ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 2
Saperi criminologici e di polizia

Maria Cristina Acri, 2010

2.1. L'antropologia criminale e il delinquente nato: Lombroso e la scuola positiva

L'approccio alla natura dei crimini mutò dalla concezione classica del crimine verso un senso più soggettivo concentrando, di conseguenza, l'attenzione sull'autore del delitto, in particolare si iniziò a indagare la relazione tra quel comportamento criminoso e l'indole del soggetto. Dalla connessione psicologica, che identificava il delinquente con l'anormale, si arrivò ad una ricerca ancor più radicale volta a rintracciare i segni della criminalità sul corpo stesso del reo, tale tipo di indagine caratterizzò la scienza penalistica italiana del XIX secolo e di parte del XX.

Il diverso e nuovo approccio alla questione criminale nacque, infatti, nella seconda metà dell'Ottocento, epoca influenzata da un generico positivismo e dalla ricerca improntata alla raccolta di dati empirici. Fu in un simile clima che prese vita la Scuola positiva alla quale si deve il diffondersi delle teorie antropologiche in campo penale, queste prendevano spunto da una base di "atavismo biologico a sfondo degenerativo" (1) che fino allora non era stato analizzato in modo tanto accurato e meticoloso. Promotore di queste dottrine fu Cesare Lombroso (2), medico piemontese grande sostenitore della ricerca empirica. Egli subì le influenze di studiosi francesi, quali Morel (3) e Parent-Duchatelet, e prese le mosse dallo studio medico ed antropologico di una vasta serie di soggetti devianti, che va dai delinquenti ai pazzi, nei quali si riscontrano caratteri degenerativi primitivi indice di un arresto evolutivo.

Cesare Lombroso avviò giovanissimo le sue ricerche scientifiche: laureatosi in medicina all'Università di Pavia nel 1858, non esitò l'anno seguente ad arruolarsi come medico volontario dell'esercito rivoluzionario allo scoppio della Seconda guerra d'Indipendenza, inviato di guarnigione in Calabria, oltre alle sue funzioni cliniche ebbe modo di effettuare molti studi, compresi di misurazioni, su un vasto numero di soggetti.

L'idea fondante di tutto il suo lavoro criminologico gli venne (nel 1871) eseguendo l'autopsia di un brigante calabrese, Giuseppe Villella, fu l'analisi del cranio ad illuminarlo: esso presentava una fossetta alla base e un segmento dilatato del midollo spinale nella parte inferiore, inoltre l'assenza della cresta occipitale era qui sostituito da una cavità di dimensioni non trascurabili indice di un arresto allo stadio fetale dell'encefalo, particolarità tanto primitiva da non essere presente nemmeno nelle scimmie (4); Lombroso associò, infatti, tutti quei dettagli ad alcune "razze inferiori" (5) dell'America latina. Tale intuizione segnò l'inizio di una serie di studi analitici e di misurazioni su soggetti che presentavano fattezze ritenute analoghe a quelle dei soggetti classificati come sottosviluppati.

Il concetto di atavismo fu determinante nella riflessione di Lombroso, in base a questo si sosteneva l'idea che "esistessero individui nei quali lo sviluppo si arrestava a uno stadio anteriore rispetto allo sviluppo della specie umana" (6) queste caratteristiche permettevano di identificare come naturalmente devianti i criminali; le considerazioni fatte fanno bene notare come le anomalie comportamentali venissero ricondotte ad una struttura organica viziata anziché ad atti della volontà.

Anche il contesto storico e sociale in cui Lombroso iniziò i suoi studi era di notevole contributo a tale concezione: le rivolte contadine delle campagne meridionali sorte a seguito dell'Unità d'Italia avevano come protagonista povera gente che aveva visto disattese le proprie aspettative, si trattava di persone esasperate e per lo più prive di cultura le quali cercavano di far valere i propri diritti con atti sovversivi. L'incapacità di Lombroso di capire a fondo le ragioni dei contadini e i modi rozzi dei tumulti acuirono l'interesse dello scienziato per questi individui e giustificò i loro atti criminosi comparandoli alle tendenze dei popoli primitivi (7). Le analisi svolte dal medico piemontese si espansero, tra i soggetti presi in esame rientrarono anche gli ospiti del manicomio di Pesaro e vari altri detenuti dei penitenziari. Tutti sottoposti alle misurazioni più disparate attraverso le quali lo scienziato doveva dimostrare la connessione tra degenerazione morale e fisica; per tale ragione oggetto di stima erano: la statura fisica, le dimensioni del cranio, la determinazione del peso, ma anche l'esame di cute, capelli, peli, unghie, dentatura ed un'accurata osservazione fisiognomica. Elementi che combinati tra loro portavano a dedurre le peculiarità di quei soggetti criminali e che, proprio a causa di tali caratteri si somigliavano tutti, venivano classificati come biologicamente sottosviluppati.

L'atavismo si rese funzionale alla convinzione che la natura criminosa dovesse necessariamente essere intrinseca nell'individuo portato a delinquere, da qui deriva l'idea del delinquente nato (8). Questo soggetto era dotato di peculiari tratti somatici e caratteriali che Lombroso descrisse abbondantemente nel suo Uomo delinquente (9), tra le caratteristiche più evidenti annoverò:

La scarsezza dei peli, la poca capacità cranica, la fronte sfuggente, i seni frontali molto sviluppati [...] lo spessore maggiore delle ossa craniche, lo sviluppo enorme delle mandibole e degli zigomi [...] la pelle più scura, il più folto e arricciato capillizio, le orecchie voluminose [...] la completa disvulnerabilità morale, l'accidia, la mancanza di ogni rimorso, l'impulsività, l'eccitabilità fisiopsichica e soprattutto l'imprevidenza [...] (10).

Nel corso delle indagini la categoria del delinquente nato si sviluppò notevolmente tanto da essere in seguito affiancata da altri gruppi di soggetti delinquenti, la nuova ripartizione prevedeva il "delinquente pazzo" e il "delinquente per passione", il primo poteva presentare tratti comuni agli altri anormali ma necessitava di un trattamento specifico mentre il secondo si distingueva per un facile pentimento del delitto commesso cui era stato spinto da una temporanea perdita di controllo delle proprie emozioni. Si aggiunsero altre suddivisioni nella tipologia dei delinquenti pazzi identificando il "delinquente alcolista", portato a delinquere dal suo stato di ubriachezza e per questo poteva non presentare un alto numero di anomalie, l'impulsività dell'alcolista era sì analoga a quella del delinquente nato ma il primo agiva in uno stato di semi incoscienza; il "delinquente isterico", caratterizzato più spesso da un alto livello di egoismo e di suscettibilità che da una patologia mentale vera e propria, molti degli isterici si individuavano tra le donne; il "mattoide" che rappresentava l'insieme di soggetti instabili ma non interamente pazzi (11).

Attraverso queste distinzioni non prettamente anatomiche, Lombroso si avviò verso una trattazione psicologica della devianza, orientamento in seguito ampliato dai suoi successori.

Sia per rispondere alle critiche mosse dagli avversari sia per influenza dei collaboratori la categoria originaria del delinquente nato divenne solo una delle molteplici sfaccettature in cui si articolava il mondo criminale; notevole fu anche il crescente rilievo dei fattori ambientali nella descrizione della devianza, un esempio era offerto dal "delinquente d'abitudine" che inquadrava i recidivi, soggetti che avevano raggiunto la depravazione del delinquente nato a causa delle pressioni ambientali cui erano sottoposti e cui non erano capaci di resistere: proprio su questi soggetti era più evidente l'influenza dell'ambiente, apparendo il loro corpo come "inevitabilmente sottomesso alle passioni brutali e alle reazioni di violenza" (12).

S'intuisce come nel corso dei suoi studi Lombroso dovette modificare la sua posizione fino a riconoscere che la teoria dell'atavismo non si prestava a spiegare la compresenza di anomalie plurime in tutti i soggetti catalogati come delinquenti nati; lo scienziato iniziò a vedere in molti degli individui esaminati una compresenza di pazzia morale, epilessia e atavismo, quest'ultimo assumeva nuovo rilievo se combinato con la degenerazione morale tipica della follia.

Nella sua esposizione Lombroso non tralasciò di occuparsi del trattamento che si doveva riservare alla vasta serie di delinquenti, suggerì infatti una dettagliata valutazione delle punizioni più idonee a ciascun gruppo di criminali. Egli sosteneva che le pene dovessero essere personalizzate e non riferirsi genericamente ai reati, la loro erogazione era lasciata alla valutazione dei giudici.

Una simile impostazione si sganciava dalla concezione classica che da Beccaria aveva caratterizzato il sistema punitivo; la cesura apparve netta quando Lombroso arrivò a sostenere la pena di morte per i delinquenti nati, almeno di quelli responsabili di crimini efferati e che minacciavano la sicurezza statale, mostrando così di venire meno anche alle convinzioni che aveva da giovane. La spiegazione che ne dava era fondata sull'inadeguatezza di certi delinquenti nati a conformarsi alla società, poiché si confaceva loro lo stato di bestie feroci non meritavano pietà e attraverso la loro eliminazione fisica si anticipava la selezione naturale (13). Per gli altri delinquenti nati, i delinquenti abituali e quelli pazzi era suggerita la segregazione perenne, per i primi era opportuno l'isolamento in luoghi lontani dalle città e la condanna ai lavori forzati, mentre per gli ultimi l'esilio doveva avvenire in appropriati manicomi dove era possibile sottoporli a cure terapeutiche. La detenzione non era l'unica alternativa tra le pene, Lombroso si mostrò anche favorevole a sanzioni alternative come i servizi svolti in favore della comunità, le multe o gli arresti domiciliari, misure che apparivano più idonee ai delinquenti meno pericolosi.

I successori

Le dottrine divulgate da Lombroso ebbero grande risonanza attirando alla scuola positiva numerosi seguaci; tra gli esponenti più noti si ricordano Enrico Ferri e Raffaele Garofalo. I due studiosi, con il promotore, sono ritenuti i capostipiti della Scuola positiva.

Il primo, pur appartenendo alla generazione successiva a quella di Lombroso, collaborò strettamente col maestro divenendo il sostenitore più famoso (14) delle sue dottrine. Ancora prima di conoscere Lombroso, Ferri si era posto in contrapposizione alla concezione classica: già nella sua tesi in giurisprudenza criticava l'idea di libero arbitrio e affermava che i soggetti non avessero una responsabilità morale per il loro comportamento perché l'agire era in qualche modo obbligato, di conseguenza nel giudicare i delinquenti per i loro crimini era necessario guardare alla loro "imputabilità legale"; la punizione era perciò spiegata in termini di difesa sociale e non di sanzione morale (15).

La sua formazione giuridica contribuì a rendere più sistematica la classificazione dei delinquenti fatta da Lombroso; uno degli apporti più significativi del Ferri fu, senza ombra di dubbio, la creazione della espressione "delinquente nato"; egli si distinse, inoltre, per una visione meno rigorosa sostenendo l'influenza positiva di un ambiente idoneo sulla vita di un delinquente nato e mostrandosi altrettanto favorevole nei confronti di una possibile rieducazione (16). A simili conclusioni Ferri giunse dopo aver creato una propria classificazione, ordinata secondo il grado di temibilità iniziando dal "delinquente d'occasione", ritenuto relativamente innocuo, cui seguivano il "delinquente per passione", i "criminali abituali", per lo più delinquenti d'occasione spinti alla reiterazione criminale a causa dell'ambiente sfavorevole, i "delinquenti pazzi" ed infine i "delinquenti nati". Una simile suddivisione rientrava in quella che lo stesso Ferri definì "sociologia criminale" (17), più orientata, ma anche più adeguata della giurisprudenza, a rintracciare il perché di un reato e ancor più di un crimine efferato, cercando in tal modo di dare una dimensione sociale all'indagine criminologica.

Raffaele Garofalo, quasi coetaneo di Ferri, pur essendo tra i fondatori della scuola positiva, si differenziò dai colleghi, specie dal Lombroso, per la maggior cautela mostrata nell'accettare una singola specie atavistica (18) e per la maggiore omogeneità nella classificazione dei delinquenti basandosi sul grado di predisposizione di ciascun delinquente al crimine (19); questo gli valse il merito di aver centrato il programma positivista di riforma penale sulla misurazione della pericolosità. Nella sua idea di criminale era tale ogni comportamento che l'intera opinione pubblica avrebbe censurato.

Più netta la sua posizione sulle sanzioni penali, Garofalo si schierò, a differenza dei colleghi, a favore della pena di morte per i delinquenti più efferati, i quali erano ritenuti affetti da una immoralità permanente e per tanto immeritevoli di pietà alcuna. La presenza di anomalie minori, invece, permetteva l'irrogazione di misure adeguate al grado di infermità; per cui Garofalo suggeriva l'internamento i colonie agricole isolate per i criminali pericolosi, pur mostrandosi scettico verso un loro pieno recupero: a suo avviso, infatti, questo era possibile solo per i bambini. In caso di anomalie temporanee, come potevano essere la pazzia e l'alcolismo, l'isolamento avveniva in strutture mediche per il tempo necessario alla guarigione. Per i rei meno pericolosi socialmente era sufficiente un'ammenda o un lavoro socialmente utile, nel loro caso l'internamento nella prigione avrebbe potuto degradare la loro condizione.

Le teorie antropologiche segnarono notevolmente l'inizio del XX secolo, per la loro natura multifattoriale si attirarono critiche e si posero in netta contrapposizione alla scuola classica (20) dando vita ad un ampio e interessante dibattito sociale.

2.2. L'antropologia criminale al femminile

Fin dal principio gli studi degli antropologi criminali si concentrarono essenzialmente su delinquenti di sesso maschile, sia per l'elevato numero di soggetti da prendere in esame sia perché la criminologia e la sociologia storicamente hanno avuto come tipico oggetto d'indagine i comportamenti maschili (21), inoltre la devianza femminile era scarsamente considerata per la minor risonanza che aveva l'aggressività delle donne. Il carattere deviante delle donne emergeva negli studi scientifici con maggior riferimento alla follia e alla prostituzione, ma tali anomalie comportamentali non erano sufficienti a spiegare la criminalità femminile. I positivisti tentarono di estendere gli stessi risultati delle loro ricerche sui delinquenti alle donne senza ottenere risultati positivi: sul finire dell'Ottocento Lombroso e colleghi si resero conto che i medesimi dati relativi al delinquente nato (e relative tipologie) non erano estendibili alla delinquenza femminile, fenomeno che fu avvertito in aumento proprio tra il 1890 e il 1914 ma le statistiche mostravano in realtà variazioni irrisorie. Ciò che concretamente colpiva, attirando l'attenzione dei criminologi, era l'ingente numero di donne condannate per crimini violenti (22).

L'attenzione che le donne attirarono su di sé era influenzata dal progresso industriale e sociale che segnò la fine del XIX secolo, la modernizzazione mutò il ruolo della donna aprendole le porte del lavoro nelle fabbriche. Negli stessi anni iniziarono ad avanzarsi richieste di parità di diritti, ma l'inferiorità della donna rispetto l'uomo era ancora sancita dal Codice Pisanelli del 1865 che negava l'uguaglianza davanti alla legge e sottometteva la moglie al marito.

La classificazione delle donne avveniva dunque sulla base del loro rapporto con gli uomini, ne conseguivano atteggiamenti sospettosi verso quelle che mostravano una certa indipendenza; più che per la loro aggressività spaventavano perché con la loro autonomia rappresentavano il simbolo del disordine sessuale. In parallelo sorsero movimenti di emancipazione femminile che avversavano queste catalogazioni di subordinazione e contrastavano le consuete classificazioni di "normalità" e "devianza"; per controbattere i criminologi positivisti crearono una serie di standard psico-fisici cui doveva corrispondere la donna normale (23).

Tutte queste considerazioni intorno all'universo femminile, come stava evolvendosi, vennero ad alimentare l'interesse degli antropologi criminali e sebbene lo stesso Lombroso avesse già fatto alcuni accenni alla devianza femminile nell'Uomo delinquente sotto forma di comparazione tra delinquenti maschi e delinquenti femmine, approfondì gli studi sulle donne prendendo spunto da quelli del francese A. Parent-Duchatelet sulle prostitute. Questi erano corredati di misurazioni, descrizioni somatiche e riferimenti ambientali, tali dati consentirono a Lombroso di formare la propria concezione sulla donna prostituta definendola "antropologicamente simile alla donna delinquente" (24), tale argomentazione divenne il nucleo fondamentale del suo futuro saggio, scritto in collaborazione con Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale (25) nel quale si ribadiva la teoria del delinquente nato mettendo in luce il carattere di accentuata eccezionalità del carattere criminale femminile: come i criminali maschi rappresentavano un'eccezione nella civiltà, le donne criminali erano eccezione tra i criminali stessi e proprio questa duplicità d'eccezione era ritenuta dall'autore ancor più mostruosa. I dati reali, secondo i quali il tasso di criminalità femminile risultava inferiore a quello maschile, tendevano a confutare quanto sostenuto in termini di inferiorità femminile. Lombroso ne La donna delinquente tentò di dimostrare che la minor delinquenza delle donne era conseguenza proprio della loro inferiorità; per dare prova scientifica di quanto sostenuto prese in esame principalmente tre gruppi di donne: delinquenti, prostitute e "normali", cioè osservanti la legge.

La metodologia d'indagine pratica seguita dai positivisti era, per gli studi su queste donne, la medesima adottata per gli uomini: attraverso numerose misurazioni delle varie parti del corpo e test di sensibilità si documentarono l'inferiorità fisica, morale e intellettuale delle donne.

L'inadeguatezza era giustificata principalmente dalle dimensioni ridotte del corpo, ma anche laddove si era in presenza di misurazioni maggiori rispetto le maschili le si interpretava in chiave di sottosviluppo. Gli antropologi interpretavano, ad esempio, la presenza di un tronco più lungo di quello degli uomini come segno di infantilismo perché tale caratteristica era tipica dei bambini; a tal proposito Lombroso stesso definì le donne come "bambini grandi" (26).

I test sulla sensibilità, in particolare, erano condotti mediante elettrodi applicati a varie parti del corpo cui si inviavano scariche elettriche, le parti solitamente esaminate erano mani, dita e lingua per la sensibilità tattile, mentre per quella elettrica si prendevano in considerazione anche fronte, nuca, naso, ventre, seno, cosce e persino clitoride; data la particolarità degli esami e la eterogeneità dei gruppi di donne sottoposte ad analisi non era possibile estendere a tutte l'esame delle singole parti (27). Anche per questo motivo i risultati raccolti difettavano di una certa attendibilità, tuttavia gli studiosi ne dedussero una minore sensibilità femminile, contrariamente alla tendenza stereotipata che voleva le donne più emotive.

Gli antropologi criminali evitarono di fornire dati matematici per l'ambito della sensibilità sessuale sebbene non mancarono contributi di altro tipo, come quello di Sergi (28) che affermò che la scarsa sensibilità delle donne era rinvenibile anche nella sfera sessuale; per suffragare le sue affermazioni fece rifermento persino a Darwin, il quale nei suoi studi aveva appurato negli animali un desiderio sessuale delle femmine inferiore a quello dei maschi, da qui deduceva che dovesse accadere la stessa cosa per la specie umana.

Si evince come i dati inerenti la sensibilità sessuale, contrariamente a quelli sulla sensibilità generale, derivavano da comparazioni col mondo animale o con i selvaggi, in questo caso si metteva in risalto la maggior modestia sessuale delle donne civilizzate; le osservazioni difettavano di riscontri concreti ma si fondavano prevalentemente sull'osservazione di costumi socialmente diffusi.

L'intera serie di analisi svolta sulle donne era per gli antropologi criminali funzionale a dimostrare la subordinazione della natura femminile. Il nesso era spiegato con semplicità: l'inferiorità esteriore era indice di inferiorità interiore, intellettuale e psicologica; le dimensioni ridotte del cranio e un cervello di scarso peso, quindi, stavano ad indicare la scarsa intelligenza.

Tali conclusioni, riportate doviziosamente ne La donna delinquente, non permettevano di spiegare un'evidente contraddizione tra la dichiarata inferiorità delle donne e il ridotto tasso di criminalità femminile; gli studiosi ricercarono una giustificazione proprio nella stessa passività femminea asserendo che una simile condizione impediva loro di raggiungere il livello intellettuale degli uomini ed anche i baratri atavistici tipici del delinquente nato. Altro fattore che contribuiva alla minore rilevanza della delinquenza femminile era la scarsa visibilità dei delitti commessi dalle donne, di conseguenza restando più facilmente nascosti era naturale una sottostima della criminalità femminile; proprio quest'argomentazione persuadeva i positivisti riguardo "la duplicità e la reticenza innate della natura femminile" (29).

La donna delinquente si poneva in un piano intermedio tra l'uomo delinquente e la donna normale: nonostante fosse meno deforme della controparte maschile, la donna delinquente presentava una maggiore crudeltà; di ciò erano fermamente convinti Lombroso e Ferrero supportati dal fatto che la delinquenza era un'attività aberrante per natura, ma più di ogni altra cosa era prettamente maschile. Un'ulteriore caratteristica della crudeltà delle donne delinquenti fu rinvenuta da Ferrero nella loro attitudine "non tanto a distruggere il nemico quanto a infliggergli il massimo dolore, a provarlo, martoriarlo e paralizzarlo con la sofferenza" (30).

Il ritratto che viene fuori della donna delinquente mostra come essa fosse al tempo stesso portatrice dell'amplificazione delle caratteristiche peggiori delle donne in generale, ma questa aveva anche molto in comune con gli uomini come l'audacia, la scarsa indole materna, la propensione ai piaceri dissoluti e ai vizi, nonché la forza fisica. Anche l'intelligenza poteva apparire come un tratto negativo, lo si percepiva bene quando gli antropologi cercavano di giustificare il successo di molte donne affermatisi in quel tempo sul piano sociale e letterario, sovente essi mettevano in luce una certa virilità del loro aspetto (31).

Malgrado la pessima immagine che sortiva, furono gli stessi criminologi positivisti a cercare di temperare le affermazioni ribadendo il fatto che la maggior parte delle donne che infrangevano la legge erano delinquenti d'occasione; queste più di altre subivano le influenze dell'ambiente circostante, inoltre la loro natura debole e suggestionabile favoriva l'istigazione al crimine da parte degli uomini, in tal caso si trattava di reati minori contro la proprietà.

Le differenze tra uomo delinquente e donna delinquente sembrarono non influire più di tanto sul sistema penale come dimostrò il Codice Zanardelli che implicitamente riconosceva ai due sessi una uguale capacità di distinzione tra bene e male, sebbene vi fossero delle differenze nella misura delle pene per reati come l'adulterio e l'aborto volte non tanto ad una maggiore tutela giuridica della donna, quanto alla tradizionale concezione sul diritto dell'uomo a preservare l'onore della famiglia. La legge nel decidere sull'imputabilità della donna doveva tener conto, secondo le teorie di molti positivisti, dell'instabilità della natura femminile, ossia si richiedeva un'interpretazione della stessa in termini biologici poiché molte delle condotte tenute erano poste in essere in stati che alteravano la personalità della donna, come ad esempio la gravidanza.

Peculiare fu il contributo di Ellero il quale concentrò l'attenzione sull'utero ritenuto il principale responsabile dell'agire femminile, egli infatti affermava esplicitamente che "il problema della donna risiedeva nell'utero che «domina l'intero organismo», rendendo le ossa e i tessuti deboli e la sensibilità «mobile, impetuosa»" (32). Queste connotazioni ribadivano l'inferiorità biologica delle donne e la conseguente incapacità a compiere scelte morali, in aggiunta sottolineavano il ruolo centrale ricoperto dalla sessualità nell'analisi positivista sulla donna delinquente; ne conseguiva una serie di reati a carattere "femminile" quali l'aborto, l'infanticidio e la prostituzione, quest'ultima tipologia di reato venne anche definita come la manifestazione più completa della degenerazione femminile (33).

2.2.1. La donna prostituta: deviante per eccellenza

La scuola positiva tenne sempre in alta considerazione la rilevanza della sessualità nel contesto sociale del tempo: il contributo di Lombroso attraverso La donna delinquente rappresenta il passaggio dalla pudicizia sessuale di fine XIX secolo alla nascita della sessuologia. Partendo dal presupposto che l'impulso sessuale sfrenato è indice d'involuzione, si comprende l'incidenza dell'erotismo sul comportamento delle donne delinquenti, risultando pressoché naturale l'assimilazione della prostituzione alla devianza, elevando così la percentuale di donne devianti più di quanto era realmente, e alla criminalità; sebbene esistessero già misure di controllo sociale per cui le prostitute erano schedate dalla polizia in ragione della loro condotta e non per la loro indole, l'affermazione di Lombroso per cui "davanti alla pubblica opinione, le prostitute dovrebbero contarsi tra la popolazione criminale" (34) assumeva una connotazione più ampia e una rilevanza maggiore poiché si riferiva all'identificazione biologica della prostituta col criminale, entrambi duri di cuore, privi di senso morale e votati precocemente al male. La prostituzione era per la donna ciò che il crimine era per l'uomo, di conseguenza, al pari del delinquente nato la donna prostituta rappresentava la regressione più profonda del genere femminile, in lei i segni dell'atavismo erano espliciti e trovavano conferma nelle comparazioni con le popolazioni primitive e selvagge dove, osservò Lombroso riprendendo il Sergi, era più frequente trovarvi una prostituta piuttosto che un'assassina (35). In conformità a queste affermazioni i positivisti vedevano nell'istituzione matrimoniale e nella maternità le soluzioni più conformi all'appagamento dell'istinto sessuale femminile, era pensiero comune che nella donna normale l'amore materno superasse l'amore maritale sublimando il bisogno sessuale (36).

La lettura antropologica della prostituzione fu illustrata in modo esaustivo da Lombroso nel testo, scritto con Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, già dal titolo dell'opera è possibile intuire la meticolosità usata dagli autori nell'eseguire l'indagine sulla donna prostituta. Compirono numerose misurazioni di varie parti del corpo, che andavano dalla più generica statura alla più minuziosa peluria, e svariati test sulla sensibilità per sostenere l'inferiorità biologica della donna prostituta rispetto alle altre, incluse le delinquenti nate; come molti criminali le donne prostitute presentavano tratti fisici che le distinguevano, quali fronte stretta o sfuggente, cranio di dimensioni ridotte, prominenza degli zigomi, bassa statura, braccia corte; in comune con le altre delinquenti avevano spesso occhi e capelli scuri, ma più folti.

Nei test di misurazione della sensibilità si evidenziò una maggiore ottusità del tatto, del gusto e dell'olfatto; stupì la scarsa sensibilità rilevata nel clitoride: questo dato si poneva in apparente contraddizione con la più comune teoria secondo la quale le donne prostitute, al pari delle donne selvagge, fossero dotate di una sessualità più sfrenata.

Sull'esempio di Lombroso, altri criminologi intrapresero studi analoghi sulle prostitute e molti dei risultati confermavano le teorie del maestro; venne fuori un quadro specifico della donna prostituta: dalle osservazioni di Ciuffo e Mantegazza (37) le prostitute risultarono essere quasi tutte frigide o ninfomani, perciò ancor più deplorevoli perché, specialmente le prime, erano considerate più inclini a pratiche sessuali anormali come omosessualità e masturbazione. Oltretutto simili predisposizioni davano prova ulteriore dell'involuzione delle prostitute, ponendole in antitesi con la maggior parte delle donne normali che sublimavano i loro istinti sessuali nella maternità.

Non mancarono incongruenze nei risultati ma queste vennero interpretate sempre in modo da sostenere le tesi di partenza, ad esempio Moraglia (38) giustificò la somiglianza della bocca delle prostitute a quella delle donne normali, più che a quella delle delinquenti, avallando il pensiero di Lombroso per cui le vere anomalie delle prostitute erano celate da un aspetto gradevole, inoltre questo era funzionale ad attirare l'attenzione degli uomini e la vera natura selvaggia si rivelava durante l'atto sessuale.

La sessualità era una chiave di lettura fondamentale nell'analisi della scuola positiva sulla donna prostituta; gli studi eseguiti e le teorie esposte trovarono ampio seguito nel corso degli anni anche in forme più sviluppate come fu la "scuola costituzionalista" (39), la quale integrava i dati delle misurazioni del corpo sulla base del loro rapporto con le funzioni ghiandolari, mostrando la rilevanza degli ormoni nella determinazione fisica e psichica degli individui. Come già aveva fatto Ellero, sostenendo la centralità dell'utero nella determinazione della personalità femminile, Vidoni affermò che l'agente indiscusso nella formazione del comportamento della donna normale fosse la tiroide, mentre la donna prostituta era guidata dall'apparato genitale; tale condizione, definita "iperovarismo", creava disordini ormonali e propensione alla mascolinità, per cui questa categoria di donne mostrava una certa forza fisica, precocità sessuale e mancava di sentimenti materni.

Altro assertore del determinismo biologico fu Di Tullio che, sul finire degli anni Venti, rielaborò la categoria del delinquente eliminando molte delle suddivisioni interne arrivando a definire la "vera prostituta" quale controparte del "vero delinquente" (40), riprendendo molte delle note dei primi positivisti ne tracciò un ritratto eloquente:

Le vere prostitute presentano caratteri somatici di rozzezza, scarsa sensibilità al dolore, ipoalgesia tegumentale, debolezza intellettuale, freddezza emozionale ed anestesia morale, e sono quindi prive di senso del pudore, sono egoiste e prepotenti [...] irritabili, emotive e violente, come nel tipo isteroide o neuro-psicopatico in genere (41).

La prostituzione rappresentava un'anomalia comportamentale e nello specifico era una perversione dell'istinto sessuale, per questo motivo, in un contesto sociale e morale come quello di fine Ottocento, la regolarità del comportamento femminile era rappresentato dal matrimonio e dalla maternità, situazioni che costituivano "il più corretto e legittimo appagamento" (42). Un dato fondamentale, che spesso era scarsamente considerato dagli studiosi della scuola positiva, riguardava l'ambiente in cui erano inserite le prostitute: questo incideva nella definizione della prostituta occasionale, soggetto che, mantenendo i tratti distintivi della femminilità, non rientrava nella catalogazione propria della prostituta nata ed era portata a esercitare la professione a causa di un contesto sfavorevole.

2.3. Critiche alla scuola positiva

Le teorie antropologiche della scuola positiva riscossero un grande successo in Italia ma allo stesso tempo non andarono esenti da critiche, sia in patria che all'estero, soprattutto da parte di criminologi francesi. Gli avversari contestavano principalmente le classificazioni di Lombroso, reputandole prive di chiarezza e sistematicità; inoltre la presenza di contraddizioni, imprecisioni logiche, nonché l'apporto di citazioni letterarie e proverbi compromettevano l'oggettività della trattazione scientifica.

Lombroso fu accusato di non aver individuato una singola anomalia comune in tutti i soggetti classificati come delinquenti nati e di non avere specificato in modo chiaro la categoria del delinquente. Fu gradualmente messa in discussione la teoria dell'atavismo: l'errore di fondo era quello di associare la criminalità a determinate anomalie fisiche, traendone l'altrettanto errata conclusione che un certo tipo di morfologia fisica fosse indice di atavismo, e questo, a sua volta, causa di comportamenti criminali (43).

Non fu indenne da biasimi nemmeno la tendenza mostrata da molti positivisti a manipolare i risultati delle indagini, in modo da farli risultare sempre in accordo con assunti aprioristici, come nel caso della donna delinquente per cui l'idea fondante era quella dell'inferiorità femminile. La reazione più risoluta venne dal nascente movimento per l'emancipazione femminile che contrastava principalmente la posizione di subordinazione che era riservata alla donna, confutando la pretesa scientificità degli studi sull'inferiorità biologica e intellettuale; il movimento confidava invece in una scienza alleata nel contrastare i ruoli di genere mentre la pubblicazione de La donna delinquente rappresentava un ulteriore ostacolo al raggiungimento dello scopo primario di queste donne: il riconoscimento della parità dei diritti.

Gli studi eseguiti da Lombroso e dai suoi successori si concentrarono su una moltitudine di soggetti ma, spesso, la campionatura era "viziata" in quanto si trattava per la maggior parte di soggetti già selezionati: Lombroso stesso concentrò i suoi studi su individui detenuti nei penitenziari o negli ospedali psichiatrici, quindi su persone che erano già state classificate come delinquenti o anormali. Alla luce di ciò è possibile comprendere come la riflessione si concentrasse su una ipotetica "natura criminale", tralasciando la considerazione di una base giuridica relativa al fatto criminale. La popolazione carceraria tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento proveniva assai sovente dagli strati più bassi della società essendo la criminalità del tempo ancora legata alla realtà rurale o riconducibile a individui (o gruppi) pressoché indigenti, spesso migrati dalle campagne in cerca di condizioni di vita migliori e privi di istruzione (44). Inoltre gli studi del medico piemontese risentirono molto del contesto storico e sociale in cui si trovava ad operare: questioni come quella meridionale, sorta a seguito dell'Unità d'Italia, mettevano in evidenza il profondo divario culturale tra le popolazioni contadine ribelli e gli abitanti delle regioni settentrionali; proprio nella esperienza in Calabria, Lombroso, cercò di spiegare tale diversità anche sulla base di componenti razziali, operando una trasposizione concettuale fin troppo elementare.

Anche gli studi su una certa tipologia di soggetti, come ad esempio la donna prostituta, mostrano le incongruenze metodologiche degli antropologi criminali; in particolare per questo tipo di delinquente si evidenzia il preconcetto dell'inferiorità femminile che muove tutta la ricerca. La donna prostituta era la delinquente per eccellenza perché la sua devianza, rappresentata dalla sproporzionata sessualità, la rendeva analoga all'uomo delinquente, posizionandola così al gradino più basso della condizione femminile. Tuttavia, i positivisti dovettero riconoscere l'influenza di un ambiente sfavorevole nella determinazione di certi comportamenti per spiegare la presenza di eccezioni alla prostituta nata come la prostituta occasionale.

Le teorie criminologiche della Scuola positiva, avversate oltre confine, ebbero in patria una sorte diversificata: il successo che l'antropologia criminale dimostrò di avere in ambito scientifico non si tradusse immediatamente in un radicale mutamento del sistema penale poiché le proposte avanzate dalla scuola lombrosiana apparvero alquanto impraticabili nella realtà concreta e fu per questa ragione che il Codice Zanardelli del 1889 non recepì il messaggio positivista (45) affermando ancora una volta i principi della scuola classica sottolineando così una certa diffidenza verso le nuove dottrine, Lombroso non celò il proprio disappunto a riguardo criticando apertamente i giuristi italiani.

Le teorie della scuola positiva incontrarono anche le resistenze di nuovi ideali che si affacciavano con l'inizio del nuovo secolo, in base alle quali le idee lombrosiane apparivano eccessivamente materialiste e prive di valori ideali. L'ondata di "neo-idealismo" contribuì ad alimentare il dibattito intorno al positivismo e, assieme alle altre posizioni contrapposte, favorì la crescente risonanza oltre il campo medico-scientifico in cui nacque.

2.4. Le influenze della Scuola positiva sui saperi di polizia: la Polizia Scientifica

L'ampiezza del discorso sulle teorie della Scuola positiva mette in luce il modo in cui queste cercarono fin dalle loro origini di affermarsi fuori dal contesto scientifico, il loro promotore Lombroso si adoperò affinché fossero recepite all'interno delle istituzioni giuridiche così da favorire l'auspicata riforma del sistema penale. Tuttavia a livello istituzionale prevalsero in un primo momento una certa resistenza e diffidenza. Nonostante ciò è innegabile che le idee di Lombroso ebbero sull'intero sistema di giustizia penale un ascendente di notevole portata destinato a durare fino alla metà del XX secolo; fu proprio dopo la morte di Lombroso, grazie al lavoro dei suoi successori che svilupparono ed ampliarono le basi dell'antropologia criminale (46), che si arrivò ad un riconoscimento formale della suddetta teoria criminologica.

Il consenso maggiore veniva dalle pubbliche istituzioni dove erano nati gli studi degli antropologi criminali come gli ospedali, i manicomi e le prigioni; di conseguenza fu agevole l'influenza sugli organismi che operavano all'interno di queste strutture. Oltre ai medici, direttamente interessati alle ricerche dei colleghi positivisti, la criminologia positiva venne recepita dalla polizia la quale, in qualità di organo di pubblica sicurezza era la prima chiamata al riconoscimento dei criminali.

L'auspicio dell'applicazione dell'antropologia criminale al lavoro della polizia era già stato promosso da Lombroso che proponeva di formare una "polizia scientifica che conosca con esattezza matematica, i caratteri fisici dei criminali" (47).

La terminologia coniata da Lombroso fu recepita da Ottolenghi (48) che ne ampliò il concetto e ne favorì l'applicazione pratica caldeggiando l'ausilio delle nuove tecnologie nello svolgimento delle indagini e nella raccolta delle prove, nonché nella schedatura dei criminali.

Verso la fine dell'Ottocento era cresciuta in Europa la pratica antropometrica per una più accurata individuazione dei delinquenti: la misurazione delle varie parti del corpo costituiva il principale punto di forza nelle analisi degli antropologi criminali, l'applicazione di tale tecnica al di fuori dell'ambito di ricerca scientifico mostra chiaramente come l'antropologia criminale non restò ancorata al solo rango di disciplina teorica ma si rivelò funzionale al lavoro della polizia nella registrazione dei delinquenti soprattutto nel caso di recidiva. Con l'avvento del nuovo secolo agli strumenti a disposizione dei funzionari di polizia si aggiunsero la rilevazione delle impronte digitali, le analisi di laboratorio e la fotografia forense (49).

L'utilizzo delle nuove tecnologie e delle tecniche sviluppate dai positivisti rappresenta solo uno degli aspetti dell'influenza che l'antropologia criminale ebbe sulla polizia; come lo stesso Ottolenghi sottolineava, gli agenti della "vera Polizia scientifica" dovevano adoperarsi per un'effettiva e profonda conoscenza psicologica del soggetto criminale; ciò si sarebbe rivelato funzionale a un migliore trattamento del delinquente da considerare più simile a un malato che a un colpevole. Grazie a un simile approccio la "nuova" polizia si sarebbe mostrata meno dura con chi non costituiva un pericolo per la società ed inoltre ciò avrebbe contribuito a diminuire la diffidenza che la popolazione nutriva nei confronti dell'intero apparato, infatti, all'indomani dell'Unità d'Italia, come affermò anche il capo della polizia di Bologna Giovanni Bolis (50) nel suo attento trattato su La polizia e le classi pericolose della società, "l'impiegato di pubblica sicurezza non ispira in generale ancora quel rispetto che pur merita altamente" (51) tanto che l'appellativo popolare di "sbirro" racchiudeva ogni sorta di biasimo verso l'intera categoria.

L'antropologia criminale avrebbe dato nuova autorevolezza e maggiore probabilità di successo nella risoluzione dei casi di reato; proprio per riabilitare la reputazione della polizia di pubblica sicurezza Ottolenghi si rivolse in prima battuta alla formazione dei funzionari di polizia, che costituivano i gradi più alti del corpo di polizia istituendo una vera scuola (52) che nel corso di pochi decenni avrebbe ottenuto ampio riconoscimento ben oltre i confini nazionali.

La scuola di polizia scientifica aveva lo scopo primario di completare la formazione dei funzionari, cioè l'insieme di appuntati, commissari e loro vice, chiamati a integrare la loro già buona istruzione (53) con i recenti progressi scientifici in modo da divenire figure professionali moderne. Gli allievi erano istruiti per riconoscere i tratti somatici e psichici che caratterizzavano i criminali, non mancavano corsi di antropologia e psicologia. L'utilità degli insegnamenti impartiti fece sì che presto anche le guardie in uniforme più capaci venissero mandate nella scuola per un ciclo di studi ridotto.

Ciò che valse la grande fama della scuola anche nel resto d'Europa fu l'istituzione al suo interno del primo Ufficio di identificazione criminale italiano, i servizi tecnici messi in pratica comprendevano oltre le specifiche pratiche di misurazione le nuove tecniche di identificazione dei criminali che andavano dalla rilevazione dattiloscopica alla fotografia, metodi di elevata utilità per identificare un criminale in caso di nuovo arresto nonostante l'uso di una falsa identità (54). La rilevazione delle impronte digitali era di rapida e facile esecuzione e poteva essere praticata agevolmente in ogni ufficio di polizia limitando i costi che un laboratorio specialistico avrebbe comportato; la diffusione di queste pratiche di registrazione di dati identificativi, quali la fotografia del delinquente, le impronte ma anche la presenza di tatuaggi e ogni altra caratteristica indice di anomalie, su appositi "cartellini segnaletici" rese possibile la creazione di una serie di schedari centrali attraverso i quali era ordita una vasta rete di controllo della popolazione.

Il potere della polizia era così applicato attraverso un abile sapere (criminologico) e la sua funzione di difesa sociale e conservazione dell'ordine si avvicinava alla formazione dello stesso; tale carattere assieme all'oggettività scientifica richiesta ai funzionari nello svolgimento delle registrazioni permise alla scuola di sopravvivere anche in epoca fascista dove l'ordine e il controllo del popolo erano fortemente caldeggiati.

2.4.1. Scuola positiva e poteri di polizia

Le teorie divulgate dalla Scuola positiva si fondavano essenzialmente sul metodo empirico sperimentale, la loro trasposizione sul piano pratico delle indagini fu possibile grazie alla formazione di un organo di Polizia scientifica il cui compito principale era proprio quello di applicare le tecniche di misurazione, sviluppate e trasmesse dagli antropologi criminali, al fine di individuare i delinquenti.

La pratica di registrazione e di catalogazione dei soggetti criminali, attraverso il rilevamento di ogni segno di anormalità, risultava altresì pertinente in tema di misure di prevenzione personali.

Sulla base di tale considerazione è possibile sviluppare un ragionamento che mette in luce la relazione tra i saperi divulgati dai teorici della Scuola positiva e i poteri di polizia, con più esattezza valutare il modo in cui le idee dell'antropologia criminale hanno influenzato lo svolgimento delle attività della polizia tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX.

La polizia era essenzialmente l'organo preposto al controllo della società, per questo la terminologia usata era "Polizia di Pubblica Sicurezza" volendo indicare la funzione di sorveglianza e mantenimento dell'ordine pubblico. La moderna polizia era concepita come "strumento fondamentale di politica sociale" (55) posta a vigilare sulle classi pericolose ma anche sulla popolazione che accresceva il numero degli abitanti nelle città all'indomani dell'industrializzazione.

L'urbanizzazione portava con sé l'aumento della criminalità e della povertà: molti erano coloro che non riuscendo ad inserirsi nel mercato del lavoro si davano al vagabondaggio e all'ozio. Le classiche forme di criminalità che avevano come protagonisti ladri, assassini e altri soggetti riconducibili al "delinquente-tipo" (56) iniziano ad essere affiancate da nuove fattispecie di pericolosità ideate in termini ancor più soggettivistici, la lettura antropologica della devianza, di matrice positivista, si fa strada anche all'interno della sfera poliziesca allorché oggetto di controllo divengono anche figure marginali e devianti in senso morale più che per le condotte criminose, come ad esempio i vagabondi e le prostitute. In tal senso il controllo, nonché il potere, della polizia si rivolge a quella serie di inclinazioni personali e stili di vita che a distanza di anni Michel Foucault ha illustrato attraverso la nozione di infrapenalità (57).

Come le indagini dell'antropologia criminale individuavano in soggetti solitamente appartenenti ai ceti inferiori, allo stesso modo la polizia cerca tra poveri ed emarginati il germe della criminalità, ancorché potenziale. L'attenzione rivolta alle classi pericolose andava oltre il formale controllo e si traduceva spesso in concrete misure di sicurezza finalizzate alla prevenzione di reati e al mantenimento dell'ordine pubblico. Tali mezzi possono identificarsi con la definizione, data da Ferrajoli, di misure di polizia che includevano ogni sanzione o misura di difesa e controllo diverse dalle pene propriamente intese ma che incidevano ugualmente su diritti fondamentali come la libertà: "cioè tutto quell'ampio e composito ventaglio di provvedimenti coercitivi e di potestà poliziesche eretto in gran parte dalla legislazione liberale ottocentesca" (58).

Il sistema di prevenzione personale era facilmente applicabile nel contesto sociale e culturale di fine Ottocento: l'espansione delle città e l'industrializzazione portarono nelle città numerosi gruppi di persone, molte di queste non riuscendo a trovare lavoro nelle fabbriche iniziarono a vivere di espedienti. Spesso il rimedio usato dalla polizia contro la minaccia di questi individui pericolosi era quello di eliminarli dal contesto sociale; un esempio può essere bene rappresentato dalle case chiuse per le prostitute: molte donne sole si riversarono nelle città in cerca di lavoro ma la loro condizione di autonomia era vista come una minaccia all'ordine e alla morale pubblica. Le donne godevano già di una bassa considerazione che le teorie positive non esitarono ad accentuare, soprattutto la descrizione delle prostitute come la rappresentanza più infima della delinquenza femminile contribuì al particolare rigore di trattamento da parte della polizia: molte erano le donne che si ritrovarono nella condizione di prostituta, e perciò costrette ad entrare in un bordello, senza averlo scelto in modo spontaneo (59).

L'attenzione all'ordine pubblico, la ricerca di mezzi per contenere i reati e la capacità di prevenirli costituivano interesse anche per i positivisti e per questo si adoperano nella ricerca di rimedi contro la devianza non criminale, propria di soggetti come le prostitute, gli oziosi e i vagabondi; si tratta dunque di condizioni che anticipano la commissione del reato, che invece legittima e presuppone l'intervento del potere di polizia e l'applicazione di misure per la sicurezza della società.

La polizia aveva bene recepito le teorie dell'antropologia criminale anche fuori dal suo apparato di Polizia Scientifica, impiegata nella individuazione e registrazione dei delinquenti; l'attività della polizia di mantenimento dell'ordine pubblico e repressione dei reati fu affiancata da un nuovo interesse più teorico e criminologico nei confronti dei soggetti oggetto del controllo sociale, poveri ed emarginati con il loro modus vivendi alimentarono l'interesse di un'ampia letteratura "criminologica poliziesca" che alimentò ulteriormente il fervido dibattito sulle classi pericolose (60).

Note

1. R. Canosa, 1991, Storia della criminalità in Italia, 1845-1945, Torino, Einaudi, p. 160.

2. Cfr. M. Gibson, 2002, Nati per il crimine, Bruno Mondadori, Milano, p. 20.

3. Cfr. C. Debuyst et al., Histoire des savoirs sur le crime et la peine, cit.

4. Cfr. R. Canosa, Storia della criminalità in Italia, 1845-1945, p.160.

5. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 21.

6. D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, cit., p. 56.

7. Lombroso non fu il solo a vedere nella popolazione meridionale tratti di arretratezza biologica e comportamentale. Si veda a riguardo il testo di Teti dall'eloquente titolo La razza maledetta: origini del pregiudizio antimeridionale.

8. L'espressione fu coniata da Ferri, altro noto esponente della scuola positiva e discepolo di Lombroso. Cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 26.

9. Il testo del 1876 ebbe cinque edizioni nelle quali l'autore riportò gli sviluppi dei suoi studi.

10. D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, cit., p. 58.

11. Cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 27.

12. Cfr. C. Debuyst et al., 1998, Histoire des savoirs sur le crime et la peine, cit., p. 309.

13. Cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 33.

14. Ferri è ricordato anche per il suo "Progetto preliminare di codice penale italiano" del 1921.

15. Cfr., Ivi, p. 40.

16. Ivi, p. 41.

17. Ibidem

18. Egli propose tre tipi di criminali: assassini, violenti e ladri.

19. Cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 50.

20. Per la scuola classica i criminali compivano delitti per un atto cosciente della loro volontà malvagia, una delle basi su cui questa poggiava era il concetto di libero arbitrio. Fulcro del sistema penale era il gesto materiale.

21. Cfr. T. Pitch, Prostituzione e malattia mentale: due aspetti della devianza nella condizione femminile, cit., p. 379.

22. Cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 71.

23. Ivi, p. 79.

24. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 80.

25. La prima edizione è del 1893 e rappresentò per lungo tempo il testo di riferimento sulla criminalità femminile; l'impatto che ebbe in materia fu maggiore di quello dell'Uomo delinquente, come dimostrato dal fatto che di quest'ultimo non venne mai interamente tradotto in inglese fino alla morte dell'autore, al contrario del testo in questione tradotto fin dal 1895. Cfr. C. Lombroso, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, cit., p. 3.

26. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 83.

27. Cfr. R. Gurrieri, Sensibilità e anomalie fisiche e psichiche nella donna normale e nella prostituta, in Giovanni Greco, 1987, Lo scienziato e la prostituta: due secoli di studi sulla prostituzione, Edizioni Dedalo, Bari, p. 135-148; M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 96.

28. Cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 85.

29. Ivi, p. 95.

30. Ivi, p. 97.

31. La romanziera francese Madame de Staël aveva secondo Lombroso una faccia da uomo, cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 88.

32. P. Ellero in M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 106.

33. La prostituzione venne considerata tra i comportamenti criminali anche per rispondere alle critiche dei criminologi francesi che ribadivano la poca incidenza della delinquenza femminile. Cfr. Ivi, p. 98.

34. R. Canosa, 1981, Sesso e Stato. Devianza sessuale e interventi istituzionali nell'Ottocento italiano, Mazzotta, Milano, p. 80.

35. Cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 99.

36. Cfr. A. morale, 1909, Studio della prostituzione nella storia del diritto e nella legislazione vigente, Tipografia Editrice L. Anelli, Vasto, p.133.

37. I due scienziati compirono uno studio specifico su prostitute toscane e sarde.

38. Cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p.101.

39. Questa la definizione che si diedero gli studiosi De Giovanni, De Sanctis, Pende, Viola e Vidoni; cfr. Ivi, p. 309.

40. Ivi, p. 313.

41. B. Di Tullio Ibidem.

42. G. Greco, Lo scienziato e la prostituta, cit., p. 161.

43. Cfr. D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, cit., p. 59.

44. Cfr. R. Canosa, Storia della criminalità in Italia, cit.

45. Cfr. J. A. Davis, 1989, Legge e ordine. Autorità e conflitti nell'Italia dell'800, Milano, Franco Angeli, p. 369.

46. Ad avvalorare le tesi sulla natura genetica della devianza contribuirono branche emergenti della medicina come l'endocrinologia e una progressiva "psicologizzazione" del positivismo. Cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 181 e 299 e ss.

47. Ivi, p. 192.

48. Proveniente da una formazione medica, Ottolenghi rappresenta un chiaro esempio di come la figura dell'antropologo criminale si inserì all'interno dell'amministrazione statale.

49. Cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 193.

50. Bolis ricoprì l'incarico dal 1864 al 1869, in seguito questore a Roma e poi direttore generale della Polizia di Pubblica Sicurezza dal 1879 al 1884. Cfr. L. Antonielli, 2006, La polizia in Italia e in Europa: punto sugli studi e prospettive di ricerca, Rubbettino, Soveria Mannelli, p.134.

51. G. Bolis, La polizia e le classi pericolose della società, cit, p.11.

52. La sede scelta fu una sezione dismessa del carcere romano di Regina Coeli in linea con la migliore tradizione positiva che praticava i suoi studi direttamente sui soggetti criminali. A riguardo, cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit.

53. Ai funzionari che entravano nella scuola era richiesta la laurea, ciò valse ad aumentare l'importanza dell'istituzione a livello europeo.

54. Cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 207.

55. G. Campesi, 2009, Genealogia della pubblica sicurezza. Teoria e storia del moderno dispositivo poliziesco, Ombre corte, Verona, p. 159.

56. D. Petrini, Il sistema di prevenzione personale tra controllo sociale ed emarginazione, cit., p. 906.

57. M. Foucault, Gli anormali, cit.

58. L. Ferrajoli, 1990, Diritto e ragione: teoria e garantismo penale, GLF editori Laterza, 6ª ed., Roma 2000, p. 802.

59. In seguito alla Regolamentazione che prese avvio a metà Ottocento, la polizia teneva dei registri in cui annotava le donne che esercitavano la professione. La registrazione avveniva di diritto qualora una donna fosse stata trovata priva di libretto identificativo.

60. Un noto esempio è dato dalla estesa opera di Bolis sulla polizia e le classi pericolose. Cfr. G. Bolis, La polizia e le classi pericolose per la società, cit.