanendo tuttavia incastrata nella declaratoria di incostituzionalità del solo requisito reddituale, richiesto per ottenere la carta di soggiorno, assumendo una posizione incerta in ordine alla legittimità della scelta del legislatore di condizionare il diritto degli stranieri regolarmente soggiornanti di accedere alle prestazioni di assistenza sociale ad un requisito inerente alla durata del soggiorno. Con la sentenza n. 187/2010 arriva la declaratoria di incostituzionalità tanto attesa, e tanto cercata dalle numerose questioni di legittimità costituzionale poste in riferimento all'art. 80, comma 19. Ad essere censurata come illegittima è la stessa previsione del requisito della carta di soggiorno in sé, in entrambi i suoi componenti, sia quello reddituale che quello del soggiorno quinquennale.

Nel caso di specie l'illegittimità viene censurata in riferimento all'assegno mensile d'invalidità di cui all'art. 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118. Il ricorso viene presentato da una cittadina rumena, residente in Italia, titolare di permesso di soggiorno, che pur essendo stata riconosciuta invalida con riduzione permanente della capacità lavorativa superiore ai 2/3, si era vista negare l'assegno d'invalidità per non essere titolare di carta di soggiorno. Il Tribunale adito aveva accolto il ricorso soltanto a decorrere dal primo gennaio 2007, data dell'ingresso della Romania nell'Unione europea, respingendolo per il periodo precedente, in cui la ricorrente non era cittadina dell'Unione e non era titolare di carta di soggiorno. Viene presentato appello davanti alla Corte d'Appello di Torino che, con ordinanza del 27 febbraio 2009, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale con l'art. 117, primo comma, della Costituzione dell'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000. Il giudice remittente ritiene che la disposizione censurata introduce un requisito atto a generare una discriminazione nei confronti dello straniero, nella misura in cui subordina il diritto alle prestazioni assistenziali, che costituiscono diritti soggettivi, alla titolarità della carta di soggiorno, e dunque al requisito della presenza nel territorio dello Stato da almeno cinque anni. La norma si porrebbe dunque in contrasto con i principi enunciati dall'art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e dall'art. 1 del Protocollo 1, addizionale alla Convenzione, secondo l'interpretazione che di essi è stata offerta dalla Corte di Strasburgo. La Corte di Strasburgo, come abbiamo visto, è stata in grado di offrire tutela al diritto degli stranieri di accedere alle prestazioni assistenziali, riconducendo queste nel novero dei diritti patrimoniali, tutelati dall'art. 1 del Protocollo 1, e stabilendo l'operatività del principio di non discriminazione nel godimento di tali diritti. Il giudice remittente fa riferimento poi alla giurisprudenza della Consulta che, come è stato illustrato, nelle sentenze n. 348-349 del 2007, ha specificato che la violazione, da parte di una disposizione di legge italiana, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo costituisce violazione dell'art. 117, primo comma, e che pertanto è necessario l'intervento della Corte costituzionale al fine di verificare la legittimità di una tale previsione.

La Corte Costituzionale ritiene la questione fondata. Essa afferma che lo scrutinio di legittimità costituzionale andrà condotto alla luce degli approdi ermeneutici cui è pervenuta la Corte di Strasburgo nel ricostruire la portata del principio di non discriminazione sancito dall'art. 14 della Convenzione, in relazione all'art. 1 del Primo Protocollo addizionale. In realtà, dalla lettura della sentenza, sembra che la Consulta giunga a riconoscere una portata applicativa ridotta del principio di non discriminazione, offrendo una lettura restrittiva rispetto all'interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo in ordine all'operatività del principio di non discriminazione. Dall'esame della copiosa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, richiamata nella stessa sentenza della Corte Costituzionale, risulta chiaramente quale sia il punto di vista assunto dai giudici di Strasburgo. Il diritto di percepire le provvidenze assistenziali viene considerato un diritto patrimoniale, come tale direttamente tutelato dalla Convenzione, e dunque rispetto al quale opera la garanzia piena del principio di non discriminazione. Come abbiamo visto, la Corte di Strasburgo ha specificato che gli Stati hanno un certo margine di discrezionalità entro il quale determinare se e in che misura siano giustificabili delle differenziazioni rispetto a situazioni analoghe, ma per non integrare gli estremi del trattamento discriminatorio devono essere fondate su giustificazioni obiettive e ragionevoli. Come abbiamo posto in evidenza, la Corte di Strasburgo ha puntualizzato che devono essere delle giustificazioni molto forti per portare la Corte a ritenere compatibile con la Convenzione una differenza di trattamento fondata esclusivamente sulla nazionalità (1).

La Consulta, dopo aver richiamato la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, si sofferma sull'art. 80, comma 19, ponendo in evidenza la finalità restrittiva della norma in ordine al diritto dei cittadini extracomunitari di ottenere le prestazioni sociali. La Corte riconosce come la norma sia intervenuta direttamente sui presupposti di legittimazione al conseguimento delle prestazioni assistenziali, circoscrivendo la platea dei fruitori, quanto ai cittadini extracomunitari, a coloro che siano in possesso di carta di soggiorno, il cui rilascio presuppone, fra l'altro, il regolare soggiorno nel territorio dello Stato da almeno cinque anni. Per arrivare alla declaratoria di incostituzionalità dell'art. 80, comma 19, per contrasto con l'art. 117 primo comma, in quanto viola il principio di non discriminazione affermato dalla CEDU, la Consulta segue un percorso argomentativo diverso rispetto a quello seguito dai giudici di Strasburgo. Non si limita a verificare la riconducibilità della prestazione in oggetto, l'assegno d'invalidità, al novero dei diritti patrimoniali e a verificare se la preclusione della prestazione nei confronti degli stranieri legalmente residenti integri una differenziazione irragionevole e pertanto discriminatoria. L'oggetto di indagine della Consulta consiste nella verifica dell'essenzialità della prestazione in oggetto, cioè della finalità di consentire il soddisfacimento dei "bisogni primari" inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana (2). Dunque l'intento è quello di verificare la riconducibilità dell'assegno d'invalidità a quel nucleo di prestazioni inerenti a rimediare a gravi situazioni di urgenza, rispetto alle quali "qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con il principio sancito dall'art. 14 della Convenzione europea dei diritto dell'uomo". La Corte esplicitamente richiama quanto già da essa affermato nella sentenza n. 306/2008, e cioè che è possibile che il legislatore ragionevolmente subordini l'erogazione di determinate prestazioni alla circostanza che il titolo di soggiorno dello straniero nel territorio dello Stato ne dimostri il carattere non episodico e non di breve durata, a meno che non si tratti di prestazioni inerenti a rimediare a gravi situazioni d'urgenza, rispetto alle quali non sarebbe ammissibile alcun tipo di differenziazione. Si è posto in evidenza, nel commento alla sentenza n. 306/2008, come fosse problematica l'individuazione dei confini di questa categoria di prestazioni essenziali che non sopportano differenziazioni (3). Nella sentenza del 2008 la Corte, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 80, comma 19, nella parte in cui "oltre ai requisiti sanitari e di durata del soggiorno in Italia" prevede la necessità del requisito reddituale, sembrava aver preso posizione nel senso di escludere la riconducibilità dell'indennità di accompagnamento a quella categoria di prestazioni essenziali che non ammettono differenziazioni. Non censurando la scelta del legislatore di subordinare l'accesso all'indennità di accompagnamento alla necessità che lo straniero sia in possesso di un titolo di soggiorno che ne dimostri il carattere non episodico e non di breve durata, la Corte sembrava escludere la riconducibilità dell'indennità di accompagnamento a quel nucleo di prestazioni essenziali il cui godimento deve essere assicurato a prescindere dalla cittadinanza e dalla durata del soggiorno.

Nella sentenza n. 187/2010, riguardo l'assegno d'invalidità, la Corte giunge ad una conclusione diversa. Esaminando l'istituto afferma che si tratta di una prestazione riconosciuta in favore di soggetti invalidi civili, nei confronti dei quali sia riconosciuta una riduzione della capacità lavorativa in misura elevata; che la provvidenza, in tanto può essere erogata, in quanto il soggetto invalido non presti alcuna attività lavorativa; che l'interessato versi, infine, nelle disagiate condizioni reddituali stabilite dall'art. 12 l. n. 118 del 1971. Si tratta dunque di prestazioni destinate "a fornire alla persona un minimo di sostentamento atto ad assicurarne la sopravvivenza", dunque un istituto che "si iscrive nei limiti e per le finalità essenziali che questa Corte - anche alla luce degli enunciati della Corte di Strasburgo - ha additato come parametro di ineludibile uguaglianza di trattamento tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato".

Dalla lettura della sentenza n. 187 sembra che la Corte intenda limitare l'ambito di applicazione del principio di non discriminazione, di cui all'art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, alle sole prestazioni essenziali, direttamente inerenti alla tutela della persona umana, che come tali non ammettono differenziazioni di trattamento tra stranieri e cittadini. In questo modo si riduce la portata applicativa del principio di non discriminazione che, secondo quanto affermato dalla Corte di Strasburgo, dovrebbe avere un'applicazione generale, in riferimento al godimento di tutti i diritti riconosciuti dalla Convenzione. I giudici di Strasburgo non fanno alcun riferimento alla necessaria "essenzialità" della prestazione e alla sua finalità di soddisfare "bisogni primari" inerenti alla sfera di tutela della persona umana, perché il principio di non discriminazione possa essere applicato. Tanto è vero che l'operatività del principio rispetto alle prestazioni assistenziali è stata riconosciuta per il tramite della riconducibilità del diritto alle prestazioni alla categoria dei diritti patrimoniali, in un'ottica pragmatica, quasi cinica, di tutela della proprietà piuttosto che di tutela della persona. La Consulta si pone invece in un ottica diversa e circoscrive l'operatività del principio di non discriminazione alle sole prestazioni essenziali, direttamente inerenti alla tutela della persona umana.

La sentenza n. 187/2010 ha il grande merito di censurare l'illegittimità dell'art. 80, comma 19, nella parte in cui prevede il requisito della carta di soggiorno per l'accesso degli stranieri alle prestazioni di assistenza sociale che costituiscono diritto soggettivo. In questo modo dovrebbe poter essere garantito il diritto di accedere alle prestazioni da parte degli stranieri regolarmente soggiornanti, senza spazio ad equivoci legati alla necessità di soddisfare il requisito della durata quinquennale del soggiorno. Con la dichiarazione di illegittimità dei requisiti previsti dall'art. 80, comma 19, dovrebbe essere pacifica l'applicabilità vecchio art. 41 del T.U., almeno fino ad un nuovo intervento del legislatore. Inoltre questa presa di posizione più decisa della Corte dovrebbe poter rimediare anche all'incertezza dell'operato dell'amministrazione nell'individuare i requisiti richiesti per l'accoglimento delle domande presentate dagli stranieri per ottenere le provvidenze assistenziali. A questo punto è chiara l'illegittimità del requisito della carta di soggiorno, sia nella previsione del requisito reddituale che del requisito della durata quinquennale del soggiorno, pertanto l'amministrazione sarà tenuta ad adeguarsi alla sentenza della Consulta e a riconoscere il diritto alla prestazione agli stranieri regolarmente soggiornanti che siano in possesso dei requisiti sanitari, reddituali o di età previsti per ottenere la prestazione.

Tuttavia il percorso argomentativo seguito dalla Corte lascia aperto un dubbio. La scelta di intendere l'operatività del principio di non discriminazione limitata alle sole prestazioni essenziali lascia incerti su quale sarà la posizione della Consulta ove la prestazione assistenziale non sia considerata una prestazione inerente a rimediare a gravi situazioni di urgenza. L'inclusione o esclusione della prestazione sociale in questa categoria indefinita di prestazioni essenziali potrebbe infatti avere delle conseguenze rilevanti. Soltanto laddove venga inclusa ci sarà un'operatività piena del principio di non discriminazione, altrimenti si rientrerebbe in quella categoria di prestazioni rispetto alle quali il legislatore è libero di subordinare l'accesso a queste da parte degli stranieri al possesso di un titolo di soggiorno che ne attesti il carattere non episodico e non di breve durata. Nonostante i meriti della sentenza in esame, sembra che la Corte Costituzionale sia ancora incastrata nel ragionamento che ha spesso caratterizzato la giurisprudenza costituzionale, che consiste nell'ammettere una certa progressività nel riconoscimento dei diritti nei confronti degli stranieri e una certa progressività nel riconoscimento del principio di uguaglianza. Anche in questa sentenza, sebbene venga riconosciuta l'operatività del principio di parità di trattamento tra stranieri e cittadini, la Corte ha la premura di specificare che il principio di non discriminazione, in tanto può essere riconosciuto operante, in quanto si tratta di una prestazione essenziale, destinata a consentire il concreto soddisfacimento di "bisogni primari", inerenti alla stessa sfera di tutela della persona.

Il riferimento alla categoria delle prestazioni essenziali come limite all'operatività del principio di non discriminazione pone una serie di dubbi in ordine alla possibilità di includere o meno in questa categoria le altre prestazioni assistenziali che costituiscono un diritto soggettivo. In particolare ci si domanda se l'assegno sociale, considerato come reddito "vitale" di sostentamento agli anziani economicamente non autosufficienti, possa essere incluso tra le prestazioni essenziali, inerenti a rimediare a gravi situazioni di urgenza (4). Considerando le caratteristiche dell'assegno sociale, cioè una prestazione economica prevista in favore di soggetti ultrasessantacinquenni, non in grado di produrre reddito, e che non abbiano maturato i requisiti per ottenere la pensione di vecchiaia, sembra possibile considerare la prestazione come funzionale alla soddisfazione dei "bisogni primari" della persona, attraverso l'erogazione di provvidenze economiche che vanno a costituire il reddito minimo di sostentamento del beneficiario. L'inclusione dell'assegno sociale tra le prestazioni essenziali dovrebbe comportare l'estensione, anche a questa prestazione, del ragionamento seguito dalla Consulta nella sentenza n. 187/2010, in cui si è affermato che, rispetto alle prestazioni essenziali, "qualsiasi trattamento discriminatorio fra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con il principio sancito dall'art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo".

Resta aperto un dubbio: se la Corte Costituzionale, in riferimento alla prestazione di invalidità, ha considerato discriminatorio subordinare l'accesso degli stranieri alla titolarità della carta di soggiorno, che richiede, per il rilascio, tra l'altro, il soggiorno regolare per almeno cinque anni, come deve essere considerato il requisito della residenza decennale previsto dall'art 10, comma 20, della l. n. 133/2008 per ottenere l'assegno sociale?

Prima che sopraggiungesse la sentenza n. 187/2010, si era espresso un pronostico negativo in ordine alla possibilità che la Corte Costituzionale considerasse discriminatorio e pertanto illegittimo il requisito della residenza decennale. Le perplessità erano dettate dalla constatazione dell'oggettiva difficoltà della Consulta a confrontarsi con le discriminazioni indirette, tanto è vero che fino alla recente sentenza del 2010, la Corte non aveva ritenuto di dover censurare l'illegittimità del requisito del soggiorno quinquennale per l'accesso alle prestazioni sociali e aveva ritenuto infondata la questione di legittimità della l. r. della Lombardia che prevedeva il requisito della residenza quinquennale nella Regione per poter accedere agli alloggi di edilizia residenziale pubblica (5). La diversa posizione assunta dalla Consulta nella sentenza n. 187/2010 apre ad una soluzione differente. Il ragionamento seguito dalla Corte appare ben estensibile in riferimento all'assegno sociale, che abbastanza pacificamente può essere ricondotto al nucleo delle prestazioni essenziali, e alla previsione del requisito della residenza decennale, che sebbene si ponga come un trattamento apparentemente neutro integra gli estremi di una discriminazione dissimulata, determinando un trattamento sfavorevole nei confronti degli stranieri. E' auspicabile una pronuncia della Corte Costituzionale che applichi il ragionamento seguito nella sentenza n. 187/2010 anche in riferimento all'art. 20, comma 10, l. n. 133/2008, censurando l'illegittimità della previsione di un trattamento discriminatorio tra stranieri regolarmente soggiornanti e cittadini nell'accesso all'assegno sociale.

Note

1. In tal senso, Salesi c. Italia, sentenza del 26 febbraio 1993; Gaygusuz c. Austria, sentenza del 16 settembre 1996; Koua Poirrez c. Francia, sentenza del 30 settembre 2003; Stec et allii c. Regno Unito, sentenza del 6 luglio 2005; Si Amer c. Francia, sentenza del 29 ottobre 2009. Tutte le pronunce citate sono richiamate nella sentenza della Corte Costituzionale.

2. Così si legge nelle prime righe del Considerando in diritto.

3. Sul punto, si rinvia a quanto detto nel capitolo secondo, paragrafo 6.2, pp. 35-36. Per un approfondimento, si veda G. Turatto, Prestazioni agli invalidi civili e trattamento degli stranieri: la lunga marcia della Corte Costituzionale verso la parità, in Riv. giur. lav., 2008, n. 4, pag. 1001-1009.

4. Il problema era già stato sollevato in riferimento alla sentenza 306/2008, per un approfondimento si rinvia a quanto detto nel capitolo 3, paragrafo 6.2.

5. La Corte si è pronunciata sulla questione con l'ordinanza 21 febbraio 2008, n. 32. Per un approfondimento si rinvia a C. Corsi, cit., pp. 141 ss.