ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo III
Tensione tra diritti individuali e diritti collettivi in relazione al genere

Rosaria Pirosa, 2009

1.1 Rilievi introduttivi

Il nodo del conflitto tra diritti individuali e diritti collettivi, a mio parere, può essere sciolto se si muove da un approccio teorico antifondazionalista. Il pensiero antifondazionalista, sviluppatosi in materia di diritti umani, disgiunge il discorso dei diritti da ogni pretesa fondativa e ne individua la matrice empirica. Tale orientamento può essere esteso senza particolari problemi alla trattazione dei diritti collettivi.

La postulabilità e la teorizzabilità dei diritti collettivi, infatti, non muove da istanze "culturaliste" o da un generico e astratto comunitarismo ideologico, quanto piuttosto discende dal fatto che determinate situazioni giuridiche soggettive individuali possono essere compiutamente tutelate soltanto per il tramite di un paradigma di tutela collettiva.

Nelle pieghe di questo pensiero, l'individuo si conferma un prius non soltanto rispetto alla cultura d'origine ma anche con riguardo al gruppo di appartenenza. Questo non implica che la complessa dialettica che si svolge tra diritti individuali e diritti collettivi possa essere risolta nel senso della matematica prevalenza dei primi sui secondi. Se così fosse, la trattazione della tematica del presente capitolo si arresterebbe qui. Nella valutazione della prevalenza del diritto dell'individuo sul diritto di gruppo, prioritaria diventa la dimensione fattuale del rapporto individuo/comunità così come la considerazione delle carenze dei modelli di tutela degli stati liberali.

In questo senso l'individuo non può essere considerato come un soggetto di diritti ipostatizzato, sessualmente, socialmente e culturalmente connotato (l'uomo bianco occidentale di ceto medio-alto). Il sistema di tutela di un ordinamento pluralista, nel quale il principio di eguaglianza sostanziale venga non soltanto previsto ma anche attuato, non può avere al suo centro il soggetto tipizzato del paradigma di tutela liberale, il cittadino optimo iure, l'individuo astratto dai suoi legami culturali e sociali. Occorre guardare all'individuo "concreto", oppresso, emarginato. La tutela giuridica deve essere estesa ai soggetti che parlano una lingua diversa da quella del gruppo maggioritario, che praticano una religione diversa, che provengono dal Sud del mondo. E' necessario che i sistemi di tutela degli stati liberali prendano in considerazione le appartenenze plurime dell'individuo, poiché esso non è soltanto un migrante che si insedia nella società di approdo. L'individuo può mantenere significativi legami con la cultura d'origine, dunque, deve essere tutelato in virtù delle sue differenze culturali, religiose, linguistiche, sessuali, non a dispetto di esse. Nel conflitto tra diritto individuale e diritto di gruppo in relazione al genere, la tutela giuridica non può scattare soltanto se e quando la donna migrante esce dal gruppo di appartenenza. Anzi, come si vedrà, molto spesso ciò sancisce una condizione di esclusione e di emarginazione, in primis all'interno del gruppo maggioritario.

Il riferimento ad una cornice teorica antifondazionalista implica un passo ulteriore rispetto alla delineazione delle posizioni teoriche descritte nella prima parte del lavoro, in essa si fronteggiavano la dimensione della rilevanza pubblica della differenza e l'universalismo astratto liberal-proceduralista: l'intenzione, qui, è di cercare di restituire una parte della complessità che segna il tentativo di conciliare un possibile universalismo con il pluralismo culturale e morale, l'indisponibilità dei diritti con l'apertura culturale.

La tematica di genere, costituisce, a questo proposito, un osservatorio privilegiato, ma anche il territorio nel quale si tocca con mano la difficoltà di individuare soluzioni, e ci si scontra con la distanza che separa funambolici approcci teorici dalla dimensione fattuale, concreta di donne, migranti, in condizioni di indigenza e di emarginazione sociale.

Se i nuclei tematici dell'analisi possono essere sviluppati con riguardo alla dimensione internazionale e globale, il presente lavoro convergerà su un diverso presupposto metodologico: la problematica del conflitto tra diritti individuali e diritti collettivi in relazione al genere avrà come referente empirico la società multiculturale, cioè una medesima unità socio-politica nella quale convivono un gruppo maggioritario e gruppi minoritari diasporici.

L'assunzione di questa premessa ha per corollario l'evidenziazione di due delle incongruenze che, quasi convenzionalmente, segnano la trattazione della tematica in oggetto: 1) i soggetti di cui si dibatte, donne migranti del gruppo minoritario, non appartengono al gruppo di riferimento di chi "problematizza" il conflitto; 2) si pretende di risolvere il conflitto con le categorie di chi parla, o più precisamente, con le categorie della società di maggioranza, ossia con i principi della cultura liberale 'occidentale'.

Occorre sin da ora anticipare la volontà e la necessità di prendere le distanze da atteggiamenti teorici sclerotizzanti o monolitici che ipostatizzano lo stesso conflitto (1) e lo concepiscono come immanente alle culture minoritarie e, per ciò stesso, alle donne che appartengono a tali culture, finché decidono di rimanervi.

Strettamente congiunta a tali assunzioni, come vedremo in seguito, è la polarizzazione tra istanze femministe e istanze multiculturaliste ed una trattazione del problema che separi la disuguaglianza di genere dalla disuguaglianza sociale.

Nelle società multiculturali dell'area euro-atlantica è ben presente un doppio ordine di disuguaglianze, contemplare soltanto l'ordine della disuguaglianza di genere, oltre a decontestualizzare la problematica e a disancorarla dalla dimensione fattuale, non ha alcuna utilità pratica (2) (a meno che non si consideri auspicabile l'estinzione delle culture minoritarie).

La tematica in oggetto, nella gran parte dei casi, veste le sembianze di donne migranti, emarginate, oppresse, in condizione di povertà, prive di tutela giuridica, i cui diritti sono violati. Quali diritti? Diritti umani individuali e collettivi la cui portata normativa non può essere esclusivamente contratta nell'eguaglianza di genere. Si è parlato di donne migranti, e non di un'identità femminile stereotipizzata che coincide con lo status di donna bianca, colta, occidentale, di classe sociale medio-alta.

Se si guarda al terreno delle soluzioni e all'individuo "concreto", non possiamo prescindere dalla relazione di disuguaglianza che intercorre tra la società di maggioranza e i gruppi minoritari.

Nell'ambito della presente tematica, se rilevanti sono i contributi dell'antropologia e della sociologia, per dirla alla Habermas, il diritto offre specifiche risorse e deve farsi carico di problemi che appaiono insolubili sul piano metaetico.

Le donne, e più in generale i soggetti deboli, non sono emblemi della contrapposizione tra gruppi, né tantomeno semplificati protagonisti di "casi problematici" sfruttati per avallare nozioni claudicanti come "lo scontro di civiltà", per legittimare la repressione penale o sostenere l'inquietante scheletro sicuritario di politiche migratorie vacue. Ma possono essere "agenti della negoziazione". In questa visione non finalisticamente orientata, le donne si districano tra il patriarcato delle pratiche tradizionali lesive della libertà sessuale e il patriarcato di un "presuntuoso analfabetismo culturale" (3) o di un welfare intermittente o inesistente.

2.1.1 "Is Multiculturalism Bad for Women?"

"Is Multiculturalism Bad for Women?" è il titolo del celebre saggio di Susan Moller Okin, apparso per la prima volta nel 1997 in "Boston Review" (4).

La trattazione del testo di Okin conferma la plausibilità teorica della premessa della riflessione dell'autrice: possono esservi conflitti tra i diritti delle minoranze e i diritti delle donne.

Si è inteso restituire l'idea del conflitto tra l'individuo e il gruppo in relazione al genere in una dimensione di potenzialità, prendendo le distanze da una formulazione del rapporto che ascriva il conflitto ad una dimensione di immanenza quale Okin, in relazione alle culture minoritarie cosiddette patriarcali e tradizionali, sembra postulare.

La presente analisi si propone l'obiettivo di far emergere alcuni degli aspetti del tema in oggetto offrendone una prospettazione teorica che presenti una proiezione sul terreno concreto delle soluzioni. Si tenterà di raggiungere tale obiettivo attraverso una dialettizzazione e problematizzazione di alcune delle assunzioni presenti nel saggio dell'autrice.

Il titolo del saggio sottintende un uso del termine "multiculturalismo" nella sua accezione prescrittiva e correlativamente il riferimento ad un multiculturalismo ideologicamente connotato in luogo di una compiuta considerazione del multiculturalismo come "fatto" o di visioni che provocatoriamente mettono in campo l'apparente paradosso di un "multiculturalism without culture" (5). Il titolo annuncia un approccio teorico teso alla totale "culturalizzazione" della problematica. Tale orientamento, come vedremo, ha il suo corollario principale nell'assunto che i diritti collettivi sono limitati al diritto di salvaguardare la propria cultura e, nella specie, alla pretesa di determinati gruppi di mantenere pratiche culturali oppressive e lesive nei confronti delle donne.

Okin introduce la sua elaborazione teorica muovendo essenzialmente dalle seguenti tesi:

1. Nega la conciliabilità di istanze femministe e multiculturaliste, ed in particolare articola una relazione di incompatibilità tra il femminismo e l'impegno multiculturalista a garantire diritti di gruppo alle culture minoritarie. A tal riguardo, identifica il femminismo con un pensiero che promuove il principio inderogabile dell'uguaglianza di genere e dell'eguaglianza morale tra uomo e donna, per converso, sceglie di trattare e declinare il multiculturalismo come un movimento che converge su una proposizione di carattere assertivo secondo cui "le culture o i modi di vivere minoritari non sono esaustivamente protetti dal paradigma di tutela liberale mentre sarebbero compiutamente tutelati mediante speciali diritti o privilegi di gruppo" (6).

2. Sostiene che le culture delle popolazioni native e autoctone, dei gruppi etnici o religiosi minoritari o delle popolazioni colonizzate (7) hanno un ruolo marcatamente pervasivo e fondamentale nella vita dei loro membri, conseguentemente il conferimento di diritti speciali si fonda esclusivamente sul rischio che tali culture si estinguano. Contesta l'attribuibilità di diritti collettivi a gruppi illiberali e a gruppi liberali poiché in entrambe le ipotesi si invererebbe una violazione della Grundnorm liberale costituita dalla libertà individuale.

3. In un continuum teorico tra libertà dell'individuo e libertà della donna, l'autrice afferma che le istanze delle culture o delle religioni delle minoranze collidono verosimilmente con il principio dell'uguaglianza di genere.

4. Nel solco del medesimo continuum teorico, tra liberalismo e femminismo intercorre una relazione di piena compatibilità.

Okin prosegue con lo sviluppo argomentativo delle sue tesi articolando un collegamento, a parere dell'autrice imprescindibile, tra la cultura e il genere.

Muovendo dal triplice presupposto che la sfera delle funzioni vitali personali, sessuali e riproduttive è centrale nella maggior parte delle culture, che tali ambiti occupano un ruolo prioritario nelle pratiche rituali e sono tematizzati in tutti i sistemi culturali, Okin teorizza la maggiore incidenza delle "pratiche culturali" sulla vita delle donne e delle ragazze (8). Ma per l'autrice, in realtà, la struttura del nesso tra cultura e genere poggia anche e soprattutto sul fatto che uno degli obiettivi della maggior parte delle culture è rappresentato dal controllo delle donne da parte degli uomini. A sostegno di ciò, Okin invoca modelli archetipici, adduce la considerazione che i miti fondativi dell'antichità greca e romana e le tre religioni monoteiste fondamentali riportano numerosi tentativi di produrre apparati di legittimazione a schemi di socializzazione sessista. Dunque, in tutte le culture sono presenti elementi patriarcali, ma alcune, più di altre, hanno preso congedo da essi, nella specie le culture liberali occidentali, nelle quali il principio di eguaglianza di genere è tutelato secondo un livello ragionevolmente accettabile.

In molte delle tradizioni e delle culture del mondo, "comprese quelle praticate negli stati-nazione con un passato di conquista o di colonizzazione, in cui certamente rientrano la maggior parte delle popolazioni dell'Africa, del Medio Oriente, dell'America Latina e dell'Asia" (9), invece, la norma dell'uguaglianza di genere viene costantemente violata attraverso la salvaguardia e la perpetuazione di pratiche oppressive e lesive nei confronti delle donne. Molte delle minoranze che rivendicano i diritti di gruppo sono quindi più patriarcali delle culture in cui sono immerse. Okin esemplifica questa affermazione attraverso il riferimento alla clitoridectomia (10), alla poligamia, ai matrimoni in età infantile o ad altre forme di matrimoni imposti, alle procedure di divorzio che discriminano le donne, all'hijab e al purdah. Con ulteriore intento dimostrativo, l'autrice richiama, poi, le pratiche consistenti nell'obbligo per la vittima di uno stupro di sposare il proprio stupratore o nell'accusa del grave reato musulmano della zina posta a carico delle donne che intentano una causa per violenza sessuale. La frequenza statistica di questi "casi problematici" sarebbe apprezzabilmente maggiore nel campo delle "cultural defenses" (11) in cui le ragioni culturali sono invocate per legittimare il controllo degli uomini sulle donne o gravissime violazioni della libertà e dell'integrità fisica delle donne. Per Okin l'apertura degli ordinamenti processuali alle "scriminanti culturali" costituisce un pericoloso vuoto nella tutela delle donne e dei soggetti deboli delle culture minoritarie nei confronti della violenza maschile (12).

Questo ambito, secondo Okin, costituisce un'intrinseca delegittimazione delle tesi dei sostenitori dei diritti culturali. Il dissenso di Okin rispetto all'attribuzione dei diritti di gruppo a culture minoritarie prosegue anche di fronte all'impianto liberale che, nella specie Kymlicka, offre alla teoria dei diritti collettivi. Per l'autrice, la sussistenza del requisito di liberalismo interno nell'ambito di determinati gruppi è soltanto apparente, poiché occorre tenere conto della circostanza che discriminazione e subordinazione sessuale sono sottratte alla visibilità della sfera pubblica. Okin richiama, dunque, l'elemento della separazione tra sfera pubblica e sfera privata e stabilisce che le forme di discriminazione "molto private e culturalmente rafforzate" segnalano la necessità di rivalutare l'opportunità di attribuire diritti ai gruppi, unitamente ad una revisione del concetto di cultura come orizzonte nel quale l'individuo esercita opzioni di senso.

L'autrice denuncia il monolitismo di atteggiamenti teorici che non contemplano le posizioni differenziate che gli individui ricoprono all'interno di determinate culture e che non prendono atto dell'immodificabilità di tali ruoli entro le suddette culture. Per Okin la considerazione di tali elementi costituirebbe un adempimento teorico irrinunciabile in ragione del fatto che, a suo parere, la struttura gerarchica delle società cosiddette patriarcali si radica nella sfera privata e viene perpetuata poiché le istituzioni pubbliche degli ordinamenti di insediamento non possono intervenire nel campo delle relazioni personali e familiari degli individui.

Susan Moller Okin chiude circolarmente affermando che:

"Da un punto di vista femminista non è per niente chiaro se i diritti di gruppo per le minoranze siano 'parte della soluzione'. Potrebbero anche aggravare il problema. Nel caso di una cultura minoritaria più patriarcale all'interno di una cultura maggioritaria meno patriarcale, non si possono addurre, sulla base del rispetto di sé o della libertà, motivazioni valide per cui i membri femminili avrebbero un interesse evidente a preservare la loro cultura" (13).

L'autrice tralascia il num retorico e sottinteso in riferimento ad un'altra "parte della soluzione":

"Anzi, la loro condizione potrebbe migliorare se la cultura in cui sono nati dovesse estinguersi cosicché i suoi membri sarebbero obbligati a integrarsi nella cultura, meno sessista, che li circonda, oppure, ancora meglio, se fosse incoraggiata a cambiare in modo da rafforzare l'uguaglianza delle donne, almeno fino al livello in cui questo valore è difeso dalla cultura maggioritaria" (14).

2.1.2 What is Bad for Women?

La polarizzazione tra femminismo e multiculturalismo, fondata sulla correlativa sclerotizzazione del conflitto tra il principio dell'eguaglianza di genere e l'attribuzione di diritti alle minoranze, in Okin, viene messa in campo in direzione della "appropriazione creativa del femminismo nei confronti del liberalismo" (15). Secondo Facchi e Besussi, "Okin mette il liberalismo all'altezza dei suoi impegni costitutivi, rivitalizzandone il nocciolo antiautoritario" (16).

Okin assume che il suo discorso e la sua analisi poggino su un impianto teorico liberale nel presupposto di una effettiva compatibilità teorica tra una versione thin del liberalismo ed una concezione altrettanto minimalista del femminismo, destinate a convergere nella diade libertà dell'individuo/libertà della donna. In realtà i nuclei del pensiero liberale e le posizioni ascrivibili ad un orientamento femminista che non si ponga in contrapposizione con il multiculturalismo, presentano una portata apprezzabilmente maggiore, da cui non è possibile prescindere (17). Il liberalismo di Okin, dunque, viene a contraddire alcuni postulati fondamentali del pensiero liberale: 1) la tutela da parte dello stato liberale della libertà religiosa, 2) la tutela dell'individuo nei suoi indici di effettività e compiutezza, 3) il consenso liberale come cardine della legittimità delle rivendicazioni e dell'esercizio del potere, 4) con riguardo ad alcuni aspetti (relativi al rifiuto della simbolizzazione e all'assimilazione in unico crinale lesivo della forma più privativa di escissione e dell'atto di indossare il velo), il principio milliano del danno.

Per ciò che concerne il primo aspetto, il preludio teorico dell'attribuzione di irrilevanza alla tutela della libertà religiosa - un compito che storicamente ha contraddistinto lo stato liberale - è costituito da un'arbitraria assimilazione dei concetti di "cultura" e "religione", con conseguente semplificazione dei due termini. Soffermiamoci sul secondo: la religione viene spogliata della valenza metafisica e morale che può rivestire per il singolo individuo, e, nel telaio argomentativo di Okin, è frettolosamente ridotta ad archetipo confermativo della socializzazione sessista; ciò vale per le tre religioni monoteiste. Questo pensiero non è disgiunto dal filone centrale della riflessione di Okin: le religioni e le culture tradizionali pongono in essere pratiche che violano l'uguaglianza di genere. Mettendo in evidenza questo elemento è possibile simultaneamente porre in luce come le accuse di eurocentrismo in cui è incorsa Okin non siano generiche ma possano trovare un fondamento teorico e tecnico-giuridico plausibile, se si ha riguardo alla cornice liberale che Okin si autoattribuisce: la disuguaglianza di genere non connota soltanto le religioni patriarcali e tradizionali, il principio dell'uguaglianza di genere conosce delle deroghe anche nelle istituzioni religiose (18) occidentali.

Sunstein e Nussbaum offrono un utile contributo alla trattazione di questa tematica. Secondo Sunstein i conflitti tra l'uguaglianza sessuale e le istituzioni religiose creano forti tensioni in un ordine sociale liberale, e sollevano un interrogativo centrale: quale è il giusto campo d'azione della legge laica nel momento in cui il governo cerca di controllare il comportamento discriminatorio delle istituzioni religiose o tenta di intervenire sui trattamenti discriminatori che vengono praticati all'interno di esse? Per l'autore, la risposta a tale questione può essere sviluppata avendo riguardo all'esperienza statunitense (19). Negli Stati Uniti, come in altri ordinamenti, la maggior parte del diritto comune, civile e penale, può essere legittimamente applicata alle istituzioni religiose. In questo modo, per esempio, un governo laico può vietare ai membri di un'istituzione religiosa di commettere omicidi, rapimenti o violenze, anche se questi atti fanno parte di una cerimonia sacra e si ispirano a precetti religiosi. Allo stesso tempo, si è generalmente stabilito che ci sono significative limitazioni all'estensione con cui la legge sulla discriminazione sessuale viene legittimamente applicata alle organizzazioni religiose. In tal senso lo stato non esige che la chiesa cattolica apra il sacerdozio alle donne. Dunque, se il motivo dell'intervento dello stato sulle istituzioni religiose è la discriminazione sessuale, è generalmente vietato interferire con l'autonomia religiosa. La cosiddetta tesi dell'asimmetria costituisce un topos della teoria e della pratica liberale. In base a questa tesi, il problema non verte sull'applicazione delle norme civili e penali alle istituzioni religiose, bensì, sull'applicazione a queste istituzioni della legge che proibisce la discriminazione sessuale. E' quindi del tutto legittimo vietare agli ebrei ortodossi di usare violenza sulle donne rabbino riformate, nonostante credano sinceramente nel rabbinato maschile e la loro credenza abbia fondamenti religiosi, ma, spesso, è considerato inaccettabile proibire ai gruppi religiosi di escludere le donne da certi ambiti. Considerando che la tesi dell'asimmetria nell'ordinamento statunitense continua ad essere applicata per ciò che concerne l'uguaglianza di genere, uno dei presupposti della Okin può essere contestato: le violazioni del principio dell'uguaglianza di genere non riguardano soltanto le religioni cosiddette tradizionali.

Come si è detto la tutela della libertà di religione occupa una posizione centrale nella tradizione liberale, e negli Stati Uniti, come in altri paesi, la legge che proibisce la discriminazione sessuale concede notevoli esenzioni alle istituzioni religiose (20). Per comprendere il principio di asimmetria occorre fare un breve riferimento all'evoluzione del rapporto tra le leggi statali e istituzioni religiose nell'ordinamento statunitense. Negli Stati Uniti c'è un acceso e continuo dibattito intorno alla questione se uno stato possa applicare leggi che risultano neutrali alle istituzioni religiose. Una legge è neutrale se non si riferisce in maniera specifica a pratiche o a credenze religiose; quindi una legge che vieta l'uso del peyote risulta neutrale, mentre una legge che vieta di recitare il padrenostro si presenta come discriminatoria (?). Secondo la vigente legislazione americana, ogni legge che si presenta come neutrale è ritenuta costituzionalmente accettabile. L'applicabilità alle istituzioni religiose di tutte le leggi civili e penali "neutrali" costituisce il contenuto del "principio Smith", dalla controversa decisione della Corte Suprema che l'ha stabilito (21). Le maggiori critiche alla legislazione vigente affermano che molte leggi che si presentano come neutrali hanno ripercussioni molto pesanti sull'esercizio della libertà di religione. Come si è visto, alcuni aspetti delle norme civili e penali colpiscono pratiche e credenze che per alcune religioni sono centrali (l'uso del peyote per il gruppo religioso di nativi americani (22)). Prima del caso Smith, come si è evidenziato, una legge statale poteva essere applicata alle istituzioni religiose soltanto se si trattava di una norma che incarnava un interesse statale prioritario e che non avrebbe comportato un "peso sostanziale" per l'esercizio della libertà religiosa del credente; diversamente si stabiliva un regime asimmetrico in base al quale alle istituzioni religiose non veniva estesa l'applicazione della legge statale.

Il principio di asimmetria continua a vigere per ciò che concerne l'uguaglianza di genere in ragione del medesimo fondamento che, in precedenza, sottostava all'applicazione asimmetrica di alcune delle leggi civili e delle leggi penali all'ordinamento giuridico statale e alle istituzioni religiose: una identità di regime colpirebbe al cuore le religioni e si tradurrebbe in un "peso sostanziale" per l'esercizio della libertà religiosa del credente (23).

E compito di uno stato liberale è quello di tutelare l'esercizio della libertà di religione; del resto, come si è evidenziato, l'adesione al pensiero religioso è totalmente volontaria, ciò implica che la disuguaglianza di genere nelle istituzioni religiose, diversamente che nell'ambito dell'ordinamento giuridico, sia supportata dal consenso di coloro che sono intranei ad esse. Questa conclusione viene svolta per ciò che concerne l'adesione del singolo alle confessioni religiose riconosciute da uno stato liberale, ma può replicarsi anche per quelle che Okin chiama religioni (o culture) (24) tradizionali. Okin, invece, sembra prescindere dall'elemento dell'adesione consensuale del credente.

Non sorprende, dunque, che per Okin la rilevanza pubblica della differenza di genere sia disgiunta dal valore delle altre differenze, culturali e religiose.

Ma l'autrice, conformemente al liberalismo procedurale, non ascrive tali differenze alla sfera privata, piuttosto auspica la loro traduzione nel raggio dell'intervento statale. Lo stato non deve tutelare la diversità religiosa e culturale, deve assimilare l'altro (25). L'auspicio all'interventismo statale sembra contraddire uno dei principi cardine del liberalismo.

All'inizio della trattazione di questo aspetto, si era posto riferimento all'uso e ad una concezione dei concetti di "cultura" e "religione" nei termini di un'assoluta fungibilità. Tale equivoco è un aspetto ricorrente nell'analisi di Okin.

Nel campo della problematizzazione di tale aspetto, si farà luogo alla disarticolazione dell'antitesi tra istanze femministe e istanze multiculturali che in conformità con il pensiero liberale muovono dalla priorità logica dell'individuo, a ciò si interseca la tematizzazione dell'elemento del consenso.

Un invito "to complicating culture" proviene ad Okin, da Bonnie Honig. "La cultura è qualcosa di molto più complesso del permesso patriarcale in mano a uomini potenti di sottomettere donne vulnerabili" (26). E' evidente che la semplificazione del concetto di cultura si connette ad un approccio teorico improntato sulla totale culturalizzazione della problematica. Tale orientamento costituisce, al contempo, il presupposto principale della tesi di Okin: i diritti collettivi non si riconducono alla ratio di una tutela che abbia al suo centro l'individuo ma derivano piuttosto dalla necessità di salvaguardare ipostatiche entità culturali. I diritti collettivi avrebbero l'esclusiva funzione di garantire la sopravvivenza delle culture, e delle culture patriarcali.

Mediante un salto logico difficilmente colmabile, Okin approda poi all'esito epistemologicamente discutibile di instaurare una relazione di identità tra diritti collettivi e pratiche oppressive delle libertà femminili ma anche, simmetricamente, tra culture minoritarie e "casi problematici" o ancora "cultural defenses", ulteriormente degradate al rango di "twinkie defenses" (27). L'attenzione di Okin, epidittica del conflitto tra diritti di gruppo e diritti delle donne si appunta sui cosiddetti "casi estremi", ma giunge ad appiattire la considerazione delle culture minoritarie entro lo spettro scarsamente emblematico delle difese culturali; le maglie degli istituti processual-penali, evidentemente, rappresentano un osservatorio 'antropologico' su cui non si può piantare neppure un piede. Come fa notare lucidamente Joseph Raz, in questa ipotesi, le culture non sono invocate per essere acriticamente e atemporalmente salvaguardate, bensì l'invocazione è fatto contingente e inquadrabile nell'ambito del diritto di difesa individuale. Volendo fare una precisazione in termini okiniani, nel caso suddetto, la cultura è invocata dall'individuo e non dal gruppo.

Il monolitismo con cui Okin concepisce i diritti collettivi conduce a questo esito teorico: la cultura rileva esclusivamente per il gruppo, non per l'individuo, per il quale essa è soltanto un fardello da cui liberarsi. Si stabilisce, dunque, una relazione di inconciliabilità tra l'autonomia individuale e qualsiasi diritto connesso all'identità culturale.

A tal proposito, come si è accennato, risulta fondamentale, per la tematizzazione del conflitto tra diritti collettivi e diritti individuali in relazione al genere, la considerazione dell'intera portata normativa dei primi: come si è visto si tratta di diritti riconducibili all'identità religiosa e linguistica, diritti materiali, diritti che si riconnettono a prestazioni dello stato sociale, diritti economici (28).

Il discorso sui diritti collettivi, lo si ribadisce, non alcuna attitudine fondazionalista, ma, piuttosto, si riconnette all'eminenza fattuale della problematica multiculturalista, i diritti collettivi nascono per rendere possibile attraverso un paradigma di tutela collettiva la garanzia di diritti individuali, altrimenti circoscritti all'ambito del "law in books".

In questo senso, proprio in quanto interne ad una prospettiva liberale, risultano significative le precisazioni che Will Kymlicka pone al discorso di Okin. Kymlicka teorizza l'opportunità dei diritti collettivi in senso funzionalistico-liberale e individua nel principio milliano del danno il referente teorico che si pone alla base della distinzione tra le cosiddette "tutele esterne" e le "restrizioni interne". La teorizzazione dei diritti collettivi in Kymlicka poggia su un impianto liberale, nella concezione dell'autore canadese tra istanze liberali e istanze multiculturali intercorrono collegamenti inquadrabili nei termini di una reciproca funzionalità. Se la postulabilità e l'attribuibilità dei diritti collettivi, in senso tipicamente liberale, si arresta laddove sia integrata una violazione nei confronti dell'individuo, è la priorità logica dell'individuo di ascendenza liberale a costituire il principale fondamento dell'attribuzione di situazioni giuridiche collettive, la quale, a sua volta, circolarmente, assicura una tutela compiuta ai singoli membri dei gruppi. L'esistenza e il protrarsi di una condizione di discriminazione nei confronti di un gruppo minoritario e la mancata integrazione di un danno nei confronti dell'individuo sono le condizioni che un liberalismo à la Kymlicka pone al conferimento dei diritti collettivi. Kymlicka sostiene l'attribuzione ai gruppi di "tutele esterne", cioè di diritti collettivi che valgono ad attenuare la vulnerabilità di un gruppo minoritario rispetto al potere economico e politico della società di maggioranza, emblematicamente rappresentate dai diritti linguistici, da una rappresentanza politica garantita, da risarcimenti per ingiustizie passate, mentre respinge le "restrizioni interne", diritti di cui è titolare il gruppo, ma che si risolvono in una situazione di pregiudizio per l'autonomia e le libertà dei suoi membri (29).

Ma a Okin, l'ancoraggio liberale e, nel contempo, la revisione del tradizionale paradigma di tutela liberale di Kymlicka non sembrano bastare: per l'autrice rimane ferma la necessità di considerare le disuguaglianze che vi sono all'interno dei gruppi, con particolare riguardo alla disuguaglianza di genere. Ma tale rilievo, non avendo un'attinenza diretta con il principio sottostante alla distinzione operata da Kymlicka, sembra diluire il discrimen tra le due diverse tipologie dei diritti di gruppo nel debole paradigma teorico della contrapposizione tra due tipologie di potenziali titolari. Il discorso attorno all'inesaustività del modello di tutela individualistico diventa certamente superfluo e meramente assertivo, dal momento che in determinate culture la prevalenza del gruppo sull'individuo, e sull'individuo-donna, è per Okin assiomatica. L'intento programmatico di non far coincidere il soggetto individuale titolare di diritti con l'essere umano di sesso maschile si risolve nella stereotipizzazione di un soggetto collettivo: le società liberali occidentali costituiscono la "norma".

La contrapposizione tra femminismo e multiculturalismo, al contempo la disgiunzione del profilo della disuguaglianza di genere e della disuguaglianza tra gruppi, rischiano di prescindere dalle "situazioni di fatto", relegando ad una dimensione meramente programmatica il superamento della stereotipizzazione del soggetto di diritti. La valutazione imprescindibile del richiamato doppio ordine di disuguaglianza soccombe dinanzi al "white woman's burden".

L'incrostazione eurocentrica che opacizza la lente di Okin si consolida in riferimento ad un altro postulato del pensiero liberale: il consenso.

Occorre evidenziare il modo in cui esso è invocato in relazione ai cosiddetti casi problematici; la circostanza che tramite il ricorso a determinate pratiche culturali si concreti la violazione di diritti indisponibili o parzialmente disponibili conduce a presumere la mancata sussistenza del consenso dei titolari dei diritti in oggetto. Tale posizione implica due corollari: 1) lo standard assiologico e giuridico che si richiama nella definizione e delimitazione del conflitto tra diritti della donna e diritti del gruppo fluisce interamente dall'universalismo occidentale, dalla supposta identità dei diritti umani con i valori delle western societies; 2) le pratiche tradizionali vengono decontestualizzate e appiattite nella forma di mere fattispecie giuridiche astratte.

L'adesione da parte delle donne alle loro culture e alle pratiche interne ad esse è comunemente qualificata attraverso la nozione di "preferenze adattative" (30): essa allude a comportamenti che concretano un'adesione internalizzata indotta da fattori coercitivi esterni. E' evidente che tale nozione può essere ragionevolmente adottata o, viceversa, dilatata fino ad assumere una portata generalizzante e astraente; difficilmente essa può ricevere applicazione con riguardo alle donne che ricorrono a determinate pratiche in età adulta, o a quelle che non sono intranee alle culture di provenienza o le cui appartenenze culturali sono plurime o incrociate.

Se giuridicamente, per dirla alla Ignatieff (31), è la titolarità di un diritto che segna la fondatezza della rivendicazione e la credibilità del suo fondamento, antropologicamente è al punto di vista dell'altro che occorre guardare, a tal proposito, appare imprescindibile considerare l'autopercezione e l'autocomprensione delle donne rispetto alle pratiche in oggetto.

Anna Elisabetta Galeotti, voce isolata, definisce l'adesione a pratiche che si traducono altresì in una limitazione della libertà sessuale femminile attraverso l'espressione "preferenze accettabilmente autonome" (32). L'autrice ne qualifica il contenuto sostenendo che le suddette preferenze, con tutta probabilità, in un mondo ideale, nel regno dei fini kantiano, sarebbero diverse, ma nel mondo reale, dove gli individui scelgono all'interno di alternative strutturate dal contesto e accettano gran parte dei suoi dati di sfondo, sono nel loro genus piuttosto simili a quelle di uomini e donne occidentali. In altri termini, in tali atti vi sarebbe un quid di autonomia, affine nella qualità e nella portata a quello riscontrabile nei comportamenti di donne americane o europee che vivono in uno stato di segregazione domestica e sono vittime abituali di violenze e abusi (33). Dunque il rischio nel quale non bisogna incorrere è quello di adottare, nella valutazione dell'autonomia delle preferenze e delle scelte delle donne appartenenti alle minoranze, standard più rigorosi di quelli applicati alla società di maggioranza.

Come si è osservato in precedenza, le coordinate di tale specifica tematica convergono nell'ambiziosa e complessa sfida a conciliare l'indisponibilità di certi diritti con l'apertura culturale, abbandonando fondamentalismi umanitari (34) e culturali e muovendo da elementi potenzialmente transculturali, non solo di natura valoriale. Si pone riferimento a indicatori che possono essere usati in chiave interculturale o 'internormativa': in primis la 'porosità' (35) che a livello fattuale, anche nell'ambito del nostro ordinamento, contraddistingue il diritto all'integrità fisica.

Rimane ferma la circostanza che non si pongono dubbi riguardo all'ammissibilità delle forme privative di escissione, ma sul crinale ipervalutativo e al contempo avalutativo di Okin assieme a queste pratiche scivola l'atto di indossare il velo o, a fortiori, la sunnah simbolica.

Nell'ambito delle culture liberali occidentali l'elemento del consenso del titolare del diritto all'integrità fisica consente la sottoposizione a interventi chirurgici estetici che comportano un'apprezzabile percentuale di rischio. Questa osservazione non vuole produrre, in alcun modo, l'equiparazione di questa ipotesi al caso delle mutilazioni genitali femminili in cui l'alea concernente la lesione del bene giuridico (36) è evidentemente esclusa, ma tende ad introdurre qualche elemento di riflessione circa la non univocità della nozione di integrità fisica (37).

Dal saggio di Okin emerge l'applicazione di un double standard anche in relazione alla dimensione simbolica del controllo sociale di genere, a tal proposito si può ben presumere che l'atto di indossare il velo possa essere supportato dal consenso, alla stessa stregua della scelta di indossare abiti succinti (38). Esso può essere definito come un atto complesso autonomo mediante il quale le donne o le ragazze definiscono la loro posizione sia in rapporto alla cultura di provenienza sia rispetto alla società di approdo. Anche in ragione di tale aspetto - l'autonomia delle scelte - è opportuno non operare affrettate assimilazioni entro il novero di consuetudini tradizionali che si collocano nell'ambito di una determinata cultura.

Coerentemente con l'impianto liberale che Okin si autoascrive, un discrimen tra i casi cosiddetti problematici può essere offerto dal principio del danno, se l'attuazione di pratiche tradizionali o di loro riduzioni simboliche non comporta una violazione materiale per chi ricorre ad esse, gli aspetti problematici cadono o vengono fortemente attenuati.

Ma è evidente che esiste una dimensione di violazione materiale del diritto all'integrità fisica e, in taluni casi, del diritto alla vita. A questo proposito cosa propone Okin?

La soluzione prospettata converge sull'assimilazione dei membri oppressi del gruppo minoritario al gruppo maggioritario, se ciò ha come esito l'estinzione della cultura d'origine, nulla quaestio (39). Dunque, la soluzione per Okin è rappresentata dal cosiddetto diritto di exit esercitabile dalla donna nei confronti del gruppo di appartenenza. Okin si comporta, per dirla con le parole di Baccelli, come tutti quegli autori che concepiscono il diritto di exit come una sorta di pietra filosofale teorica (40). Se non sussiste alcun dubbio circa la necessità di garantire agli individui e, in particolare, alle donne la possibilità di uscire dalla propria comunità, il problema che si pone è: verso dove?

Ayelet Sachar si chiede se questo atteggiamento teorico non implichi il riferimento alla cultura come ad un'etichetta, cioè come qualcosa di esteriore che si applica alle persone e si può facilmente rimuovere a colpi di "diritti", senza incidere (negativamente) su di esse. Ultimata l'operazione, qualsiasi individuo ed ogni donna, è trasformato in un neutro soggetto politico, in cittadino dello Stato democratico liberale, o quanto meno, essendo stati rimossi consistenti elementi ostativi al raggiungimento di tale status, può venire classificato come tale. E' evidente che sia legittimo domandarsi se tale operazione aritmetica di neutralizzazione degli aspetti culturali (- cultura, + (supposti) diritti) possa condurre con successo ad una "soddisfacente" vita individuale "liberamente scelta", o non, piuttosto ad un durkheimiano stato di prostrazione anomica (41). Si aggiunga, poi, che, come sostiene Taylor, per il significato esistenziale che una determinata cultura possiede per i suoi membri, occorre, quanto meno, "presuntivamente" rispettarla (42).

Per molte donne, inoltre, l'abbandono della propria comunità implica la perdita di ogni mezzo di sostentamento o, nella migliore delle ipotesi, l'emarginazione. Uscire dalla propria cultura familiare è certamente costoso per i singoli, in special modo se provengono da culture minoritarie e diverse da quella dominante, perché fuori non trovano un mondo accogliente e ricco di opportunità di vita e di lavoro (43), "non si entra nel giardino dell'abbondanza, ma nelle aree dell'anomia" (44). Pensiamo al privilegio di cui gode una ragazza maghrebina sedicenne che esce dal gruppo d'origine per "essere accolta" nella società francese di maggioranza, la stessa società che immediatamente prima non si era curata del diritto all'istruzione di una donna minore, e la cui tutela si era contraddittoriamente e opportunisticamente arrestata ad un capo di abbigliamento, al velo come (presunto) ostentato simbolo di oppressione o di integralismo islamico.

Si aggiunge, altresì, che, quale che sia il ruolo della donna o della ragazza nella cultura di provenienza, esso comporta un implicito riconoscimento (45). Per contro, è evidente che la possibilità d'uscita è fondamentale anche per chi decide di rimanere, poiché offre qualche margine di negoziazione interna (46). Non è possibile sostenere che il diritto di exit rappresenti una soluzione con valenza generale, anche se il suo esercizio può avere consistenti risvolti solutivi per il singolo caso (47).

Ciò nondimeno, sul diritto di exit affluiscono significativi paradossi. L'analisi della sua portata e delle sue implicazioni assume una dimensione di maggiore profondità ove si consideri il diritto di exit come la spia empirica oltreché tematica della simultanea coesistenza della disuguaglianza di genere e della disuguaglianza tra gruppi; per tale motivo, lo si ribadisce, una prospettazione teorica che modestamente si approssimi a considerare l'ambito delle soluzioni deve necessariamente contemplare questo doppio ordine di disuguaglianze.

La trattazione della disuguaglianza tra gruppi appare poi prioritaria per la ragione costitutiva che sposta il baricentro della problematica su un profilo di carattere economico, sociale, oltreché culturale. Se si guarda alla circostanza che l'individuo in questione non è solo una donna discriminata e oppressa nella cultura d'origine ma è una persona che nella società d'approdo ha a disposizione chances ancora minori di quelle che avrebbe nella comunità di appartenenza, unitamente al fatto che spesso si tratta di opportunità ulteriormente ridotte dall'identità sessuale, non si vede come la tematizzazione del conflitto tra diritti collettivi e diritti individuali in relazione al genere possa ricevere una sovraconnotazione culturale.

In linea concreta, in alcuni casi, la cultura, presuntivamente concepita come un prius rispetto all'individuo (48), per uomini e donne migranti, sopravvive esclusivamente nel riflesso autodifensivo (49) che questi arrivano a maturare rispetto alla cultura della società di maggioranza (50).

Se, dunque, l'esclusivo ancoraggio alla disuguaglianza di genere, in Okin, ha come soluzione il diritto di exit delle donne dalle culture di provenienza, o peggio, l'estinzione delle stesse, è evidente che occorre ampliare la portata del problema, disegnandone la complessità attraverso le dinamiche delle società multiculturali attuali.

In ragione della circostanza che nell'ambito della tematica di genere, nondimeno nel saggio di Okin, l'attenzione sembra spesso convergere sui cosiddetti casi problematici, occorre vedere, quali soluzioni, muovendo da una considerazione congiunta della disuguaglianza di genere e della disuguaglianza tra gruppi, possono o potrebbero darsi.

Se agire sulla disuguaglianza tra gruppi ha per conseguenza l'attribuzione di rilevanza pubblica alla differenza, nei confronti della "differenza" diviene improbabile concepire un'identità politica comune: il discorso integrativo/interattivo deve mutare registro e deve passare da una concezione sostanziale ad una processuale dell'unità. La società e le sue istituzioni politiche devono approntare modalità di inclusione, cioè devono fornire ai propri membri delle opportunità di riconoscersi in esse, dei motivi per identificarsi in esse, e costruire un senso di appartenenza alla società nel suo complesso. Come sostiene Belvisi, ciò appare realizzabile solo da un punto di vista pratico: "quello di vedere rispettate e riconosciute delle modalità di agire istituzionalizzate che possono non essere condivise da una parte anche consistente della popolazione, in quanto designano comportamenti culturalmente specifici" (51). Alcuni autori, a tal proposito, non abbandonando la possibilità di riferirsi ad una prospettiva liberale, sostengono che una società che permette ai membri delle minoranze culturali di seguire i loro stili di vita, può venire apprezzata proprio per questo suo aspetto compiutamente liberale: a prescindere dalla propria identità culturale e politica, l'individuo può riconoscersi in una società che gli consente di comportarsi in modo conforme al suo patrimonio culturale e normativo. Ciò si pone agli antipodi del "patriottismo costituzionale".

E' evidente, però, che vi sono comportamenti culturalmente specifici come l'indossare certi capi di vestiario e pratiche culturalmente specifiche che invece comportano la lesione permanente dell'integrità fisica e della libertà sessuale femminile. Su queste faglie si dispongono i problemi della convivenza e la costruzione - sia pure sul piano procedurale - di un senso di appartenenza comune che passi attraverso il pluralismo culturale.

In ogni caso, se si salvaguarda la complessità e il valore del concetto di cultura e si va oltre la dimensione retorica del pluralismo culturale, nondimeno se l'intenzione reale è quella di far sì che determinate pratiche culturali vengano effettivamente abbandonate, occorre tenere presente che lo strumento più efficace a tale scopo è il concreto sostegno alle forze del mutamento interno ad una cultura, e non la repressione penale (52). Ciò anche in considerazione del fatto che tali pratiche risultano incomprensibili alla 'nostra' coscienza plasmata dal rispetto della dignità e dei diritti della persona e inaccettabili per chi parla (o pretende di parlare) il linguaggio dei diritti.

2.2 La dimensione simbolica come soluzione e come spia tematica del double standard

La negoziazione tra gruppi culturali diversi o il sostegno alle forze di mutamento interne ad una determinata cultura non rappresentano un mero argomento teorico invocato dai 'multiculturalisti' per legittimare comportamenti lesivi dei diritti. A tal proposito, nell'ambito delle pratiche tradizionali, occorre distinguere una dimensione di violazione materiale delle libertà personali e dei diritti di donne e dei soggetti deboli da una dimensione simbolica nella quale, spesso, si concreta esclusivamente la diversità culturale (53).

A tal proposito è interessante richiamare due casi diversi: il primo caso concerne la proposta di ricorrere all'escissione simbolica, che, nel 2004, sulla base di un principio di accommodation (54), è stata avanzata nell'ambito dell'ospedale Careggi di Firenze; il secondo caso riguarda la distorsione e la strumentalizzazione dei simboli religiosi, in particolare del velo, nell'esperienza francese.

La prima ipotesi prospetta le conseguenze favorevoli della simbolizzazione della pratica. Nella trattazione del caso francese, invece, si evidenzia la necessità di distinguere un comportamento emblematico della diversità culturale e religiosa - l'atto di indossare il velo - da azioni che determinano un reale pregiudizio ad altri, in considerazione delle quali risulterebbe giustificata l'invocazione del linguaggio dei diritti. E' noto che per ciò che concerne le problematiche connesse all'escissione, il nostro ordinamento ha scelto di ricorrere alla repressione penale. Nel caso dell'hijab il legislatore francese ha adottato una politica proibizionistica. Questi dati non impediscono di discutere o di avanzare prospettazioni incentrate sulla categoria del "che fare" e non sul piano del "che linea prendere".

Alla fine del gennaio 2004 ha preso corpo una nuova dimensione del dibattito attorno al tema delle mutilazioni genitali femminili. La discussione riguardante tale problematica ha riacquistato vigore a seguito della "proposta alternativa all'infibulazione" fatta da alcune donne della comunità somala di Firenze e sostenuta dal dottor Omar H. Abdulkadir del Centro per la prevenzione e la cura delle complicanze delle MGF di Firenze. L'idea era quella di far praticare in una struttura ospedaliera una "sunnah simbolica", consistente in una "puntura di spillo sulla mucosa che ricopre il clitoride dopo anestesia locale", in modo da produrre una lievissima perdita ematica, ma da non lasciare successivamente traccia alcuna dell'intervento. Interessate sarebbero state le bambine a rischio di escissione delle famiglie conservatrici. Nel suddetto modo si sarebbero tenute in sostanziale considerazione "le necessità di molte delle donne della comunità - ancora fortemente resistenti all'abolizione totale dell'infibulazione 'storica' - al contempo, avviando, su tale questione, un nuovo processo culturale che, anche nel rispetto delle diverse culture e tradizioni, risultava mirato al più ampio coinvolgimento delle donne e all'abbandono reale dell'infibulazione" (55).

Alla simbolizzazione della pratica sottostavano due finalità: la prima consistente nell'annullamento del dolore e dei suoi effetti invasivi ed estremamente dannosi per l'integrità e la salute delle minori costrette a subirla in condizioni igieniche del tutto inadeguate e al di fuori da un contesto sanitario, la seconda costituita dalla salvaguardia della valenza culturale di "rito di passaggio" di tale consuetudine tradizionale.

E' significativo che "la proposta provenisse dall'interno della cultura interessata, volta a rispondere ad esigenze pratiche immediate e a trasformare la cultura stessa. Essa non era tesa ad estirpare in modo velleitario, e secondo la logica del tutto e subito, delle pratiche radicate nella tradizione" (56). Benché fosse evidente che l'idea non proveniva da persone favorevoli e attaccate ai rituali tradizionali, la proposta fu attaccata e respinta da più parti, prime tra tutte le esponenti del femminismo ideologico. Esse ritenevano che il ricorso all'escissione simbolica si traducesse in una legittimazione del significato sostanziale delle MGF.

Come si è visto, le culture non sono contenitori che inglobano individui privi di una coscienza autonoma. Dunque, è ben possibile che singoli individui e singole donne, pur non auspicando l'estinzione immediata di pratiche che hanno contribuito ad offrire un orizzonte di senso alla propria o all'altrui esistenza, sviluppino dall'interno processi di critica e di cambiamento di contenuti propri della loro cultura. E ciò non in dispregio della dignità della scelta compiuta dalle donne legate ai rituali tradizionali, che, per quanto dolorosi e incomprensibili per gli appartenenti a culture diverse, hanno sancito un riconoscimento all'interno del gruppo e sono stati motivo di orgoglio.

Come in ogni pratica di accommodation, negli interstizi del negoziato non tutte le istanze vengono completamente salvaguardate. Si obietta che un aspetto centrale della dignità della bambina - quale l'espressione del consenso per operazioni che riguardano la disposizione del proprio corpo e della sua integrità - non viene tutelato (57). Tale argomentazione viene invocata contro la simbolizzazione dell'escissione. Ma è necessario rilevare che, in relazione agli altri interventi di disposizione sul corpo dei minori, la mancanza del consenso nel minore viene inquadrata alla luce del principio giuridico secondo cui occorre la capacità dell'avente diritto a validamente consentire, per cui sono i genitori che nella maggior parte dei casi decidono per i figli minori (58).

Per contro, è indubbio che l'ospedalizzazione e la riduzione simbolica della pratica consentano di neutralizzare un fattore gravemente lesivo della dignità della bambina: la considerevole nonché inutile sofferenza. Dalla simbolizzazione dell'escissione discenderebbero altre conseguenze rilevantissime quali la definitiva determinazione del sesso, la tutela dell'integrità morale, il miglioramento della vita sessuale e della capacità riproduttiva.

L'opzione, dunque, intercorre tra la difesa oltranzista di un principio (l'inviolabilità del corpo della donna minore) e l'intenzione di ridurre al minimo sofferenze inutili. Sostiene lucidamente Gianni Vattimo: "noi pensiamo che sia più civile, e più civilizzante, questo ultimo atteggiamento, che del resto è sulla linea di quelle simbolizzazioni che hanno fatto, su tanti piani, il progresso dell'umanità" (59). Ciò conferma il monolitismo di Okin e rende difficilmente sostenibile la sua tesi: come si è accennato all'inizio, la riflessione di Okin sulle culture altre fa scivolare in un unico crinale lesivo la forma più privativa di escissione, insieme alla sunnah simbolica, o all'atto di indossare il velo. Se Okin non producesse questa implausibile equiparazione tra comportamenti lesivi e comportamenti emblematici della diversità culturale, sarebbe costretta ad ammettere che il principio del danno opererebbe concretamente anche con riferimento alle donne che non potrebbero beneficiare della simbolizzazione di una pratica lesiva, e dunque sarebbero escisse tradizionalmente, o alle donne cui venga preclusa la scelta del proprio abbigliamento. Ancor prima, ammettere che all'interno delle culture tradizionali vi sono donne che sostengono il ricorso alla simbolizzazione dell'escissione o indossano il velo senza alcuna imposizione, significherebbe accettare che tali donne attribuiscono un valore consapevole alla propria cultura, e proprio in virtù di ciò, sono intenzionate a modificarne alcuni aspetti o a mantenerne altri. Questo dimostra come la riflessione di Okin escluda totalmente la tutela giuridica della diversità culturale e dunque non prenda in alcuna considerazione i temi importanti che il principio di accommodation include: unitamente al riconoscimento della diversità culturale, l'attuazione dell'eguaglianza sostanziale, il dialogo interculturale, dunque l'eguale rispetto per le culture e la negoziazione.

Il legislatore italiano, per esempio, come si è visto, ha preferito sacrificare il principio dell'accommodation alle 'agevoli' e demagogiche forme della repressione penale (60), ma soprattutto ha scelto di ignorare, assieme al principio di riduzione del danno, un atteggiamento di apertura culturale volto all'effettiva salvaguardia degli individui appartenenti a gruppi diversi da quello maggioritario. Una tutela compiuta non può attuarsi soltanto per il tramite di fattispecie giuridiche (61). Questa scelta si traduce in una ipersemplificazione giuridica dei fenomeni sociali con un significato politico assimilazionista chiaramente riconducibile ad un paradigma di cittadinanza esclusiva o all'ambigua inclusività del "compellere intrare". Non si tratta peraltro di riconoscere 'un diritto all'escissione', quanto piuttosto un trattamento giuridico differenziato.

Ciò costituisce una deplorevole dimostrazione del fatto che l'individuo "concreto", "bisognoso", le donne appartenenti a culture altre, ancora una volta, soccombono nella morsa della rivendicazione di un universalismo astratto, esclusivo, impermeabile. Torna il particolarismo deteriore come involucro di pretese universalizzanti. E pretesa nucleare è la difesa dei diritti umani. Ma nel contesto della riduzione di una pratica lesiva ad una dimensione simbolica non è difficile diffidare di chi usa la parola "umanità" (62).

Dopo aver messo in campo un caso realmente problematico, in cui si fronteggiano istanze come l'indisponibilità del diritto all'integrità fisica, la tutela della libertà sessuale, il riconoscimento della dignità di culture altre, il principio di riduzione del danno, si comprende ancora meno come l'atto di indossare il velo da parte di studentesse nei locali scolastici possa costituire un problema della stessa portata, o addirittura, giunga ad assumere un'evidenza pubblica di gran lunga maggiore.

Nell'esperienza francese l'accanimento contro il presunto significato di un simbolo e, per converso, la distorsione del simbolo nei termini di una violazione a danno di chi non si riconosce in esso, finiscono per mettere in luce soltanto le declinazioni contraddittorie, che, nell'ordinamento francese, ha assunto il concetto di laicità e l'invocazione del pensiero femminista.

Si è evidenziato che la tematizzazione del multiculturalismo in Italia coincide con la sovraconnotazione culturale delle problematiche di carattere sociale, politico e giuridico che la convivenza tra gruppi pone e si fonda sulla considerazione dell'Islam come perno attorno al quale ruotano tali problematiche, la medesima considerazione può applicarsi al 'multiculturalismo francese'. Da questa osservazione discende che una compiuta caratterizzazione degli ordinamenti giuridici in senso pluralista consentirebbe di traslare il discorso sull'Islam dal paradigma della legalità e della sicurezza a quello del rapporto tra culture. Per dirla alla Okin, un continuum teorico tra istanze liberali e istanze femministe, unitamente ad una reale caratterizzazione in senso laico dell'ordinamento giuridico francese avrebbero costituito un territorio di forte resistenza ai presupposti che hanno sovrainteso all'entrata in vigore della Legge 228/2004 (63).

L'esperienza francese conferma, a fortiori, che l'idea di badness per le donne non dimora prioritariamente nelle istanze multiculturaliste, quanto piuttosto nel fondamentalismo umanitario e nelle forme del razzismo 'rispettabile'. Se il fondamentalismo umanitario è l'esito cui gli stati liberali occidentali approdano quando vi è in gioco la violazione materiale di diritti fondamentali, nella specie delle donne e dei soggetti deboli, al "razzismo metaforico" si riconduce la convinzione che all'interno della cultura islamica il controllo sociale di genere si realizzi anche e soprattutto attraverso l'imposizione di simboli religiosi. Con riguardo alla posizione assunta dal legislatore francese sull'hijab, tra quelle che secondo Pierre Tevanian sono le principali metafore del razzismo repubblicano figurano laicità e femminismo (64).

A partire dal 2003 la destra, la sinistra e l'estrema sinistra hanno lanciato una "campagna antivelo" (65), trasformando la presenza di poche migliaia di studentesse velate all'interno delle scuole in un casus belli mediatico (66). Il semplice diritto di indossare il velo è stato equiparato ad una forma di coercizione equiparabile a quella che il regime talebano impone alle donne afghane. Ma ancor più significativamente, l'atto di indossare il velo è stato concepito come un attacco alla laicità e al femminismo (67). La legge del 2004 è stata giustificata come un prolungamento ideologico delle grandi leggi sulla laicità del 9 dicembre 1905 (68), e prima ancora del 1882 (69), ma, in realtà, come sottolinea efficacemente Pierre Tevanian, tale intervento normativo ha segnato il transito da una 'laicità laica', libertaria, democratica ed egualitaria ad una laicità religiosa, sicuritaria, liberticida, e identitaria.

Per ciò che concerne il transito 'laicità laica'/ laicità religiosa si è passati da un rapporto di alterità tra laicità e religione ad un rapporto di 'rivalità mimetica'. Il carattere di tale relazione può essere emblematicamente rappresentato per il tramite di una citazione di Sarkozy, ossia l'argomento ricorrente secondo cui "se quando si entra in una moschea ci si toglie le scarpe, quando si entra a scuola ci si deve togliere il velo" (70). E' evidente che tale pensiero assimila la scuola ad un luogo di culto e la laicità ad una religione. La scuola è uno spazio laico, pedagogico, non dogmatico, un luogo in cui ci si esercita a guardare i fenomeni da punti di vista diversi e ad attribuire agli oggetti una dimensione polisemica, solo il rituale religioso assegna una valenza univoca agli oggetti. Affermando che il velo segna un'appartenenza religiosa esibita, che addirittura configura una sfida - si pensi al sintagma avverbiale che costituisce il fulcro dell'intera legge "ostensiblement" (71) - la scuola viene inquadrata con le categorie del rituale religioso, e i docenti come ministri di culto. Si consideri, peraltro, che la neutralità dell'abbigliamento degli insegnanti non è stata mai effettivamente imposta, in questo la legge 228/2004 si pone in perfetta continuità con gli interventi normativi precedenti.

Ci si sofferma adesso sul transito laicità libertaria/laicità sicuritaria. Nelle leggi del 1882 si traduceva un concetto di laicità libertaria: si imponeva neutralità ai programmi scolastici e al personale scolastico. Questa laicità, in congiunzione con la liberté e l'égalité, garantiva che la libertà degli allievi e dei docenti del gruppo maggioritario non si ponesse in contrasto con la tutela e l'esercizio della libertà degli allievi e delle allieve del gruppo minoritario. L'allievo veniva concepito come titolare di una coscienza in via di formazione, l'istanza di neutralità dell'insegnamento avrebbe consentito ai discenti e alle discenti di effettuare le proprie differenti scelte, morali, politiche ed estetiche. Dunque, nessuna limitazione alla libertà di espressione era posta dai fondatori della scuola laica se non quelle costituite dal diritto comune e dalle necessità pedagogiche. E' significativo constatare che le leggi del 1882 non parlano della "neutralità dell'allievo" (tantomeno dell'allieva!). La costruzione di una coscienza nei ragazzi e nelle ragazze passa attraverso il libero arbitrio, l'emancipazione passa attraverso la libertà di parola che può essere esercitata anche tramite la manifestazione di pensieri poco plausibili o di pregiudizi. Diversamente il pregiudizio non è concesso alle istituzioni pubbliche.

La legge cosiddetta "antivelo" è in totale rottura con la laicità libertaria, poiché, anche se si pronuncia "solo" sulla libertà di abbigliamento veicola per gli allievi, e soprattutto per le allieve musulmane, l'idea che essi non siano completamente liberi di esprimersi. Un'altra rilevante conseguenza, tanto più se, come abbiamo visto, si considera nella tematica di genere il leit motiv della separazione tra sfera pubblica e sfera privata, converge sul fatto che un simile intervento induce le ragazze musulmane a privarsi della loro identità religiosa nella sfera pubblica. Escludendo le ragazze che indossano il velo dalla scuola, si compromette la loro possibilità di formarsi e di emanciparsi. Si profila lo spettro del razzismo. Il fondamento di una laicità che si estrinseca nelle suddette forme cessa di comprendere la libertà e l'eguaglianza, e, piuttosto, viene a reggersi sulla sicurezza e l'ordine pubblico. Uno degli argomenti giustificativi dell'imposizione del divieto di indossare il velo più frequentemente invocati ha riguardato l'intenzione di "peace-keeping" (72). Nelle scuole, scenario di problematiche tensioni tra allievi di gruppi etnici e culturali diversi, finalmente poteva essere ristabilito l'ordine. Inutile dire, che tali motivazioni incorporano un frammento emblematico della volontà di ipostatizzare lo scontro tra gruppi e di non fare luogo ad alcuna soluzione che incida positivamente sullo scioglimento della tensione.

Il passaggio dalla laicità democratica ad una laicità liberticida si concreta nel discorso che i sostenitori della legge cosiddetta "antivelo" sviluppano sulla necessità di neutralità dello spazio pubblico.

In realtà due sono le concezioni sulla neutralità dello spazio pubblico. Uno spazio pubblico è neutrale quando offre eguali opportunità a chi vi partecipa, quando la maggioranza non è l'unica titolare della libertà di espressione. Lo spazio pubblico deve essere neutrale poiché può esserlo. L'inveramento di un'istanza di neutralità comporta che una ragazza sia libera di indossare il velo, mentre un'altra possa non farlo. Come si accennava in precedenza, il diritto di indossare il velo, per gli estensori della legge del 2004, viene contraddittoriamente concepito come un obbligo, con il paradosso pragmatico che la reale e generale imposizione si concreta piuttosto nell'ingiunzione normativa di non indossare il velo.

Vi è poi un'altra concezione della neutralità dello spazio pubblico, nell'ambito della quale, il rispetto dell'istanza di neutralità non si impone alle istituzioni, ma al pubblico, a tutti gli individui che compongono "il pubblico". Le ragazze velate, in quest'ottica, attaccano la neutralità dello spazio pubblico, ciò implica la sospensione della loro libertà di espressione. Formalmente tale concezione non risulta 'propriamente' ascrivibile ad un pensiero totalitario, poiché è sottinteso che l'imposizione di neutralità e la correlativa neutralizzazione della libertà di espressione riguarda soltanto il pubblico musulmano (73), e non tutti i cittadini francesi.

Con la legge cosiddetta "antivelo", si è detto, la laicità perde la sua connotazione egualitaria e si veste di identitarismo. Tale intervento normativo pone una disuguaglianza, stabilendo un'interdizione che non vale erga omes, ma che, sia nei fatti che nell'intentio legis, concerne soltanto determinati allievi, o meglio, alcune allieve. Come spiegare la pressoché totale assenza di comprensione nei confronti di queste ragazze velate che sono state escluse dalla frequenza scolastica?

Qualsiasi sia stata la concezione relativa all'hijab, se si fosse trattato di ragazze 'occidentali', con tutta probabilità si sarebbe imposto il problema della penalizzazione delle 'vittime'. Non si trascuri poi che il successo scolastico può costituire per i figli e le figlie di migranti, la chiave dell'integrazione sociale. Non vi è difficoltà a chiamare razzismo l'ingrediente riscontrabile in tutti gli argomenti che giungono all'essenzializzazione della cultura islamica e a postulare una identificazione dell'Islam con le sue componenti integraliste.

Secondo Pierre Tevanian, quest'ultimo transito può essere icasticamente evidenziato attraverso tre interventi verbali. Il primo riguarda il Ministro dell'Istruzione (74), il quale, richiesto di un parere sulla legge cosiddetta "antivelo", sostenne a proposito delle ragazze velate: "chi non ama la Repubblica, deve andarsene". Inutile sottolineare la logica esclusiva del punto di vista del Ministro, il quale non si è pronunciato sull'intervento normativo in oggetto, ma, in compenso, ha operato una "denaturalizzazione simbolica" delle allieve musulmane.

Il medesimo esito viene ottenuto dalla considerazione di Galvany (75). Il parlamentare in questione, in un'intervista televisiva fu richiesto di pronunciarsi riguardo alla prima e più macroscopica conseguenza della legge 228/2004: l'esclusione delle ragazze velate dalla possibilità di ricevere un'istruzione pubblica. La risposta che ne seguì, oltre ad evadere la domanda, si traduceva nella più totale cecità rispetto all'autopercezione delle ragazze circa la scelta di indossare il velo: "il nostro modo di vivere non contempla il velo a scuola". Una delle infinite variazioni dell'imperativo eurocentrico: "noi qui facciamo così" (76). Tenendo presente la manifestazione di questi due 'modi sentiendi', non è difficile comprendere cosa si intenda per laicità identitaria e per particolarismo mascherato da universalismo astratto. La laicità intesa come astratto principio 'universale' cessa di essere pluralistica e inclusiva, e dunque sostanzialmente egualitaria, per divenire identitaria.

A tal riguardo, si tenga presente anche l'intervento di Louis Penat, esponente della sinistra francese: "l'insegnante non deve sapere se i suoi allievi sono ebrei, cristiani o musulmani". In questa considerazione l'argomento identitario non è rivendicato consapevolmente ma il particolarismo si esprime secondo presunte categorie universali e un discorso identitario pretende di porsi come egualitario. Nelle pieghe di questo pensiero si fa dell'identità la condizione dell'uguaglianza formale e sostanziale; non si comprende come la conoscenza da parte del docente delle differenze religiose dei propri allievi possa impedire un eguale trattamento.

Nell'esperienza francese della promozione della legge cosiddetta "antivelo" è stato coniato il binomio laicità/femminismo. Da un punto di vista storico ciò contrasta con la minuta circostanza che in Francia il legislatore ha affrontato il tema della laicità con gli interventi normativi del 1882 e del 1905, mentre ha attribuito il diritto di voto alle donne nel 1945. Se si sostiene che la legge del 2004 è uno strumento che consente a donne oppresse di diventare libere come le altre, è evidente che non siamo soltanto di fronte a un paradosso pragmatico ma anche ad un paradosso teorico che esclude ogni congiunzione tra istanze autenticamente femministe e laicità, almeno ove essa sia identitaria, sicuritaria, liberticida e 'religiosa'.

Per rispondere ad Okin, non si vede come il divieto legale di un comportamento che non cagiona danno ad altri e in cui si concreta esclusivamente la diversità culturale possa conciliarsi con il principio liberale del rispetto dell'autonomia individuale e con il nucleo centrale del femminismo di Okin: la tutela della libertà della donna.

La concezione della donna propria del pensiero femminista appare difficilmente conciliabile con l'idea che la legge cosiddetta "antivelo" fornisce delle ragazze velate, dunque, non desta stupore che l'invocazione del femminismo risieda nel processo di metaforizzazione della discriminazione razziale.

La metafora femminista del razzismo, infatti, assume apparentemente le sembianze di un discorso femminista che tale non è. In realtà esso fa appello ad una reinvenzione della tradizione giuridica francese per ciò che concerne il principio dell'uguaglianza dei sessi: l'uguaglianza tra uomini e donne sarebbe un pilastro storico della società repubblicana francese, dunque occorre arginare le minacce esterne che provengono a questo principio (77).

Ma il pensiero femminista, e dunque la tutela del principio dell'uguaglianza di genere, contribuiscono in modo decisivo a sostanziare i presupposti della legge cosiddetta "antivelo", forse sarebbe più corretto dire che in tutta l'esperienza francese del velo è all'opera la metafora femminista del razzismo. Nella metafora femminista del razzismo il principio dell'uguaglianza di genere è invocato in senso strumentale: ciò che viene in rilievo infatti non è l'effettivo rispetto di tale principio, piuttosto, si assume che in un sistema (quello francese) la norma dell'eguaglianza morale tra uomo e donna sia sancita e per ciò stesso inderogabilmente tutelata, e in un altro (quello islamico) essa non sia contemplata e per ciò stesso sistematicamente violata. Come nelle altre forme metaforiche di razzismo ci si appella alla salvaguardia di un valore per degradare moralmente l'altro, che si assume sia estraneo a quel valore.

La vicenda descritta restituisce circolarmente il punto da cui si era partiti: l'applicazione di un double standard per ciò che concerne i processi di simbolizzazione interni alle diverse culture. Molte autrici femministe hanno studiato il significato simbolico dell'abbigliamento, nell'esperienza francese del velo, evidentemente l'abbigliamento viene in rilievo come emblema dell'assimilazione ad un ruolo sociale. Potrebbe sostenersi, che se la donna musulmana deve interamente sottostare alla volontà dei membri maschili del gruppo, la donna occidentale ha l'obbligo costante di essere seducente e attraente, ma sappiamo che un discorso ben più plausibile converge sulla considerazione che prioritario è invece il senso che ciascuna donna conferisce al proprio modo di vestire. Ma questo senso sparisce quando l'abbigliamento non è 'occidentale'. Per ipotesi nessuno avrebbe mai pensato di votare una legge contro le ragazze che mettono il rossetto, ma, anche ove si fosse pensato che ciò costituiva sintomo di alienazione, nessuno avrebbe finito per punire le 'vittime'.

Nel primo anno di vigenza della legge cosiddetta "antivelo" si stima che in Francia siano state espulse 110 ragazze, la maggior parte di esse ha accettato di togliere il velo. Si pensa, però, che l'intervento normativo in questione, oltre ad interrompere l'esercizio del diritto di istruzione delle ragazze velate escluse (78), si sia tradotto in un forte disincentivo alla scolarizzazione di un numero (pari al doppio) di ragazze musulmane intenzionate a non revocare la scelta di indossare il velo (79).

Ma, nel caso specifico, questi sono i costi del multiculturalismo alla francese, in cui laicità e femminismo, come le altre metafore del razzismo 'rispettabile', rendono presente l'immagine di una Francia post-coloniale. Più ampiamente questi sono i costi dell'universalismo liberale, con buona pace delle negoziazioni, delle soluzioni, dei simboli, delle culture altre, ma soprattutto con buona pace degli individui Altri e delle donne Altre.

3.1 "To complicating western universalism"

Nell'identificazione della portata e nella configurazione del limite del conflitto tra diritti collettivi e diritti individuali in relazione al genere, come si è detto, si invocano i diritti umani.

I diritti umani vengono qualificati come "universali". Da questo punto di vista, come si è sottolineato nella prima parte del lavoro, la proclamata universalità dei diritti, all'indomani della Rivoluzione francese, viene simultaneamente contraddetta dall'aproblematica esclusione dagli ideali egualitari di due categorie di soggetti: le donne e gli schiavi. E' evidente che senza diritti delle donne, non può darsi alcuna "universalità dei diritti" (80).

Tale considerazione mette in campo uno degli aspetti formali del linguaggio dei diritti: "l'universalismo dei titolari". Il discorso universalistico 'occidentale' unisce al piano dell'"universalismo dei titolari", il profilo dell'"universalismo dei fondamenti".

Il principio secondo cui tutti gli esseri umani sono titolari di determinati diritti è scivolato nella stereotipizzazione del soggetto dei diritti, il quale storicamente ha finito per coincidere con l'uomo, bianco, 'occidentale', colonizzatore. La concettualizzazione del soggetto dei diritti riporta, dunque, una determinazione antropologica e culturale. A ciò si aggiunge la concezione sostenuta da autorevoli esponenti del giusfemminismo circa l'intrinseca portata astraente e generalizzante del diritto e correlativamente dei suoi specifici codici linguistici: l'attribuzione dei diritti ad un soggetto universale finisce per tradursi nell'imposizione di un modello di individuo e per costringere i soggetti concreti a conformarsi a tale modello.

Il fondazionalismo giuridico, ha, poi affermato la teorizzabilità di un fondamento universale dei diritti, richiamando, a sostegno di ciò, diversi paradigmi della tradizione filosofico-giuridica occidentale, dal giusnaturalismo al razionalismo etico.

Ciononostante se, per dirla alla Ignatieff, "i diritti umani hanno dato prova della loro capacità di attrazione su milioni di persone cresciute in tradizioni occidentali" (81), occorre interrogarsi sulle ragioni, per cui, in definitiva, è auspicabile salvaguardare il linguaggio dei diritti e la specificità congenere a tale linguaggio.

Dunque garantiamo il rispetto dei diritti (82) e respingiamo l'universalità astratta, che diviene universalismo esclusivo restringendosi all'identità tra western values e diritti umani.

Occorre muovere da una premessa fondamentale: fino a quando non si problematizza l'universalismo 'occidentale' e non si offre un'adeguata resistenza teorica all'universalizzazione dei contenuti della cultura giuridica occidentale, l'invocazione dei diritti umani nella soluzione dei cosiddetti casi problematici relativi alla tematica di genere può essere inefficace e può fornire un quadro epistemologicamente non valido.

Nel 1993 si è tenuta a Vienna la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sui diritti umani. L'incontro regionale preparatorio fra i rappresentanti degli Stati asiatici ha espresso la Dichiarazione di Bangkok, che si apre collegando l'impegno per i diritti umani al rifiuto dei double standards, i quali privilegiano una categoria dei diritti umani - le libertà civili - anziché riconoscere l'interdipendenza e l'indivisibilità dei diritti economici, sociali, culturali, civili e politici, incluso il diritto allo sviluppo come diritto universale e inalienabile. La questione del rapporto fra universalismo dei diritti e pluralismo culturale è stata affrontata in questo modo: "sebbene i diritti umani abbiano natura universale, essi devono essere considerati nel contesto di un dinamico processo evolutivo di formazione internazionale, tenendo presente l'importanza delle particolarità nazionali e regionali dei vari contesti storici, culturali e religiosi" (83). Non si tratta di tesi estremistiche né emerge un esplicito rifiuto all'universalità dei diritti (84).

In ragione di ciò, occorre procedere in direzione di un universalismo che presenti contenuti compatibili con le culture 'altre', con le parole di Todorov ciò che si rende indispensabile è un "universalismo di percorso".

Quale caratterizzazione dei diritti può avere una portata transculturale? Quale concezione del diritto occorre privilegiare per riuscire ad abbattere la compartimentazione tra universi giuridici, culturali, antropologici e, dunque, la loro gerarchizzazione? Nella parte successiva si tenterà di sviluppare una risposta ai due interrogativi, distinti nella formulazione ma connessi nella prospettazione delle possibili soluzioni. Questi temi hanno infatti una portata centrale e preliminare nella teorizzabilità dei diritti collettivi. Ciò in ragione del fatto che i diritti umani non vengono invocati esclusivamente come standard giuridico e assiologico nella soluzione del conflitto tra diritti individuali e diritti collettivi. Più ampiamente i diritti umani sono un mezzo di cui l'universalismo liberale si avvale per escludere la stessa postulabilità dei diritti collettivi. Soltanto la reale apertura di un confronto interculturale sui diritti universali può condurre alla comprensione delle ragioni per cui in una società multiculturale l'attribuzione dei diritti collettivi può diventare necessaria. La revisione del tradizionale paradigma liberale dell'universalismo occidentale si coniuga alla disarticolazione dell'antitesi diritti umani/diritti collettivi. In una concezione dei diritti umani ex parte populi, i diritti collettivi contribuiscono in modo determinante a rendere effettiva la tutela dei diritti fondamentali dell'individuo.

3.2 Quale concezione dei diritti?

I diritti sono ineludibilmente politici poiché essi implicano un conflitto tra un detentore di diritti e una controparte che si spoglia di questi diritti, un'autorità contro la quale il detentore dei diritti può sollevare giustificate rivendicazioni. Il confondere i diritti e le aspirazioni, e i trattati sui diritti con una qualche sintesi sincretica dei valori mondiali, significa far sparire con un colpo di bacchetta magica ciò che definisce il vero contenuto dei diritti: i conflitti (85).

Michael Ignatieff mette in campo una concezione conflittualistica dei diritti che sembra discendere da e preludere alla necessità di interrogarsi sulla loro universalità. A tal proposito egli afferma che: "i diritti sono universali perché definiscono gli interessi universali di chi è deprivato di potere e cioè garantiscono che il potere può essere esercitato su di essi solo in modi che rispettino la loro autonomia come agenti" (86).

Per l'autore americano, però, il linguaggio dei diritti umani ha come presupposto l'individualismo morale, ed è privo di senso al di fuori di quel presupposto. Il problema posto dall'universalismo è dunque apparentemente superato dall'affermazione che i diritti umani sono universali non in quanto vernacolo della prescrizione culturale ma come linguaggio del conferimento di potere morale. "Il loro ruolo non è quello di definire il contenuto di una cultura ma di cercare di affrancare tutti gli attori in modo che essi possano liberamente plasmare quel contenuto" (87). I diritti umani, dunque, non avrebbero alcuna etichetta culturale, costituendo presidi giuridici neutri atti a garantire l'eguaglianza morale degli esseri umani. A tal proposito, Ignatieff sostiene anche che il linguaggio dei diritti umani non possa essere tradotto e ricomposto in una cornice non individualistica, comunitaria. I diritti umani, nel pensiero del sociologo, esistono proprio per dirimere i conflitti tra diritti individuali e diritti di gruppo, per stabilire un minimo invalicabile oltre il quale le richieste del collettivo non possono spingersi nel sottoporre a costrizione le vite degli individui.

Sembra, dunque, che intendere il conflitto come contenuto nucleare dei diritti sia esclusivamente strumentale all'affermazione dell'individualismo morale. E dal momento che per Ignatieff sarebbe proprio tale individualismo a rendere il discorso dei diritti capace di attrarre popoli non europei e a spiegare perché il movimento che li propugna abbia assunto una dimensione globale, non stupisce che l'esito della sua riflessione sia quello di stabilire una relazione di compatibilità tra universalismo e culture altre, non "contraendo l'universalismo" ma contraendo la portata normativa dei diritti umani, casualmente in senso perfettamente conforme al paradigma individualistico liberale salvaguardato nella sua declinazione più rigida (88). Se dal novero dei diritti umani si espungono i diritti collettivi, materiali, sociali, culturali, non si vede come l'universalismo 'occidentale' possa essere suscettibile di revisione. Ignatieff non evade da una concezione formalistica dei diritti e sembra fossilizzare "the activity of claiming" (89) entro pretese di diritto (90) rigorosamente plasmate in senso individualistico liberale.

I diritti nascono per essere agiti, rivendicati ma soltanto dagli individui nei confronti dei gruppi di provenienza. Potrebbe aggiungersi "soltanto dalle donne e i bambini contro l'oppressione che vivono nelle società patriarcali e tribali" (91). L'attenzione dell'autore non è indirizzata a considerare selettivamente i contenuti dell'universalismo occidentale, ma piuttosto a ridurre selettivamente il variegato campo delle pretese esercitabili sotto il nome di diritti umani alla berliniana"libertà da". Ma è sufficiente invocare la "libertà da" per vagliare i margini del conflitto tra diritti delle donne e diritti del gruppo e orientarsi verso una compiuta tutela delle libertà e dei diritti delle donne negli interstizi che congiungono e disgiungono la società di provenienza da quello di approdo?

A tal proposito, si è visto come neppure la "libertà di" astrattamente enucleata non abbia una portata solutiva generale: anche in Ignatieff il diritto di exit è un argomento invocato per sostenere il fondamento individualistico dei diritti, non una reale soluzione.

Nel discorso dell'autore americano si mette sotto accusa l'universalismo dei fondamenti, ma non l'universalismo dei titolari, tale profilo offre, invece, significativi elementi alla problematizzazione dell'universalismo liberale. L'universalismo dei titolari, "in quanto tale, in parte rappresenta un problema per il confronto interculturale e in parte contribuisce alla soluzione di tale problema" (92).

Ad una concezione rivendicativa dei diritti fondata su altri presupposti e obiettivi approdano alcune voci della critica femminista. Ciò che per tali posizioni è in discussione è lo stesso concetto dei diritti soggettivi: la tematizzazione della differenza che intercorre tra il linguaggio dei diritti e altri codici deontici occupa, a questo scopo, una significativa rilevanza. A tal proposito, significativo è il contributo di Elizabeth Wolgast. Secondo l'autrice, i diritti esprimono una concezione morale atomistica e sono definiti dal nesso individualismo/eguaglianza/indipendenza e da quello potere/rivendicazione: "essendo uguali gli atomi, indistinguibili gli uni dagli altri, anche i loro diritti devono esserlo" (93), e i diritti esprimono "il potere, da essi conferito, di far valere il proprio diritto contro una persona o un ente; i diritti esistono per essere rivendicati - affermati, esatti, fatti valere - oppure per rinunciarvi" (94). Atomismo (95) e atteggiamento rivendicativo, rileva Wolgast, sono caratteristiche incancellabili del linguaggio dei diritti. Ma proprio perché ha queste caratteristiche, il linguaggio dei diritti non è efficace nell'affrontare certe ingiustizie, soprattutto quando riguardano soggetti troppo deboli, che si trovano in una situazione di dipendenza o sono inseriti in relazioni che fisiologicamente non consentono la rivendicazione. Wolgast si riferisce ai malati nei confronti dei medici e del personale ospedaliero (96) ed ai bambini nei confronti dei genitori. L'autrice sostiene che in determinate situazioni il linguaggio dei diritti si rivela assurdo o controproducente: nel caso emblematico del dibattito sull'aborto, se si utilizza lo strumentario concettuale dei diritti ci si trova nell'imbarazzante alternativa fra l'attribuire diritti all'embrione o considerarlo proprietà della madre. Wolgast coglie efficacemente il nesso teorico tra diritti e rivendicazione.

L'autrice si riferisce esplicitamente alla tesi di Joel Feinberg, secondo il quale l'uso caratteristico dei diritti in quanto diritti soggettivi, in quanto linguaggio distinto da altri codici deontici come quelli della virtù o del dovere, è the "activity of claiming": "Avere diritti, naturalmente, rende possibile la rivendicazione; ma è l'atto di rivendicare che conferisce ai diritti il loro specifico significato morale". Se i diritti esprimono qualcosa di tipicamente "umano", sostiene Feinberg, è perché ci rendono capaci di "'alzarci in piedi da uomini', di guardare gli altri negli occhi e di sentirci fondamentalmente eguali a ciascun altro" (97). Dunque la "dignità umana" consiste nella capacità "to assert claims".

Wolgast mette in correlazione questo approccio rivendicativo con l'idea che i diritti siano una proprietà del soggetto e con un modello atomistico di società.

Anche Catherine MacKinnon propone una concezione dei diritti come espressione di rivendicazioni. Il suo approccio parte da una critica alla presunta neutralità delle categorie linguistiche, psicologiche, morali, giuridiche, che, in realtà, esprimerebbero, di volta in volta, un modello specifico "maschile" o "occidentale". Diversamente da Okin, tali premesse teoriche rimandano al valore della differenza ed in particolare alle "richieste di riconoscimento, tutela e valorizzazione delle identità collettive contro la cultura e le istituzioni dominanti" (98). Coerentemente con tali presupposti la critica all'universalismo di MacKinnon è radicale. I diritti "umani" e i diritti "naturali" - sostiene MacKinnon - non hanno tutelato le donne perché esse per millenni, prima di diritto e poi di fatto, sono state escluse dall'ambito dell'umanità. All'inizio della modernità, la concettualizzazione giusnaturalistica dei diritti umani come qualcosa che ogni individuo umano, per natura, "possiede", ha ignorato o considerato naturale la condizione subordinata o emarginata delle donne. Nelle opere dei primi teorici liberali, i diritti rispondevano a situazioni di dominio e di oppressione, ma non a quelle che riguardavano le donne come tali. I fondamenti - in teoria universali - dei diritti naturali, furono così elaborati "in termini che non comprendevano esplicitamente le donne e di fatto precludevano loro l'accesso a tali diritti" (99). Il catalogo dei diritti umani è stato poi definito nel contesto storico del secondo dopoguerra, segnato dall'esperienza del nazismo e della Shoah: del pari la rilevanza di altre gravi violazioni come gli abusi sessuali o riproduttivi o i reati a sfondo sessuale si è imposta progressivamente. Così MacKinnon sostiene che piuttosto che appellarsi alle nozioni universalistiche di umanità o di naturalità, si deve riconoscere che "le più elevate astrazioni giuridiche [...] nascono dalla vita sociale", e che il diritto "è forgiato dalla logica sociale del dominio e dalla lotta contro di esso, è plasmato dall'interazione tra cambiamento e resistenza al cambiamento" (100). La proposta di MacKinnon è allora "interpretare le garanzie internazionali esistenti in materia di uguaglianza tra i sessi come fondate sul movimento internazionale delle donne contro la disuguaglianza tra i sessi, abusi sessuali e riproduttivi compresi" (101). Nelle pieghe di tale prospettazione teorica, i diritti emergono come essenzialmente 'politici' (102), dunque, è evidente che MacKinnon non respinge ma anzi evidenzia il rapporto fra diritti e rivendicazioni. Il diritto per MacKinnon, è tutt'altro che inutile, di esso ci si può infatti servire come strategia di legittimazione di nuove pretese e di nuovi principi, come linguaggio per la ricostruzione di pezzi di realtà dal punto di vista delle donne (103).

Una concezione rivendicativa dei diritti attenua l'antitesi tra diritti individuali e diritti collettivi in relazione al genere e scioglie la contrapposizione tra diritti collettivi e diritti umani. Diritti essenzialmente 'politici' possono essere agiti dalla donna migrante contro il gruppo di appartenenza, ma anche con il gruppo di appartenenza contro la società di approdo. Le ragioni e la forza della rivendicazione nascono dalla capacità di autodeterminazione del soggetto, i diritti traggono fondamento dai bisogni dei loro titolari.

A differenza di Wolgast, MacKinnon ricollega poi il binomio diritti/rivendicazioni al rapporto tra diritto e pratiche sociali: ciò dimostra che una visione rivendicativa dei diritti può non ricollegarsi a concezioni universalistiche o atomistiche incentrate sull'idea che i diritti sono qualcosa che l'individuo "possiede". Inoltre, MacKinnon afferma che l'efficacia dei diritti sul piano della protezione sociale degli individui non dipende, ma anzi è ostacolata dalla rigidità fondamentalista degli argomenti che li sostengono. Nel movimento delle donne MacKinnon vede la capacità di concretizzare l'uguaglianza e di renderla immanente ai rapporti sociali. In questo modo si ottiene una superiore efficacia sociale e si evita che l'affermazione dei modelli di genere si riduca all'emulazione dei modelli maschili. Mentre tutti possono concordare sui cataloghi dei diritti umani in virtù della loro astrattezza, la concretizzazione sociale dei diritti è più impegnativa ma anche più efficace.

L'approccio femminista di MacKinnon non abbandona il linguaggio dei diritti (104), il suo approccio ne suggerisce piuttosto una diversa declinazione, nella quale l'elemento rivendicativo non è in sé maschile (105). I soggetti titolari di diritti, secondo l'autrice, non sono concepiti secondo un individualismo atomistico, ma vengono considerati come concreti attori di pratiche sociali. I diritti andrebbero intesi, dunque, non più come qualità o proprietà degli individui quanto come espressione dei "claims", inquadrati più come processi collettivi che come pretese individuali (106).

Come sostiene lucidamente Baccelli, "rispetto alla posizione dell'individuo sessuato e multiculturale, una concezione dei diritti non "neutra" né astrattamente universalistica può rappresentare un potente catalizzatore emancipativo, uno strumento efficace per le pratiche di liberazione" (107). Secondo l'autore ciò avviene a condizione che non vada perso l'elemento rivendicativo dei diritti, il nesso con i processi sociali conflittuali.

Dunque una concezione rivendicativa dei diritti consente di evitarne l'inflazione. In questo senso, per dirla con le parole di Wolgast, esistono "diritti sbagliati", ci sono ambiti in cui l'applicazione del linguaggio dei diritti conduce ad esiti assurdi, o si rivela controproducente. In tali ambiti, codici deontici, come quelli dei doveri, della cura, della responsabilità, sembrano molto più adeguati.

Per tale motivo, secondo Baccelli, una concezione rivendicativa dei diritti non rappresenta una panacea normativa universale, ma può consentire di porre in essere una critica al linguaggio dei diritti che, individuandone i limiti di applicazione, restituisca uno strumentario concettuale affidabile e ne valorizzi le potenzialità.

Una concezione conflittualistica dei diritti offre un linguaggio per i soggetti impegnati nei processi di emancipazione e liberazione, permette di orientarsi nella ricerca di forme di tutela delle donne nelle società multiculturali; consente di proteggere la capacità di scelta autonoma della donna migrante sia nei confronti della cultura dominante della società di approdo, sia rispetto alla comunità d'origine Spetta all'individuo scegliere se esercitare rivendicazioni nei confronti del gruppo maggioritario o rispetto al proprio, è la singola donna migrante che dovrebbe poter decidere se la parte che più merita tutela è quella che la lega alle sue radici o quella che la allontana da esse (108).

Intendendo i diritti come "activity of claiming", inoltre, è possibile superare il problema del "fondamento": se si considerano i diritti come espressione di pratiche sociali, non si dà l'esigenza di ricorrere a categorie filosofiche fondative o di appellarsi a supposti 'universali' antropologici.

Un discorso che oltrepassi la ricerca del fondamento non comporta, per ciò stesso, una visione attenuata dell'indisponibilità e dell'inderogabilità dei diritti fondamentali. Anzi storicamente la fondazione dei diritti come proprietà o facoltà dei soggetti liberali, ha comportato la legittimazione della loro neutralizzazione (109). A tal proposito, si consideri che nel caso in cui si considerino i diritti come pratiche sociali, diviene molto più difficile legittimarne l'alienazione o il trasferimento.

Se si assume che i diritti possono costituire uno strumento di resistenza all'oppressione e una forma di tutela di individui e gruppi dalle posizioni dominanti, una logica rivendicativa permette di modulare il linguaggio dei diritti in riferimento ai casi concreti. Ciò implica che anche le forme di dominio non siano concepite una sola volta e per tutte, poiché anche esse, come del resto i diritti, si trasformano storicamente e contestualmente (110).

L'articolazione di un rapporto triangolare diritti/rivendicazione/pratiche sociali offre maggiori probabilità di aderire al principale presupposto di una tutela compiuta ed effettiva: la necessità di guardare all'individuo "concreto", bisognoso. In questo modo si può evitare di ipostatizzare e di stereotipizzare il soggetto dei diritti: i soggetti "concreti" non sarebbero costretti a conformarsi al modello di individuo cui de iure e de facto sono riconosciuti diritti. I diritti, in altri termini, recupererebbero la loro valenza effettiva di strumenti di tutela. In questo senso è possibile completare la dimensione di priorità logica dell'individuo: l'individuo è un prius rispetto alle culture, ai gruppi, e rispetto alla titolarità di diritti (111).

Ciò, tuttavia, non implica che sia esclusa la tendenza universalizzante implicita nell'affermazione di determinati diritti. Con le parole di Baccelli si potrebbe dire, che "La rivendicazione dei diritti attiva un movimento dal particolarismo all'universalizzazione. La rivendicazione nasce situata, particolare, ma in quanto riguarda determinati contenuti (configurabili come diritti fondamentali) è anche rivendicazione per altri, per un qualche 'tutti'" (112). E' l'universalismo ideologico che comprime la carica emancipativa dei diritti, l'universalità, non l'universalismo dei titolari, non ne compromette il potenziale rivendicativo. In questo senso è evidente che le rivendicazioni del singolo possono coincidere - e non essere sistematicamente in contrasto - con quelle della collettività di riferimento. L'appartenenza al gruppo amplifica la portata della rivendicazione, non la comprime.

3.3 Quale concezione del diritto?

L'ipotesi che una concezione dei diritti come espressione di pratiche sociali e di rivendicazioni sia adeguata alla tutela delle donne dalle differenti forme di dominio e di oppressione può essere compiutamente valutata se si pone riferimento al pluralismo normativo.

La nozione di pluralismo giuridico nasce nell'ambito delle teorie antiformalistiche e antinormativistiche, a partire dalla prima metà del XX secolo. Il presupposto dell'approccio del pluralismo giuridico è una nozione di diritto che va oltre la sfera dell'ordinamento giuridico statale, in quanto lo identifica con determinati caratteri che sono osservabili anche in altri ordinamenti sociali (113). Attualmente l'ambito del pluralismo giuridico è totalmente sovrapponibile a quello dell'antropologia giuridica. Non si intende affrontare in dettaglio la tematica del pluralismo normativo, ma, ai fini dell'analisi può essere utile fare un riferimento di carattere introduttivo, si ponga attenzione ad un dato e ad un pensiero. Monateri (114), nella sua introduzione ad "Antropologia giuridica" di Rouland (115) evidenzia come il dominio dell'antropologia giuridica sia il regno dei formanti profondi, dei dati impliciti, dei crittotipi, nascosti a chi mette in pratica le regole, e pur tuttavia dominanti nella vita quotidiana. Egli sostiene che questa dimensione tacita del diritto sia ben lungi dall'appartenere solo alle società tradizionali (116).

"Forse i popoli non decidono il loro diritto più di quanto decidano il loro linguaggio o la loro religione. Forse i sistemi giuridici sono essenzialmente delle 'tradizioni', che come altre tradizioni sono mantenute, elaborate e modificate da istituzioni sociali il cui operato non è perfettamente esplicito, e neppure perfettamente noto a coloro che sono coinvolti nel funzionamento" (117).

Nelle società multiculturali gli individui sono intensamente investiti dal pluralismo normativo. Le loro appartenenze, come si è visto anche nel caso della donna migrante, sono plurali e incrociate. L'individuo multiculturale, oltreché a universi culturali diversi, fa riferimento a codici normativi differenti, i quali possono provenire da fonti giuridiche o extra-giuridiche (118). E' il singolo soggetto che deve districarsi nel conflitto tra norme ascrivibili a panorami giuridici o deontici diversi.

Il pluralismo normativo impedisce di estendere aproblematicamente ai componenti dei gruppi diasporici il concetto e l'ordine della gerarchia tra fonti giuridiche e il rapporto di priorità delle fonti giuridiche rispetto alle fonti extra-giuridiche. Per molte donne e molti uomini, come si è evidenziato, alcune prescrizioni o norme "tradizionali" sono avvertite come maggiormente vincolanti delle norme giuridiche positive vigenti nella società di approdo. Nella trattazione del caso dell'escissione è emersa tale prevalenza (119).

Il pluralismo normativo costituisce un significativo strumento euristico nell'approccio al problema del conflitto tra diritti individuali e diritti delle donne nell'ambito di una società multiculturale (120). Più ampiamente esso impone all'universalismo liberale il pluralismo culturale come orizzonte teorico e come fatto.

Inoltre, se il pluralismo normativo costituisce la cornice metodologica su cui poggia una concezione del diritto come rivendicazione e come pratica sociale, nondimeno concorre a ristabilire la centralità dell'individuo. E ciò che consente di non approdare ad una sterile polarizzazione della tensione tra istanze individuali e collettive; come si è evidenziato, prioritaria è la considerazione dell'individuo "concreto" (121). Se l'obiettivo è quello di assicurare tutela alle donne migranti e ai soggetti deboli, non si può pretendere che essi 'si trasformino' per essere tutelati. Piuttosto è il sistema di tutela che deve essere modificato, attraverso la previsione, accanto al paradigma di tutela individuale, di un paradigma di tutela collettiva. Il riconoscimento di certi diritti al gruppo incide favorevolmente sul riconoscimento dei diritti individuali, essendone, come si è detto, in alcuni casi una condizione imprescindibile. In una società multiculturale, la mancata attribuzione di diritti ai gruppi diasporici, spesso, rende 'flessibile' o evanescente la tutela dei migranti come singoli (122).

Facchi, a tal proposito, suggerisce di focalizzare sull'individuo l'analisi dell'interpenetrazione dei diversi ordinamenti normativi, della policentricità e della frammentazione dei sistemi giuridici (123). L'appartenenza dell'individuo, come si è detto, è plurima, divisa tra più gruppi di riferimento. La sua identità è frammentata ed è dunque soggetto a modelli e norme non sempre compatibili e talvolta anche conflittuali. Inoltre, come sostiene lucidamente l'autrice, se la stessa espressione "pluralismo giuridico" potrebbe far pensare a sistemi giuridici posti su un piano di eguaglianza, l'antropologia giuridica ha mostrato che in realtà l'interazione tra 'diritti ufficiali' e 'diritti informali' avviene sulla base di differenziali di potere. Da qui discende anche l'opportunità di un approccio conflittualista al pluralismo normativo che ha nell'attività rivendicativa dell'individuo il suo principale ancoraggio. Si aggiunga che la scelta di tale approccio si fonda coerentemente sulla considerazione che i conflitti non siano soltanto culturali, ma, come si è visto, anche, e forse soprattutto, economici e sociali. Dunque la prospettiva conflittualista è caratterizzata dal coniugarsi dell'attenzione alle differenze culturali con quella alle differenze socio-economiche (124).

Il pluralismo normativo esclude poi una rigida compartimentazione dei campi del diritto e dell'antropologia (125).

"Il pluralismo normativo è il concetto chiave di una concezione postmoderna del diritto. Non il pluralismo giuridico della antropologia giuridica tradizionale nel quale i differenti ordini giuridici sono concepiti come entità separate coesistenti nello stesso spazio politico, ma piuttosto la concezione di differenti spazi legali sovrapposti, interpenetrati, e mescolati nelle nostre menti così come nelle nostre azioni" (126).

Dunque non solo i diritti devono essere disancorati dalla concettualizzazione dei fondamenti e del soggetto dei diritti ma devono essere riconcettualizzati in senso multiculturale. Una visione del pluralismo giuridico di questo tipo si pone in linea con la fondamentale premessa della deculturalizzazione della problematica multiculturalista nel suo complesso e con specifico riguardo alla tematica di genere.

3.4 Il paradosso dei diritti umani: cambiarne l'antropologia? "L'universalismo di percorso" e "il diritto mite"

La necessità di mutare l'antropologia che sottostà ai diritti umani discende dal tentativo di conciliare un possibile universalismo con il pluralismo culturale e morale, l'indisponibilità dei diritti con l'apertura culturale. Ciò, come si è detto, costituisce un passo decisivo verso il superamento di una visione che concepisce i diritti collettivi esclusivamente nei termini di un limite all'autonomia individuale o della violazione dei diritti umani.

Alcuni autori assumono una strettissima connessione tra diritti fondamentali e diritti umani, ma al contempo ne propongono una distinzione. I diritti fondamentali corrisponderebbero ai diritti umani resi operativi mediante la loro istituzionalizzazione all'interno di una comunità politica concreta (127).

Ma i diritti fondamentali, come principi etico-politici e come norme positive, sono il prodotto di una storia sociale, culturale, politica e giuridica particolare (128). Questa storia si intreccia con la storia dell'incontro europeo con i popoli altri. Per gli Altri non un'esperienza di incontro.

Dice Ferrajoli, riferendosi alla conquista dell'America:

"Alle origini della modernità sta, quale atto fondativo, un genocidio [...]. Questo genocidio-etnocidio, unitamente al sistema di dominio di cui fu il prodotto [...] fu legittimato dalla religione e dal diritto, grazie all'invenzione di un paradigma di legittimazione specificamente moderno, basato sulla copertura degli interessi dei conquistatori dietro 'valori' proclamati universali" (129).

Tra questi valori, storicamente si consideri, la teorizzazione, da parte di Francisco De Vitoria, di diritti naturali, universali, perché fondati sul riconoscimento di una fondamentale unità del genere umano, ma in realtà tali da legittimare e favorire gli interessi dei popoli conquistatori; si pensi a tal proposito allo ius communicationis e allo ius migrandi, la violazione dei quali, nella concezione vitoriana, legittimava il ricorso degli stati alla guerra (130). Ai teorici giusnaturalisti gli "altri" offriranno poi il paradigma dello stato di natura, grazie al quale "lo ius societatis ac communicationis di Vitoria si trasforma nell'imperativo hobbesiano del trapasso dallo stato di natura allo stato civile e perciò nel diritto-dovere, in nome della ragione ancor prima che della religione, non più solo di convertire, ma più in generale di 'civilizzare' e perciò di integrare, omologare, distruggere" (131).

Ferrajoli sostiene che fino alla Dichiarazione del 1948, l'universalità dei diritti umani è un'universalità parziale, "viziata dal suo stampo statalistico, e quindi dai meccanismi di esclusione da esso innestati nei riguardi dei non-cittadini e dall'assenza di garanzie per i cittadini medesimi nei riguardi dei loro stati" (132).

Così come le teorie dei diritti naturali, anche la moderna antropologia nasce con la Conquista, accompagna la colonizzazione e la decolonizzazione, si interroga a proposito dell'unità o delle differenze entro il genere umano, su che cosa significhi civiltà, ragione, morale, su quali basi debba avvenire l'incontro dei popoli 'occidentali' con gli Altri, se esistano o no degli "universali" e sulle conseguenze, etiche e politiche della risposta a questo interrogativo.

L'emergere della prospettiva del relativismo culturale e le controversie cui essa ha dato luogo connotano l'antropologia insieme come "rimorso" dell'Occidente e disciplina in cui questo "rimorso" rivela tutte le sue ambivalenze (133). Le stesse che connotano tutto il pensiero occidentale, e specificamente il pensiero giuridico (134): con la differenza che, esse, nell'antropologia sono esplicitamente tematizzate, costituiscono uno degli oggetti di riflessione dell'antropologia su se stessa.

Ferrajoli individua nella sovranità degli stati il principale ostacolo odierno all'universalizzazione dei diritti e si richiama alla necessità dell'assunzione assiologica, da parte dei giuristi, di un "costituzionalismo mondiale". In questo tipo di assunzione convivono sia il riconoscimento della specificità storica e culturale dei diritti e della loro valenza di strumenti di dominio e di sopraffazione, sia della loro portata universalmente liberatrice. I diritti appartengono alla storia di una cultura specifica anche nel senso che appartengono ad una tradizione culturale che ha una propria antropologia, una propria concezione della natura umana, di ciò che significa (o dovrebbe significare) essere umani.

La questione rilevante per la problematica può essere allora articolata nei seguenti termini: posto che i diritti sono il prodotto di una certa tradizione culturale e che recano il marchio di una particolare, implicita antropologia, la loro universalizzazione incontra due ostacoli, distinti ma interconnessi. Il primo è di natura etico-politica e si riferisce all'implicita attribuzione di superiorità alla cultura matrice dei diritti; il secondo è di natura, per così dire, pragmatica o strategica, e si riferisce alla possibilità stessa di esportare in modo convincente - in modo sensato per gli "Altri" (e dunque, in modo efficace) - un'antropologia particolare (135).

In riferimento al primo ordine di ostacoli, si configura un paradosso etico: può l''Occidente', facendo riferimento ad una cultura che prescrive l'uguale rispetto per tutti, a prescindere dalla forma più accentuata di diversità, anzi proprio in virtù di essa, proporre (o più spesso) imporre questa cultura stessa agli altri? Quanto al secondo piano del discorso, vi è un implicito problema epistemologico: come si dà comunicazione tra culture diverse?

E' evidente che i due ostacoli si intersecano: la possibilità di accettazione universale della cultura dei diritti sembra implicare non solo il riconoscimento della sua superiorità ma anche l'incorporazione dentro la propria cultura dell'antropologia implicita che in quella è inscritta. Viceversa, la possibilità di incorporazione dentro la propria cultura di quell'antropologia non implica forse la rinuncia, da parte degli "Altri", di ciò che li fa Altri? E' un caso, allora che il modello individualistico di tutela liberale escluda la teorizzabilità di diritti connessi proprio all'identità culturale?

Si potrebbe obiettare che, dopotutto, quell'antropologia si fa strada anche meglio senza diritti, con la globalizzazione dell'economia di mercato, con l'esportazione delle tecnologie, con la distruzione delle culture locali: ciò implica un'interpretazione dei diritti fondamentali che li vede come uno strumento di difesa del singolo da poteri arbitrari e tendenzialmente illimitati. Dunque i diritti sarebbero al tempo stesso il corollario di questi processi e il loro auspicabile correttivo (136).

E' necessario riflettere sull'antropologia implicata dai diritti. Per tracciare il possibile contributo dell'antropologia alla riflessione sui diritti e la cultura ad essi sottostante, si seguirà un piano prevalentemente normativo, affrontando il discorso sul piano dell'opportunità (etica) e della possibilità (intesa come efficacia) di una politica dei diritti umani. Dal punto di vista dell'antropologia, ciò corrisponde al dibattito attorno al relativismo o al dibattito che attiene allo statuto dell'antropologia come disciplina che studia gli "altri".

Nel 1947 l'American Anthropological Association aveva presentato alla Commissione sui diritti umani delle Nazioni Unite uno statement, nel quale poneva la questione dell'effettiva universalità della Dichiarazione ed evidenziava il rischio che finisse per esprimere western values. A tal proposito si intende riportare un passo estremamente significativo, poiché esso delinea ad un tempo il possibile ruolo dell'antropologia nei confronti non solo di una teoria, ma di una politica dei diritti umani e l'esigenza di un apporto antropologico a questa teoria e a questa politica. Si dice che la Dichiarazione non avrà potere di persuasione dal momento in cui è stata formulata con i concetti e nel linguaggio di una cultura sola:

"Non convincerà l'indonesiano, l'africano, il cinese, se rimane sullo stesso piano di documenti analoghi di periodi precedenti. I diritti dell'uomo del ventesimo secolo non possono essere circoscritti dagli standard di una qualsiasi cultura particolare, né essere dettati dalle aspirazioni di un qualsiasi popolo particolare. Un documento siffatto condurrà alla frustrazione, non alla realizzazione delle personalità di gran parte degli esseri umani" (137).

Con altri termini si potrebbe dire che l'inefficacia e l'ineffettività è il prezzo dello scarso potere di persuasione, dell'esile base consensuale di diritti formulati con un linguaggio e l'adozione di criteri relativi ad una sola cultura, quella liberale occidentale. Se non è possibile esportare in modo convincente, in modo sensato per gli "Altri" un'antropologia particolare dei diritti umani, per le stesse ragioni non è possibile escludere in modo convincente i diritti connessi all'identità culturale, i diritti degli "Altri".

E' necessario precisare che intercorre una distanza apprezzabile tra il pensiero espresso nel passaggio citato e la concezione secondo cui i diritti sarebbero un prodotto dell'Occidente. Nelle pieghe del passo riportato si afferma che nei diritti non solo non vi è alcunché di universalizzabile, ma anche che i tentativi di universalizzazione implicano politiche di dominio o comunque di scarso rispetto per le culture altrui, e dunque devono essere abbandonati. Specularmente, invece, si sostiene che proprio in ragione del fatto che i diritti sono un prodotto della cultura liberale occidentale, essi attesterebbero la superiorità di tale cultura legittimandone l'imposizione agli altri. Nel Documento dell'Associazione, e nelle polemiche successive, sono i presenti i termini della questione sia etica che epistemologica che coinvolge sia la Dichiarazione sia l'autocoscienza dell'antropologia. Se l'antropologia ai suoi esordi, soprattutto con il relativismo, dava voce al rimorso dell'Occidente, adesso questo rimorso sembra subire una torsione. In questi ultimi anni, la tolleranza apparentemente implicata dal paradigma relativista (138) è stata declinata attraverso un "differenzialismo" escludente e razzista che nega l'ibridazione delle culture e sostiene l'esigenza che ciascuna si conservi intatta nel luogo d'origine (139).

Il problema, come si è visto, dunque, non riguarda soltanto l'universalizzabilità dei diritti, ma anche le tensioni interne al discorso e alla logica dei diritti stessi.

La seconda questione riguarda il problema epistemologico, relativo al tema della possibilità di comprensione, spiegazione, "traduzione" tra culture diverse. Il principio di eguaglianza sostanziale, come si è evidenziato nella prima parte del lavoro, si basa sul riconoscimento, prima sul piano descrittivo e poi sul piano normativo, delle differenze individuali; così la proposizione normativa di diritti umani universali parte dal riconoscimento delle differenze culturali e dovrebbe ricondurre, sostengono alcuni autori, alla valorizzazione di quelle differenze che non implicano disuguaglianze economiche e sociali (140). Tale problema non esclude la questione etica, tanto più dal momento in cui oggetto dell'antropologia divengono gli universi cognitivi e le credenze altre. Modelli di ragionamento, di cui la valutazione e il giudizio sono operazioni fondamentali, si pongono come oggetto di studio che rimanda inestricabilmente ai propri modelli di ragionamento, di valutazione, di giudizio. Ma la questione della traducibilità e della comunicazione tra culture è fondamentale non solo in relazione al profilo dell'efficacia dei diritti, ma anche per ciò che riguarda la giustificazione della loro esportazione. Ciò costituirebbe un primo passo verso la revisione dell'universalismo liberale e, dunque, in direzione di una reale apertura degli ordinamenti liberali all'interazione culturale con i gruppi minoritari (141). L'emersione di richieste di riconoscimento pubblico della propria identità "differente" pongono una dimensione della questione epistemologica cruciale ma piuttosto ai margini del dibattito giuridico: il modo in cui gli altri comprendono, raccontano, spiegano, traducono la cultura occidentale (142). Sono richieste per la gran parte interne alla "cultura dei diritti". E si è detto che vi è un'antropologia implicita nella cultura dei diritti: l'individualismo liberale. Abbiamo visto come essa venga chiamata in causa nel dibattito multiculturalista, rivendicata da alcuni come irrinunciabile e fondante l'universalismo democratico (Rawls, Dworkin), da altri denunciata come produttiva di discriminazione (Taylor, autrici del pensiero giusfemminista), da altri ancora pensata come non necessaria, in questa forma, alla stessa "cultura dei diritti" (Guttman).

Secondo Todorov ciò che dà un senso all'antropologia, a prescindere da qualsiasi opzione essa pratichi, relativista o universalista, è il distacco dalla cultura propria, che dispone al contatto ravvicinato con la cultura altra, contatto tutt'altro che facile. A questo avvicinamento, preceduto da un distacco, segue il distacco dalla cultura altra e l'avvicinamento alla propria. Il rapporto da vicino con la cultura altra consente in tal modo di guardare alla propria con maggior distacco. In questi movimenti l'antropologo non si perde, perché è in realtà alla ricerca di un senso comune tra le due culture; anzi ciò gli consente di pensare la propria cultura (143).

Se, come sostiene Todorov, questa è la verità dell'esperienza etnologica, allora tale esperienza ha a che fare con ciò che Todorov chiama "l'universalismo di percorso", quell'orizzonte del dialogo tra culture che è l'intesa, frutto non di deduzioni da un principio a priori, ma di confronti e di compromessi. Anche Lévi Strauss (144) si pronuncia in modo veemente contro l'idea che l'esperienza dell'altro sia incomunicabile. Se lo fosse, l'impresa antropologica sarebbe insensata. Ciò non elimina il rischio di etnocentrismo: ma la consapevolezza e la pratica "dell'andirivieni" non possono che mutare ciò che pensiamo di noi stessi. Può darsi che alla fine dell'incontro sia pur sempre un noi che ritroviamo, ma sarà un noi modificato così come gli altri sono modificati dall'incontro con noi. Anche l'ermeneutica, l'interpretazione delle culture di Geertz, non può che costituire questo "universalismo di percorso" (145).

Il concetto di "universalismo di percorso" può essere introdotto con riferimento alla nozione degli universali di Renteln. Per l'autore gli universali non sono degli assoluti, essi possono invece essere intesi come "denominatori comuni", soggetti a mutamento (146). L'opzione relativistica di tale pensiero consente di vedere come la costruzione di universali morali interculturali dipenda da "idee culturali" che possono cambiare.

Dunque, l'interrogativo che si pone è il seguente: dal momento che i diritti fanno riferimento ad una specifica cultura, portatrice di una specifica antropologia è possibile rideclinarli in modo che la loro costruzione incorpori l'incontro tra culture cui si è fatto riferimento? In che modo?

In un articolo molto citato e più volte riprodotto (147), Panikkar, dopo essersi pronunciato in senso affermativo rispetto al se la nozione di diritti umani costituisca un concetto di matrice "occidentale", affronta direttamente la questione della loro efficacia simbolica. Le radici della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, risiederebbero, senza alcun dubbio, nella tradizione liberale, nel postulato di una natura umana universale e di un diritto naturale. Panikkar esplicita i contenuti dell'antropologia inscritta nei diritti: l'umano si differenzia dal resto della realtà: l'essere umano è padrone di se stesso e dell'universo; ogni individuo è assoluto e irriducibile ad altri; i diritti costituiscono la difesa dell'individuo contro la società e lo stato (148); l'essere umano è l'individuo (149). E indica i contenuti della teoria politica connessa a questa antropologia: la società è, ed è soltanto, la somma di individui liberi che si organizzano per raggiungere fini altrimenti irraggiungibili e la cui volontà è sovrana; i diritti e le libertà degli individui possono essere limitati soltanto quando violano i diritti e le libertà di altri individui. Per quanto anche nell''Occidente' siano presenti letture e interpretazioni diverse dei diritti umani, la questione fuori dall''Occidente' si presenta in maniera ben più radicale: poiché ciò che è in gioco non è una diversa interpretazione dei diritti, ma i diritti stessi.

Tuttavia, paradossalmente, i diritti sono necessari proprio in ragione del fatto che il contesto da cui sono nati avanza e 'conquista', sebbene i diritti supportino questo stesso processo di conquista. Si tratta, allora, secondo Panikkar, di abbandonare l'idea di universali trascendentali (esterni alle culture che li hanno prodotti) per la ricerca (la costruzione) di universali morali interculturali, attraverso il dialogo e la critica interculturale "che consiste nel cercare di capire e criticare un particolare problema umano con gli strumenti di comprensione delle differenti culture implicate" (150).

Per il paradosso che li rende "pharmakon", "antidoto oltreché veleno", i diritti sono necessari.

I diritti sono stati e ancora possono essere strumenti di un imperialismo culturale che apre la strada all'imperialismo economico e sociale, ma la compressione e la distruzione delle culture sono incompatibili con lo sviluppo economico, sociale e politico di cui i diritti sono, dunque, sia presupposto che argine.

Per tale motivo, se si vuole salvaguardare il profilo dell'effettività e dell'efficacia della tutela giuridica, l'antropologia ad essi sottostante deve mutare. Come si vede, l'ambivalenza dei diritti umani, è un elemento che spezza l'antitesi diritti collettivi/diritti umani. I diritti umani, collocati al di fuori delle pretese dell'universalismo liberale fondano la necessità di riconoscere i diritti collettivi. Conseguentemente cessano di essere uno strumento di cui gli ordinamenti giuridici 'occidentali' si servono per escludere l'attribuzione di diritti ai gruppi diasporici o per sancire la sistematica prevalenza dei diritti collettivi sui diritti individuali.

Il rischio è quello di ridurre i referenti culturali e di auspicare l'estinzione delle culture altre. Renteln, Panikkar, così come altri antropologi, sostengono che l'antropologia che sostiene i diritti debba e possa essere mutata: gli universali morali non esistono, ma possono essere costruiti tramite "la critica interculturale", tramite "il dialogo ermeneutico", tramite la "fusione degli orizzonti".

Ma sorge una domanda: non si perde forse in questo modo la specificità del linguaggio dei diritti? (151) Secondo Panikkar occorre ripensare le politiche dei diritti, interrogandosi su quali consentano di ridurre l'ambivalenza dei diritti (152), il loro essere strumenti dell'esclusione se non di conquista e di oppressione.

Interessante al riguardo risulta la concezione di un "diritto mite", sviluppata da Zagrebelsky. In essa il diritto è inteso come "la stipulazione costituzionale di principi tesi a realizzare la condizione di possibilità della vita comune, non il compito di realizzare direttamente un progetto determinato di vita comune" (153). Le parole chiave di questa concezione del diritto sono limite, parzialità, progettualità "debole" (154) e aperta. I principi costituzionali sono visti come esito di un confronto in cui si rinuncia all'assolutezza e insieme come cornice per progetti diversi, che competono e possono competere in virtù della loro apertura e "debolezza": dove, tuttavia, imprescindibile è il valore della coesistenza stessa.

Questa visione potrebbe accordarsi con il pluralismo giuridico, che non dovrebbe essere soltanto riconosciuto ma anche promosso all'interno di una cornice di principi costituzionali, esito di un "dialogo" che, circolarmente, tutelano.

Ma ciò non esime dal rivedere i contenuti e il linguaggio delle Dichiarazioni alla luce del confronto interculturale, da esse reso possibile, tutelato, ma anche fortemente vincolato.

La costruzione extra-giuridica e giuridica delle differenze come caratteristiche relazionali - invece che come dati ascrittivi - potrebbe avere il senso di impedire che esse si solidifichino in status, nondimeno in modelli, o più precisamente in deviazioni dallo standard.

Se poi lo standard non viene decostruito, la/e differenza/e vengono necessariamente riprodotte come inferiorità, patologia, disuguaglianza.

La questione non sta quindi nell'opporre eguaglianza e differenza, quanto nell'esplorazione del significato, oltre che del modo di applicazione, dello standard.

Si è visto come la tematica di genere abbia contribuito a mettere in luce i paradossi di politiche che costruiscono status in funzione di tutela e aboliscono status in funzione di esclusione/assimilazione.

Si torna al punto di riferimento normativo dell'analisi: la condizione degli individui che soffrono delle disuguaglianze di status, delle sperequazioni di reddito e di potere, dei rapporti di subordinazione, delle discriminazioni.

L'individuo deve essere considerato nella sua specificità culturale e sociale, nella sua differenza di genere: l'individuo costituisce un punto di riferimento anche nella valutazione delle differenze, poiché nondimeno è un prius rispetto alle differenze.

La definizione dei suoi diritti nell'ambito di una società multiculturale richiede, lo si ribadisce, un approccio incentrato sui suoi bisogni, in totale antitesi con l'universalismo ideologico dell'"Occidente" e con una visione 'culturalista' della diversità.

Anche se di grande rilievo, il problema in oggetto non concerne l'attivazione di politiche di "survivance", di misure che promuovano la salvaguardia di una lingua, di tradizioni, di usanze, di una cultura a scapito di individui. Piuttosto la posta in gioco riguarda la tutela di individui, di donne, di bambini, troppo spesso, opportunisticamente sottodimensionati rispetto alle culture di appartenenza e di approdo e, ancora più spesso, separati dai diritti.

Quanto più ci si tiene distanti dall'individuo 'concreto', tanto maggiore diventa lo scarto tra la tutela astratta dei diritti soggettivi e la tutela effettiva del soggetto. A ridurre questo scarto, rimangono imprescindibili i diritti 'universali'. Ma se un varco speculare si apre tra la proclamata universalità e la reale universalità dei diritti, anche l'universalità dei diritti deve essere "deculturalizzata" e posta al centro di un confronto interculturale. Si aggiunga che in questo le concezioni normativistiche e formalistiche del diritto non sono d'aiuto.

I diritti poi non possono rimanere etichette ideologiche dispensate ai titolari di status, ma devono poter costituire strumenti della rivendicazione, dell'emancipazione, dell'integrazione sociale, dell'ingresso in uno spazio presidiato e non "colonizzato" dal diritto (155). Se i diritti determinano l'affermazione di un soggetto entro un quadro giuridicamente definito, l'intervento degli ordinamenti giuridici per garantirne l'effettiva titolarità non può essere accessorio.

D'altra parte il processo rivendicativo può realizzarsi per il tramite di alcune condizioni, perché una donna possa essere realmente un soggetto di diritti, è indispensabile che possa conseguire un'istruzione, che possa accedere alle prestazioni sanitarie, che possa percepire un certo reddito, che possa avere un lavoro e possa diventare madre senza perderlo.

Se nell'ambito delle attuali società multiculturali sussistessero queste possibilità, il problema dei legami con le comunità d'origine, il conflitto tra diritti legati all'identità di genere e diritti legati all'identità culturale, l'esclusione dalla sfera pubblica, con tutta probabilità riguarderebbero l'esperienza di un numero sempre minore di donne.

Inoltre, come si è detto, se, a rigore, i diritti umani dell'individuo sono collocabili su un piano assiologicamente sovraordinato rispetto alle tradizioni e ai codici deontici delle comunità di provenienza e i diritti individuali sono prioritari rispetto ai diritti collettivi, sia i primi che i secondi possono essere resi effettivi attraverso l'attribuzione di diritti ai gruppi. In questo modo può non isolarsi ma esprimersi "the activity of claiming".

Note

1. Nel corso di tale premessa introduttiva si è fatto ricorso al termine "conflitto" come al lemma "tensione". Il mero uso di vocaboli diversi può implicare impostazioni diverse del problema. Abitualmente si parla di conflitto, un approccio teorico individualizzante e orientato alla considerazione del caso concreto, però, distingue la portata di un conflitto lacerante da una situazione inquadrabile nei termini di una potenziale tensione, ciò al di là dell'uso convenzionale del termine. Per contro è necessario rilevare che tutte le espressioni che descrivono gli aspetti problematici del rapporto tra una donna e il gruppo di appartenenza concorrono a delineare il concetto di complessa dialettica tra diritti individuali e diritti collettivi.

2. Si intende specificare quest'osservazione con un pensiero di Zolo: "Per parte mia dirò semplicemente che considero utile un categoria teorica se mi aiuta ad orientarmi entro un determinato campo o ambiente problematico: se concorre cioè a impostare e a selezionare in modo chiaro determinate questioni pratiche che ritengo rilevanti, a sostenere delle previsioni affidabili e a suggerire soluzioni dotate di un sufficiente grado di razionalità strumentale", D. Zolo, Libertà, proprietà ed uguaglianza nella teoria dei 'diritti fondamentali', in L. Ferrajoli, I diritti fondamentali, Un dibattito teorico, cit., p. 53.

3. L'espressione è di Luigi Ferrajoli, in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, cit., p. 345.

4. S.M. Okin, Is Multiculturalism Bad for Women?, in "Boston Review", 22, 5, 1997, ora in S.M. Okin with Respondents, Is Multiculturalism Bad for Women?, a cura di J. Cohen, M. Howard, M.C Nussbaum, Princeton, Princeton University Press, 1999, pp. 9-24, ed. it. A. Besussi, A. Facchi (a cura di), Diritti delle donne e multiculturalismo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, pp. 3-22.

5. E' la posizione di Anne Philips efficacemente condensata nel titolo della sua opera, cfr. A. Phillips, Multiculturalism without culture, Princeton University Press, 2007.

6. Si riporta il corsivo dell'autrice.

7. Nel transito di tali popolazioni verso gli assetti socio-politici degli stati colonizzatori.

8. "Di norma, quindi la difesa delle 'pratiche culturali' avrà probabilmente un impatto più forte sulla vita delle donne e delle ragazze che non su quella degli uomini e dei ragazzi, dal momento che il tempo e l'energia che le donne dedicano a proteggere e coltivare l'ambito personale, familiare e riproduttivo della vita sono di gran lunga superiori"; S. M. Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007, p. 8.

9. Ibidem, p. 10.

10. Il lemma in oggetto è utilizzato da Okin, si tratta di un termine tecnico che non include tutti i tipi di intervento. A tal proposito, forse risulta riduttivo inquadrare nei termini di una mera contesa nominalistica il ricorso differenziato alle plurali definizioni che ricorrono in materia, non secondaria è poi la cognizione delle implicazioni che l'uso di ciascun termine comporta. "Nella letteratura internazionale più recente si è diffusa la denominazione Mutilazioni genitali Femminini (MGF), che comprende tutte le forme di escissione e di infibulazione. Va avvertito che questa formula contiene già una precisa valutazione della natura di questo intervento e una implicita condanna; essa riflette pienamente la prospettiva occidentale ed è fortemente contestata da molte persone, anche donne, delle culture che la praticano. 'Escissione' è un termine che indica in senso lato un insieme di interventi di ablazione degli organi genitali esterni femminili. Quando non genera ambiguità, esso mantiene una connotazione più neutrale"; A. Facchi, I diritti nell'Europa multiculturale, Editori Laterza, Roma - Bari, 2004, p. 78 (modif.).

11. La nozione di "cultural defenses" è connessa a quella di "cultural crime". I cosiddetti "reati culturali" si verificano quando il comportamento vietato da norme di diritto penale costituisce un comportamento tollerato, ammesso o addirittura prescritto da norme comunitarie. Una questione centrale delle recenti politiche criminali è quella di vagliare quali tecniche giuridiche permettano alle autorità giudiziarie degli ordinamenti di insediamento di tenere conto, sul piano penale, dell'influenza che su un individuo possono esercitare le norme di condotta del suo gruppo di appartenenza. In questo senso le difese culturali individuano cause di giustificazione o circostanze che escludono o attenuano la pena, connesse alla valenza culturale della condotta dell'agente. II volto dell'illecito penale è profondamente mutato negli ultimi decenni, e lo si osserva non solodall'angolo visuale del diritto punitivo, ma anche dal campo delle scriminanti, che, diversamente dalle singole fattispecie incriminatrici, traducono il dinamismo della società.

12. Okin aggiunge a tale elemento la circostanza rappresentata dal fatto che all'universalità dei diritti umani delle donne non corrisponde l'universalità della loro protezione internazionale, poiché vi si oppone il particolarismo degli stati nazionali e, in special modo, di alcuni ordinamenti.

13. S. M. Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo, cit., p. 20.

14. Ibidem.

15. Cfr. A. Facchi, A. Besussi, Prefazione all'edizione italiana, in S. Moller Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo, cit., p. IX. Al riguardo: "La relazione del femminismo con il liberalismo può assumere più di una forma: l'ostilità, la deferenza letterale, l'appropriazione creativa. Susan Moller Okin è stata senza dubbio un'appassionata portavoce della terza", Ibidem.

16. Ibidem.

17. Al contrario, una relazione di conciliabilità tra multiculturalismo e femminismo, al di là della storica comune curvatura differenzialista, (se non altro) ha un ineliminabile fondamento pragmatico; occorre muovere da una considerazione delle donne migranti, e dei gruppi diasporici di cui fanno parte, nell'"hic et nunc" delle società multiculturali, non nel "laggiù e altrove" dei loro paesi di provenienza. Per inciso, Okin, in riferimento alle culture minoritarie, allude al passato come ad un feticcio, in realtà l'attaccamento ad una storia e a tradizioni comuni non è una prerogativa dei gruppi che menziona Okin. Come si è accennato, la problematica convivenza tra gruppi minoritari e gruppo di maggioranza discende dalla reticenza di quest'ultimo a proiettare la coesistenza sociale su obiettivi futuri comuni. Gli stati liberali faticano a concepire i migranti anche nel pragmatico "qui ed ora" di una presenza percentuale considerevole nei PIL di riferimento.

18. Il termine adottato è deliberatamente generico, in esso possono essere comprese le chiese, i vari luoghi di culto, le scuole religiose, chi agisce nella sfera privata in base alle proprie convinzioni religiose.

19. Cfr. C.R. Sunstein, Si dovrebbero applicare le leggi sull'uguaglianza sessuale alle istituzioni religiose?, in S.M. Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo, cit., pp. 93-104.

20. La legge stessa permette che i requisiti professionali siano basati sul sesso, se sono attendibili, e le corti di giustizia hanno decretato che la clausola della Costituzione riguardante la libertà di esercizio religioso richiede alla magistratura di astenersi dal pronunciare sentenze nelle cause di discriminazione sessuale intentate dai ministri di culto contro la chiesa o altre istituzioni religiose presso le quali lavorano - anche quando le cause sarebbero promosse per reati come l'aggressione o lo stupro (cfr. Young v. Northern Illinois Conferences of United Methodist Church).

21. Con il caso Smith, la Corte Suprema degli Stati Uniti stabilisce che ogni legge neutrale di applicabilità generale, che abbia una base razionale può imporre un "peso sostanziale" sull'esercizio della libertà religiosa individuale. La pronuncia della Corte ha infatti comportato l'imposizione di un "peso sostanziale" su una religione minoritaria, un gruppo religioso di nativi americani che chiedeva l'esenzione dalle leggi sugli stupefacenti per l'uso rituale del peyote. (L'espressione "peso sostanziale", utilizzata dalla Corte nella sentenza Sherbert v.Verner, fa riferimento alla mancata previsione di un trattamento derogatorio rispetto ad una norma civile o penale dell'ordinamento, l'assenza della deroga ha l'esito di impedire il libero esercizio del diritto di praticare la propria religione). La linea giurisprudenziale del caso Smith capovolge l'orientamento del Religious Freedom Restoration Act del 1993 che esigeva che il governo statunitense giustificasse ogni imposizione dimostrando che era dettata da un "imprescindibile interesse del governo" e che quello fosse il modo meno gravoso per proteggere tale interesse. Secondo Nussbaum un approccio di questo tipo sembra mostrare rispetto per la religione, ma nondimeno insiste sull'idea che lo stato difende una serie di interessi imprescindibili che a volte possono entrare in conflitto con la religione. L'autrice si chiede se la pura e semplice discriminazione sessuale fornisce allo stato un interesse imprescindibile al cambiamento della legge, o se tale interesse venga fornito soltanto dalla discriminazione che nega alle donne alcuni diritti fondamentali. Il caso Sherbert v. Verner (invalidato dal caso Smith), offre un'indicazione al riguardo. La signora Sherbert, una testimone di Geova licenziata perché si era rifiutata di lavorare il sabato, si vide negato il sussidio di disoccupazione statale per aver rifiutato un lavoro idoneo. La Corte stabilì che, sebbene in primo luogo lo stato non avrebbe mai potuto offrire sussidi simili, nel momento in cui li offriva, se i sussidi venivano concessi secondo criteri discriminatori, ciò costituiva un "peso sostanziale". Negare alla signora Sherbert, a causa della sua religione, un sussidio di cui altri usufruivano era, secondo la Corte, come multare qualcuno perché pregava di sabato, una prassi che avrebbe palesemente costituito un "peso sostanziale", a prescindere dall'entità della multa e dalla possibilità dell'individuo di pagarla. La Corte ha decretato che un trattamento discriminatorio per ragioni religiose costituiva un "peso sostanziale", ciò a prescindere dall'entità della vessazione. Nussbaum applica le stesse conclusioni al campo della discriminazione sessuale e ritiene che prevedere per le donne un trattamento discriminatorio sia problematico in sé, anche se ciò non conduce le persone all'indigenza. L'autrice precisa che, tuttavia, occorre prendere in considerazione un fattore dal quale non si può prescindere: le leggi statali attuano imposizioni rispetto alle quali non rileva la volontà del cittadino, che, in quanto tale, è sottoposto ad esse, le religioni sono organizzazioni cui il singolo aderisce volontariamente. Cfr. M. Nussbaum, Un invito a non semplificare, in S.M. Okin, Donne e multiculturalismo, cit., pp. 117-129.

22. Non è un caso che si tratta di un gruppo religioso minoritario.

23. A tal proposito: "In ogni caso sembra illiberale che le pratiche interne alla gestione dell'organismo religioso - la scelta dei sacerdoti, i regolamenti sull'abbigliamento - si debbano adeguare alla concezione liberale laica del bene supremo", M. Nussbaum, Un invito a non semplificare, cit., p. 128. In questo senso: "Esiste una ragione plausibile per ritenere che un ordine sociale liberale debba accettare tutte le leggi che non discriminano "direttamente" le istituzioni e le pratiche religiose. Questo principio permetterebbe di applicare a quelle istituzioni la maggior parte delle leggi civili e penali, compresa la legge contro la discriminazione sessuale. Per quanto plausibile, questo principio, tuttavia, non risulta accettabile, perché permetterebbe allo stato di assoggettare le istituzioni religiose a leggi che risulterebbero molto gravose per tali istituzioni, o che, addirittura le colpirebbero al cuore, senza servire alcuno scopo governativo sufficientemente importante", C.R. Sunstein, Si dovrebbero applicare le leggi sull'eguaglianza sessuale alle istituzioni religiose?, cit., p. 103.

24. Anche in questo caso la sovrapposizione dei due termini e dei concetti che essi delineano determina un'imprecisione.

25. Nel pensiero di Okin la tutela dell'esercizio della libertà di religione non è generale e astratta ma sembra subordinata alla torsione valutativa degli stessi (supposti) contenuti delle religioni.

26. B. Honig "Me l'ha fatto fare la mia cultura" in S.M. Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo, cit. p. 34.

27. Le twinkie defenses nel processo anglo-americano si sostanziano nell'invocazione di difese assolutamente pretestuose.

28. Rispettando il presupposto metodologico assunto, ossia il riferimento ad una società multiculturale, in questa sede non si fa menzione del paradigma collettivo attraverso cui viene concepito il diritto di proprietà in molte culture sudamericane o africane. Le forme di proprietà sono ben diverse da quelle della tradizione del diritto civile europeo, i diritti sulla terra sono visti come l'espressione di un patto spirituale di amministrazione comune.

29. Cfr. W. Kymlicka, Multicultural Citizenship, Oxford University Press, 1995, tr. it. La cittadinanza multiculturale, Ed. Il Mulino, Bologna, 1999, pp. 64-81.

30. L'intenzione non è quella di respingere aprioristicamente tale nozione o tantomeno di contestarne l'applicabilità a determinati casi. E' probabile che essa poggi sul seguente presupposto: l'individuo che vive in un contesto sociale coercitivo dal quale non può allontanarsi finisce per modificare adattativamente le sue reali propensioni e i suoi bisogni effettivi, assimilandosi completamente a quel microsistema. Ciò che collide tra la categoria dell'assimilazione e il suo uso nella tematica oggetto della presente disamina è il dato dell'appartenenza culturale originaria delle donne. Tale situazione differisce dalla condizione di chi approda da nuovo arrivato in un gruppo culturale o in uno specifico contesto e adattativamente muta i propri comportamenti.

31. Mutuo dall'autore americano questo pensiero e l'osservazione secondo cui l'Occidente agendo in difesa dei diritti umani degli altri, ha incrinato la credibilità dei diritti umani, accantonando temporaneamente la circostanza che tali posizioni sfocino nella finale teorizzazione dello ius ad bellum, di uno iustum bellum.

32. A.E. Galeotti, Genere e culture altre in "Ragion Pratica", numero 23, dicembre 2004, p. 472.

33. Anche se supponessimo che questa libertà concreta raramente esiste, non è possibile, per esempio, fondare un intervento coercitivo su una valutazione a priori ufficiale e uniforme del bene della "donna". Il bene da tutelare potrebbe essere la salvaguardia della possibilità di scegliere. Diverso è il discorso per le minori, anche se come vedremo, non meno problematico.

34. L'espressione "fondamentalismo umanitario" è di Norberto Bobbio, è stata poi significativamente declinata da Danilo Zolo nel contributo, D. Zolo, Fondamentalismo umanitario in M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Feltrinelli, Milano, 2003.

35. L'immagine di un diritto "poroso" è significativamente utilizzata da De Sousa Santos in senso più ampio, essa restituisce icasticamente l'intersezione tra regolamenti giuridici, più estesamente un concetto di "interlegalità", di "internormatività". B. De Sousa Santos, Law: A Map of Misreading. Toward a Postmodern Conception of Law, in "Journal of Law and Society", 1987, n. 3, p. 279 cit. in M. Bouchard, Dalla famiglia tradizionale a quella etnica e multiculturale: maltrattamenti ed infanzia abusata in 'dimensione domestica', in "Diritto, Immigrazione e cittadinanza", n. 1/2000, pp. 37 e ss. A questo proposito: "L'intergiuridicità è la controparte fenomenologica del pluralismo giuridico", B. De Sousa Santos, Diritto ed emancipazione sociale, Città aperta Troina, 2008, p. 298.

36. Questa espressione è certo interna alle categorie del nostro sistema giuridico.

37. Si aggiunge un altro dato alla riflessione: "Non va dimenticato che nel secolo scorso la clitoridectomia era un intervento praticato in Europa e in Nord America, effettuato da medici per curare alcune cosiddette 'patologie femminili' come l'isteria, la ninfomania, il lesbismo: la 'variante occidentale' dell'escissione si giustificava come un intervento terapeutico sulla base di un modello di 'fioritura', di salute, di perfezione, di benessere da imporre su determinati soggetti, le donne"; A. Facchi, Pratiche culturali e sfide al diritto: il caso dell'escissione in G. Zanetti, Elementi di etica pratica, Carocci, Roma, 2003, p. 16.

38. A questo proposito Bonnie Honig invita Okin a "defamiliarizzare i nostri assetti istituzionali e a riflettere più criticamente su di loro", B. Honig, Complicating Culture, in "Boston Review", XXII, 5.

39. Si riporta la formulazione della soluzione e il riferimento all'estinzione delle culture minoritarie nella forma che Okin adotta nella "Replica" ai numerosi contributi che sono seguiti in risposta al suo saggio, cfr. S.M. Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo, cit. p. 134.

40. L. Baccelli, In a Plurality of Voices. Il genere dei diritti tra universalismo e multiculturalismo, in "Ragion Pratica", numero 23, dicembre 2004, p. 293.

41. Cfr. A. Sachar, Multicultural Jurisdiction. Cultural differences and Women's Rights, Cambridge, Cambridge University Press, 2001, p. 68.

42. Cfr. Ch. Taylor, Multiculturalismo, cit. pp. 94-97.

43. Per questi soggetti, spesso, il diritto di exit può fornire una garanzia solo presunta, perché ciò che si prospetta al dissidente è una situazione drammatica in cui la donna si scopre doppiamente discriminata - nella comunità e nella società - e nell'impossibilità di sopravvivere all'esterno delle relazioni oppressive che reggono la vita comunitaria.

44. A. E. Galeotti, Genere e culture altre, cit. p. 480.

45. Nel corso della prima parte del lavoro ci siamo soffermati sul carattere prodromico del paradigma del riconoscimento nella tematica multiculturalista, e sull'imprescindibilità dell'atto del riconoscimento in una società che incorpori al suo interno compiute istanze multiculturali e non unilaterali imposizioni maggioritarie.

46. Su tale aspetto si ritornerà successivamente.

47. A questo proposito, particolarmente interessante è il punto di vista e l'esperienza di Ayaan Hirsi Ali, l'attrice e parlamentare somala naturalizzata in Olanda che ha scritto la sceneggiatura del documentario "Submission", girato dal regista Theo Van Gogh. Per i contenuti del film, che denunciava l'oppressione e le violenze contro le donne nella società islamica, il regista è stato ucciso e Ayaan Hirsi Ali è stata minacciata di morte. Il caso ha sollevato il problema del rigetto reazionario delle istanze multiculturali ma anche del confine tra multiculturalismo ed eccessiva tolleranza rispetto al fondamentalismo religioso. Cfr. A. Hirsi Ali, Non sottomessa, Einaudi, 2005.

48. Agli approcci che "culturalizzano" la problematica in oggetto, si intende opporre la considerazione che uomini e donne migranti, molto spesso sono soggetti impegnati a sopravvivere e, meno frequentemente, a far sopravvivere la loro cultura.

49. Il mancato riconoscimento del gruppo maggioritario nei confronti dei gruppi minoritari diasporici, e in egual misura le dinamiche legate alle politiche assimilazionistiche o integrative, determinano, per reazione, in tali soggetti un attaccamento alla cultura d'origine.

50. A questo proposito, occorre evitare che il ricorso a determinate pratiche diventi un fattore di rivendicazione di identità. Così è accaduto per alcuni gruppi diasporici negli Stati Uniti in relazione alla pratica dell'escissione.

51. F. Belvisi, Società multiculturale, diritti delle donne e sensibilità per la cultura, in "Ragion Pratica", numero 23, dicembre 2004, p. 513.

52. La repressione penale costituisce l'esito al quale, con riguardo all'escissione, si è giunti nell'ambito del nostro ordinamento, la Legge 9 gennaio 2006, n. 7 ha stabilito la previsione di una fattispecie penale ad hoc per la mutilazione genitale femminile (l'art. 6 comma 1 di tale legge ha inserito nel Capo I del Titolo XXII del codice penale l'art. 583 bis rubricato "Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili"). Tale intervento legislativo non giunge ex abrupto ma è successivo ad una serie di proposte di legge, al riguardo è significativo menzionare la proposta di legge della Lega Nord, n. 150 del 30 maggio 2001, recante "Disposizioni concernenti il divieto delle pratiche di mutilazione sessuale al fine di garantire l'effettivo rispetto del diritto alla dignità personale e alla integrità fisica e morale, nonché alla cultura italiana". (!)

53. Si è già fatto luogo all'introduzione di alcuni elementi di riflessione al riguardo.

54. Il principio di accommodation a livello generale è incentrato sulla ricerca di un equilibrio tra principio di uguaglianza e tutela delle diversità. Il primo termine deve essere assunto nel suo significato sostanziale. Il principio è interno ad un paradigma negoziale. Si parla di "reasonable accommodations" a proposito della tutela della libertà religiosa; la predisposizione di "accommodations" avviene nell'ambito di una logica pattizia attraverso cui è possibile valutare la problematicità delle richieste, la loro 'ragionevolezza' rispetto all'ordinamento giuridico di riferimento.

55. Cfr. L. Catania, O.H Abdulkadir, Si può proporre un rito alternativo, eticamente e legalmente accettabile, in una strategia di lotta efficace contro le Mutilazioni dei Genitali Femminili (MGF)? Centro di Riferimento Regionale per la Prevenzione e cura delle Complicanze delle Mutilazioni dei Genitali Femminili, Firenze, 2004.

56. F. Belvisi, Società multiculturale, diritti delle donne e sensibilità per la cultura, cit., p. 520 (modif.).

57. Il criterio del consenso è sicuramente rilevante quando si valutino interventi che determinano alterazioni corporee, laddove tali interventi siano consentiti o previsti dalla legge.

58. A questo proposito: "La legittimazione ad esprimere il consenso può competere al rappresentante legale o volontario, purché ciò sia compatibile con la natura del diritto: i genitori non possono consentire al prelievo del rene su uno dei figli in favore dell'altro, stante la natura personalissima del diritto all'integrità fisica", T. Padovani, Diritto Penale, Giuffrè, Milano, 2008, p. 150. Sul fatto che nel diritto penale italiano la capacità di consentire validamente non è univocamente ricondotta alla maggiore età: "Chi vede nel consenso un negozio giuridico di diritto privato estende ad esso la disciplina dell'art. 2 c.c., esigendo la maggiore età. Altri si riferiscono al regime dell'imputabilità, ritenendo sufficiente il limite minimo degli anni 14 o quello superiore degli anni 18. Chi respinge la tesi negoziale reputa necessaria e sufficiente la capacità naturale, dovendo il giudice accertare caso per caso, se il soggetto possedeva il discernimento necessario per comprendere il significato dell'atto; e sempre che non vi sia dissenso del rappresentante legale. Contro tali generalizzazioni il nostro diritto penale sta a dimostrare che, persino rispetto agli atti dispositivi del proprio corpo, vale il principio relativistico dell'età variabile a seconda dell'oggetto dell'atto dispositivo. Perciò nei casi in cui la legge tace, anziché richiedersi per ciò solo la maggiore età civile, se possibile dovrà applicarsi per analogia il limite previsto per altra ipotesi simile. Altrimenti dovrà guardarsi alla sufficiente maturità del soggetto in rapporto al tipo ed entità dell'atto dispositivo e alle consuetudini in materia", F. Mantovani, Diritto penale, Cedam, Padova, 2007, pp. 246-247. Il corsivo è dell'autore.

59. G. Vattimo, Infibulazione, si può fare senza dolore, in "La Stampa", 23 gennaio 2004, p. 1. In questa direzione in una regione del Kenya l'azione di associazioni femminili a partire dal 1996 è riuscita ad ottenere l'importante risultato di convincere alcune famiglie ad adottare una "circumcision by word", e cioè di sostituire l'intervento sul corpo con la pronuncia di una formula rituale.

60. Si è accantonata la ricerca di un compromesso tra l'esigenza di vietare e quella di non punire.

61. A tal proposito: "Le diversità culturali e religiose mettono in crisi tutte le categorie di funzione della pena tradizionalmente intese". A. Bernardi, Il diritto penale tra globalizzazione e multiculturalismo, in "Rivista italiana di diritto pubblico comunitario", 2002, p. 530.

62. Anche se, come sostiene Zolo, l'universalismo della motivazione umanitaria è retoricamente efficace perché consente di contrapporre "l'opinione pubblica" e "l'etica universale" al "particolarismo deviante" del singolo gruppo minoritario. La categoria "umanità" è generalmente invocata nel processo di legittimazione della guerra. L'avversario è isolato come "nemico dell'umanità", per questo è consentito essergli ostile fino all'estrema disumanità. Più in generale il termine "umanità" diventa uno strumento retorico dell'imperialismo culturale ed economico dell'Occidente. Carl Schmitt, riprendendo un pensiero di Proudhon, scriveva: Wer Menschheit sagt, will betrugen, "chi dice 'umanità', cerca di ingannarti". Cfr. D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra diritto e ordine globale, cit. Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Volkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Duncker und Humblot, Berlin, 1974, tr. it. Adelphi, Milano, 1991.

63. Il 10 febbraio 2004 l'Assemblea nazionale francese ha approvato con consenso quasi unanime una legge che vieta anche agli allievi (e non soltanto agli insegnanti) di indossare segni o abiti con i quali manifestano in maniera ostensibile la propria appartenenza religiosa ("Dans les écoles, les collège et les lycées publics, le port de signes ou tenues par lesquels les élèves manifestent ostensiblement une appartenance religieuse est interdit"). La legge è stata applicata con l'inizio dell'anno scolastico 2004/2005. Essa riguarda le scuole elementari, i collèges e i licei francesi. La questione era sorta per la prima volta nell'autunno del 1989, allorché nel collège di Creteil e poi in altre scuole francesi, ragazze di religione musulmana cominciarono a recarsi a scuola indossando il velo tradizionale (hijab). La difficoltà ad accettare l'abbigliamento delle ragazze nelle aule delle scuole pubbliche francesi nel 2004 è stata motivata con la rigorosa affermazione del principio di laicità delle istituzioni statali. A ben vedere la proibizione generalizzata di indossare segni religiosi non risulta strettamente conseguente al principio della rigorosa laicità dello stato, soprattutto se si tiene conto del fatto che la proibizione riguarda l'abbigliamento delle studentesse. Non sorprende che qualche dubbio al riguardo potesse essere venuto anche al Ministro dell'educazione nazionale in carica nel 1989. Lionel Jospin chiese un parere al Consiglio di Stato onde chiarire la questione dal punto di vista giuridico e fornire alle autorità scolastiche e agli insegnanti chiare indicazioni sulla posizione da assumere di fronte alla richiesta di alunne e alunni di indossare segni di appartenenza a determinate comunità. Il Ministro sottopose precisamente al Consiglio di Stato il quesito se indossare quei segni di appartenenza fosse o meno compatibile con il principio di laicità delle istituzioni della repubblica. Dato il contesto, la risposta del Consiglio di Stato al riguardo, contenuta nell'avis del 27 novembre 1989, era sicuramente 'garantista', anche se non immune da difficoltà di interpretazione nell'applicazione ai casi concreti. L'istituzione di Palais Royal ribadiva l'obbligo di garantire la laicità dello stato e la neutralità delle istituzioni della Repubblica nei confronti di diverse concezioni spirituali e religiose, ma affermava anche il diritto degli allievi di esprimere e manifestare le proprie convinzioni religiose come conseguenza necessaria del principio della libertà di coscienza: "la libertà così riconosciuta agli allievi comporta che essi hanno il diritto di esprimere e di manifestare le loro credenze religiose all'interno degli istituti scolastici, nel rispetto del pluralismo e della libertà altrui". (Conseil d'Etat, Avis n. 346.893 du 27 Novembre 1989). Si stabilivano nell'avis alcune condizioni: non doveva essere ostacolato lo svolgimento delle lezioni e doveva essere garantita agli allievi la frequenza delle lezioni. Non univocamente interpretabile risultava il seguente passaggio: "tale libertà non consente agli allievi di sfoggiare segni di appartenenza religiosa che vengono a costituire un atto di pressione, di provocazione, di proselitismo o di propaganda". Al riguardo un certo imbarazzo era palese anche nella circolare ministeriale del 12 dicembre 1989, stesa dal Ministro Jospin sulla base dell'avis. Essa avrebbe consentito di accogliere le ragazze musulmane con il velo all'interno della scuola pubblica, ma il loro abbigliamento sarebbe stato relegato tra i modi consentiti di espressione personale di una convinzione religiosa. In ogni caso a quel comportamento non poteva accordarsi il significato di manifestazione di appartenenza ad una comunità culturale differente da quella politica. In ciò risiede la differenza sostanziale tra un sistema che prende in considerazione le appartenenze plurime dell'individuo e dunque ne promuove la tutela in virtù della sua identità e diversità culturale ed un sistema che protegge l'individuo a dispetto di essa e soltanto in ragione della sua condizione di membro della comunità politica. E' il confine che separa l'individuo "astratto", tipizzato soggetto dei diritti nel paradigma di tutela dell'universalismo liberale, dall'individuo "concreto" cui non ineriscono diritti precostituiti, derivanti dall'appartenenza alla cultura e al corpo politico della maggioranza. Nella circolare ministeriale citata il diritto viene accordato come individus non come nation, è riconosciuto ai cittadini francesi non alle donne musulmane. Non sfugge l'analogia tra il presente orientamento e la celebre formula del conte di Clermont-Tonnerre proposta durante il dibattito svoltosi nell'Assemblea nazionale il 23 dicembre 1789 con riguardo al trattamento che doveva essere accordato agli ebrei: "Bisogna rifiutare tutto agli ebrei come nazione e concedere tutto agli ebrei come individui". Tutt'altro che irrilevante, però, è la volontà di Jospin di non escludere le ragazze dalle aule scolastiche così da impedire loro l'esercizio del diritto all'istruzione, la svolta rest rittiva è stata promossa da Bayrou (che nella sua circolare del 20 settembre 2004 a proposito della nazione francese recupera la categoria di "comunità di destino") e sancita con l'intervento del 2004.

64. Secondo l'autore accanto ad esse si collocano, poi, la libertà di espressione e il dovere di memoria. Ai fini della trattazione della tematica in oggetto, ci soffermeremo sulle prime due. Cfr. P. Tevanian, La République du mépris. Métaphores du racisme dans la France des années Sarkozy, La Découverte, Paris, 2007.

65. La fine del 2003 fu caratterizzata da una proliferazione di proposte legislative in materia di simboli religiosi a scuola.

66. Sulla mediatizzazione della questione del velo in Francia cfr. T. Deltombe, L'Islam imaginaire: la construction médiatique de l'islamophobie en France, La Découverte, Paris, 2005, pp. 98-121.

67. La campagna antivelo, nei suoi aspetti deteriori, è approdata all'accusa nei confronti delle ragazze velate di produrre delle altre donne un'impressione di dubbia moralità, così da legittimare il machismo dei loro fratelli o, peggio ancora, le violenze sessuali nelle banlieues.

68. Tale intervento normativo sancisce la separazione tra Stato e Chiesa, è considerato la "Bibbia della laicità francese".

69. Già le leggi del 1882 stabilivano che, nelle scuole primarie, l'insegnamento religioso dovesse essere impartito al di fuori degli edifici e dei programmi scolastici e che nelle scuole di ogni ordine e grado le attività didattiche dovessero essere affidate esclusivamente a personale laico.

70. "Il Sarkò candidato ha smesso di lusingare l'elettorato islamico come aveva cercato di fare il Sarkò ministro", in L. Sebastiani, Sarko et les musulmans, in "Reset Dialogues on Civilizations", 2007.

71. L'ambiguità dell'avverbio a metà strada tra i parametri della visibilità e dell'ostensibilità non può essere sciolta. Nella circolare di applicazione (la circolare Fillon) esso è stato "spiegato" attraverso uno standard di 'riconoscimento immediato', a questo proposito non si tralascia che anche i segni discreti sono 'immediatamente' riconoscibili. Il documento precisa infatti che: "ad essere proibiti sono i segni o abiti che inducono chi li indossa ad essere immediatamente riconosciuti per la propria appartenenza religiosa, come il velo islamico, qualunque nome gli si attribuisca, la kippa o una croce di dimensioni manifestamente eccessive".

72. L'estensione analogica dell'espressione a questo ambito è piuttosto eloquente circa il punto di vista di chi scrive.

73. Così come l'interdizione 'implicitamente' riguarda soltanto l'hijab e non altri simboli religiosi.

74. François Fillon, nominato Primo Ministro da Sarkozy il 17 maggio 2007.

75. Si tratta del leader del Parti Socialiste, Jean Galvany, il quale nel corso dello scrutinio parlamentare che precedette l'approvazione della legge "antivelo" dichiarò: "questa legge è divenuta necessaria ed è esattamente per questo motivo che abbiamo affrontato la questione con uno spirito costruttivo e responsabile", in Assemblée National, Analyse du scrutin, in Laïcité: Le Débat a l'Assemblée Nationale, Séances Publiques du 3 au 13 Février 2004, Paris: La Documentation Française, 2004, p. 313. (L'opposizione di sinistra si espresse con 330 voti favorevoli e solo 18 contrari).

76. In senso analogo si è espresso il Primo Ministro Jean Pierre Raffarin in sede di apertura ai lavori preparatori della legge 228/2004: "La questione posta dal testo che vi introduco oggi implica niente meno che la solidità dei nostri valori, la nostra capacità di condividerli con coloro che ci hanno raggiunto più di recente e l'abilità della Francia di agire secondo le proprie convinzioni, senza debolezze", Ibidem. Il corsivo è di chi scrive.

77. Al riguardo, si introducono due esempi. In Francia 8 donne al mese muoiono di violenza domestica, (Rapporto Henrion, Ministero della Salute, Parigi, 2007). Recentemente è stata compiuta un'indagine che non ha avuto alcuna rilevanza mediatica, gli unici dati rappresentati mediaticamente hanno riguardato aggressori con nomi arabi, al punto che si ritiene comunemente che gli autori del reato di violenza domestica siano in assoluta prevalenza uomini musulmani. La preoccupazione femminista sembra, poi, perdere di consistenza se si ha riguardo alle politiche permissive che il governo francese, nel corso degli anni Ottanta, ha seguito in tema di poliginia. Analogamente non vi è alcuna istanza femminista nella recente scelta di riconoscere esclusivamente l'unione di un cittadino o di un regolare soggiornante con la prima moglie, considerando nulli tutti gli altri matrimoni (in questo senso, sia pure muovendo da presupposti diversi, si esprime anche Okin).

78. L'espulsione comporta una "scolarizzazione in famiglia", molti genitori delle ragazze escluse fanno domanda al Centro Nazionale di Insegnamento a Distanza. Non vi sono dati precisi, ma secondo le testimonianze raccolte da Said Kada (responsabile dell'associazione "Donne musulmane impegnate"), alcune delle richieste rivolte al CNED sono state respinte sulla base del fatto che l'iscrizione al servizio è riservata agli alunni malati, handicappati o residenti all'estero. La maggior parte delle espulsioni, però, avviene senza scontri. Si comunica alle ragazze che, se non decidono di togliersi il velo, non potranno continuare a frequentare la scuola per mancato adeguamento al regolamento scolastico interno. Soltanto alcuni genitori chiedono che la comunicazione sia formalizzata per iscritto, pochissimi fanno ricorso contro la decisione. Cfr. sul punto S. Kada, L'une voilée, l'autre pas, Albin Michel, Paris, 2003. Sulla valutazione di tali elementi se ne può innestare un altro, su cui scrive l'ex-ministro algerino dell'economia Ghazi Hidouci: occorre tenere presente il fenomeno dei ghetti scolastici che la legge anti-velo ha finito per accrescere. "Nella prima e soprattutto nella seconda cintura periferica di Parigi, nei quartieri settentrionali di Marsiglia, nelle periferie di Lilla Roubaix o di Strasburgo si nota il medesimo spettacolo di un'urbanizzazione che ha provocato l'isolamento dei paesi in agglomerati urbani che sono luoghi di non diritto secondo il linguaggio ufficiale. Qui tutto si degrada, a cominciare dall'insegnamento, che rispecchia le discriminazioni di accesso al sapere. Secondo le stime dell'Osservatorio sulle disuguaglianze, questo problema riguarda più di dieci milioni della popolazione, più di un sesto della popolazione", G. Hidouci, La rivelazione del velo, in "Limes", n. 3/2004, p. 216. Tra le proposte della Commissione Stasi vi è quella secondo cui "gli allievi possano, a partire dai 16 anni, scegliere senza il consenso dei genitori di proseguire la loro scolarità oltre l'età legale, così come un giovane può scegliere di essere francese senza il consenso dei suoi genitori a partire dai 16 anni". Dunque, questa proposta oppone al quadro di genitori musulmani che si adoperano per assicurare una formazione alle figlie espulse il quadro di genitori che sono indifferenti alla scolarizzazione dei figli.

79. La trattazione dell'esperienza francese del velo è debitrice della giornata di studio: "Multiculturalismo alla francese?", tenutasi presso l'Università Cà Foscari di Venezia, in particolare della riflessione di Pierre Tevanian, della quale si è inteso restituire la ricchezza di un punto di vista intraneo alla vicenda. Pierre Tevanian, è docente di filosofia e presidente dell'associazione "Les mots sont important".

80. Peraltro, anche da un punto di vista sociologico, la differenza di genere non può essere trattata entro le categorie dei fenomeni minoritari, giacché essa è una differenza trasversale che attraversa tutte le altre.

81. M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 69.

82. In questo senso: "Il rispetto dei diritti e la subordinazione del potere è un bene delicatissimo e prezioso che soltanto lo sviluppo civile, la conquista di un livello minimo di benessere economico e soprattutto la lotta politica possono produrre localmente, secondo i tempi e i modi propri di culture spesso lontanissimi dalla tradizione europea dello stato di diritto e della dottrina dei diritti dell'uomo. Tutto il resto rischia di essere nient'altro che forzatura normativa, sopravvalutazione delle capacità regolative del diritto, generosa utopia politica o, nei casi peggiori, imperialismo culturale"; D. Zolo, Libertà, proprietà ed uguaglianza nella teoria dei 'diritti fondamentali', in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, cit., p. 73.

83. Final Declaration of the Regional Meeting for Asia of the World Conference on Human Rights, 2 aprile 1993.

84. La dichiarazione è frutto di una discussione accesa delle istanze provenienti dai paesi asiatici, africani e latinoamericani di cui è rimasta traccia nella Vienna Declaration and Programme of Action adottata dalla Conferenza il 25 giugno 1993, che riprende l'idea dell'interdipendenza di tutti i diritti umani e dell'approccio equilibrato ed evidenzia "il significato delle particolarità nazionali e regionali e dei vari contesti storici, culturali e religiosi". Anche se ci si può chiedere quanto questo compromesso abbia davvero modificato la politica dei paesi occidentali sui diritti umani.

85. M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., p. 69.

86. Ibidem, p. 70.

87. A questo proposito Baccelli sottolinea efficacemente come "anche un inossidabile universalista convinto come Habermas ha finito per ammettere che i principi diventano vincolanti solo nei contesti culturali, radicati nelle forme di vita, mentre nessuno può arrogarsi il monopolio dell'interpretazione". L. Baccelli, I diritti dei popoli, volume di prossima pubblicazione, p. 29, cap. VI, opera manoscritta. A questo proposito: "I 'valori' - anche quelli che possono contare sul riconoscimento globale - non sono sospesi nel vuoto, bensì acquistano carattere vincolante solo nelle pratiche e negli ordinamenti normativi di determinate forme culturali di vita", J. Habermas, L'occidente diviso, cit. p. 15.

88. Cfr. D. Zolo, Fondamentalismo umanitario, in M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit. pp. 142-148.

89. L'espressione è di Joel Feinberg, J. Feinberg, The Nature and Value Rights (1970), in J. Feinberg, Rights, Justice, and the Bonds of Liberty. Essays in Social Philosophy, Princeton, Princeton University Press, 1980, p. 151, cit. in L. Baccelli, In a Plurality of Voices. Il genere dei diritti, fra universalismo e multiculturalismo, in "Ragion Pratica", 23, dicembre 2004, p. 488.

90. Anche se l'autore, in realtà sostiene una tesi opposta; egli afferma che l'idea che i diritti possano operare, come pensa Ronald Dworkin, come trumps, come "briscole" per risolvere i conflitti politici è ingenua e falsa perché il riferimento ai diritti spesso irrigidisce e accentua i contrasti, anziché risolverli, in particolare quando i diritti stessi si trovano in un rapporto di reciproca antinomia. Cfr. M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit. p. 25.

91. M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., p. 70.

92. L. Baccelli, I diritti dei popoli, cit., p. 31, cap. VI, opera manoscritta.

93. E.H. Wolgast, La grammatica della giustizia, Editori Riuniti, Roma, 1991, p. 33.

94. Ibidem, p. 35.

95. Contro l'idea che una concezione rivendicativa esprima una visione sociale atomistica, si oppone l'argomento che la rivendicazione è avanzata da gruppi e movimenti in un orizzonte sociale e che il fine di essa è il riconoscimento. Inoltre si aggiunga che la rivendicazione avviene attraverso l'interazione e ha come obiettivo l'attivazione di processi di inclusione.

96. Secondo Wolgast l'estensione dei diritti in questi ambiti rischia di avere alcune rilevanti conseguenze: una ipergiuridificazione di questi stessi ambiti che finisce spesso per ampliare l'intervento discrezionale delle istituzioni pubbliche, e non secondariamente una semplificazione avversariale delle relazioni, senza che i più deboli acquisiscano garanzie reali. A parere dell'autrice, si palesa qui una delle difficoltà maggiori delle politiche dei diritti, ossia quella di non riuscire a considerare e a valorizzare l'interdipendenza. I diritti servono a tutelare i più deboli dai più forti: tuttavia, le relazioni, e soprattutto alcune di esse, sono raramente a somma zero. Introdurre antagonismo in certune può, alla fine, comprimere o neutralizzare la tutela di chi più ne avrebbe bisogno. Per Wolgast queste considerazioni sono collegate al terzo aspetto problematico delle politiche per i diritti: il modello antagonistico e avversariale dei diritti di libertà si traduce in un'alimentazione e accentuazione del privatismo nella risposta ai diritti sociali che ne mina l'efficacia e produce privatismo e povertà nella sfera pubblica.

97. J. Feinberg, The nature and Value of Rights in J. Feinberg, Rights, Justice, and the Bonds of Liberty. Essays in Social Philosophy, cit. p. 151, cit. in L. Baccelli, In a plurality of voices, Il genere dei diritti tra universalismo e multiculturalismo, in "Ragion Pratica", numero 23, dicembre 2004, p. 488.

98. A. Facchi, I diritti nell'Europa multiculturale, cit., p. 132.

99. C.A. MacKinnon, Crimini di guerra, crimini di pace in S. Shute, S. Hurley (a cura di), I diritti umani, Milano, Garzanti, 1994, p. 111.

100. Ibidem, p. 98.

101. Ibidem, pp. 115-116.

102. Per MacKinnon ma anche per altre autrici (Adrian Howe), un elemento tramite cui si concreta la dimensione politica dei diritti consiste nel rinominare, risignificare esperienze e vissuti, trasformarli da individualmente esperiti a pubblicamente denunciati come socialmente causati.

103. Un tentativo articolato di costruire diritto a partire dalle esperienze delle "donne" è quello intrapreso da ormai circa venticinque anni dalle giuriste norvegesi che hanno dato vita ad una disciplina chiamata Women's Law nella facoltà di giurisprudenza dell'Università di Oslo. Così lo motiva Tove Stang Dahl: "L'armamentario giuridico di oggi, neutro rispetto al genere, si incontra con una realtà sessuata - o viceversa, la realtà sessuata si incontra con il moderno diritto monosessuato. E' il complicato scambio tra vita e diritto che ne risulta ciò che le ricercatrici del diritto delle donne intendono mappare e capire, con l'obiettivo specifico di contribuire all'eguaglianza vera, al riconoscimento dell'eguale valore, e alla maggiore libertà delle donne. Ciò implica un riconoscimento dell'efficacia non solo simbolica, ma anche pratica, del diritto. Cfr. S.T. Dahl, Women's Law. An Introduction to Feminist Jurisprudence, Norwegian University Press, Oslo, 1987, p. 239.

104. Su una diversa linea si collocano per esempio gli approcci di Martha Nussbaum e Amartya Sen. "L'etica della cura" e "l'approccio delle capacità", pur respingendo il linguaggio dei diritti, si riconducono, per altri versi, alle concezioni descritte: questi autori, rilevano che il diritto tende a negare la dipendenza reciproca di tutti gli esseri umani e ad accentuare la dipendenza di persone che sono 'diverse' e sottolineano, altresì, come l'analisi, in termini di diritti, liberi dalla gerarchia e dalla subordinazione chi riesce a corrispondere all'immagine dell'individuo autonomo e astratto presupposto dalla teoria dei diritti. Per chi non corrisponde a tale immagine, l'applicazione di questa analisi può essere non solo inefficace ma anche punitiva. Chi, non solo donna, non si trovi nella condizione del soggetto standard dei diritti di libertà, ossia nella condizione di separarsi dai propri vincoli, di renderli oggetto di un calcolo costi-benefici, di scegliere in base a questo calcolo le proprie obbligazioni, è per ciò stesso un soggetto diminuito, deviante. Essi, dunque, come gli autori che si muovono entro il linguaggio dei diritti, mettono in discussione il prototipo milliano dell'individuo liberale autonomo, indipendente e "faber fortunae suae".

105. Secondo MacKinnon, il diritto non è "maschile" per struttura e vocazione; lo è in quanto è stato storicamente elaborato da uomini per uomini. Del diritto ci si può servire, poiché esso è utile come intelaiatura di norme che sostengono e producono giustizia sociale e insieme libertà femminile.

106. Questo pensiero, come si è visto, costituisce il principale presupposto della scelta di non aderire ad una concezione atomistica.

107. L. Baccelli, In a plurality of voices, Il genere dei diritti tra universalismo e multiculturalismo, cit., p. 493.

108. Cfr. A. Facchi, I diritti nell'Europa multiculturale, cit., p. 152.

109. A tal proposito si consideri la logica del giusnaturalismo hobbesiano, Cfr. L. Baccelli, Il particolarismo dei diritti, Carocci, Roma, 1999, pp. 44-53. Si pensi anche alla teorizzazione lockeana della neutralizzazione del diritto di proprietà della terra dei popoli e dei soggetti colonizzati.

110. Il pensiero è formulato replicando specularmente la riflessione di Norberto Bobbio: "i diritti naturali sono diritti storici [...] sono nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri, gradualmente, non tutti in una volta e non una volta per sempre", N. Bobbio, L'età dei diritti, Einaudi, Torino, 1994, pp. XIII-XV.

111. Ad un soggetto di diritti competono obblighi, svariati atti umani rilevano per il diritto, ma il rapporto di strumentalità diritto/soggetto di diritti deve escludere una rilevanza del secondo come termine subordinato.

112. L. Baccelli, I diritti dei popoli, volume di prossima pubblicazione, p. 12, cap. VI, opera manoscritta.

113. Cfr. A. Facchi, I diritti nell'Europa multiculturale, cit. p. 38.

114. P.G. Monateri "Presentazione" in N. Rouland, Antropologia giuridica, Giuffré, Milano, 1992, p. XII.

115. "Antropologia giuridica" di Norbert Rouland costituisce un testo base non soltanto per la trattazione della disciplina ma per il suo sviluppo.

116. In questo senso si esprimono anche gli studi comparatistici, un significativo contributo, al riguardo, è offerto dagli studi di Rodolfo Sacco.

117. Ibidem, p. XII. Siamo agli antipodi degli approcci che si propongono la ricerca di universali morali antropologici, al massimo siamo in presenza di 'universali pragmatici.

118. Considerati i presupposti del pluralismo normativo e dell'antropologia giuridica, questa espressione ha carattere semplificativo poiché la qualificazione di una fonte come giuridica, e conseguentemente extra-giuridica, non è interna ai suddetti approcci. A questo proposito, come vedremo, Facchi suggerisce di utilizzare l'espressione "pluralismo normativo" in luogo di "pluralismo giuridico".

119. Non c'è dubbio che l'escissione rituale non viene praticata con l'intento di infliggere un male o di provocare un danno alle proprie figlie. Per utilizzare le categorie giuspenalistiche può dirsi che mancano la coscienza e la volontà dell'evento lesivo, mentre sussiste la certezza di adempiere ad un dovere. In certi casi, la costrizione sociale verso certe pratiche ha configurato lo stato di necessità.

120. Cfr. L. Baccelli, In a Plurality of Voices. Il genere dei diritti, fra universalismo e multiculturalismo, cit. p. 490.

121. A tal proposito: "Porre l'attenzione sull'individuo e sulle sue scelte normative non significa, sul piano socio-antropologico, far riferimento ad un individuo astratto dai suoi legami culturali e sociali, né, sul piano politico, prescindere dai gruppi associativi mediante i quali il singolo può far valere i propri diritti e interessi"; A. Facchi, I diritti nell'Europa multiculturale, cit., p. 153 (modif.).

122. Nella seconda parte del lavoro, questo aspetto è stato evidenziato con riferimento al diritto di libertà religiosa.

123. Cfr. A. Facchi, ult. op. cit., p. 152.

124. Questa impostazione ha contraddistinto la trattazione del conflitto tra diritti individuali e diritti collettivi in relazione alla tematica di genere nell'ambito del presente lavoro.

125. A tal proposito, se si vuole conferire una prospettiva antropologica alla problematizzazione dell'universalismo liberale, è interessare riportare il punto di vista che segue. Rouland, affronta lo studio 'antropologico' delle società occidentali moderne per analizzare innanzitutto quelli che chiama "i miti del diritto positivo": i miti dello stato, dei codici, delle leggi. Secondo l'autore un "totemismo liberale" dominerebbe tali società, fondato su valori opposti ma strutturalmente omologo al totemismo delle società tradizionali.

126. B. De Sousa Santos, Diritto ed emancipazione sociale, cit., p. 297.

127. Cfr. M. La Torre, Universalità e relatività dei diritti fondamentali, Diritti dell'uomo, diritti delle donne, diritti "culturali" in "Ragion Pratica", n. 23/2004. Cfr. G. Palombella, La tutela dei diritti, le discriminazioni, l'uguaglianza. Dai diritti umani ai fondamentali, in "Ragion Pratica", n. 23/2004.

128. Per Joaquìn Herrera Flores la concezione individualista, idealista, giusnaturalista, universalista, storicamente nata all'inizio dell'espansione capitalistica occidentale per presentare come universali e naturali i diritti rivendicati dalla borghesia, oggi è lo strumento che confina i diritti umani in una funzione meramente regolativa e neutralizza la loro carica emancipativa. Per l'autore i diritti umani "non si possono comprendere se non come prodotti culturali sorti in un determinato momento storico come 'reazione' [...] all'insieme di reazioni predominanti". J. Herrera Flores, Los derechos humanos comos productos culturales. Crítica del humanismo abstracto, Catarata, Madrid, 2005, p. 98 cit. in L. Baccelli, I diritti dei popoli, cit., p. 20, cap. VI, opera manoscritta.

129. L. Ferrajoli, L'America, la conquista, il diritto. L'idea di sovranità nel mondo moderno, in Meridiana, n. 15/1992, p. 18.

130. Quest'osservazione è debitrice della riflessione svolta da Pietro Costa, P. Costa, Appunti dalle lezioni, Corso di storia del diritto, Anno accademico 2006/2007, Università di Firenze. Si è discusso della modernità di De Vitoria, Baccelli sostiene lucidamente che "La posizione di De Vitoria è inquietantemente post-moderna", in I diritti dei popoli, cit., p. 11, cap. IV, opera manoscritta. Baccelli sostiene che la superpotenza statunitense ha cercato di imporre unilateralmente la sua egemonia geopolitica, militare ed economica, ponendosi al di sopra dell'ordinamento internazionale, nella stessa posizione del "principe giusto" di Vitoria. Attraverso un uso ideologico dei diritti umani, i suoi interessi sono stati identificati con i valori universali e i suoi interventi militari sono stati presentati immancabilmente come "guerre giuste", a prescindere dalla loro legittimità giuridica.

131. L. Ferrajoli, L'America, la conquista, il diritto. L'idea di sovranità nel mondo moderno, cit. p. 37. Sembra che questo pensiero possa applicarsi al paradigma assimilazionistico delle odierne società "multiculturali". Con le parole di Ferrajoli si ribadisce un aspetto più volte evidenziato nella prima e nella seconda parte del lavoro: "oggi la disuguaglianza passa essenzialmente attraverso lo stampo statalistico della cittadinanza, la cui definizione in base ad appartenenze nazionali e territoriali rappresenta l'ultima grande limitazione normativa del principio di uguaglianza giuridica", L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, Un dibattito teorico a cura di E. Vitale, Laterza, Roma - Bari, 2008, p. 9.

132. Ibidem, p. 39. Se, come rileva Ferrajoli, la Costituzione dell'Onu risente della concezione statalistica della sovranità, prodotto anch'essa della Conquista e del pensiero giuridico che la legittimava, occorre rilevare la Dichiarazione del 1948 e i Patti del 1966 aprono una nuova epoca, almeno nella misura in cui i diritti fondamentali diventano "positivi", fonti non più di legittimazione ma di delegittimazione degli ordinamenti statali. Questo aspetto è stato messo in evidenza nella seconda parte del lavoro.

133. La letteratura al riguardo è sterminata, tra gli altri cfr. T. Todorov, Noi e gli altri, Einaudi, Torino, 1991.

134. Cfr. L. Ferrajoli, ult. op. cit.

135. A questo proposito, rilevandone però le diverse premesse teoriche, si è richiamato in precedenza il punto di vista di Ignatieff.

136. Per dirla con le parole di Resta, essi sarebbero un pharmakon, al tempo stesso veleno e cura, E. Resta, La certezza e la speranza, Laterza Bari, 1992.

137. AAA, Statement on Human Rights, in "American Anthropologist", 49 (1947), 4, p. 543.

138. La tolleranza è venuta progressivamente delineandosi come categoria semanticamente ambigua e intrinsecamente discriminatoria. Cfr. A.E. Galeotti, La tolleranza, Una proposta pluralista, cit.

139. Si era posto in evidenza nella prima parte del lavoro che il concetto di culture come "u-topie", e, dunque, conseguentemente, i migranti come individui portatori di culture de-territorializzate, costituiscono, per dirla freudianamente, il principale "perturbante" dell'Occidente. La tolleranza è pur sempre invocata come una prima forma di inclusione, nell'ottica che le culture non siano utopie e che debbano giacere su piattaforme normative stabili idiosincratiche rispetto a 'isole' culturali percepite come diverse e inutilmente transfughe dei loro territori d'origine.

140. In questo senso: "I diritti fondamentali, corrispondendo ad interessi e ad aspettative di tutti, formano il fondamento e il parametro dell'uguaglianza giuridica e perciò di quella che chiamerò la dimensione 'sostanziale' della democrazia, pregiudiziale rispetto alla sua stessa dimensione politica o 'formale' fondata invece sui poteri della maggioranza. Questa dimensione altro non è che l'insieme delle garanzie assicurate dal paradigma dello stato di diritto", L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, Un dibattito teorico, cit., p. 10. Ferrajoli sostiene che i 'diritti fondamentali' sono capaci di soddisfare il valore delle persone e di realizzarne l'uguaglianza, cfr. Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, cit.

141. L'interazione culturale presuppone il riconoscimento reciproco, dunque una condizione di parità tra i gruppi culturali di riferimento.

142. Questo tema costituisce, invece, un ambito di studio nucleare per gli antropologi dello sviluppo e gli antropologi del diritto.

143. Il riferimento al concetto di riflessività dell'antropologia culturale era stata sviluppato nel commento ad un passo di Taylor. Cfr. p. 7 del presente lavoro. In questa sede, la nozione è richiamata nell'alveo della riflessione di Todorov poiché, come vedremo, essa prelude a quello che l'autore chiama "universalismo di percorso". Cfr. T. Todorov, Noi e gli altri, op. cit.

144. Occorre porre una precisazione sull'anche: Lévi Strauss stesso non è immune dal discorso differenzialista o almeno di questo viene accusato quando, nel suo saggio Razza e cultura, in nome della ricchezza della diversità culturale e del pericolo di omologazione insito nel "progetto universalista" legato all'umanesimo e all'illuminismo, sostiene la necessità di diminuire i contatti tra culture, di interrompere quel processo di familiarizzazione che condurrebbe alla scomparsa delle differenze.

145. Nella tematizzazione di tale concetto si tengono presenti alcuni significativi passaggi della ricostruzione di Tamar Pitch, cfr. T. Pitch, I diritti fondamentali, differenze culturali, disuguaglianze sociali, differenze sessuali, Giappichelli, Torino, 2004, pp. 53-57.

146. A.D. Renteln, Relativism and the Search for Human Rights, in "American Anthropologist", 90, 1984, cit. in T. Pitch, I diritti fondamentali, differenze culturali, disuguaglianze sociali, differenze sessuali, cit., p. 53.

147. R. Panikkar, Is the notion of Human Rights a Western concept? in "Diogenes" n. 120/1982.

148. L'antitesi individuo-stato è idealmente rappresentata nella seconda metà dell'Ottocento dalle concezioni di Mill e Jellinek, rispettivamente fondate sul paradigma individualista e su quello statalista.

149. Si tratta dell'individuo "liberale" al quale più volte, nel corso di questa terza parte, si è fatto riferimento.

150. Ibidem, p. 32.

151. E' difficile pensare che un confronto interculturale sui diritti umani possa non tenere conto del fatto che sono diritti. Cfr. L. Baccelli, In a Plurality of Voices. Il genere dei diritti tra universalismo e multiculturalismo, cit. p. 491.

152. Come si è accennato, il tema dell'ambivalenza dei diritti è messo a fuoco anche nella letteratura di genere, nel pensiero di MacKinnon, per esempio, coesiste l'idea che il diritto sia coerentemente patriarcale ma che altresì permetta di "nominare le offese" alle donne, e dunque di tutelarle. La strategia di MacKinnon ha previsto un uso del diritto che ne è anche la critica immanente.

153. G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1993, p. 9. Tale pensiero richiama l'idea di un'unità e di un "diritto procedurale" cui si è fatto riferimento in precedenza: si statuiscono regole e confini entro cui possa mantenersi e svilupparsi l'autonomia normativa di soggetti e ambiti di vita.

154. Il termine fa riferimento al rigetto di istanze assolutistiche.

155. Si è rilevato come la colonizzazione dell'Occidente preminente e ben più invasiva sia quella legata agli imperativi dell'economia di mercato.