ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Conclusioni

Maria Cristina Acri, 2010

Il tema della prostituzione ha sempre recato con sé difficoltà di tipo interpretativo, per il suo comporsi di aspetti molteplici ed eterogenei, ma anche di approccio pratico per quanto riguarda la sua rilevanza all'interno della società. L'ostacolo maggiore si ha nel porla in relazione con l'ordinamento, poiché questo implica un'alternativa di non facile soluzione a causa delle conseguenze comunque problematiche; le parole di Bolis pongono la questione in modo chiaro:

Se la legge regola la prostituzione, viene a riconoscerle un'esistenza civile, si fa complice dell'immoralità, e cade nel pubblico disprezzo: se la proscrive, viene a punirla come un delitto, e diventa ineseguibile, aggravando il male che voleva impedire coll'ipocrisia e col dar fonte al meretricio clandestino (1).

La scelta operata dall'Italia, orientata nel primo senso, a partire dalla metà del 1800, ha dato vita a un assetto istituzionale, e sociale allo stesso tempo, durato circa un secolo. Il sistema regolamentato, fin dai primi anni, subì varie modifiche che alternarono di volta in volta aspetti d'intenso rigore in termini di controllo sociale, come dimostravano i regolamenti del 1860 e del 1891, a momenti di garantismo, soprattutto per l'aspetto sanitario, come indicato dalle riforme del 1888 e del 1905. Negli anni successivi, l'avvento del fascismo portò di nuovo un cambiamento in senso autoritaristico: la prostituzione, in base alla disciplina datane dal regolamento del 1931 (2), avveniva esclusivamente in locali autorizzati (3) e sottoposti a rigide norme, come anche i tenutari e le prostitute.

La regolamentazione, tuttavia, in tutta la sua esistenza non realizzò pienamente i suoi scopi, e venne definitivamente revocata solo nel 1958, con l'approvazione della Legge Merlin (4), preceduta da un lungo dibattito nel quale non emerse alcuna alternativa diversa dalle posizioni tradizionalmente orientate. Regolamentazionisti e abolizionisti continuarono a sostenere le proprie convinzioni; i primi difendevano il sistema sostenendo l'utilità della prostituzione per la salvaguardia della salute pubblica e della vita familiare: si trattava, secondo questa concezione, di accettare un male minore rispetto alla lussuria e all'adulterio, allo stesso tempo la logica delle case di tolleranza permetteva di mantenere il decoro pubblico che veniva salvaguardato dalla vista di atteggiamenti licenziosi (5). Al contrario, gli abolizionisti rispondevano mostrando seri dubbi sull'efficacia della profilassi sanitaria poiché le possibilità di contagio non si limitavano ai soli rapporti sessuali all'interno delle case di tolleranza; questi criticavano soprattutto l'aspetto di prevaricante controllo nei confronti delle donne che esercitavano la prostituzione regolamentata, mostrando come la riabilitazione sociale fosse, nella realtà dei fatti, pressoché apparente.

Già da queste considerazioni s'intuisce la complessità che comporta la realizzazione di un discorso sulla prostituzione, questo spiega anche la particolare impostazione della ricerca svolta.

L'approccio scelto mi ha portato a esaminare non tanto la prostituzione come fenomeno in sé, quanto, piuttosto, la donna prostituta quale "soggetto attivo", in quanto persona che si prostituisce, e contemporaneamente "soggetto passivo" della sua condizione, poiché soggetta alle conseguenze che questa implica in termini pratici e di classificazione a livello di concetto.

Fin dal principio di questo lavoro, infatti, la donna prostituta è stata valutata in relazione ai diversi modi di concepire la sua persona, la rilevanza dei concetti di devianza e pericolosità è stata altrettanto funzionale per la definizione di un quadro quanto più completo possibile; non solo, considerare la donna prostituta come un soggetto che minaccia l'ordinamento con la sua condotta amorale e ai limiti della legalità, mette in evidenza un altro aspetto peculiare: il rapporto che si crea con gli agenti del controllo sociale. Infatti, obiettivo di questa tesi è stato quello di valutare in che termini il trattamento della donna prostituta da parte dell'autorità, nello specifico la polizia, fosse influenzato dalle astrazioni teoriche che nel tempo sono state usate per classificarla; per valutare se effettivamente le teorie criminologiche positive hanno inciso sull'operato concreto della polizia o se, al contrario, l'attività di sorveglianza e contenimento delle prostitute si poneva come specificazione di un potere di controllo storicamente proprio della polizia rivolto alle classi pericolose in generale.

La donna prostituta è stata catalogata, secondo i canoni della moralità ottocentesca, come soggetto deviante in quanto portatrice di una sessualità troppo esuberante e per questo da contenere; la medesima condotta, tuttavia, è stata valutata in termini di pericolosità per l'ordinamento, per cui la prostituta è stata ricondotta di fatto tra gli individui pericolosi. La prostituta era dunque ritenuta alla stregua di un delinquente, di conseguenza soggetta a tutte le misure volte al mantenimento dell'ordine pubblico e perciò sottoposta al dispositivo poliziesco accresciuto in particolare a seguito dell'industrializzazione, quando il riordino della popolazione, ai fini del disciplinamento sociale, era affidato alla polizia.

A giustificare questa catalogazione, come si è ampiamente visto, si aggiunsero le dottrine dell'antropologia criminale che hanno ampiamente influenzato il modo di concepire e trattare la devianza come qualcosa di connaturato all'essere umano. Da qui gli addetti al controllo sociale erano spinti a ricercare le tracce della criminalità direttamente sul fisico delle persone; secondo le impostazioni teoriche del positivismo la donna prostituta era un soggetto naturalmente deviante e oltretutto rappresentava la sfera più perversa della natura femminile, questo le valeva una classificazione come delinquente tout court, una simile idea della donna prostituta ha fatto sì che si ritenessero tali le donne che mostravano una spiccata indipendenza e che non erano inserite in alcuno dei ruoli femminili prestabiliti dalla società dell'epoca.

Tuttavia, nel corso della ricerca è emerso un quadro della donna prostituta estremamente diverso e variegato. Guardando attentamente al contesto storico di riferimento (6), ho avuto modo di approfondire la tipologia di donne definite prostitute; le teorie positiviste, già criticate per la poca scientificità di alcune sperimentazioni, sono apparse poco attinenti alla realtà concreta. Infatti, sebbene abbiano trovato larga diffusione nel periodo storico in esame, sono state ampiamente sconfessate con il passare degli anni.

La prostituta di fine XIX secolo, e inizio del XX, era nella maggioranza dei casi una giovane donna che, priva di adeguati mezzi di sussistenza, sceglieva la via della prostituzione come alternativa tra le poche presenti, soprattutto in caso di ragazze prive d'istruzione giunte nelle città dalla campagna e che non riuscivano a inserirsi nel mercato del lavoro. La necessità era alla base anche della scelta di chi un lavoro l'aveva, ma si prostituiva per arrotondare l'esiguo reddito; oppure di chi era stata sedotta e abbandonata con un figlio da crescere.

Si comprende che tutto ciò non riguarda la conformazione fisica o psichica della donna; sembra possibile descrivere una situazione simile come "una deriva progressiva verso la devianza, dove la prostituzione è solo l'esito di fattori situazionali, piuttosto che una scelta occupazionale consapevole" (7), ovviamente l'accezione di devianza è qui usata per indicare una difformità al sistema costituito.

Il contesto rileva anche dal punto di vista sociale, poiché, come si è detto, il costume del XIX secolo vedeva con sospetto le donne che vivevano in modo autonomo e libero, cioè svincolate da ogni categoria che la ponesse in relazione (8) con l'uomo, di conseguenza veniva naturale associare loro una certa condizione, quella della prostituta, appunto, perché minaccia alla moralità e all'integrità familiare. Da qui si passò all'attribuzione di un demerito ulteriore: si individuò nella donna prostituta la principale portatrice di malattie veneree, ne conseguì la scelta di regolamentare la prostituzione al fine di tutelare la salute pubblica.

Dall'esame del sistema in tutto il suo evolversi e articolarsi, che vedeva le prostitute sottoposte alla vigilanza scrupolosa della polizia, è stato possibile svolgere alcune valutazioni.

La scelta dello Stato di regolamentare la prostituzione è stata giustificata con la necessità di profilassi sanitaria. Vi era, però, un fine complementare: attraverso la registrazione imposta alle donne che esercitavano la prostituzione e la loro relegazione nelle case di tolleranza lo Stato aveva il modo di esercitare il controllo su un gruppo sociale che era l'emblema della devianza femminile. Attraverso la minuziosità delle norme e la sorveglianza costante della polizia si aveva la realizzazione della "disciplina del minuto" descritta da Foucault per le prigioni, l'analogia con le case di tolleranza appare calzante anche per un altro aspetto, per cui erano le case a creare prostitute: la donna diveniva ufficialmente prostituta una volta registrata e inserita in un bordello, la cancellazione, difficile da ottenere, non garantiva l'affrancatura sociale dallo status di prostituta, etichettandola indelebilmente agli occhi dei consociati.

In tutto questo è di estrema importanza il ruolo della polizia, che era l'effettivo detentore del potere esercitato dal governo centrale e che rivelava così il suo essere allo stesso tempo "un apparato di disciplina e un apparato di stato" (9). L'operato della polizia si sviluppava in attività di sorveglianza e mantenimento dell'ordine, l'attività svolta in esecuzione dei regolamenti di prostituzione non era solo di vigilanza, questa toccava anche l'aspetto medico poiché i controlli sanitari sulle prostitute dipendevano dall'autorità di pubblica sicurezza.

Tuttavia, è necessario evidenziare che la polizia vedeva nella prostituta uno dei tanti individui appartenenti al mondo della delinquenza poiché con la sua condotta poteva recare un danno alla società, inoltre la vicinanza della prostituta al mondo della criminalità permetteva alla polizia di aumentare le possibilità di reperire informazioni utili su altre figure delinquenti, rinforzando così il controllo sociale. Si evince che l'applicazione dei regolamenti di prostituzione specificavano un potere già proprio della polizia di sicurezza.

Il modo in cui la donna prostituta e la polizia, si sono relazionati rileva anche per le influenze dei saperi criminologici diffusisi tra Ottocento e Novecento. Sulla base di queste concezioni la devianza morale, o meglio il vizio, era diventata affare della polizia perché inserita nel più ampio disegno di mantenimento dell'ordine sociale (10). La donna prostituta, rappresentando per le teorie criminologiche del tempo il grado più basso della criminosità, era vista e trattata dalla polizia come gli altri delinquenti; in questo senso si può dedurre che le idee positive rinforzarono una percezione di pericolosità che l'apparato di polizia aveva della classe delle prostitute.

I rapporti tra prostitute e polizia erano problematici, a poco valevano le giustificazioni delle numerose donne che osteggiavano la registrazione perché esercitavano la prostituzione solo saltuariamente o, comunque, non intendevano farne l'occupazione di una vita. Queste erano ben consapevoli che una volta registrate come prostitute lo sarebbero diventate, per sempre. Dal punto di vista dell'autorità appariva difficile un recupero della moralità da parte di chi esercitava la prostituzione professionalmente; talvolta, come dimostrato dai dati reali di cancellazioni avvenute, si mostrava una certa comprensione nei confronti delle "prostitute occasionali".

Le considerazioni svolte mostrano come la donna prostituta del XIX secolo sia stata oggetto di numerosi pregiudizi morali e il sistema regolamentato ne è stato una dimostrazione evidente. Una conferma ulteriore si ricava considerando che, nei primi anni della regolamentazione, le prostitute erano le uniche sottoposte ai controlli sanitari per la sifilide, mentre si esoneravano i clienti.

La presenza di preconcetti si è resa percepibile lungo tutta la ricerca, lo studio della donna prostituta nel particolare momento storico di fine Ottocento e inizio Novecento, ha richiesto di esaminare un modo di pensare per il quale la donna era esclusa dall'avere un qualche ruolo attivo nella società e la cui soggettività era subordinata ad un uomo, il padre prima e il marito dopo. Di conseguenza la presenza evidente di soggetti che fuoriuscivano dai canoni sociali, com'erano le prostitute, acuiva il biasimo poiché queste rappresentavano un "danno ecologico" (11), ossia la loro visibilità comprometteva l'assetto di moralità pubblica caratteristico delle società borghesi; per questo attraverso la regolamentazione si è cercata una soluzione di compromesso (12) per togliere dalla vista un fenomeno percepito come ineliminabile e, secondo una concezione radicata al tempo, tuttavia necessario per assicurare una valvola di sfogo agli istinti maschili irrefrenabili. Già allora si confutava una tale forma mentis e, correttamente, si affermava che "l'educazione, non la biologia, abituava gli uomini a pensare di aver bisogno di un'attività sessuale più intensa di quella femminile" (13)

La prostituzione era dunque letta come valvola di sicurezza sociale per evitare che da tali istinti derivassero comportamenti criminali a danno di donne oneste. La donna prostituta posta sotto controllo, chiusa in una casa di tolleranza, sarebbe stata, in questo modo, il soggetto passivo del controllo e, allo stesso tempo, attraverso lei si tutelavano le altre donne (oneste).

Lo studio della prostituta in termini di devianza e pericolosità, come maggiormente percepita tra il XIX e il XX secolo, e del suo peculiare rapportarsi con l'apparato di polizia ha mostrato una donna soggetta a tutta una serie di concezioni e classificazioni determinate a priori; questo ha fatto sì che subisse le misure adottate nei suoi riguardi, rivelatesi talvolta, più gravose del necessario. Le azioni della polizia spesso sembravano non arrivare a considerare l'esistenza di motivazioni materiali, legate al bisogno, che spingevano molte donne alla prostituzione; gli agenti eseguivano le funzioni cui erano chiamati in vista della sicurezza pubblica: la donna prostituta a causa del suo stile di vita e delle sue inclinazioni era stata definita, più o meno scientificamente, come un individuo pericoloso e in quanto tale andava sorvegliata e disciplinata.

Così facendo si mettevano sullo stesso piano due condotte completamente diverse: la condotta criminale e la condotta morale, la prima tipicamente indirizzata verso una vittima e solitamente repressa dalla legge; la seconda è, invece, connessa alla sfera intima (14) del soggetto che la tiene, senza necessariamente tradursi in una lesione ad altri e dunque sanzionabile.

Note

1. G. Bolis, La polizia e le classi pericolose per la società, cit., p. 836.

2. Titolo VII del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.

3. L'esercizio isolato costituiva, di fatto, un illecito se praticato abitualmente in luoghi chiusi.

4. Legge n. 75 del 20 febbraio 1958 sull'Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui.

5. Diffusamente in questo senso si veda M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 258 e ss.; N. J. Davis, Prostituzione in Enciclopedia delle Scienze sociali, cit., p. 135.

6. L'Italia tra il XIX secolo e la prima metà del XX, epoca di sviluppo economico e industriale.

7. N. J. Davis, Prostituzione in Enciclopedia delle Scienze sociali, cit., p. 140.

8. Sarebbe più corretto dire subordinazione.

9. M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 216.

10. L'osservazione di Chapman si adatta perfettamente: "La polizia si occupa del vizio tanto più quanto più questo può portare a crimini come danno alla persona". D. Chapman, Lo stereotipo del criminale, cit., p. 120.

11. N. J. Davis, Prostituzione in Enciclopedia delle Scienze sociali, cit., p. 139.

12. La prostituzione venne sì disciplinata ma non repressa, lo dimostra il fatto che non sia stata tradotta in una fattispecie di reato codificata.

13. Il pensiero di A. Gramola è riportato da M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 61.

14. La libertà sessuale rientra nel più vasto ambito della libertà personale che ognuno esercita nel modo ritenuto più opportuno, con l'unica limitazione del rispetto per l'altrui persona.