ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 4
Prostituzione e femminismo

Maria Cristina Acri, 2010

4.1. Il movimento femminista in Italia

La trattazione della donna prostituta come oggetto del controllo sociale, la sua analisi complessa in un particolare contesto storico e sociale, qual era l'Italia tra il XIX secolo e i primi decenni del XX, porta a considerare le molteplici posizioni a riguardo: dopo aver esaminato l'argomento dal punto di vista sociologico criminale e da quello del controllo sociale, si è reso necessario indagare la donna prostituta attraverso l'osservazione del suo profilo sociale per capire che tipo di donna era nella realtà concreta e come viveva la condizione di prostituta.

Tuttavia, per una migliore comprensione è utile prendere atto del contributo dato dalle donne "normali" al dibattito sulla prostituzione e sul suo trattamento; tale posizione può essere ricondotta, semplificando, al movimento femminista che già dalla fine del XVIII secolo in Europa (1) si muoveva per una rivalutazione della figura della donna e il riconoscimento dei suoi diritti civili in posizione egualitaria all'uomo; quest'impostazione teorica caratterizzò la "prima ondata" del pensiero femminista (2).

Per quanto riguarda l'Italia, la nascita di un vero e proprio movimento femminista, nel periodo storico in esame, è difficilmente ricostruibile perché consta di una pluralità di associazioni, figure a volte tra loro discordanti e fatti talvolta latenti che ne ostacolano un resoconto sistematico (3); il femminismo italiano si caratterizza per il suo essere inizialmente un "movimento riflesso" (4): la sua nascita, e iniziale diffusione, è legata anche a personalità non italiane, come Anna Kuliscioff, ungherese, Jessie White Mario e Giorgina Crawford Saffi, inglesi, che avevano sposato italiani illustri e vivevano in Italia; queste donne, grazie ai loro contatti all'estero, particolarmente in Inghilterra (5), alimentarono un innovativo modo di pensare la donna già dilagante nel resto d'Europa.

L'esigenza di cambiamento si rifletteva soprattutto nel campo del riconoscimento di uguali diritti civili per le donne e le rappresentanti femminili, adoperatesi fin dai lavori preparatori del nuovo Stato, sfortunatamente videro disattese le loro aspettative con l'emanazione del Codice Pisanelli del 1865 che manteneva la subordinazione della moglie al marito. Tra le battaglie perseguite, anche quella per il diritto al voto, al divorzio (6) e all'istruzione, al fine di formare le donne come cittadine coscienti e consapevoli, come si addice a uno Stato moderno (7); ma anche il diritto al lavoro e la parità di salario, seguendo l'eco delle rivendicazioni di eguaglianza giuridica e politica intraprese in Inghilterra (8); con la regolamentazione della prostituzione le donne della classe borghese si attivarono fin dall'inizio per mostrare il loro dissenso.

Nei primi anni dell'Unificazione vi erano dunque delle femministe italiane ma mancava un movimento femminista organizzato; una prima forma associativa autonoma, la Lega per la promozione dei diritti delle donne, nacque nel 1881 per opera di Anna Maria Mozzoni, il movimento femminista propriamente detto nascerà verso gli anni Novanta del secolo (9).

Tra le cause che portarono alla nascita del femminismo in Italia in un secondo tempo rispetto ad altri Paesi, rilevano soprattutto la situazione di arretratezza sociale e la difficoltà di diffusione a tutta la popolazione femminile, nonostante l'economia e la produzione fossero in espansione, la mentalità popolare restava saldata a un'idea conservatrice della famiglia patriarcale, che rifletteva il ruolo inferiore della donna nella società. La maggior parte della popolazione femminile si divideva tra le attività domestiche e il lavoro fuori casa; questo spiega perché nacque in una cerchia ristretta di donne culturalmente preparate e appartenenti alla classe borghese.

La posizione delle femministe si poneva in netta contrapposizione con un modello di diritto (di genere) assodato negli anni, che era storicamente costruito sulle esperienze e le esigenze maschili, di conseguenza anche l'insieme dei diritti delle donne era formulato sulla base delle percezioni che gli uomini avevano delle donne (10): ne usciva fuori un ritratto della donna come entità inferiore formalmente, sul piano giuridico, ma anche intellettualmente e biologicamente, come teorizzavano i sostenitori dell'antropologia criminale (11). Il femminismo, fin dalla sua fase non organizzata, contrastava una simile visione della donna e ne riaffermava la parità sociale e giuridica, rivendicando diritti e riconoscimenti sociali.

Il dibattito sulla "questione femminile" (12) italiana si lega alle importanti figure di Anna Kuliscioff e Anna Maria Mozzoni, due donne unite sul fronte della difesa dei diritti delle donne ma divise dal diverso modo di concepire la stessa lotta. La prima, esponente di spicco del Partito Socialista, perseguiva gli scopi di miglioramento della condizione femminile in modo più circoscritto rispetto alla seconda, la quale auspicava la formazione di un'associazione che comprendesse tutte le donne, incluse quelle delle classi proletarie (13): fatto inaccettabile per i socialisti.

Il personaggio della Kuliscioff permette di comprendere l'instabile relazione tra socialismo e femminismo (14): l'attività volta al miglioramento delle condizioni lavorative delle donne, ad esempio, era, per i socialisti, sì tesa a rendere più sostenibile la condizione femminile ma si inseriva nel più ampio disegno della tutela di tutta la classe lavoratrice. Un altro campo in cui si rivelò più accesa la contrapposizione tra femminismo e socialismo fu quello del suffragio universale, interpretato dalla Kuliscioff come diritto di voto esteso a tutte le donne, anche se non attive nella vita politica del Paese, mentre il partito era orientato verso una concessione graduale, distinguendo tra analfabete e alfabete. La posizione sostenuta dalla Kuliscioff all'interno del Partito Socialista alimentò un fervente dibattito (15) tra l'opportunità, da lei sostenuta, di ammettere tutte le donne al voto così da risvegliare in loro una coscienza sociale; mentre dall'altra si riteneva una simile estensione avrebbe inasprito i rapporti tra i vari partiti politici.

L'acuirsi della polemica e la posizione intransigente del partito non erano chiare alla Kuliscioff, la quale non comprendeva l'accesa ostilità mostrata nei confronti delle femministe e della loro lotta per il suffragio universale; questo la portò a rivedere ciò che la Mozzoni già affermava riguardo a un femminismo che doveva espandersi oltre l'ideologia borghese, perché era implicitamente richiesto da una società in mutamento come quella italiana. Ed era proprio questo cambiamento che rendeva possibile alla donna di scoprire l'esigenza di veder riconosciuti i propri diritti.

Anna Maria Mozzoni, descritta come "la più acuta agitatrice della questione della donna; probabilmente colei che vide più a fondo nel problema, e che lo impostò con maggiore appropriatezza" (16), si pone, nel dibattito femminista, come figura speculare alla Kuliscioff poiché sosteneva la necessità di un associazionismo femminile a livello interclassista, ella affermava che le disparità di genere andassero oltre le differenze di ceto; la donna, nella sua visione, andava tutelata in quanto "donna-lavoratrice", evidenziando la possibilità di conciliare il ruolo di curatrice della casa con quello del lavoro fuori poiché l'uno non esclude l'altro (17). La volontà, presentata come esigenza, di coinvolgere nelle rivendicazioni femministe agli strati sociali più bassi è confermata anche nell'importante indagine della Mozzoni Sulla prostituzione in Italia (18); in questo lavoro è messo in luce uno degli aspetti più significativi della condizione femminile: la maggior parte delle donne che si prostituivano erano le contadine, per lo più minorenni, arrivate nelle città in cerca di condizioni migliori.

La Mozzoni era anche consapevole che la lotta per l'affermazione dei diritti delle donne era più facilitata se unita alla lotta per i diritti dei lavoratori, sebbene rischiasse di non proseguire di pari passo: la lotta delle donne era volta alla loro affermazione come persone, ancor prima che come lavoratrici al pari dei colleghi maschi. Il riconoscimento alla donna dell'accesso alle funzioni sociali, la possibilità di affermarsi nel campo produttivo al pari dell'uomo, anche in termini salariali, sarebbe stato funzionale anche alla diminuzione della prostituzione, cui molte ricorrevano per sopravvivere (19). La posizione della Mozzoni, tuttavia, non tratta la questione femminile in chiave esclusivamente economica, come al contrario fanno i socialisti: la tutela delle condizioni lavorative interessava sia gli uomini che le donne, ma la questione per le donne andava oltre il mero riconoscimento della riduzione delle ore di lavoro e della parità di salario.

Il femminismo italiano non trovò nel partito socialista un alleato valido per il perseguimento delle rivendicazioni femministe, a discapito delle condizioni femminili che tardarono a progredire, situazione ben dimostrata dal suffragio universale raggiunto pienamente solo nel 1946 (20). Sebbene i socialisti riconoscessero la donna come "naturalmente pari all'uomo" (21), affrontavano la questione in modo superficiale, come se non fosse il momento per trattare i problemi femminili.

Con il nuovo secolo le cose non migliorarono: l'esclusione delle donne dall'elettorato, ad opera della riforma di Giolitti nel 1912, è un dato significativo che mette in luce la debolezza del movimento femminista, ma ciò non impedì alle donne di lottare per il riconoscimento dei loro diritti civili e giuridici e per affermarsi in posizione paritaria con l'uomo nel campo sociale e lavorativo.

4.2. Femminismo e positivismo

La questione femminile come sollevata nel XIX secolo, volta all'affermazione della donna in quanto essere uguale all'uomo e perciò degna dei medesimi diritti, si pone in netta contrapposizione all'ideologia positiva che si stava diffondendo in quel periodo in Italia. Secondo questa concezione la donna era inferiore all'uomo sia biologicamente sia intellettualmente, di conseguenza ogni rivendicazione in materia di diritti non trovava giustificazione; come si è avuto modo di accennare nel capitolo dedicato all'antropologia criminale, il movimento delle femministe rispose con critiche ferme alle affermazioni da questa sostenute, reputandole prive di basi scientifiche avvalorate e fondate per la maggior parte su pregiudizi di antico retaggio.

Per difendersi, le femministe, portavano esempi di donne affermatesi nel mondo letterario, come Madame de Staël o George Elliot, o che si erano distinte nella politica, come la regina Vittoria. L'importanza del ruolo femminile non era ricondotta solo a esponenti delle classi elevate socialmente o culturalmente, ma si evidenziava anche il notevole contributo che le donne delle classi inferiori davano alla società con la partecipazione attiva alla produttività e al lavoro (22).

La reazione delle femministe alle affermazioni degli antropologi criminali contava di una debolezza di fondo: dal momento che le donne non avevano diritto di voto né erano presenti in parlamento con cariche tali da poter influire su leggi in loro favore, era difficoltoso e azzardato controbattere alle pretese scientifiche. Ciononostante, vi furono femministe borghesi (23) che confutarono le affermazioni positive con prove di altrettanto spessore scientifico, soprattutto a riguardo delle misurazioni dei cervelli; per confutare l'esistenza di un nesso tra intelligenza e peso del cervello vennero portati esempi che avevano come protagonisti gli stessi sostenitori di tali correlazioni, come nel caso dello scienziato Ernst Bischoff il cui cranio pesava meno di quanto lui stesso aveva stabilito come peso medio per il cervello femminile (24). Tra le affermazioni maggiormente sostenute dalle femministe rilevavano l'incidenza dell'ambiente e del contesto sociale, di questo parere anche voci di spicco del filone socialista come Anna Kuliscioff (25), la quale collegava la scarsa intelligenza e la minor possibilità di emancipazione sociale ad un ambiente sfavorevole e, ancor prima, alla scarsa istruzione.

Una delle maggiori critiche mosse a Lombroso e colleghi era proprio quella di confondere i caratteri biologici con quelli sociali: l'inferiorità delle donne non poteva essere ridotta ai soli caratteri biologici, soggetti essi stessi a variare da un soggetto all'altro, il contesto sociale ricopriva un ruolo determinante nello sviluppo personale di ogni donna, come, del resto, era anche per gli uomini. Il dibattito aveva una portata tale da alimentare numerose pagine di scritti femministi e non solo: nella rivista Critica sociale, che la Kuliscioff dirigeva assieme a Turati, in occasione della pubblicazione della Donna delinquente di Lombroso e Ferrero, l'ampia recensione di Zerboglio fu corredata di note dove i direttori criticavano apertamente le rivelazioni dello scienziato mettendone in discussione le affermazioni come poco scientifiche.

Tra le posizioni delle femministe socialiste, tuttavia, non vi era piena omogeneità e non mancavano riviste che pubblicavano articoli di Sergi (26), tra i maggiori sostenitori della teoria lombrosiana, o recensioni della Donna delinquente sia favorevoli che contrarie. L'approccio confuso al positivismo non caratterizzava solo una divisione interna alle socialiste, ma rilevava in maniera più ampia per quanto riguardava la questione dei diritti civili; poiché sul tema vi erano posizioni divergenti anche tra gli stessi antropologi. Sebbene l'opinione preponderante volesse la donna inferiore all'uomo, vi era chi le riconosceva diritti "equivalenti" a quelli della controparte maschile (27), questa posizione conciliava esigenze di giustizia, com'era opportuno per una società civile, e non contraddiceva la tesi di fondo dell'inferiorità fisiologica femminile: riconoscere diritti equivalenti significava accordare alle donne diritti conformi alla loro personalità e adeguati al loro stato. In base a ciò, emergevano discordanze su particolari diritti come quello di voto: Lombroso, Pilo e Zerboglio sostenevano il suffragio femminile senza riserve, mentre altri, come Sighele e Marro, ritenevano più appropriato riconoscere il voto amministrativo e circoscrivere quello politico alle questioni che più riguardavano le donne, questo, però, dopo un'accurata riflessione. Non mancavano esponenti della nuova scienza che restarono saldi alle loro convinzioni e le tradussero in posizione politica, come nel caso di Niceforo e Ferrero i quali si opponevano fermamente all'estensione dei diritti femminili, soprattutto quest'ultimo riteneva inutile il voto alle donne poiché bastava l'egida maritale a proteggerle e il loro sarebbe stato solo un contributo deleterio allo sviluppo della nazione (28).

Pareri contrastanti riguardo al diritto di voto erano rinvenibili tra le stesse femministe, sebbene molte respingessero l'idea che le differenze fisiche tra uomo e donna, oggettivamente esistenti, potessero in qualche modo influire sulla capacità giuridica; tra le sostenitrici più autorevoli di questa posizione la giurista Teresa Labriola (29); per contro vi erano alcune che ammettevano la negazione dei diritti sulla base di diversità biologiche.

L'antropologia criminale mostrava tra i suoi esponenti posizioni contraddittorie a seconda che si trattasse di difendere le scoperte scientifiche o prendere atto delle reali condizioni sociali delle donne: le prime mostravano una donna fisiologicamente e psicologicamente subordinata, i mutamenti sociali presentavano donne attive per l'affermazione di sé e dei loro diritti civili e politici, come già avveniva in molti Paesi.

Le femministe riponevano speranze negli atteggiamenti più illuminati, fiduciose anche dell'influenza socialista su molti positivisti, ciò per il fatto che i due filoni consideravano di grande importanza la scienza per il progresso sociale e culturale; questo spiega perché le critiche più ferme e pesanti all'antropologia criminale vennero dal femminismo borghese.

Un elemento che pare significativo menzionare è il tema del divorzio, capace di accordare antropologi e femministe; i primi lo difendevano in qualità di istituto utile alla prevenzione di particolari reati quale l'adulterio o l'omicidio domestico, questo era presentato da Lombroso e Ferri come valvola di sicurezza sociale. Pochi erano i pareri contrari, come Morselli, che relegavano il divorzio a "istituzione inferiore" (30) e di conseguenza praticato solo da civiltà primitive. Le femministe, dal canto loro, affrontavano la questione in modo contenuto per non suscitare l'opposizione della chiesa.

La reazione delle femministe all'antropologia criminale era prevalentemente incentrata sulla confutazione delle affermazioni scientifiche che descrivevano la donna come soggetto fisiologicamente e culturalmente inferiore; la difesa della donna normale trascurava le questioni della donna delinquente, tema, al contrario, centrale nell'opera positivista. L'attenzione delle femministe si posò invece sulla regolamentazione della prostituzione, ritenendo il trattamento di pressante controllo sociale ingiusto poiché riduceva le prostitute a cittadine di seconda classe. La lotta all'emancipazione femminile si scontrava con un sistema legalizzato e difeso dalle ideologie positiviste.

4.3. La lotta alla prostituzione di Stato

La regolamentazione della prostituzione, fin dai primi momenti della sua istituzione, suscitò numerose reazioni di dissenso e un notevole contributo all'opposizione era rappresentato da molte donne socialmente impegnate per l'affermazione dell'emancipazione femminile (31).

Gli aspetti maggiormente attaccati della regolamentazione erano inerenti alla dignità della donna, totalmente demolita nel momento in cui questa veniva registrata come prostituta nelle liste di polizia; si accusava lo Stato di avallare la prostituzione con la giustificazione, vana, della sua necessità come "male minore" (32) mentre in realtà era un ulteriore modo per sottoporre un gruppo di donne ad una forma di schiavitù; inoltre anche la causa di tutela della salute pubblica era sconfessata da scarsi risultati, aggiungendo, oltretutto, che i controlli sanitari riguardavano solo le donne prostitute mentre si esoneravano i clienti. L'ultimo, ma non meno importante, punto preso in considerazione dai sostenitori dell'abolizionismo riguardava il traffico di donne avviate con l'inganno alla prostituzione, denominato "tratta delle bianche" (33).

Tra le italiane più attive nella lotta alla prostituzione regolamentata, vi fu, senza dubbio, Anna Maria Mozzoni; vivamente impegnata nel movimento di emancipazione femminile, seguì la causa abolizionista in modo fermo e deciso (34), sostenendo che una delle cause principali della prostituzione fosse l'inopportuna condizione lavorativa e sociale che voleva la donna in una posizione arretrata rispetto all'uomo e per questo più soggetta alla necessità economica; poiché era questa che spingeva molte donne a prostituirsi, la Mozzoni riteneva che un miglioramento delle condizioni lavorative ed economiche avrebbero influenzato positivamente la prostituzione facendola diminuire (35). Il suo attacco più violento era all'inefficacia di un regolamento (36) che il senso comune aveva reso accettabile, quasi ignorando la reale situazione che vi si nascondeva dietro; indicava l'impotenza del suddetto regolamento dal punto di vista sanitario: la sifilide era in diminuzione, ma si potrebbe meglio dire contenuta, dove la sorveglianza era applicata, risultando in aumento altrove. Il regolamento si presentava come una "misura parziale" che nella società si traduceva in "un sistema di arbitrî vessatori e d'uggiose violenze dirette ad un obiettivo igienico che sfugge continuamente" (37).

La debolezza del regolamento rilevava anche per l'accoglienza che la società gli aveva riservato, come la stessa Mozzoni scriveva a Josephine Butler (38), la classe maschile aveva ben accolto il sistema, trattandosi di un controllo sulle donne e per ciò in sintonia con la mentalità generale che vedeva la donna subordinata all'uomo; per quanto riguarda la parte femminile, sebbene non si possa parlare di approvazione, vi era una sorta di tacito consenso per cui molte donne erano più dedite all'interesse materiale della famiglia e scusavano le debolezze morali dei propri mariti e dei figli, altre, invece, preferivano non curarsi di certe questioni sociali perché non si adattava loro (39).

Al contrario di queste ultime, Anna Maria Mozzoni non poteva trascurare di interessarsi alla prostituzione regolamentata; come lei altre si schierarono apertamente contro il sistema, tra i nomi più rilevanti Sara Nathan, Giorgina Crawford Saffi, Alaide Gualberta Beccari (40) e Jessie White Mario, ma alle donne italiane si unirono anche esponenti dei movimenti femminili d'Inghilterra e Irlanda (41). L'attività abolizionista s'inseriva nel più ampio impegno di affermazione sociale della donna contribuendo alla sua diffusione consapevole tra gli animi femminili.

Un tale interessamento si ricava dai lavori di osservazione di Jessie Mario e della stessa Anna Mozzoni, la prima, osservando la condizione di miseria a Napoli (42) ebbe modo di parlare delle donne sacrificate in lavori umili e particolarmente delle prostitute; i toni usati dalla Mario, che non era una femminista fervente come la Mozzoni, evidenziavano l'influenza dell'abolizionismo per una migliore comprensione del movimento di emancipazione. Jessie Mario definì la regolamentazione un delitto messo in atto con "leggi ideate e formulate da soli uomini" al solo fine di "soddisfare ai più brutali istinti dell'uomo" (43). Contemporaneamente Anna Mozzoni osservava i mutamenti socio economici dovuti all'industrializzazione in Lombardia, funzionalmente a quanto da lei sostenuto, la lotta alla prostituzione doveva avvenire in modo cosciente, iniziando dal riconoscimento delle sue cause.

La Mozzoni reputava la regolamentazione come una misura che privava le donne prostitute della loro dignità, definendola "indegna schiavitù" (44) poiché il sistema trattava quelle ragazze alla stregua degli schiavi; con la sua forte personalità e la tenacia mostrata nella campagna abolizionista riuscì a influenzare anche uomini politici, il deputato Salvatore Morelli (45), suo amico, propose, invano, al parlamento la chiusura dei sifilocomi fin dal 1868, ritenendoli un'istituzione utile solo ad aumentare le entrate statali e, come ribadì l'anno seguente, costituivano un'offesa alla dignità "non solo della donna ma anche del paese" (46); il Parlamento italiano rispose, dopo l'iniziale ilarità, giustificando le tasse ricavate dalla prostituzione in relazione della sicurezza pubblica. Quello della sicurezza, tuttavia, era un altro aspetto che le abolizioniste, soprattutto Anna Maria Mozzoni, criticavano attaccando il modo in cui essa veniva perseguita: la gestione della prostituzione regolamentata era affidata alla polizia dei costumi, la quale avrebbe dovuto riservare il suo intervento ai casi in cui la sicurezza e la decenza pubblica sarebbero state messe in pericolo; la Mozzoni dichiarava pubblicamente l'abuso che veniva fatto di questo potere di polizia:

L'indole del potere civile non gli consente, in materia di costumi, che una competenza assai limitata. Incaricato di guarentire la libertà dell'individuo e la sicurezza della proprietà, la sua azione, in materia di costumi, non può essere legittima, che dove la pubblica decenza è offesa. Fuori di lì esso soverchia il suo mandato, viola le franchigie costituzionali, si fa trasgressore della propria legge penale. Sono questi gli atti che ogni giorno perpetra e compie la polizia dei costumi (47).

Le parole usate sono un attacco al cuore del regolamento: il sistema presentato come mezzo di profilassi sanitaria si traduceva nella pratica in un controllo sociale illimitato, che sottoponeva le donne ad un trattamento discriminatorio in quanto passibili di arresto sulla base del solo sospetto; da una simile constatazione si desumeva una conferma della subordinazione femminile e una prova della vasta discrezionalità usata dagli agenti di polizia nell'applicazione del regolamento. Infatti, la libertà personale, la dignità e l'onore sociale di una donna erano "esposte a giudizio d'un basso funzionario" (48).

La situazione creata dalla regolamentazione era tale per cui molte ragazze si trovavano prostitute perché iscritte forzosamente, magari a causa di vicissitudini che la morale del tempo non riteneva accettabili: una ragazza che veniva abbandonata incinta dal fidanzato molto spesso non aveva il sostegno della famiglia perché rappresentava un disonore, inoltre era preclusa la ricerca sulla paternità (49); la polizia, talvolta in accordo con le tenutarie delle case di tolleranza, denunciava la Mozzoni, procurava di "irreggimentare" (50) delle ragazze sfortunate. La pratica era talmente assodata che non poche erano quelle consapevoli che una volta registrate sarebbero state etichettate come prostitute, non solo dalla polizia ma anche dal resto della società, dal momento che la riabilitazione restava spesso solo una possibilità teorica; in relazione a questo la situazione della prostituta clandestina appariva "migliore" poiché la sua professione non era sottoposta a umiliazione pubblica e questo le permetteva anche una riabilitazione più agevole mediante matrimonio; si evince l'intrinseca contraddizione del sistema legalizzato.

La regolamentazione, quindi, appariva alle donne come un disonore più che la prostituzione in sé e l'intensità della loro protesta andava sempre più consolidandosi, sostenuta anche da esponenti dell'opposizione al governo che chiedevano la revisione del regolamento (51) e membri della classe proletaria riuniti in società operaie. Il movimento abolizionista arrivò, nel settembre del 1877, a riunirsi a Ginevra per il primo congresso internazionale contro la prostituzione (52) cui aderirono numerosi partecipanti da tutta Europa, anche l'Italia era presente con molte rappresentanti, tra le quali Anna Maria Mozzoni e Jessie White Mario. L'affluenza elevata e diffusa può essere ricondotta alla risonanza delle conferenze che la Butler aveva tenuto in varie città, a partire dal 1874, per sensibilizzare sul problema della prostituzione regolamentata.

Il congresso affrontò la questione della regolamentazione attraverso un approccio plurimo per valutarne tutti gli aspetti, dall'etico al medico, passando per quello giuridico, ma non trascurando nemmeno l'aspetto assistenziale e socio-economico (53). Uno dei primi aspetti criticati, fin dalle prime battute del congresso, al sistema di regolamentazione era l'insensata gestione delle visite mediche: si palesava come irrazionale sottoporre a controllo medico le sole prostitute trascurando la popolazione maschile, come se da questa non si diffondesse il contagio delle malattie veneree; si auspicava perciò l'estensione delle visite anche ai clienti, qualunque fosse il loro livello sociale (54).

La prostituzione era una "piaga" (55) che riguardava tutti, sebbene colpisse maggiormente la classe popolare (56); era per le donne più povere una necessità di sopravvivenza che il regolamento trasformava in condizione permanente.

Dai dibattiti emerse la necessità di coinvolgere le donne in misura maggiore, soprattutto in considerazione del fatto che in materia di riforme femminili risultava opportuno chiedere un loro parere e, soprattutto, avere conoscenza diretta delle loro necessità; al contrario i gruppi di esperti e specialisti cui si affidavano i disegni di legge erano sempre uomini (57). Gli esiti del congresso furono senza dubbio positivi: si erano messi in luce i problemi reali e si erano date tracce per affrontare la questione. Tra i risultati più brillanti anche lo spunto per Anna Maria Mozzoni di creare un movimento comune che riunisse tutte le associazioni di donne; vi riuscì a tre anni di distanza fondando la Lega promotrice degli interessi femminili, che era, tra l'altro, la prima associazione del genere in Italia.

Il contributo femminista all'abolizionismo risalta per il suo carattere esteso, collegandosi al movimento di emancipazione e dando a questo una motivazione ulteriore alla collaborazione femminile (58). In Italia le associazioni abolizioniste riponevano le loro speranze nelle commissioni d'inchiesta ottenute con l'avvento della sinistra al governo (59), non smettendo di avanzare richieste decise, prima fra tutte l'abolizione della polizia dei costumi: primo mezzo della regolamentazione e primo oltraggio alla dignità e ai diritti delle donne che venivano soppressi. Anna Maria Mozzoni proseguì instancabile negli anni la sua campagna abolizionista e di emancipazione attraverso conferenze e comizi; il movimento raggiunse parte dei suoi obiettivi già dal 1888, con il Regolamento Crispi e la riforma sanitaria, tuttavia l'obiettivo dell'abolizione dei regolamenti restava disatteso anche con il successivo regolamento.

4.3.1. La tratta delle bianche

Il pretesto è sempre quello di un buon posto di modista, di stiratrice e specialmente di serva... e in quest'ultimo caso il lenone (60) non mentisce pur sapendo di mentire (61).

La regolamentazione recava con sé più di una questione, se da una lato questa contribuiva al controllo sociale e sanitario di una parte della popolazione, dall'altro suscitava un malcontento diffuso sia tra le stesse prostitute, che rifuggivano quel controllo, alimentando le fila della prostituzione clandestina, sia tra gli oppositori al regime statale, che lo accusavano di inefficacia. Oltre a queste, rileva particolarmente quello della tratta delle bianche, uno dei problemi sollevati dal fronte abolizionista, con cui si denunciava il traffico nazionale, ma anche internazionale di ragazze, spesso minorenni, avviate alla prostituzione con l'inganno.

La questione venne alla luce sul finire del XIX secolo e si protrasse per i primi decenni del XX; al pari della campagna abolizionista, in cui si inseriva, affondava le sue radici fuori dei confini italiani (62): sarebbero degli anni Sessanta i primi documenti ungheresi a segnalare il traffico di donne in partenza dal Paese; in breve il problema assunse rilievo internazionale.

Per ciò che concerne l'Italia, verso gli anni Ottanta giungevano lamentele da Alessandria d'Egitto da parte di italiani lì residenti per l'eccesiva presenza di prostitute italiane; solo a seguito di ciò il governo si attivò per il rimpatrio delle ragazze minorenni e, successivamente, adottò misure di sorveglianza, con la particolare collaborazione dei prefetti delle città portuali, per ostacolare la partenza di altre prostitute, facendo appello al Regolamento che prescriveva l'autorizzazione dell'autorità di polizia per allontanarsi dalla residenza. Si auspicava un controllo vigile e costante per individuare e punire, in ossequio al rigore delle leggi, quanti aggiravano le giovani per poi farle prostituire.

Peculiare attenzione era rivolta ai traffici delle ragazze minorenni, le più soggette alle brame degli sfruttatori (63) perché più facilmente convincibili; questo dato risulta significativo poiché permette di considerare la questione per un altro aspetto: la campagna contro la tratta delle bianche era un mezzo per combattere la prostituzione non solo regolamentata, ma in generale perché si adoperava per "salvare fanciulle innocenti" (64). Il tema della redenzione delle prostitute emergeva tra alcuni abolizionisti (65) e, soprattutto, era auspicata dal filone proibizionista cattolico che con l'inizio della campagna contro la tratta moltiplicò le organizzazioni socialmente impegnate (66); si intuisce che queste avevano una visione della donna conforme al modello borghese e ben pensante del tempo.

Tra le più attive avversarie della tratta delle bianche vi erano le componenti dei movimenti per l'emancipazione femminile, che la combattevano unitamente alla lotta contro la regolamentazione, anche in ragione del fatto che le case di tolleranza erano un buon mezzo per il traffico delle ragazze (67). Le femministe fondarono anche nuove associazioni atte allo scopo, la più importante, nata nel 1901, era il Comitato Italiano contro la Tratta delle Bianche; anche questo operava, oltre per l'individuazione dei trafficanti, per il recupero delle giovani che volessero tornare a una vita normale. Le organizzazioni femministe e abolizioniste non erano le uniche ad occuparsi della questione, vi era, come si è detto sopra, un impegno anche a livello internazionale; la questione, infatti, era stata oggetto di un congresso tenuto a Londra nel 1899 cui erano stati invitati vari Paesi, compresa l'Italia che, però, non intervenne.

A questo punto è opportuno spiegare la posizione peculiare rivestita dall'Italia nella questione della tratta; come si è avuto modo dire, molti vedevano nelle leggi sulla prostituzione la causa del traffico di donne. Grazie anche alla sua posizione geografica, l'Italia si prestava ad essere un paese di transito per queste donne, qui giunte da varie parti d'Europa e dirette verso l'America Latina o verso l'Oriente (68); oltre a questo l'Italia stessa "esportava" ragazze sia verso gli altri paesi europei sia verso le coste della vicina Africa, è interessante notare come il mercato fosse ben ripartito: le ragazze del settentrione erano più facilmente trasferite via terra, quindi in Europa, mentre le ragazze del sud erano inviate verso Egitto e Tunisia (69); da questa serie di dati si evince che le ragazze italiane erano prevalentemente inviate là dove era forte la presenza di connazionali. Per capire meglio la situazione delle italiane all'estero, merita riportare l'esempio dell'Egitto e del Cairo dove la tendenza di queste giovani era poi quella di riunirsi in un medesimo quartiere, è d'obbligo ribadire che anche in questo caso si fa riferimento a dati reperiti mediante le registrazioni, quindi potevano esserci molte altre prostitute clandestine sparse per il resto della città. La situazione documentata (70) non mostrava la presenza di minorenni né di donne lì condotte con l'inganno o la forza; appare così una sorta di sfasatura tra quanto riportato nella documentazione ufficiale e quanto era diffuso nell'opinione generale, che si batteva contro la tratta.

Il sospetto che molte erano convinte a partire con l'inganno, allettate da prospettive di lavoro, era l'incentivo per la formazione di una collaborazione tra stati; questo l'oggetto di una conferenza internazionale, svoltasi a Parigi nel 1902, a cui parteciparono due rappresentati italiani, il professor Buzzati e il marchese Paulucci De' Calboli. L'obiettivo era l'individuazione di misure penali sul triplice piano legislativo, procedurale e amministrativo (71) che le nazioni avrebbero dovuto adottare per contrastare il traffico e lo sfruttamento delle donne.

Lo Stato italiano, dal canto suo, affrontò il tema in parlamento solo nel 1903, sebbene il sollecito per l'esecuzione degli accordi parigini, ad opera del deputato Socci, venne prontamente liquidato presentando come sufficiente la normativa esistente: oltre alle norme del codice penale, la legge sull'immigrazione conteneva una disposizione che puniva il "turpe traffico" (72). Tuttavia, come fece sapientemente notare Buzzati in una lettera al Corriere della sera (73), la suddetta legge non garantiva protezione alle donne che venivano portate nei possedimenti italiani in Africa poiché dal punto di vista giuridico non emigravano.

Le lacune giuridiche non riguardavano solo l'Italia, la campagna contro la tratta delle bianche proseguiva attivamente e il progetto del congresso di Parigi fu approvato concretamente nel 1910, in questa sede si definì in modo risoluto il reato di "tratta" per cui

doit être puni quiconque, pour satisfaire les passions d'autrui, a embauché, entrainé ou détourné, même avec son consentement une femme ou une fille mineure en vue de la débauche (74).

L'Italia, tuttavia, non ratificava la convenzione poiché vi era da parte dei giuristi una certa ostilità ad adeguare la nuova tipologia di reato allo schema generale del codice penale, se ne ricava una debolezza sistematica dell'autorità italiana nella lotta contro la tratta delle bianche. Questo, tuttavia, non impedì di attuare misure di controllo e prevenzione anche a livello locale.

La Polizia di Sicurezza era incaricata di svolgere le indagini sulla tratta in modo scrupoloso, in particolare dal 1913 quando una circolare ministeriale regolò gli interrogatori alle prostitute straniere che esercitavano sul territorio nazionale. Le domande rivolte, oltre ad accertare le generalità della persona e le cause della loro professione, servivano ad accertare se queste donne erano state indirizzate o accompagnate da qualcuno e a verificare se fossero state vittime esse stesse della tratta o avessero conoscenza, anche indiretta, di persone che la praticavano (75). Le dichiarazioni erano accuratamente riportate in appositi "foglietti di indicazione" (76), dai quali risultò che quasi tutte le ragazze interrogate erano giunte in Italia di loro iniziativa. Il lavoro degli agenti di polizia si estendeva anche alla sorveglianza speciale di porti, agenzie di collocamento o compagnie artistiche, ma non erano escluse altre forme di iniziative con le quali era facile attirare ragazze in cerca di lavoro. Le operazioni erano svolte anche in collaborazione con le autorità degli altri stati per meglio rintracciare i trafficanti.

Dalle considerazioni fin qui svolte, si desume che la tratta delle bianche era oggetto di un controllo sociale alquanto capillare; la campagna per la sconfitta del fenomeno era largamente diffusa tra gli abolizionisti, i quali seppero condurla in modo conforme ai tempi, conquistando larghi consensi nell'opinione pubblica. Tuttavia, da quanto emerge dall'attività della polizia e dai rapporti ufficiali, la questione non assumeva i toni della tragedia. Abolizionisti e femministe si battevano alacremente per un problema che, agli atti, risultava meno esteso di quanto reclamizzato dalla stampa e dai vari convegni (77), tornando utile anche ai regolamentazionisti: l'attenzione rivolta in modo enfatico alla campagna contro la tratta delle bianche distoglieva dalle critiche rivolte alle case di tolleranza.

Un ulteriore aspetto della lotta alla tratta che incontrava il favore dei regolamentazionisti lo si individua nel modo repressivo in cui veniva condotta: le istituzioni volte al recupero delle giovani prostitute, soprattutto d'ispirazione cattolica, di cui si è parlato, avevano l'ulteriore fine di mantenere sotto controllo la sessualità delle ragazze, in particolare delle più umili; il disciplinamento di queste ragazze rientrava pienamente nel progetto teorico di controllo delle classi pericolose che lo Stato perseguiva attraverso il potere della polizia (78). In questo modo, il sistema regolamentato poteva trarre dalla campagna contro la tratta delle bianche, un ulteriore contributo per la sua opera di governo delle prostitute.

Note

1. Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft anticiparono, tra il 1791 e il 1792, i tratti del movimento suffragista inglese, che si svilupperà a metà del 1800. Cfr. A. Verza, 2009, Le correnti femministe. Il difficile equilibrio tra eguaglianza e differenza, in Diritto e teoria sociale: introduzione al pensiero socio-giuridico contemporaneo, a cura di G. Campesi, I. Pupolizio, N. Riva, Carocci, Roma, p. 258.

2. Ivi, p. 259.

3. Cfr. A. M. Longo, 1980, Il femminismo laico (fine '800- inizio '900), in Riprendiamoci la storia! Momenti e biografia del femminismo in Italia, Unione Donne Italiane - Catanzaro (a cura di), Catanzaro 1982, p. 31.

4. Cfr. C. Ravera, 1978, Breve storia del movimento femminile in Italia, Editori Riuniti, Roma, p. 15.

5. Importante fu l'influenza di Josephine Butler, molto attiva soprattutto nella lotta alla prostituzione di Stato, fenomeno che interessava vari Paesi europei.

6. La questione del divorzio era affrontata dalle femministe con più esitazione per non porsi in aperto contrasto con la Chiesa, istituzione più utile come alleata.

7. Cfr. F. Pieroni Bortolotti, 1963 [1975], Alle origini del movimento femminile in Italia: 1848-1892, Giulio Einaudi Editore, Torino, p. 89.

8. Il movimento fu promosso da Mary Wollstonecraft ed Emmeline Goulden Pankurst e venne chiamato delle "Suffragette". Cfr. A. M. Longo, Il femminismo laico (fine '800- inizio '900), cit., p. 35.

9. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 57.

10. Cfr. T. Pitch, 1998, Un diritto per due, Il Saggiatore, Milano, p. 219; A. Verza, 2009, Le correnti femministe, cit., p. 262.

11. Cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 116; A. M. Longo, 1980, Il femminismo laico dal 1892 al 1925, cit., p. 44 e ss.

12. Con questa terminologia ci si riferiva, nel XIX secolo, al dibattito su rapporti tra i sessi nella società, nella politica, e nell'economia.

13. Cfr. A. M. Longo, Il femminismo laico dal 1892 al 1925, cit., p.56 e ss.

14. La storica Franca Pieroni Bortolotti nel suo Socialismo e questione femminile in Italia: 1892-1922, ha illustrato in modo accurato i diversi aspetti che hanno caratterizzato le influenze reciproche delle due ideologie. (Mazzotta, Milano, 2ª ed., 1976).

15. Che si tradusse anche in scontro personale con il compagno Turati.

16. E. Garin, 1962, La questione femminile nelle varie correnti ideologiche negli ultimi cento anni, in Società Umanitaria (a cura di) L'emancipazione femminile in Italia, Nuova Italia, Firenze, p.19.

17. Cfr. K. Dominijanni, 1980, Anna Maria Mozzoni. Il rapporto con i socialisti; l'ultima fase dell'attività politica, cit., p. 70.

18. Pubblicata il 15 agosto 1870, il testo rappresentò uno degli strumenti con cui il fronte abolizionista contrastava la regolamentazione.

19. Cfr. K. Dominijanni, Anna Maria Mozzoni. Il rapporto con i socialisti; l'ultima fase dell'attività politica, cit., p. 72.

20. L'elettorato attivo era stato esteso nel 1945. Cfr. K. Dominijanni, 1980, Anna Mozzoni. Il rapporto con i socialisti; l'ultima fase dell'attività politica, cit., p. 89.

21. E. Garin, La questione femminile nelle varie correnti ideologiche negli ultimi cento anni, cit., p. 29.

22. Cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 122.

23. Tra le prime femministe vi erano due modi di perseguire l'affermazione della donna: il ramo borghese auspicava un'uguaglianza scolastica, giuridica e politica, mentre il ramo socialista era più orientato a migliorare le condizioni economiche delle donne lavoratrici. Pieroni Bortolotti ha descritto questo cambiamento come un "passaggio dall'«emancipazionismo» del XIX secolo al «femminismo» del XX". Tuttavia questo non impedì una collaborazione che portò alla nascita di un movimento unitario riconosciuto anche in parlamento. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 92.

24. Cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 121.

25. Ivi, p. 125 e ss. La Kuliscioff era legata al Lombroso da rapporti di amicizia, tale dato rileva sia per l'incidenza sulle affermazioni dello scienziato, che non ignorò le opinioni della socialista, come emerge dalla Donna delinquente, sia per le influenze che il socialismo ebbe in generale sui positivisti.

26. Come nel caso di Vita Femminile, organo di promozione degli interessi femminili. Cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit. p.125.

27. Ivi, p. 116.

28. Ivi, p. 115.

29. Una delle prime donne italiane laureate in giurisprudenza, visse personalmente le restrizioni sociali e lavorative imposte alle donne poiché in Italia l'esercizio della professione forense fu loro precluso fino al 1919. Cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 122 (nota).

30. Ivi, p. 117.

31. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 57 e ss.

32. La prostituzione era socialmente giustificata come necessaria per sfogare istinti che, se incontrollati, avrebbero potuto causare abusi più gravi.

33. Di cui si parlerà ampiamente nel paragrafo successivo.

34. Come è stato ben ricostruito da R. Macrelli nel citato testo, L'indegna schiavitù.

35. Cfr. Ivi, p. 114.

36. S'intende, ovviamente, il Regolamento Cavour.

37. R. Macrelli, L'indegna schiavitù, cit., p. 67 e 74.

38. L'attivista italiana era stata interrogata dalla Butler sullo stato della prostituzione in Italia. Cfr. Ivi, p. 61 e ss.

39. Ivi, p. 65.

40. Fondatrice della rivista femminista La Donna, nei suoi articoli usò spesso toni di solidarietà verso le prostitute. Ivi, p.101.

41. Ivi, p. 115.

42. Da cui nacque lo scioccante libro La miseria in Napoli.

43. Jessie White Mario in R. Macrelli, L'indegna schiavitù, cit., p. 108.

44. Ivi, p. 146.

45. Il primo autore maschile, fino a quel momento, di un testo sulla condizione femminile: La donna e la scienza considerate come soli mezzi atti a risolvere il problema dell'avvenire. Cfr. R. Macrelli, L'indegna schiavitù, cit., p. 51. Morelli non fu l'unico a prendere a cuore la questione della prostituzione; merita ricordare Agostino Bertani, proselito della Mozzoni, che scrisse al deputato Depretis una lettera-opuscolo, intitolata La prostituzione patentata e il regolamento sanitario. Lettera ad Agostino Depretis, dai toni accesi e diretti dove si avverte chiaramente il sentimento femminista della Mozzoni.

46. S. Morelli, in R. Macrelli, L'indegna schiavitù, cit. p. 54.

47. Ivi, p. 177.

48. Ivi, p. 180.

49. Il riferimento è all'art. 185 del Codice Civile. La Mozzoni riteneva questo punto estremamente rilevante tra le cause della prostituzione, che ritorna frequente nella sua campagna abolizionista; inoltre questo aspetto conferma l'inscindibilità della lotta per il riconoscimento dei diritti civili da quella rivolta all'abolizione della prostituzione regolamentata. Cfr. R. Macrelli, L'indegna schiavitù, cit.

50. Ivi, p. 135.

51. E' da notare che la prima commissione d'inchiesta fu nominata da Rattazzi nel 1862.

52. Cfr. R. Canosa, Sesso e Stato, cit., p. 49 e ss; R. Macrelli, L'indegna schiavitù, cit., p. 145 e ss.

53. Per un migliore svolgimento, il congresso fu diviso in sezioni riguardanti ognuna un aspetto. La Mozzoni era nella sezione legislativa, mentre la Mario in quella d'igiene. R. Macrelli, L'indegna schiavitù, cit., p. 146.

54. Cfr., Ivi, p. 147.

55. Ivi, p. 148.

56. Villa ha descritto la prostituzione come un "elemento interno al quadro generale del pauperismo". R. Villa, La prostituzione come problema storiografico, cit., p. 305.

57. Ivi, p. 180.

58. Un esempio viene dal Congresso di Parigi del 1878 che, trattando della questione femminile, si pone in prosecuzione del precedente svizzero.

59. Si fa riferimento alla Commissione Nicotera, incaricata dal Primo Ministro Depretis a svolgere un rendiconto esatto del funzionamento del Regolamento Cavour. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 69.

60. Procacciatore d'amori illeciti, favoreggiatore della prostituzione, sfruttatore di prostitute (Devoto-Oli, 2008, Vocabolario della lingua italiana, Le Monnier, Milano). Per la legge penale del tempo si considerava lenone "chi per servire all'altrui libidine induce alla prostituzione una persona minorenne o ne eccita la corruzione [...] e il fatto di chi costringe a prostituirsi persone maggiorenni". Codice Penale Italiano (1889), Codice penale italiano annotato, a cura di Eugenio Pincherli, Fratelli Bocca Editori, Torino 1890, p. 478-479.

61. R. Paulucci De' Calboli (1902), La tratta delle ragazze italiane, in "Nuova Antologia", p. 418 e ss.

62. Cfr. R. Canosa, Sesso e Stato, cit., p. 87; M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 88.

63. Va precisato che i trafficanti non erano solo uomini, talvolta erano coinvolte donne, tra cui le tenutarie.

64. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 89.

65. Cfr. Ibidem; R. Macrelli, L'indegna schiavitù, cit., p. 149; G. Greco, Lo scienziato e la prostituta, cit., p. 67.

66. Oltre ai gruppi associati, con l'espansione della prostituzione come problema sociale, molti istituti, sorti al tempo della Controriforma, perseguivano tra gli intenti caritatevoli il recupero delle prostitute. I più famosi erano L'Asilo Mariuccia di Milano, La casa del Buon Pastore di Bologna e il Pio Monte della Misericordia di Napoli. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 89 e ss.

67. Vedi cap. 3, nota 192.

68. Cfr. R. Canosa, Sesso e Stato, cit., p. 90.

69. Cfr. R. Paulucci De' Calboli, La tratta delle ragazze italiane, cit.

70. In un rapporto del regio Agente italiano al Cairo, inviato nel 1903 al ministero degli esteri. Cfr. R. Canosa, Sesso e Stato, cit., p. 94.

71. I lavori della convenzione erano volti all'individuazione precisa del reato di "tratta" e delle vicende ad esso connesse in termini di competenza, rogatorie e processi, oltre che alle misure di sorveglianza ad opera della polizia. Cfr. R. Canosa, Sesso e Stato, cit., p. 91.

72. Ivi, p. 92. La figura del delitto di tratta (di donna minorenne) venne prevista per la prima volta con la Legge sull'emigrazione del 31 gennaio 1901, n. 23.

73. I quotidiani davano molto spazio al tema della tratta delle bianche e molti erano i personaggi di rilievo che li sceglievano per pubblicare le loro opinioni a riguardo.

74. Ivi, p. 93.

75. Cfr. R. Canosa, Sesso e Stato, cit., p. 94.

76. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 99.

77. Cfr. R. Canosa, Sesso e Stato, cit., p. 95.

78. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 102.